Piero Sansò I CICLONAUTI Dedico questo libro alla mia terra, quella dei giorni di tramontana a dicembre e delle cicale negli uliveti a luglio. Quella sconosciuta dei sentieri dei pastori e dei ciclisti curiosi. Dedico questo libro a tre anni della mia vita vissuti tra Casamassella e Giurdignano, ai sorrisi di tutti i bambini conosciuti nell’avventura del Centro per minori della Fondazione Le Costantine. Lo dedico di diritto e di dovere, inoltre, all’Associazione “Il Ciclone” di Maglie e a tutti i suoi ciclonauti, con cui ho condiviso chilometri di energia viaria e tanti bellissimi racconti dimenticati. “So che i soli paradisi non vietati all’uomo sono i paradisi perduti” J. L. Borges Prologo Settembre 1994. Notte di luna piena. Il piccolo bosco di lecci è stranamente silenzioso. Una figura agile proveniente dal sentiero di sinistra si tuffa nel fogliame con un ringhio sommesso. A pochi chilometri di distanza un uomo, dalla vita apparentemente normale, sogna di squartare a morsi un bue e uccidere due donne a colpi d’accetta. Si risveglia sudato e ansante; la moglie giace immersa nel sonno, ignara. L’uomo decide di vestirsi in fretta, mentre l’odore del sangue gli tortura il cervello e fa sorgere indignate eccitazioni. La donna si rigira nel letto quando la porta si chiude senza produrre alcun suono. In riva al mare c’è invece una ragazza che osserva le onde e sorride del proprio, piccolo successo: è riuscita a uccidere un cane bavoso e presto sarà abbastanza forte per uccidere prede più grosse. Se vorrà. Alla luce della luna i menhir sembrano dita spettrali protese verso il cielo, eppure è in notti come questa che le pietre misteriose godono di maggiore compagnia. Uomini e donne di tutte le età raggiungono i monoliti levigati dai millenni e ne raspano con dita rigide la superficie. Senza dire una parola. È notte. E c’è la luna piena. 7 Capitolo 1 Cadaveri e sgretolamenti 1 novembre 1999. Otranto, Italia. La finestra infranta al pianterreno lasciava passare folate improvvise di vento e salsedine. Il cadavere scomposto del glottologo Augusto Cornelius giaceva, dilaniato, sul pavimento accanto al televisore acceso. La gola completamente squarciata dava l’impressione che la testa fosse staccata dal corpo e segni di artigli attraversavano le braccia e scoprivano le costole, lì dove si erano raggrumati rigagnoli di sangue scuro. L’ispettore Rizzo avrebbe voluto dare di stomaco ma trovò più efficiente, e più professionale, incaricare l’agente scelto Carrieri di annotare la lista di oggetti presenti nella stanza. Si trovavano in un salone arredato da capaci librerie stracolme di libri, CD e videocassette, gran parte delle quali distribuite sul pavimento. La vetrata rotta era esposta a Est. Di fronte al televisore, una poltrona singola: la stessa sulla quale quasi certamente sedeva al momento dell’aggressione la vittima, un tipo dall’aria intellettuale con capelli a spazzola e occhiali – finiti anch’essi sul pavimento, a circa due metri dal cadavere. «Solo un animale feroce avrebbe potuto compiere questo scempio» sentenziò l’ispettore. Quel giorno di novembre gli avrebbe fornito altri due buoni motivi per dare di stomaco. 1 novembre 1999. Lecce, Italia. Il dottor Giacomo Paoli aveva vissuto la sua vita di geologo celibe e gioviale tra l’Università, il mondo e un appartamento a Giurdignano, nel Salento. Ora il suo corpo robusto 9 giaceva nell’obitorio di Lecce, bianco come un lenzuolo, con due fori regolari lungo la vena giugulare, i radi capelli biondi a incorniciare un volto smunto. «Morte per dissanguamento» disse il medico con tono sicuro. «Presumo risalga alla notte tra il trentuno ottobre e il primo novembre. Il corpo presenta vistose ecchimosi sui due avambracci; probabilmente l’aggressore ha tenuto ferma la vittima mentre la privava del sangue.» L’ispettore osservò con apparente distacco la salma fresca di autopsia. A distanza di due giorni, il pallore esangue di Paoli lo impressionava di nuovo. «È un morso?» chiese, indicando i segni scuri disposti attorno ai due fori. Gli girava sempre un po’ la testa prima di vomitare: era forse per questo che il mondo cominciò a muoversi con discrezione? «Sì. Anche se non capisco come si possa uccidere un uomo in questo modo. È un morso umano e i canini sono penetrati in profondità.» «Quanto in profondità?» Rizzo non riconobbe la propria voce, tanto era contratta. «Tre centimetri» rispose perplesso il medico. «Sono propenso a credere che si tratti di una montatura, quei buchi saranno riconducibili sicuramente a un’azione effettuata post mortem sul cadavere. Avranno usato un qualche oggetto appuntito. L’unica cosa che non riesco a spiegare è come mai il collo non presentasse tracce di sangue quando il cadavere mi è arrivato. Immagino fosse in un lago!» L’ispettore Rizzo abbozzò un sorriso triste prima di rispondere: «Non ne ha versato nemmeno una goccia. Le lenzuola del letto sul quale era adagiato il corpo risultavano pulite.» «Allora non è morto nel suo letto» dedusse il medico e l’ispettore, in cuor suo, lo ringraziò per quell’eccesso di intuito. 10 1 novembre 1999. Idra, isola di Idra. Grecia. È una nottata umida e fresca sull’isola. Piero Panizza, single, grafico pubblicitario e creativo, giace senza vita nella fontana del capoluogo. Il suo corpo galleggia disarticolato, come spezzato in più punti. Alla magrezza scattante si associa un volto coronato da lunghi capelli neri legati in un codino. Il cadavere verrà ritrovato all’indomani e nessuno capirà subito la causa dello strano decesso. Per ora il rumore dell’acqua che zampilla e il cicaleccio degli ultimi grilli infreddoliti fanno compagnia a Piero. Gli amici lo ricorderanno sempre come “P. Pan” e i conoscenti lo dimenticheranno presto. Solo l’ispettore Rizzo della Questura di Lecce continuerà a chiamarlo Panizza e a nominarlo spesso, perché Piero abitava a Palmariggi, vicino Otranto, ed è lì che ritornerà il suo corpo. P. Pan ha il viso sconvolto dal terrore, la cassa toracica schiacciata, l’osso del collo rotto e polsi e caviglie fratturati. Sarà sepolto dopo l’autopsia. L’ispettore chiederà ragguagli al medico legale. «Ci vorrebbe un veterinario» risponderà questi. «Le risulta che in Grecia ci siano boa constrictor?» 5 novembre 1999. Bruxelles, Belgio . Nel piccolo palazzo della Società Geologica Internazionale circolava un’agitazione insolita. E lo stesso accadeva nelle università e negli istituti di ricerca archeologica di tutto il vecchio continente. «Un disastro, un vero disastro» diceva l’esimio professor Blanc guardando le foto scattate il giorno precedente. «Se di sgretolamento spontaneo si tratta, come può essere avvenuto proprio nella stessa notte in un territorio così esteso?» Il vecchio collega dalla barbetta bianca, professor Dupont, era altrettanto sbalordito: «Di scosse telluriche non è neanche il caso di parlare» dis11 se, e strinse tra i denti una pipa di radica con tanta ostinazione che si sarebbe detto cercasse qualcosa di concreto cui aggrapparsi. Le foto ritraevano dei mucchi di pietre, grosse quanto un pugno, lì dove cinque giorni prima c’era stato un menhir o un dolmen. «È come se i monoliti avessero deciso di cessare la propria esistenza contemporaneamente!» Al professor Blanc non piaceva ammetterlo, eppure nessuno avrebbe potuto compiere un gesto vandalico così esteso e altrettanto omogeneo nei risultati. La misteriosa e inspiegabile scomparsa di menhir e dolmen d’Europa nel giro di una notte fu quindi destinata a restare un mistero. Eventuali quanto improbabili responsabili non furono mai individuati e le simulazioni, tentate a più riprese, si rivelarono un deciso fallimento. Le teorie imbastite per spiegare l’accaduto non risultarono convincenti, inoltre. Tra le ipotesi più affascinanti ci fu quella del “meccanismo di autodistruzione” del tedesco Zimmermann, secondo il quale queste enormi pietre avrebbero avuto da compiere una non meglio definita funzione, cessata la quale si sarebbero autodistrutte. Una variante di questa suggestiva teoria vedeva lo sgretolamento dei monoliti come una forma di estrema autodifesa da un aggressore esterno. Naturalmente ciò presupponeva che dolmen e menhir fossero delle “macchine” o addirittura degli organismi viventi, capaci di annientare se stessi di fronte a una minaccia: se pure questa accattivante tesi avesse contenuto un germe di verità, sarebbe stato necessario specificare quale fosse la natura della minaccia. In realtà le zone interessate allo sgretolamento registrarono miglioramenti economici e incrementi del turismo: nessun terremoto, nessuna alluvione, nessuna invasione extraterrestre o altra catastrofe naturale o sociale scosse invece la cara, vecchia Europa monolitica. Nel 2018, però, una giornalista collegò il misterioso evento a un’altrettanto misteriosa associazione: quella dei “Ciclisti 12 di Hofmann”, un gruppo di persone che, in virtù della passione per la natura e le corse in bicicletta, era solito percorrere strade che avevano tra i principali punti di riferimento i menhir e i dolmen. Costituitisi come società segreta presumibilmente nel 1993, i soci la sciolsero di comune accordo nel 1999. Gli scopi della società e la struttura organizzativa erano ignoti, mentre l’esigenza di segretezza lasciava supporre conoscenze iniziatiche da tenere nascoste all’esterno. Un altro dato interessante riguarda lo scioglimento, avvenuto nello stesso anno in cui dolmen e menhir scomparivano per sempre. La giornalista non escludeva che tra i Ciclisti di Hofmann e i monoliti preistorici ci fosse un legame a doppio filo e quindi che, rintracciando uno dei Ciclisti al vertice della società segreta, si potesse giungere a una spiegazione inedita degli accadimenti del primo novembre 1999. 13 Capitolo 2 I Ciclisti di Hofmann Si diceva che avessero solcato il tracciato originale della via Appia almeno sei volte e che conoscessero alla perfezione gli arcani sentieri megalitici che univano la Bretagna al Salento. Prediligevano la terra battuta, il lastricato ormai sconnesso, gli invisibili camminamenti dimenticati da secoli, attraversando spesso luoghi ignorati dalla maggior parte delle persone; raccogliendo informazioni, indizi e dettagli da pastori e fattori, depositari di una tradizione cartografica orale che stava per scomparire. Si erano costituiti come società segreta nel cinquantennale del giro in bici compiuto dal dottor Hofmann, noto scopritore dell’acido lisergico o LSD, e amavano definirsi “I Ciclisti di Hofmann”. Più semplicemente, “I Ciclonauti”. Si ritenevano in qualche modo gli eredi di un altro movimento similare, quello dei “Navigatori della Strada”, che sfruttava le conoscenze degli iniziati per rintracciare il famigerato Sacro Graal. Gli scopi dei Ciclisti di Hofmann invece erano noti ai soli componenti e a vari livelli di conoscenza; nell’organizzazione ognuno aveva un compito e una piccola parte di Verità da difendere. L’Italia, per i Ciclisti di Hofmann, era una fitta rete di percorsi riservatissimi; gran parte di quegli itinerari erano frutto di centinaia di rilevamenti, segnalazioni, esplorazioni di affiliati e cicloturisti ignari. Nel 1997 la società segreta arrivò a contare oltre sessanta Ciclonauti con un’ottima media di venticinque chilometri quadrati di esperienza a testa e centoundici informatori, provenienti da altrettanti club cicloturistici legali, disseminati 15 per tutto il territorio nazionale ed estero. I Ciclisti di Hofmann avevano fatto del cicloturismo una disciplina esoterica e della pedalata un atto di preghiera. Gli accoliti ritenevano infatti che percorrere strade ormai abbandonate fosse rivitalizzante, sia per la strada stessa che per il ciclista. Questo tipo di attività veniva chiamata “solletico” o “sollecitazione viaria”, che i Ciclonauti ritenevano potesse riportare in vita l’energia positiva e benefica di determinati percorsi, un po’ come il massaggio a un muscolo intorpidito. Gli itinerari preferiti dai Ciclisti di Hofmann erano non a caso costellati di dolmen e menhir, monoliti considerati dagli iniziati in grado di raccogliere, catalizzare e amplificare le vibrazioni prodotte dal passaggio dei viandanti, trasformandole in energia che veniva trasferita in particolari luoghi della Terra. Questo trasferimento si concretizzava attraverso lo strato endemico delle reti viarie primitive, cioè viaggiando in superficie. E i Ciclonauti impazzivano all’idea di navigare sull’energia che essi stessi producevano, alla stregua di un surfista che, al solo immaginare di poter produrre da sé l’onda giusta e poterla poi cavalcare senza limiti, dia i numeri per la gioia. 16 Capitolo 3 Una strana intervista Nel 1992 il professor Augusto Cornelius, glottologo dalle facili suggestioni, entrò in possesso di una strana videocassetta. Conteneva la registrazione della terza puntata del programma “Interviste misteriose”, avvenuta nel marzo del 1986. Dopo la sigla e un’introduzione eseguita al pianoforte, in uno studio alquanto disadorno appariva il conduttore in giacca e cravatta verde. Guardando la telecamera con fare compassato, l’uomo esordiva così: «Benvenuti alla terza puntata di “Interviste Misteriose”. Oggi faremo un salto indietro nel tempo e torneremo alla Milano degli anni di piombo. Come certamente saprete, negli anni Settanta l’aggregazionismo giovanile aveva un carattere quasi sempre politico e in molti casi violento. Può sembrare singolare quindi che un gruppo di giovani studenti della Facoltà di Lettere si sia innamorato, in quegli anni, degli scritti di Chrétien de Troyes e Robert de Boron. I cavalieri della Tavola Rotonda e la ricerca del Santo Graal divennero presto le loro uniche, grandi ossessioni... ma direi di lasciare la parola al misterioso ospite di questa serata, un vero “Navigatore della Strada” – come ama definirsi!» Sullo schermo appariva allora il primo piano di un uomo col viso coperto da una maschera di stoffa: «Buonasera. Quello che lei ha detto è vero. Il Santo Graal è stata la nostra grande ossessione. Essere un Navigatore della Strada non è mai stata una cosa divertente. Appassionante, sì, ma faticosa. Ci prendevamo dannatamente sul serio. Ricordo che eravamo in nove e facemmo un pandemonio per convincere altre tre persone a partecipare alla ricerca. Quan17 do fummo finalmente dodici, come i cavalieri della Tavola Rotonda, tracciammo altrettanti itinerari da percorrere in auto e in moto. Partimmo, ognuno per la sua via. Eravamo dei veri credenti; ciascuno di noi sapeva che non sarebbe tornato indietro prima di aver tentato tutte le strade. Avevamo una specie di mappa generale dell’Europa che Antonio, il primo navigatore, chiamava la “Grande Griglia”; lì avevamo segnato i luoghi in cui vi era qualcosa di straordinario, come i cerchi di pietra inglesi o le nuraghe sarde, così figuravano pure i posti dove era avvenuto qualcosa di speciale... prodigi moderni, avvistamenti di UFO, particolari episodi di bontà e quant’altro. Il nostro compito era quello di fare tappa in queste località utilizzando percorsi diversi: eravamo convinti che se avessimo avuto abbastanza fede e fossimo stati abbastanza puri, i segni del passaggio del Graal ci sarebbero apparsi in tutta la loro evidenza.» L’intervistatore irrompeva nello schermo per fare una domanda: «Lei con che mezzo viaggiava?» «Un’auto. Una Fiat 128. Ho bruciato ettolitri di carburante e bevuto il caffè dei più sperduti bar di tutta Europa prima che mi abbandonasse. Si guastò in Puglia, a Otranto. E non fu un caso.» «Vuole dire che aveva trovato qualcosa?» Il navigatore ignorava la domanda e procedeva col suo discorso: «Non sapevo dove fossero i miei compagni, perciò decisi di aspettarli in quella città di mare, tappa obbligata dei navigatori per via della Cattedrale. In effetti fu proprio nella Cattedrale che incrociai un anno dopo il nono navigatore, scambiandoci le rispettive scoperte.» «Da quanto tempo lei si trovava in viaggio?» «Tempo?» Il Navigatore si mordeva le labbra, poi simulava un sorriso e riprendeva a narrare. «Qualche anno, ma non ha importanza. Ciò che conta è che subito dopo io e il nono navigatore viaggiammo insieme per 18 altri due anni, fino a che in Spagna non ci separammo di nuovo.» «E voi dodici non vi siete ancora riuniti?» «No. Ho perso il contatto con i miei compagni da un lustro. È per questo che sono in questa trasmissione, per lanciare loro un appello.» «Lei afferma di essere stato un Navigatore» lo interrompeva all’improvviso il giornalista. «Cos’è successo? Ha già trovato il Graal o ha abbandonato la caccia?» «Il Santo Graal non esiste! Esistono cercatori e la strada è fatta per essere navigata: la Grande Griglia è ricca di strade ma… ma non sempre sono quelle giuste. Fermate i cercatori! Fermate i cercatori!» L’intervistato abbandonava il posto a sedere e si allontanava dallo studio televisivo di gran carriera. Il conduttore balbettava al pubblico televisivo le sue scuse e le telecamere si spegnevano per far posto a Tribuna Politica. Il professor Cornelius entrò in possesso di questa strana intervista appena un mese dopo la diffusione della teoria Pirenne, secondo cui dolmen e menhir erano delle antenne di pietra in grado di raccogliere e irradiare qualche forma di energia. Nello stesso periodo, a pochi chilometri di distanza, il geologo Giacomo Paoli fondava un non meglio definito “Club delle Falesie Alte”, i cui intenti erano mirati all’esplorazione del territorio in chiave itinerante. II destino fece incontrare i due intellettuali al Circolo Tennis di Maglie, in Puglia, scoprendo di avere in comune una sfrenata voglia di pedalare. “Dove finisce l’asfalto, là comincia il mistero. Le ruote delle nostre biciclette lo attraversano e noi siamo immersi dentro; non c’è una meta, non ci sarà un ritorno. Perché noi siamo immersi dentro!”, scrisse il professore al rientro dalla prima escursione con Paoli. Durante uno dei loro esclusivi itinerari campestri, conobbero un tipo bizzarro almeno quanto la sua mountain bi19 ke: Piero Panizza, di professione creativo. I due scoprirono più tardi che questi era solito annotare le escursioni che più avevano stimolato la sua immaginazione, il grado di resistenza e la nitidezza dei ricordi prodotti da ogni singolo percorso, il benessere o il malessere che in base ai luoghi visitati aveva potuto provare. L’incontro e la frequentazione dei tre ciclisti permise loro di incrociare le bizzarre teorie care al prof. Cornelius, gli studi del dott. Giacomo Paoli e le sensazioni di Panizza, detto P. Pan dagli amici. Fu così che il 2 novembre del 1992, dopo una tonificante pedalata lungo un’antica strada romana, i tre raggiunsero la Grotta del Diavolo. La cavità naturale era lambita da un grande stagno silenzioso che la separava dal mare. L’aria era umida e carica di presagi. Una nebbiolina timida attraversava la visuale, aleggiando sull’acqua immobile dello stagno. Sopra la volta esterna della grotta, il prof. Cornelius vide un piccolo dolmen rossiccio logorato dai millenni, e decise che era ora di toccare la situazione con mano. Senza cautela, mentre i compagni studiavano l’interno della caverna, poggiò il palmo della mano destra sulla superficie rugosa del dolmen. E fu come se avesse ingerito un potente stupefacente. Vide cose che nessun altro aveva mai più visto, fu testimone di secoli e secoli di viandanti passati da quel luogo, comprese gli occulti segreti che le pietre sacre tacevano ai non iniziati e sentì con nitidezza che quello, per i tre, sarebbe stato solo l’inizio di una nuova, antica conoscenza. Durò un attimo fuggevole e malgrado avesse subito invitato i suoi amici a toccare le lastre, a loro non accadde nulla, se non la sensazione di un lieve formicolio sotto i polpastrelli. La mente del professore, dopo questa esperienza lisergica, sembrò divenire più ricettiva ai salti intuitivi e in ogni occasione egli seppe dare l’imbeccata giusta ai compagni d’avventura. Paoli ebbe la sua rivelazione giorni dopo alle “Quattro Macine”, un sito archeologico nei pressi di Giurdignano. 20 P. Pan incontrò invece la sua fetta di Conoscenza in Bretagna, durante la sperimentazione di un percorso estero con degli amici del posto. Giacomo Paoli scomparve fino alla fine dell’anno, rendendosi irreperibile per tutti. Quando tornò disse di aver effettuato una mappatura sperimentale di menhir e dolmen del Salento, studiando oltre venti percorsi che li includessero. «Ho trovato il Graal» esultò. Cornelius e P. Pan si guardarono meravigliati, senza sapere quale espressione di circostanza assumere. «Non è quello che pensate» precisò immediatamente il geologo. «Ho voluto fare un piccolo omaggio ai Navigatori della Strada, chiamandolo Graal, ma sarà semplicemente l’unità convenzionale con cui esprimeremo il potenziale energetico di un singolo percorso. È una cosa ancora da verificare, naturalmente, e non mi soffermo sui calcoli che ho dovuto fare per ottenerlo; vi basti sapere che il Graal dipende soprattutto dalle caratteristiche fisiche e logistiche dell’itinerario. Il tracciato Avigliano-Grotta del Diavolo, per esempio, misurerà teoricamente 28 Graal; mentre uno Specchia dei Mori-Torre S. Emiliano, ben 40 Graal.» La “Grande Griglia”, come i tre cominciarono a chiamare il reticolo di sentieri, divenne da quel momento in poi oggetto di attenzioni continue. I Ciclonauti sentivano di poter apprendere di più circa le potenzialità espresse da alcuni luoghi, sicuri com’erano che non si trattasse di fenomeni isolati ma della ingenua attivazione di un meccanismo complesso, di cui non conoscevano ancora la funzione. Cornelius amava spesso paragonare i Ciclonauti a uomini delle caverne che, pur accendendo casualmente lo schermo di una tivù, non sappiano dove sia l’interruttore e ignorino l’esistenza di un sintonizzatore. Le illuminazioni lisergiche sperimentate sull’Adriatico restavano di fatto episodiche e imprevedibili. Pur rendendo chiare a livello spirituale molte cose, sul lato pratico-scientifico non erano di nessun aiuto. Al termine di riflessioni del 21 genere, P. Pan si alzava dalla sedia con fare teatrale e pronunciava quello che oramai costituiva il suo personale tormentone: «Io cercherò il libretto delle istruzioni. Voi lavorate pure a tavolino!» I tre decisero di costituirsi in associazione segreta per tutelare la scoperta delle illuminazioni lisergiche, dette in seguito “Accessi”, e aprirono gli arruolamenti perché avevano bisogno di esploratori in tutto il continente europeo. Fu creato appositamente il “Club delle Falesie Alte”, la facciata ufficiale e legale della società dei Ciclonauti, che raccolse centinaia di informazioni su percorsi e luoghi esoterici dimenticati. A un certo punto Paoli maturò la convinzione che gli Accessi fossero frutto di due variabili: il passaggio delle biciclette su determinati percorsi e la lunga preparazione fisica, spirituale e culturale dei tre padri Ciclonauti, che aveva permesso lo scatenarsi dell’illuminazione. Nacquero così i “Viandanti”, gli addetti alle pratiche di sollecitazione viaria. Erano i Ciclonauti ai livelli più bassi, quelli che non sapevano neanche di essere entrati a far parte di qualcosa di segreto. Uscivano in gruppi di tre e provavano un benessere del tutto sportivo a navigare sui tracciati proposti da quello che credevano un club di appassionati di cicloturismo. Gli iniziati con medio grado di conoscenza, detti “Pedalanti”, curavano le esplorazioni, supervisionavano l’attività dei Viandanti, conoscevano il concetto di “solletico” e credevano nell’esistenza di un’energia che correva da un menhir all’altro, senza sapere però dove e come tale energia fosse utilizzabile. Vivevano l’appartenenza ai Ciclisti di Hofmann come i Templari avevano vissuto la propria fratellanza nei tempi andati. Il Vertice era sconosciuto a tutti. Gli arruolamenti avvenivano sempre attraverso il Club, che non era neanche un luogo fisico: consisteva in una semplice casella postale cui indirizzare domande di iscrizione, proposte e abbonamenti 22 al “Bollettino delle Falesie Alte”. Il Bollettino era una pubblicazione pirata e vista la limitata diffusione tra pochi appassionati, nessuno ebbe mai nulla da obiettare in merito alla sua natura priva di regolarizzazioni. Cornelius, Paoli e P. Pan mantenevano i contatti coi Pedalanti soltanto per via postale. Un’eventuale indagine avrebbe rivelato che la casella era intestata a un Istituto universitario di geologia che, naturalmente, di tutta quella faccenda non ne sapeva nulla. Le precauzioni restarono comunque poche, non avevano nemici e non violavano le leggi dello Stato, però sapevano che gli eventi straordinari che stavano vivendo andavano tutelati dalla curiosità dei non iniziati. Una volta un Ciclonauta Viandante provò a toccare un menhir a metà del cammino concordato: perse l’uso delle gambe il giorno successivo. Questo episodio, accostato ad altri simili, confermò la teoria secondo cui l’energia prodotta dai ciclisti si muovesse da un monolite all’altro, subendo delle trasformazioni in senso depurativo oltre che amplificante. Pertanto, un contatto prematuro poteva creare molti problemi allo sventurato contattista. Tra gli altri rischi cui andavano incontro c’era la concreta probabilità di imbattersi in branchi di cani inselvatichiti. Col tempo intuirono che doveva esserci un legame tra la Grande Griglia e la presenza dei branchi: gli itinerari col più alto potenziale energetico erano costantemente pattugliati da almeno due o tre branchi di cani randagi. Uno dei Pedalanti, a causa di un grosso cane, aveva perso il controllo della bicicletta ed era finito in ospedale con qualche vertebra rotta; un altro era stato inseguito da sette grossi cani, finendo di faccia in un rovo spinoso; altri ancora, avevano registrato disturbi e inseguimenti dagli esiti consimili. Fino a quel momento, i cani non avevano morso nessuno. I tre riflettevano spesso sulla presenza dei branchi, chiedendosi se fossero funzionali o meno a una selezione naturale dei navigatori. «Che sia la Grande Griglia a mandarceli contro?» ipotizzò P. Pan durante una cena a casa di Cornelius. 23 Giacomo, impegnato nella difficile operazione di arrotolare sulla forchetta spaghetti e vongole in contemporanea, commentò sinteticamente la domanda: «Anticorpi» disse. «Baggianate!» rispose Cornelius, minimizzando per puro spirito di contraddizione. A turno, in un tacito accordo mai riconosciuto ufficialmente, uno di loro metteva in discussione le tesi degli altri due. «Non abbiamo a che fare con un organismo vivente nel senso pieno del termine! È solo un grande reticolo di strade con dei punti di raccordo e qualche trasmettitore di energia che rende questi punti così interessanti...» «È un cervello, invece» lo freddò P. Pan, «e i raccordi sono le sinapsi.» La metafora colpì Augusto, anche se non volle darlo a vedere. Un cervello tutto di pietra e terriccio, e loro le scariche neuroniche che lo attraversavano! «P. Pan!» esclamò Cornelius. «Sì?» «Trova quel benedetto libretto delle istruzioni!» 24 Capitolo 4 Il libretto delle istruzioni P. Pan si concesse un lungo periodo di ferie. Decise che avrebbe navigato a vista, con un semplice canovaccio d’itinerario, modificabile in qualunque momento. Andava in cerca del “libretto d’istruzioni”, pur non avendo la più pallida idea di cosa fosse. Sapeva soltanto che serviva a comprendere il funzionamento della Grande Griglia, quindi il senso più alto e più ampio dei menhir, dei Ciclonauti e delle esperienze lisergiche, d’altronde non era possibile che certi eventi e certi meccanismi si verificassero senza uno scopo. «Sei sicuro di voler andare da solo?» gli chiese Paoli ancora una volta. «Un uomo è sempre da solo di fronte al mistero!» declamò il creativo in sella alla mountain bike. Aveva uno zaino in spalla e la bici attrezzata per il viaggio con due capaci borse, disposte lateralmente alla ruota posteriore. «Potrà sembrarti volgare, ma... in culo alla balena, amico mio» mormorò Augusto, con gli occhiali appannati per la commozione. P. Pan si sciolse e rifece il codino; un gesto che per lui aveva un significato scaramantico: «Per trenta giorni» disse, «nessun contatto. Mi farò sentire il trentunesimo. Se mi succederà qualcosa, sarete i primi a saperlo; e qualora trovassi ciò che cerchiamo prima del previsto... beh, non vi terrò sulle spine.» Un ultimo abbraccio e poi il Ciclonauta si allontanò in direzione Sud. Fin dal primo giorno di navigazione decise di tenere un diario di bordo, nel quale annotare gli eventi principali: 25 20 agosto 1995 Luogo di partenza: Otranto . Il mio primo giorno è stato assolato e senza scosse. Ho deciso per il momento di proseguire lungo una rotta a spirale, che mi permetta di toccare i centri energetici più significativi del Salento. Non ho ancora un piano ben preciso in mente, e in parte mi sono affidato all’intuito donatomi nei numerosi Accessi di questi anni. Ho in testa qualcosa come un percorso purificatore per spostarmi successivamente verso Nord, e cominciare così la ricerca vera e propria. 22 agosto 1995 Luogo di partenza: Cavallino (Lecce) . Da due notti dormo all’aperto, facendo bivacchi in posti di provata positività. Durante il giorno ho la netta sensazione che c’è del buono in quello che sto facendo; quando però arriva il tramonto e io mi rifugio, stanchissimo, nel sacco a pelo, strane idee turbano la quiete della mia anima. Ieri ho completato l’itinerario a spirale. Oggi ho puntato verso Nord-Ovest, solcando il dimenticato tracciato di una strada greca che giungeva fino a Taranto. Ho incontrato pochi contadini e qualche cane isolato che non ha richiesto l’uso della scacciacani. Verso le 17. 00 ho potuto regalarmi un Accesso in località M. Bagnolo, semplicemente sedendomi su una anonima roccia grigia a macchie nere. Navigo a vista e per sensazioni, fidandomi del mio istinto di Ciclonauta. 26 23 agosto 1995 Luogo di partenza: nei pressi di Torricella (Taranto) . Stamattina, al risveglio da un sonno agitato, mi sono accorto che le carte di navigazione erano sparite dal marsupio della bici. Non posso credere a una mia distrazione quindi, per quanto incredibile possa sembrare, mi sono state rubate nottetempo. Ho cominciato la salita verso la bassa Murgia, in direzione di Gioia del Colle, attraverso il suggestivo bosco delle Pianelle. Ora sto cenando in compagnia delle ultime cicale e dei primi grilli notturni. La sera mi spaventa, a volte. 29 agosto 1995 Luogo di partenza: Torre di Paestum, Golfo di Salerno . Sono stati sei giorni degni di essere raccontati, ma quando si pedala tutto il giorno, il tuo unico desiderio una volta sceso dalla sella è: dormire! In questa settimana mi sono spostato con un buon ritmo perché il mio intuito continua a spingermi irresistibilmente in un punto preciso; qualche volta mi accorgo di sentire in testa una canzone, che non riconosco. . . forse sto seguendo quel canto? Ho avuto parecchie avventure e altrettante disavventure: inseguimenti di bastardi ululanti, tratti di strada impraticabili persino in bici, arrampicate vere e proprie quando pensavo fosse indispensabile, greggi di pecore che mi hanno fatto strada per lunghe, interminabili mezz’ore. Ho toccato tutti i menhir del barese, fino al solitario monolite di Canne della Battaglia. Nei paraggi di Potenza ho attraversato le rovine di Gallipoli e ho fatta una puntatina a Campomaggiore Vecchio, grazie alle indicazioni di alcuni contadini. Per un lungo tratto ho goduto anche della compagnia di 27 due cicloturisti inglesi a caccia di ruderi campestri. Per non parlare poi della pioggia! Per ventiquattro ore, a più riprese, ha trasformato la mia bici in un mezzo anfibio. Sono stato costretto, mio malgrado, a fare largo uso di stradine asfaltate per la mancanza delle mappe, e per scongiurare il rischio di ficcarmi in vicoli ciechi. Malgrado questi piccoli inconvenienti, la Grande Griglia pare essermi favorevole. Ieri infatti ho beneficiato di un ultimo Accesso, sebbene la zona megalitica fosse ormai lontana. Mi trovavo ancora in bicicletta, lungo uno stradone sterrato, a pochi passi dalla grotta di Castelcivita. È la prima volta che un’illuminazione lisergica mi coglie senza alcun contatto diretto con un centro di raccolta energetica; è stata, tra l’altro, un’esperienza più profonda del solito. Mi sento come un diapason accordato al massimo, e ritengo che la ricerca finirà presto con qualcosa di concreto tra le mani, oppure arriverò al limite della Conoscenza senza sapere che fare. E sarà peggio che fallire. 30 agosto 1995 Luogo di partenza: Napoli. Scrivo dal traghetto. Domani mattina sarò a Cagliari, in Sardegna, per la prima volta nella mia vita. Vorrei telefonare ai miei due compagni orfani, laggiù nel Salento, ma i patti non ammettono compromessi. Durante gli ultimi giorni di navigazione sto riflettendo molto; penso spesso all’esempio di Augusto, quando paragonava gli Accessi a un televisore messo casualmente in funzione. Se la Grande Griglia è quel televisore, il libretto delle istruzioni si troverà al fuori di esso, no? E ancora: se il televisore è un prodotto complesso, il libretto delle istruzioni è al contrario un oggetto estremamente semplice e facilmente fruibile. Tenuto conto dei tempi a cui mi starei riferendo, il manuale potrebbe essere stato tramandato oralmente, da padre in figlio o da sciamano a iniziato: e questa sarebbe 28 una vera fregatura! Fuori dalla Griglia. Facilmente fruibile. Trasmissione orale o anche scritta? Fuori dalla Griglia. . . 2 settembre 1995 Luogo di partenza: nuraghe in località Terme di Sardara. Questa mattina ero sconvolto. Nel corso della giornata, pedalando, mi sono rilassato. L’isola che sto solcando ha un carattere aspro e nello stesso tempo arcaico; il mio concetto personale di “tempo” qui è messo continuamente in discussione dal vento che fischia nelle orecchie e dal vago senso di estraneità che questo comporta. Solo l’imperturbabile cammino del sole mi permette un aggancio con la realtà. Vorrei raccontare della notte appena trascorsa, se solo trovassi le parole! La superstizione istintiva che ho provato sta già facendo a pugni con la necessità di razionalizzare l’inconsueto. Del resto è quello che abbiamo fatto due anni fa, no? C’è stata la necessità di creare delle categorie logiche come la sollecitazione viaria e il Graal, per affrontare a cuor leggero fenomeni straordinari come gli Accessi e la Grande Griglia stessa. Se non avessimo mai inventato queste categorie logiche ci saremmo convinti di essere sulla strada della follia, o viceversa della santità, oppure saremmo caduti nella trappola religiosa, divenendo adoratori di monoliti preistorici, senza chiederci perché avvengano certe cose invece di altre. Proprio vero, siamo protetti da Mamma Scienza e dal metodo empirico-deduttivo, noi. . . Come potrò ricorrervi per valutare l’assurdità che conservo nella memoria? Quando è successo sognavo una spiaggia e gruppi di persone che sciamavano avanti e indietro, seguendo le istru- 29 zioni di un uomo che gesticolava. Io mi trovavo nell’ultimo gruppo, quello più vicino al mare, e imbastivo con gli altri un furioso girotondo fino a quando non crollavamo per terra, uno dopo l’altro. Chiudevo gli occhi e precipitavo in uno strano corridoio buio nel quale soffiava un vento gelido, che io sentivo composto da tanti venti diversi. Avvertivo anche la natura di quei soffi: erano la forza vitale, le “anime” delle persone coinvolte assieme a me nel girotondo; cercavo di riconoscere, mentalmente, il soffio vitale della donna che avevo accanto nel cerchio di persone, ma aprendo gli occhi restavo deluso nello scoprire che la posizione della donna non corrispondeva alla mia sensazione. Lei era più a destra di quanto avessi avvertito. Mi proponeva di andar via e io acconsentivo. Abbandonavamo, così, la spiaggia; lei in bicicletta, io a piedi in preda a un’energia insolita e travolgente, tanto da mettermi a volare a pochi metri di quota. La donna mi ammoniva, rimproverando il mio esibizionismo e cercando di frenare il mio entusiasmo. Io le spiegavo che, molto probabilmente, la forza vitale delle persone sulla riva mi aveva caricato di energia; il solo avvertire i loro spiriti mi aveva infuso così tanta esuberanza che avevo da sprecarne. Improvvisamente arrivava un tipo distinto, tutto trafelato, con un grande lupo bianco al guinzaglio, incitandoci a scappare via subito, perché nei dintorni c’era un lupo mannaro. Guardandoci dietro, dalla spiaggia arrivava il suono confuso e inquietante di decine di ringhi e ululati. In preda al panico decidevamo di fuggire in direzione di un gigantesco castello, costruito con enormi blocchi di pietra. Al suo interno pareva più una piramide che una fortezza medievale. Appena dentro le mura, la donna mi confessava di avere ucciso tempo addietro una lupa mannara. In quel preciso momento la terra cominciava a tremare: un terremoto! Una miriade di persone ci veniva incontro, correndo verso l’esterno del maniero, eppure io sentivo che sarebbe stato verso il basso che avremmo trovato la salvezza. Forte di que- 30 sta convinzione, scendevamo scale e scale, scalini e scalini, cercando di non inciampare, incrociando persone eleganti in fuga verso l’alto. E scendevamo, scendevamo. . . . Ho aperto gli occhi, sudato fradicio, intorno alle quattro. C’era la luna piena nel cielo e non ho potuto neanche tirare un sospiro di sollievo. Nel raggio di due metri, intorno al mio sacco a pelo, intravedevo solo vaghe forme umanoidi che, digrignando i denti affilati, frugavano la zona circostante. Ho avvertito perfino l’odore selvatico che quegli esseri emanavano (emanano?). Sono rimasto immobile sino all’alba, quando l’orribile compagnia mi ha abbandonato, lasciandomi incolume. Che cosa devo pensare? Non ho più armi, perché la stessa scacciacani mi è stata rubata forse proprio da quegli. . . quegli? Anche se avessi avuto armi efficaci, non le avrei mai usate. Sono lucido? E se l’ultimo Accesso, quello verificatosi senza preavviso, avesse avuto come effetto collaterale proprio questa esperienza? Dovrei temere il momento di andare a riposare, eppure sento solo il bisogno di una lunga dormita. La Sardegna è una strana terra, come strane sono le storie che qui si sognano. Buonanotte, e che la Grande Griglia mi sia amica. 31 Capitolo 5 Il ritorno P. Pan rientrò a Otranto, il luogo di partenza, il 15 settembre del 1999. Il dott. Paoli e il prof. Cornelius, invecchiati di quattro anni, accolsero il creativo come un fantasma che stesse tornando dall’Oltretomba, per di più in bicicletta e con l’equipaggiamento del 20 agosto 1995. La prima cosa che il reduce disse fu: «Eccomi qua con un invidiabile anticipo! Ragazzi, sono un mago!» I due amici non lo salutarono, né gli corsero incontro. «È successo qualcosa durante la mia assenza?» chiese P. Pan mentre il sorriso delle grandi occasioni gli si spegneva in volto. «T-tu» balbettò Paoli. «P. Pan!?» esclamò Cornelius. «Ma che avete? Non mi aspettavate più?» Non lo aspettavano più da anni. In quel momento, l’immensa potenza della Griglia si stava palesando in tutta la sua assurdità. La presenza di P. Pan, vivo e vegeto sulla sua bicicletta, rappresentava ai loro occhi un vero miracolo. Alla fine lo fecero entrare in casa di Cornelius e gli chiesero dove fosse finito nel lungo periodo trascorso, e perché non avesse più dato notizie di sé. «Venti giorni di navigazione vi sembrano un lungo periodo? Dico, lo sapevate che sarei stato via! Vi siete rimbambiti o che altro?» Gli consigliarono di guardare il datario dell’orologio. 33 «Me l’hanno rubato insieme alle mappe, il terzo giorno di viaggio.» Li incuriosiva molto la ricerca di cui era stato protagonista, però prima dovevano riportarlo alla realtà. Il padrone di casa afferrò il calendario e glielo sventolò sotto il naso. «Millenovecentonovanta... nove? È uno scherzo?» Paoli aveva un’aria più seria che mai, e Cornelius non era da meno. P. Pan comprese, suo malgrado, che dicevano la verità. «È per questo che vi trovo un po’ invecchiati, allora…» Lui, invece, era come lo ricordavano, come se fosse andato via solo venti giorni prima. E sembrò confuso quanto loro quando propose: «Che ne dite se proviamo a mettere ordine?» Il professore preparò un tè verde e si sistemarono tutti nell’ampio soggiorno-biblioteca. Di comune accordo fu P. Pan il primo a raccontare: «Per essere preciso ed evitare possibili dimenticanze, vi leggerò le note del mio diario di bordo.» E intraprese la lettura fino agli appunti del 2 settembre 1995, che sollevarono un vespaio di incomprensibili commenti da parte dei due ascoltatori. Poi andò oltre: 3 settembre 1995 Luogo di partenza: Stagno di Cabras. La notte è trascorsa tranquillamente. Unico dato inquietante: la presenza di alghe ancora umide vicino al mio sacco a pelo. Mi sto dirigendo decisamente verso Nord-Ovest in una corsa tacita contro qualcuno che avverto vicino e ostile. A dispetto della bella stagione, incontro pochissime persone e trovo spesso che il silenzio in cui pedalo sia innaturale. A metà mattina sono stato assalito da un acquazzone. Dopo un pranzo frugale, a base di pane e nutella, ho ripreso a seguire il mare. In tarda serata sono arrivato ad Alghero, dove ho fatto provviste. Trascorrerò l’ultima notte di luna piena al 34 Santuario di Valverde, luogo che trasmette una certa aura benefica e rassicurante. Sento che il sogno di ieri conteneva delle indicazioni importanti, così come sono sicuro che la terribile esperienza che ho vissuto non fosse casuale. Ben vengano le morfine che pare mi stia regalando la Grande Griglia, attenuando le mie paure e le inevitabili ansie che esse generano. Ho visto un branco di lupi mannari e sono ancora qui per raccontarlo! Non è questo il punto. Devo concentrarmi sul sogno e lasciare perdere il resto. . . qualcuno ha cercato di distrarmi dalla ricerca? E chi può sapere quello che cerco? Scendere! Nel sogno io scendevo per sfuggire al terremoto. Si può scendere nei sotterranei, nei pozzi, nelle grotte e sono tutti luoghi fuori dalla Griglia. Rovisterò tutte le cantine che incontrerò? Salterò nei pozzi che restano sul mio cammino? Visiterò ogni grotta o pertugio naturale nella roccia? Saprò, quando sarò nel luogo giusto. Ho in mente di spostarmi in Corsica e poi in Francia; mi sento in forma e la strada si lascia navigare oltre le mie stesse possibilità. Gli occhi vanno chiudendosi, la luna non si è ancora levata e il santuario mi appare nella luce dei lampioni vago e indefinito. Buonanotte a tutti coloro che cercano, e buon riposo a chi ha già trovato. 4 settembre 1995 Luogo di partenza: santuario di Valverde. Sono in una grotta pervasa da una luce azzurrina. Anzi, dovrei dire che ci sono cascato con tutta la bicicletta. Dopo due ore di navigazione esplorativa nell’entroterra di Alghero, sono ritornato a pochi passi dal mare e qui il terreno ha ceduto, facendomi sprofondare. Vedo di fronte a me (meraviglia delle meraviglie: sogno o 35 son desto?) un sentiero ciclabile che costeggia un lago sottomarino. Pare di essere in una puntata di Star Trek! Il buio è rischiarato da una insolita fluorescenza azzurrognola, proveniente dalle acque placide del laghetto. Le pareti sono di roccia stillante goccioline; stalattiti e stalagmiti sono stranamente assenti, segno che il tunnel è relativamente giovane, e soprattutto artificiale! Chi l’avrà scavato e perché? L’umidità mi arriccia i capelli e mi solletica i peli delle narici, indosserò la giacca a vento. L’avventura invoca il mio nome e io cedo volentieri al suo richiamo. Passo e chiudo. 4 settembre 1995 Bollettino della sera. Sono ancora nella grotta. Navigo lentamente a causa della scarsa illuminazione, sebbene il tracciato sia agevole. Ai bordi della pista ciclabile sono spuntate le prime stalattiti e qualche stalagmite. Il silenzio è rotto da turbinosi passaggi d’aria che si presentano con cadenza regolare, come se in fondo al budello fluorescente ci fosse qualcosa di veramente grosso intento a respirare, immerso nel sonno. . . Qualche piccolo pipistrello ha seguito a più riprese la mia mountain bike. Tra le altre stranezze – non ci giurerei, però – ho udito una voce femminile cantare con struggente tristezza. Ho deciso di bivaccare in questo posto meraviglioso, anche se sarà necessaria la maglia di lana. Domani potrei arrivare al centro della Terra! 5 settembre 1995, suppongo. Luogo di partenza: sotterraneo e ignoto . Credo di essere arrivato dove nessun uomo si è mai spinto e non sono ancora stanco. 36 Non sono più nel sottosuolo: ho le stelle sul mio capo e qualcosa da raccontare. I miei amici si stupiranno. Paoli e Cornelius avevano ascoltato la lettura sempre più attentamente. Ora fissavano P. Pan con occhi spalancati e interrogativi. «Fine della puntata, ragazzi! Il comandante Kirk non ha scritto altro» disse il creativo. «Cos’hai trovato?» chiese Paoli rosicato dalla curiosità. «E perché non sei tornato subito?» «Sono tornato dopo quindici giorni, che tu ci creda o meno!» rispose P. Pan contrariato. Aver preso atto di essere rientrato il 15 settembre, in pieno 1999, non cambiava quella che era stata la sua personale percezione del tempo. «E comunque saprete cos’ho ancora da raccontarvi solo dopo che mi direte, voi, quello che è successo qui!» Gli raccontarono della depressione che li aveva colti dopo il suo mancato rientro, della disperazione che avevano provato come Ciclonauti e compagni d’avventura per la sua insostituibile assenza. Alla fine P. Pan era stato dichiarato ufficialmente scomparso e gli studi empirici sulla Grande Griglia erano andati avanti con meno entusiasmo e più cautela, dopo quella che credevano una disgrazia irreparabile. Avevano verificato che le strade asfaltate possedevano un coefficiente viario energetico molto più basso rispetto a quello dei sentieri nudi o lastricati, e pensavano fosse dovuto alle caratteristiche isolanti del catrame e del bitume. Avevano anche scoperto di avere dei nemici senza volto e senza nome che erano arrivati al punto di abbattere i tre menhir appartenenti al territorio di Muro Leccese, nell’arco della stessa settimana. Gli Accessi degli ultimi due anni, inoltre, erano divenuti devastanti come un coito interrotto; sentivano la mancanza di un salto di qualità, ma non volevamo perdere altre vite innocenti nel nulla, com’era successo col loro amico. E infine... «E infine?» chiese P. Pan. Odiava le frasi lasciate in sospeso. 37 «Non sei l’unico ad aver visto qualcosa» gli rispose Paoli con voce grave. «Qualcosa… di che tipo?» «Licantropi» disse imbarazzato Cornelius, lui che non ci aveva mai creduto. 38 Capitolo 6 Le théâtre pataphysique «C’era un tempo un re che aveva una moglie bellissima. I due vivevano in un castello d’oro e trascorrevano le giornate in allegria e letizia.» Il narratore era accovacciato per terra e indossava un mascherone che raffigurava il volto di un rospo. Sul palco, defilata sulla sinistra, una donna riccamente vestita sorrideva felice. La mano sinistra indossava un anello sormontato da un grosso stemma a forma di serpente; il rettile pareva rincorrere se stesso, come intento a mordersi la coda. Il narratore proseguì: «Un giorno però la regina scomparve nel nulla. Avvenne in un punto imprecisato della giornata, senza ragione apparente e senza che nessuno, a corte, potesse spiegare il bizzarro accadimento.» Un’ombra calava dall’alto sulla donna, fino a inghiottirla del tutto. «Ohimé» si lamentò con un ultimo gemito e sulla scena irruppero altre due figure, stavolta maschili. «Il re interpellò allora l’indovino più potente del Regno e questi spiegò che la regina era scomparsa senza essere stata rapita, il suo corpo intrappolato in un mondo lontano senza che esso fosse davvero privo di vita.» La scena si animò col gesticolare convulso di due attori. «L’indovino spiegò inoltre che le pietre avevano cominciato a parlare. Egli aveva prestato ascolto alla loro voce, scoprendo che un sortilegio aveva colpito il re. “Potrai cominciare a cercare la tua amata nel momento in cui mille persone decideranno di percorrere insieme le strade che conducono alla tua reale dimora”, gli aveva spiegato l’indovino. 39 “Quando saranno al tuo cospetto potrai partire”. Il re obbiettò: “Chi mi dirà come fare per trovarla?”. “Te lo diranno le pietre che troverai sul tuo cammino: alcune diranno la verità, altre ti inganneranno, altre ancora potrebbero portarti sfortuna. Dovrai esser forte e scaltro, mio Signore, poiché sei stato condannato a cercare la tua donna vagando per terre conosciute e sconosciute, e ogni suggerimento delle pietre sarà di danno al tuo popolo”. Il re cercò di scoprire chi avesse scagliato la maledizione, ma senza esito. Capì tuttavia di non poter restare con le mani in mano. Mandò cavalieri fidati in tutte le direzioni e i regni noti, nella remota possibilità che l’indovino si fosse sbagliato. Trascorsero così due anni.» L’attore che interpretava l’indovino scomparve dalla scena lasciando da solo l’affranto sovrano, intento a scuotere la testa con ampi cenni del capo. «Il re iniziava a disperare quando una sentinella gli annunciò, in preda all’agitazione, che un esercito di mille uomini marciava sul maniero a meno di un’ora di distanza. Il monarca non seppe se rallegrarsi o crucciarsi della propria sorte; se i guerrieri fossero entrati dentro le mura, avrebbero preso il controllo del Regno. Viceversa se i suoi soldati avessero opposto resistenza, egli non avrebbe mai potuto ricevere gli invasori e dare inizio così alla ricerca della moglie. Con grande disagio, e a rischio di disonore, scelse di accogliere come amici i nuovi venuti. Gli stranieri si atteggiarono subito a conquistatori. Cento cavalieri arroganti stazionarono in città, mentre la restante parte si fermò intorno alle mura, coprendo di tende e cavalli il terreno circostante. Altre genti di quel popolo sarebbero poi giunte a colonizzare il Regno. Il sovrano convocò personalmente il condottiero dell’esercito nemico e, con l’aiuto di Dio, lo persuase a regnare in sua vece, a essere un buon re e a rimandare indietro la maggioranza delle truppe nemiche.» «Io andrò in esilio» disse il giovane attore con la corona e, sguainata la spada e fattosi il segno della croce, si allontanò dal palco. Le luci si affievolirono. 40 Il narratore cambiò maschera. Ora ne indossava una di porcellana, a indicare la purezza del viso della regina. «Chi ha sete di verità dovrà mostrarsi generoso alla prossima avventura…» disse in falsetto. Un rumore simile a uno scricchiolio prolungato echeggiò nel teatro, poi il palco e gli attori si sbriciolarono come fossero fatti di farina, con un crepitio indescrivibile. All’unico spettatore, sconvolto e impolverato da quel crollo, non restò che avviarsi stordito verso l’uscita con la sua bicicletta, gettandosi alla ricerca della prossima avventura. Pedalando veloce tra i vicoli del centro storico di un paese che non riconobbe, P. Pan aveva avuto l’impressione che non potesse interagire realmente con ciò che lo circondava. Da quando era sbucato fuori dalla grotta azzurra, ritrovandosi in quel teatro, percepiva la propria consistenza fisica alla stregua di un ricordo. Venne inghiottito da una stradina buia in maniera inaspettata e non mostrò tanta sorpresa vedendo al di là delle tenebre notturne un varco illuminato a giorno dalla luce solare. Si trovò dunque su una pista campestre in una zona pianeggiante. Qui un uomo in saio lo fermò, parlando in dialetto salentino con grande agitazione: «Sia ringraziato Dio, qualcuno è finalmente arrivato!» Il monaco stazionava vicino a un menhir cristianizzato: una piccola cavità, alla base della roccia su cui poggiava il monolite, era stata trasformata in nicchia votiva. Il ciclista riconobbe subito il dipinto di “Santu Paulu de le tarante” a causa della ragnatela e del ragno che di solito venivano associati alle immagini del santo. Si rese conto di essere ritornato nel Salento passando repentinamente da un luogo sconosciuto in cui era notte a un luogo noto in pieno giorno. «Posso fare qualcosa per lei?» chiese disorientato. «“Lei”? Un popolo intero ha bisogno dell’aiuto di un ambasciatore celeste al par vostro!» «Fatemi capire» disse P. Pan adeguandosi al “voi” di cor41 tesia. «Mi stavate veramente aspettando?» «Siete comparso all’improvviso mentre pregavo S. Paolo di far tornare la felicità su questa terra martoriata. Perché? Negate forse di essere stato mandato da nostro Signore? O siete, con lo strano animale che cavalcate, un emissario di Lucifero?» Il frate fece un prudente passo indietro. Il Ciclonauta sentì il bisogno di smentire immediatamente quella supposizione, quand’anche si fosse trattato di un folle era meglio assecondarlo: «State tranquillo, fratello. Vengo in nome del Signore. Come posso soddisfare la vostra richiesta?» Il religioso si rinfrancò: «A poche ore di cammino» disse, «c’è un castello d’oro abitato da un usurpatore. Il suo esercito è composto da mille uomini che nessuno ha mai pensato di combattere.» P. Pan non voleva lasciarsi travolgere dagli eventi e perciò fu con molta calma che formulò la domanda successiva. «In che anno siamo, di grazia?» «Duemilacinquecentoventidue, nobile Cavaliere di S. Paolo.» “Lo sapevo. Mi ha dato di volta il cervello” pensò il ciclista. «Fatemi strada, mio pio informatore» disse infine all’uomo, «e pregate che io non scompaia prima che tutto sia compiuto.» Il monaco salì su un cammello che aveva lasciato a pascolare nei paraggi e affiancando il Ciclonauta cominciò a raccontare una storia che P. Pan aveva appena visto rappresentare. 42 Capitolo 7 Il manuale delle istruzioni Il dottor Paoli si passò la mano sull’ampia fronte con uno sguardo disorientato. Augusto Cornelius, nella sua giacca da camera marrone, teneva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e tutto il busto proteso verso P. Pan, in atteggiamento riflessivo. «Un salto temporale...» mormorò il glottologo. «Dalla Sardegna del 1995 al Salento del 1999. Un salto spazio-temporale: non c’è altra spiegazione!» «Resta però da capire quando, dove e soprattutto perché ciò si sia realizzato» disse Paoli. «All’uscita del teatro, forse» ipotizzò P. Pan. «Aprendo la porta mi sono ritrovato nei vicoli di un paese sconosciuto, in piena notte. Ho imboccato una stradina angusta al di là della quale mi aspettava il menhir delle “Franite” di Maglie, con il sole alto nel cielo. Che altro posso dirvi? È già tanto se non mi credete pazzo!» «Tu che sei sempre così attento alle tue sensazioni» osservò Paoli, «non hai avvertito alcun cambiamento? Nessuna emozione o stato d’animo particolare?» «Ora che ci penso, sì. Appena sono uscito da quel vicolo ho provato un grande desiderio di tornare a casa e mollare la ricerca. È come se la mia voglia d’avventura mi avesse abbandonato.» «Shock da salto temporale, probabilmente» ipotizzò il geologo. «E c’è un’altra cosa» aggiunse il creativo. «Prima di capire che ero a Maglie, una parte di me era arciconvinta di essere a Giurdignano, sulla strada per il menhir di S. Paolo. È stato più che altro un flash.» 43 Paoli si avvicinò all’amico ritrovato. Con aria commossa e solenne disse: «La storia che ti è stata narrata in quel teatro va analizzata nel dettaglio, visto che ha chiari riferimenti a una funzione rivelatrice dei nostri megaliti e non può in nessun modo essere un evento casuale. Per questa e per tutte le singolari esperienze che hai vissuto in questi anni, sono portato a supporre che siamo veramente di fronte alla prima esperienza sciamanica completa di un Ciclonauta. D’ora in poi sarai tu il caposquadra, come Augusto lo è stato per noi due all’inizio.» «Potremmo rimandare a domani qualunque iniziativa?» P. Pan sembrava infastidito dall’investitura. Aggiunse: «Ho bisogno di una doccia calda e di un letto.» In realtà quello che serviva a P. Pan era molto più lontano di quanto potesse immaginare. 44 Capitolo 8 La terra di Trantum Il castello di Otranto sembrò al ciclista completamente diverso da come lo conosceva. Doveva essere stato verniciato con tempere dorate, pensò. La città, inoltre, gli parve limitata al centro storico e tutt’intorno vide solo campi coltivati a girasole. Nessuna traccia del centro turistico balneare del 1995, nessun ombrellone sulla spiaggia, nessuna cabina e neanche un turista tedesco. Il monaco in cammello e il Ciclonauta si erano avvicinati alla città attraversando la suggestiva Valle delle Memorie. La prima cosa che P. Pan notò fu la libertà di visuale fino alla spiaggia, che lui ricordava coperta da una striscia di alti edifici. In lontananza il porto appariva fittamente occupato da vascelli e velieri di strana fattura. I pochi passanti incrociati parevano ignorarli. Erano abbronzati e vestiti con tuniche bianche e turbanti azzurri sul capo. P. Pan si consolò al pensiero che, perlomeno, parlavano il suo stesso dialetto. «Come mai tutti questi girasoli?» chiese al monaco. «La terra di Trantum è la principale produttrice di olio di girasole del mondo» rispose il religioso. «Quant’è grande il vostro mondo, fratello?» «Che domanda è mai questa, cavaliere?» chiese scandalizzato il monaco. «Il mondo è tanto quanto l’ha creato Iddio nella sua infinita potenza! Il regno di Trantum confina con l’Impero di Baniat al di là del mare, con la Merica a Nord e la Calasicula a Ovest. Il mare termina dopo Scilla e Cariddi nel Grande Lago Padano... ma ecco le porte della città!» Le mura di Otranto confortarono il ciclista grazie all’aspetto immutato. L’ampio ingresso detto “Porta di terra” era però 45 munito di robuste porte in legno massiccio. Due sentinelle dall’aria pigra stazionavano ai lati del portale e come i passanti già incontrati, parevano non aver notato la strana coppia. «I soldati non vi vedono!» notò il religioso. «Né voi, né il vostro strano destriero. Siete davvero un angelo venuto dal cielo!» “A questo punto non mi meraviglio più di nulla”, pensò P. Pan in sella alla sua mountain bike. «Abbiamo bisogno di un piano per avvicinarci all’usurpatore» disse al monaco. «Cercherete dunque la battaglia?» Il ciclista passò pedalando accanto agli ignari militari e poi tornò indietro dal frate. «Sono un cavaliere invisibile» disse. «Giocherò d’astuzia.» L’esercito dei mille viveva disseminato per le città del regno, in presidi militari da cui partivano angherie e soprusi che i sudditi erano costretti a subire. La capitale, Trantum, era governata dal più antipatico degli invasori e solo la promessa strappata dal re in esilio aveva limitato fino a quel momento i danni, nel timore che il vecchio sovrano tornasse e fomentasse una rivolta. Negli ultimi venti anni molte strade della terra di Trantum si erano arricchite magicamente di alte pietre squadrate conficcate nel terreno, con le facce larghe rivolte a Est-Ovest: erano questi i monoliti che avevano guidato per anni il re, di città in città, come la maledizione aveva previsto. I blocchi di pietra vennero chiamati dal popolino “sanna” e in breve tempo furono tenuti in considerazione come espressione magico-monumentale di un legame con il proprio legittimo sovrano e il suo sfortunato destino. A più riprese l’usurpatore tentò di trasformare i monoliti in oggetto di culto religioso, come nel caso del sanna di S. Paolo, ma la gente non scordava che il significato dei sanna era legato all’esilio del proprio re e alle misteriose vicende che tormentavano il popolo. Si diceva infatti che i sanna, nelle notti di luna piena, fos46 sero frequentati da ogni sorta di spiriti cattivi. I più saggi raccontavano che ogni qualvolta il sovrano trovasse un nuovo sanna sul suo cammino, uno spirito maligno traesse origine da quest’incontro. Chi aveva incontrato il re vagabondare ai confini del regno, era rimasto sorpreso dalle sue sembianze di giovinetto, malgrado fossero passati tanti anni dalla sua partenza. Viaggiava a piedi, ed era così concentrato nella sua ricerca da ignorare tutto ciò che lo circondava. Spesso era stato visto toccare le pietre e poi allontanarsi con sguardo folle. Il giorno in cui il fato e le pietre ingannevoli lo avevano riportato a Trantum, il monarca andava mormorando fra sé e sé: “Non esiste un destriero senza zampe”. Poi aveva visto P. Pan. Il monaco, in preda all’emozione, vide il Sire Giovinetto andargli incontro con passo sicuro: «Mio sire!» disse. «La vostra presenza alle porte della città vuol forse dire che la ricerca è dunque giunta al fine?» «Se un giorno finirà, è forse oggi quel giorno. Il fato mi è stato stranamente benevolo. È vostro questo destriero?» chiese allora al ciclista. «Si chiama bicicletta. Sì, è mia. E voi siete il re di questa terra?» «Ora non più. Ho bisogno della vostra bi... bicletta. Come si conduce?» «Un momento. A cosa mai vi può servire un mezzo che non conoscete?» chiese cortese ma deciso P. Pan. «L’ultima pietra incontrata mi ha fatto vedere questa» disse il sovrano indicando la mountain bike, «segno che ne ho bisogno per la Ricerca. Altre volte ho visto cose impossibili e mezzi fantastici; mi sono sempre chiesto cosa volessero dire queste visioni. Oggi so che mi condurranno dalla mia amata. Voi ditemi solo come si fa a partire!» P. Pan era restio ad abbandonare l’unico legame con la realtà da cui proveniva. Si fermò a riflettere e gli tornarono in mente le parole conclusive della rappresentazione: “chi ha 47 sete di verità dovrà mostrarsi generoso alla prossima avventura”. «Vi dono la mia bicicletta a una sola condizione: viaggeremo insieme.» «No, io devo andare da solo. Così vuole la maledizione.» «Le pietre parlano anche a me; sono dannato come voi, mio sire.» «Non ci credo. Datemi una prova!» «Il tocco scatena un lungo attimo di serenità, fatto di immagini, suoni e sensazioni. Talvolta sono strani incubi che mai osereste ripetere a chicchessia. Una volta provato il contatto, non se ne può più fare a meno» disse il Ciclonauta. «Chi siete voi?» «Uno che cerca, mio signore.» «Un nobile cavaliere mandato dal cielo!» intervenne il monaco. «Abbiate fede e credete all’onestà del saio che indosso, se non volete dar credito a questo strano uomo» lo supplicò il monaco. «E sia. Verrete con me. Non c’è tempo da perdere però!» ordinò il re. «Dio vi benedica» disse il frate. «Se ritroverete la regina i nostri guai finiranno per sempre, perché l’incantesimo non avrà più effetto. Abbiate cura di seguirmi, vi condurrò entrambi nella “cripta dei ceri” dove vi benedirò e potrete proseguire.» «Frate, in nome del Signore: sbrighiamoci!» disse il re, montando con il monaco sul paziente cammello. Il gruppetto si spostò a passo veloce fino a quello che P. Pan riconobbe per il Colle della Minerva, l’altura dove ai tempi degli invasori turchi erano stati giustiziati centinaia di otrantini fedeli alla religione cristiana. «La cripta dei ceri è qui sotto» annunciò il religioso, indicando un cumulo di pietre. Cominciò a spostarle, subito aiutato dai due accompagnatori. Dal buco che scoprirono emergeva un chiarore innaturale alla cui luce s’intravedevano dei ripidi scalini scavati nella roccia. 48 «Andate avanti voi» disse il frate al Ciclonauta. «Una volta giù troveremo dei ceri propiziatori. Voi dovrete incidervi sopra una “V”.» P. Pan, con grande curiosità, imboccò l’apertura. Cercò di stare bene attento a dove metteva i piedi, poiché l’entrata era coperta di muschio umido. Occupato in questa delicata operazione, gli venne dietro il monaco che ripeté ancora: «Ricordatevi di incidere la “V”!» “Mi crede un idiota?”, pensò il creativo, distraendosi e scivolando miseramente in avanti. In quell’esatto momento, la parte avventurosa di P. Pan rientrò da Trantum direttamente nel letto del ciclista. La strana avventura era terminata. La cosa più difficile fu spiegare a Paoli e Cornelius quello che gli era successo. 49 Capitolo 9 Sonnambuli e licantropi Il giorno successivo al suo ritorno, Cornelius e Paoli trovarono il P. Pan di sempre. Esuberante, dalla battuta facile e certo che nessuno gli avrebbe mai creduto. In effetti faticavano a prendere per buona soprattutto la seconda storia. Un salto spazio-temporale di quattro anni poteva essere documentato e verificato; giustificarne o semplicemente accettarne uno di 523 anni era un’altra storia. Comunque fosse, la Grande Griglia cominciava ad apparire ai Ciclonauti sempre più arcana e imprevedibile, e i racconti di P. Pan sul futuro ipotetico che aveva visitato complicavano ancor di più le cose. Venne in loro aiuto il “teorema dei Ciclisti di Hofmann”, formulato dal solito Augusto Cornelius, per il quale gli Accessi erano sì qualcosa di incredibile e insolito, ma reali. Perciò tutto ciò che di inconsueto o meraviglioso un Ciclonauta del massimo livello sperimentava, era altrettanto concreto. Il 16 settembre 1999, il vertice dell’associazione segreta registrava dunque: - due salti spazio-temporali, uno fisico e forse un altro astrale; - un assurdo futuro; - una spiegazione allegorica dell’origine dei menhir della Terra d’Otranto (pietre che parlano); - un inquietante risvolto negativo degli effetti della Grande Griglia (i demoni generati dalle pietre o ancor meglio dalla ricerca del monarca in esilio); - la presenza e la richiesta determinante di una bicicletta da parte della Grande Griglia stessa. 51 Secondo la leggenda, la Grande Griglia nasceva con effetti benefici e si corrompeva successivamente con l’avvento delle pietre... Augusto si stava arrovellando su queste riflessioni quando, qualche giorno dopo, ricevette una telefonata da P. Pan. «So dov’è» annunciò l’amico con tono trionfale. «Dov’è cosa?» «Il libretto delle istruzioni, no?» «Il… libretto?» «Certo. Ed è ora di andarlo a prendere!» Eccitato oltremodo da questa nuova evoluzione, Cornelius preparò la bicicletta e attese scalpitante per strada. Non poteva sapere che Paoli e P. Pan si sarebbero presentati in auto. «Vestiti in borghese, collega Ciclonauta» disse P. Pan. «Dove stiamo andando non troveremo pietre parlanti!» Percorsi quaranta chilometri, Cornelius fu notevolmente sorpreso quando vide l’auto guidata dal collega entrare nel parcheggio dell’Ipertrip. P. Pan fece strada all’interno, tra consumatori armati di carrello e le solite promozioni allettanti. Cornelius guardava Paoli e Paoli guardava lui, sorridendosi e ammiccando come per giustificare il loro bizzarro amico. Fu al reparto libri che P. Pan intimò bruscamente l’alt e si impossessò di un librone dal titolo “La Puglia archeologica”; ne sfogliò con calma le pagine, fino a fermarsi su una fotografia dei disegni preistorici rinvenuti qualche decennio prima in una grotta nei pressi di Porto Badisco, a pochi chilometri da Uggiano La Chiesa. «La “cripta dei ceri”» disse P. Pan. «Ricordate? Il monaco mi ha detto di metterci una “V”: se la cripta è la grotta e alla parola “ceri” aggiungo una “V”… allora “Grotta dei Cervi” è la soluzione giusta!» «Sarebbe questa la scoperta? Mi spiace deluderti, P. Pan, ma i dipinti della Grotta dei Cervi sono di molto antecedenti ai menhir e ai dolmen» notò Giacomo. «E con ciò? Secondo la nostra analisi anche la Grande Gri52 glia potrebbe esserlo.» «Supponiamo sia vero» disse Cornelius. «Quali sarebbero le istruzioni?» «E chi lo sa? Io metto le idee, il glottologo sei tu, no?» L’altro rispose che ci sarebbe voluto Fred Flinstone piuttosto che un esperto di lingue come lui. «Forse basterà leggere quest’altro libro» disse ancora P. Pan, estraendolo da un ripiano verde. «Il titolo è: “Grande Griglia. Istruzioni per l’uso”.» Cornelius e Giacomo sbiancarono in viso. «Non lo sapevate che qui si trova sempre tutto?» chiosò P. Pan. Il dott. Paoli conosceva molto bene la Grotta dei Cervi, i suoi affreschi antropomorfi e astratti. Non appena fu evidente che la comparsa del secondo libro era stata una delle burlonate di P. Pan, i tre si misero al lavoro analizzando sotto tutti punti di vista le figure tracciate nella roccia. Nel mese di ottobre i Pedalanti lamentarono un aumento degli effetti negativi della Grande Griglia. I menhir del barese, e anche i cromlech della Francia e dell’Inghilterra, stavano provocando sciagure a catena ai Ciclonauti più incauti. Inoltre, sui soliti tracciati di navigazione erano aumentati i branchi di randagi e seguitavano a sparire nel nulla, da un giorno all’altro, i dolmen e i menhir più isolati. Verso la metà del mese era pronta una possibile decifrazione dei graffiti della Grotta dei Cervi. Fino a quel momento le loro esplorazioni fisiche avevano conosciuto una sosta necessaria che però si ripromettevano di interrompere subito. Se non fosse entrato in scena Sebastiano il pazzo, almeno. Quest’uomo curava da anni il giardino mediterraneo di casa Paoli, ed era uno di quei tipi che la maggior parte della gente, reputando imprevedibili, preferisce definire “matti”. Pare che l’irascibilità eccessiva di Sebastiano, fondamentalmente innocua, fosse un retaggio della stirpe paterna. Ritenendo Paoli un esperto di pietre e i due amici altrettanto 53 competenti, un giorno Sebastiano fece un’allarmante confessione: «Professore» disse rivolto a Giacomo mentre innaffiava, «è vero che i sanna non sono pietre comuni e stanno lì dai tempi preistorici?» «Certo Sebastiano» gli rispose il padrone di casa, lievemente sorpreso e altrettanto incuriosito. «Professore, secondo me quelle sono pietre del diavolo! Pensi che da anni le sogno tutte le notti. Non le sopporto: mi parlano e mi fanno dormire male.» Una lampadina rossa si accese immediatamente nelle teste dei Ciclonauti. «E cosa dicono, Sebastiano?» gli chiese Cornelius di getto. «Non so... è come se mi raccontassero la vita di altre persone. È difficile da spiegare. E poi ci sono urla di dolore, grida...» Cornelius lanciò un’occhiata ai suoi amici. Anche loro trovavano le disavventure oniriche del giardiniere una strana coincidenza. «Lei che sa tante cose» disse ancora Sebastiano al geologo, «non conosce il sistema per farle stare zitte?» «Non credo sia colpa delle pietre. In fondo sono solo dei monumenti preistorici, come potrebbero farci del male?» L’uomo fece allora cenno a Giacomo di avvicinarsi e gli bisbigliò qualcosa nell’orecchio. «Addirittura!» esclamò Paoli. «E quanti erano?» Il giardiniere rispose ancora bisbigliando. «Sono allibito, Sebastiano...» «Vuole sapere un’altra cosa?» chiese ancora. E tornò a sussurrare. «Li conoscevi?» chiese quindi il geologo. «Sì. Tutti e quattro.» E sottovoce bofonchiò quelli che dovevano essere i nomi. Giacomo sembrò teso e preoccupato. I due amici furono perciò felici quando Sebastiano abbandonò di botto la conversazione per riavvolgere il tubo di gomma. Devastati dalla curiosità, inforcarono le biciclette, supera54 rono la strada del cimitero e imboccarono la viuzza di campagna che portava a Otranto. Giacomo fece strada fino alla Valle dell’Idro, dove fermò la mountain bike e cominciò finalmente a parlare: «Pare che Sebastiano sia sonnambulo. L’altra notte si è risvegliato al dolmen “Scusi” di Minervino.» «Ha fatto un po’ di chilometri, il nostro amico sonnambulo!» commentò P. Pan. «Fosse solo questo!» continuò il geologo. «In quel posto, a quell’ora, c’erano decine di persone in pigiama come lui!» Nessuno di loro immaginava Sebastiano a un pigiamaparty. «Ed è scappato via impaurito, purtroppo» concluse Giacomo. «Perché? Cosa abbiamo fatto noi, solo qualche settimana fa?» gli rinfacciò Cornelius con una punta di sincero rammarico. «Ti riferisci a quello?» «A cos’altro, altrimenti?» «Avremmo dovuto metterci a chiacchierare con... con quegli assatanati?» «Ma no, naturalmente. Però abbiamo avuto paura. E siamo scappati.» P. Pan attese che lo scambio di battute cessasse. Tre gabbiani passarono veleggiando sulle loro teste, prima che chiedesse: «Di cosa state parlando?» Parlavano di un fortuito incontro con un gruppo di inverosimili umanoidi ricoperti di peli e dall’aspetto ferino, giusto la prima volta che avevano sperimentato un percorso da trenta Graal di notte e con la luna piena. Non c’era molto da raccontare. Partiti come al solito da casa di Cornelius, in quel di Otranto, avevano previsto di navigare verso Sud fino a Cocumula, solcando anche un tratto dell’antica via Traiana. Nei pressi del menhir “Monticelli”, nelle campagne di Minervino, si imbatterono in una macchia scura che si muoveva lentamente verso di loro; ben presto la macchia assunse 55 gli inquietanti contorni di un gruppo di uomini allo stato bestiale che, al loro avvicinamento, rispose con ringhi e ululati da far rizzare i capelli. Scapparono di tacito accordo con un brusco cambiamento di rotta, forse inseguiti dall’assurdo branco. «Lupi mannari?» «“Licantropi” mi sembra più corretto» spiegò Cornelius. «In fondo erano degli uomini, e nulla mi convincerà che un essere umano possa subire una metamorfosi che vada al di là delle sue reali possibilità fisiche.» Lasciarono il discorso in sospeso perché Giacomo richiese ancora la loro attenzione. «C’è dell’altro» disse. «Sebastiano ha visto e riconosciuto, due settimane fa, quattro uomini che estirpavano un menhir dopo il tramonto.» «Ti ha fatto i nomi?» chiese Cornelius. «Sì. Ne conosco tre. Cosa vogliamo fare?» P. Pan inventò lì per lì un piano d’azione e gli altri due si associarono, con mille interrogativi che turbinavano nella mente. 56 Primo intermezzo Ormai è opinione comune che la Terra rappresenti un organismo vivente. Concetto, questo, di difficile comprensione fino a pochi anni fa. Nella preistoria della specie umana, invece, la Terra era tenuta talmente in considerazione da diventare presto una divinità. Le prime piste sul pianeta vennero probabilmente create dalle migrazioni degli animali. Il passaggio delle mandrie generò spontanei accumuli di energia in determinati punti. Quando l’Homo Sapiens preistorico ne scoprì l’ubicazione, ritenne quest’energia una manifestazione benefica della madre Terra, che utilizzò in perfetta simbiosi ecologica per millenni. L’estinzione di molte specie di animali migratori ridusse però, in seguito, gli effetti benefici della Griglia Primitiva. E fu necessario correre ai ripari. La nostra teoria è che tutto ciò sia avvenuto in tempi lunghi e per semplice intuito da parte dell’uomo preistorico, seguendo quello che oggi banalmente si definisce “sesto senso” e che altro non è che il retaggio della nostra cosiddetta “parte animale”. Si potrebbe anche ipotizzare un legame funzionale con il nostro pianeta. Per fare un esempio: l’energia prodotta dalle mandrie, accumulata in determinati luoghi, aveva bisogno di essere restituita e ridistribuita attraverso l’uomo in siti diversi, un po’ come fanno gli insetti con il polline. Quello che le migrazioni delle mandrie avevano cominciato, l’uomo continuava con i suoi spostamenti e il suo spirito d’avventura. Da poche linee essenziali, la Griglia Primitiva si arricchiva ogni giorno di nuove ramificazioni. Avvenne quasi sicuramente un percorso parallelo, che vide 57 il cervello umano arricchirsi di nuove possibilità al crescere della Griglia. Così l’evoluzione subiva un notevole balzo in avanti. I più importanti produttori di energia restavano però le mandrie e i branchi dei grandi mammiferi, capaci di percorrere lunghe distanze in poco tempo. Una di queste specie si estinse totalmente. Possiamo ipotizzare che le competesse la linea di produzione principale, poiché il calo energetico conseguente spinse l’uomo a credere che la Terra fosse stanca e debole, o peggio, arrabbiata. In realtà l’ecosistema stava cambiando. L’Homo Sapiens rivolse allora la sua attenzione a quella che riteneva la divinità più potente subito dopo la Terra: il Sole. Cercandone i favori e volendo ristabilire un equilibrio, eresse delle alte e snelle pietre nei luoghi di connessione ancora attivi. L’intento era quello di permettere alla Terra un maggiore assorbimento della potenza solare e quindi compensarne l’indebolimento, rilevato attraverso l’esperienza. L’uomo era giunto ormai all’età del bronzo e il nomadismo era stato via via soppiantato dalla sedentarietà, dovuta all’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento. La Griglia si ridusse ulteriormente: non fu perciò un caso se, in maniera inversamente proporzionale, cominciarono a proliferare in Francia e Inghilterra i grandi cerchi di pietre e le immense schiere di menhir dedicati al sole, tali da permettere alla Terra una produzione costante di energia. Il culto del sole permise in pratica, agli uomini, di realizzare le prime centrali di energia pulita della storia umana! Fu a questo punto che l’Homo Sapiens divorziò definitivamente dalla Grande Madre Terra. L’evoluzione interruppe senza dubbio il legame sottile che il pianeta aveva con la specie umana. Da veicolo energetico, l’uomo divenne tumore e cellula impazzita. L’uso dei menhir, nato da motivazioni non razionali, fu totalmente dimenticato e i dolmen si ridussero a modello per la creazione di semplici tombe. Pochi individui privilegiati poterono continuare a fruire dei benefici della Griglia: stre58 goni, sciamani, uomini che dialogavano con gli spiriti, individui che credevano di essere stati prescelti dal proprio dio e gli consacravano la vita. Passarono i secoli e alle strade antiche se ne aggiunsero delle nuove; molte vie abbandonate vennero però recuperate e attraversate dopo l’anno Mille, grazie all’aumento delle masse dei pellegrini che si muovevano su e giù per l’Europa per scopi votivi. La Griglia, che aveva accumulato l’energia prodotta in tutto quel periodo senza poterla restituire adeguatamente, sfogò allora il suo enorme potenziale in maniera improvvisa e devastante. (Dallo studio congiunto di Giacomo Paoli e Augusto Cornelius: “Appunti sulla Grande Griglia”) 59 Capitolo 10 Effetti collaterali Il piano abbozzato da P. Pan fu arricchito di nuovi dettagli, e i primi di ottobre i tre Ciclonauti passarono al contrattacco. Paoli si recò di buon mattino dal suo barbiere. Dieci minuti più tardi fece il suo ingresso nella bottega anche il glottologo Augusto Cornelius. Franco, il barbiere, era un uomo sulla quarantina dal viso rotondo e socievole; portava due folte sopracciglia che invece di imbruttirlo lo rendevano simpatico. Quando Cornelius entrò, Paoli – seduto in attesa del suo turno – finse di riconoscerlo all’improvviso, come se i due non si vedessero da parecchio. «E cosa sta studiando in questo periodo?» aveva chiesto a un certo punto il glottologo. «Mi sto occupando dei dolmen e dei menhir del Salento. Sa, li stiamo mappando per l’Università.» «Sono così tanti? Credevo non fossero più di una decina.» «Attualmente se ne contano un centinaio, ma chissà quanti ne sono andati persi negli anni.» Franco stava intanto tagliando i capelli a un vecchietto con la pelle segnata dal sole e dagli anni. Evidentemente prestava ascolto alla conversazione perché si intromise con una domanda: «Professore, perché all’università interessano tanto questi menhir?» chiese rivolgendosi a Paoli. «Chi ci dice che queste pietre avevano un significato? Magari le mettevano per indicare un terreno, una proprietà, e basta.» «Vengono dal nostro passato, Franco. E possono raccontarci molte più cose di quanto si potrebbe pensare a prima vista.» 61 «C’è chi dice che portino solo sfortuna» affermò il barbiere. I due Ciclonauti sapevano che c’era un fondo di verità in quelle parole. «Superstizioni» rispose il geologo. «Non vedo come delle pietre possano far del male a qualcuno.» «Superstizioni? Mio cugino aveva toccato il menhir vicino alla stazione...» «Il menhir di Palanzano?» «Sì, quello. Lo aveva toccato il giorno prima di fare l’incidente con la moto! E Sebastiano il pazzo? È così da quando andò in visita al Santuario di Montevergine e si riposò all’ombra del sanna dietro la chiesa. Credetemi professore: quelle pietre sono pericolose!» «La superstizione si nutre dell’ignoranza» disse Cornelius al barbiere. «A lei personalmente è mai capitato nulla a causa di un menhir?» Franco fermò la forbice e il suo sguardo divenne così serio da incutere timore: «A me? No, mai» rispose, eppure tutto, nell’improvvisa tensione del suo corpo, lasciava intendere il contrario. Ci fu poi una breve pausa in cui il vecchietto pagò e andò via. Nel locale rimasero allora soltanto i due Ciclonauti e il barbiere. «In tutta franchezza» cominciò Paoli, «non siamo venuti qua per tagliare i capelli. Ti ho sempre reputato una brava persona, capirai dunque la mia difficoltà ad accettare l’idea che tu abbia potuto abbattere dei monumenti di valore inestimabile come i menhir. Dovevo venire a parlarti, prima di decidere se denunciarti o meno alle autorità competenti.» Franco era troppo sbalordito per mentire: «Cosa ne sapete, lei e il suo amico?» «Parecchie cose. Lo sapevi che è un reato distruggere menhir? Sono beni archeologici! Si rischiano multe salatissime e talvolta la prigione. Io avrei il dovere di denunciarti subito.» «Faccia quello che vuole. Adesso siete pregati di uscire subito dal mio locale.» Paoli e Cornelius capirono che era venuto il momento di 62 mollare la preda. P. Pan in quell’esatto momento era in chiesa a confessare i peccati degli ultimi decenni. Inginocchiato nel confessionale, parlava a bassa voce con pause studiate. «Sono qui perché la notte dormo male, sento delle voci che mi parlano di persone sconosciute... altre volte sogno di camminare nudo in campagna, lungo una strada segnata da menhir. Di solito provo una grande attrazione per quelle pietre, ma la cosa preoccupante è che anche da sveglio avverto questo desiderio.» «È da molto che fai questi sogni?» La voce del prete oltrepassò la griglia bucherellata del confessionale. «Sì. Da anni» rispose P.Pan, «e vorrei che cessassero. È un richiamo inquietante a cui non so dire di no!» «Sei pronto a qualunque tipo di penitenza?» «Certo, padre.» «Hai mai pensato che dietro questi sogni si possa celare il Maligno? È Satana che vuole renderti schiavo incantandoti con il suo richiamo!» Il tono di voce si era levato. Il confessionale vibrava dell’eco tonante delle parole del prete. «Don Gesualdo, crede che io sia... indemoniato?» Un lungo silenzio, rotto solo dal respiro dei due, seguì la domanda. P. Pan vide materializzarsi un’ombra scura al suo fianco. Si voltò di scatto, impaurito. «C’è un’unica forma di esorcismo» sussurrò il sacerdote all’orecchio del Ciclonauta. Era uscito dall’abitacolo e ora troneggiava sulla sagoma genuflessa del creativo. «Questo pomeriggio vieni a casa mia» gli disse. «Ti farò conoscere altre anime torturate, gente ammaliata dalle seduzioni di Lucifero e che sta distruggendo le sue opere per combatterlo!» “Tombola!” pensò P. Pan, evitando però lo sguardo di don Gesualdo. Gli occhi del religioso lo avevano scosso nel profondo del cuore. Gli erano sembrati gli occhi di un pazzo furioso. 63 All’appuntamento nella casa materna di don Gesualdo si incontrarono sei uomini e sei donne provenienti da paesini diversi. Gli invitati erano riuniti in un soggiorno all’antica, sistemati attorno a un grande tavolo ovale ricoperto da una spessa lastra di cristallo. Le sedie erano scomode e altezzose. P. Pan vide che tra i convenuti non c’era il barbiere di Paoli. Forse l’imbeccata del mattino lo aveva convinto a ritirarsi, oppure don Gesualdo non lo aveva invitato perché sospettava della buonafede della sua nuova “pecorella”? Forse si trattava di una trappola. Forse quel matto lo avrebbe esorcizzato con olio di ricino. Forse... «Fratelli e sorelle» esordì il prete a capotavola, «l’influenza del Figlio del Male si allarga sempre di più. Non sappiamo perché egli abbia scelto queste pietre che vengono dal passato per esternare la sua potenza, ma ne stiamo sperimentando gli influssi. Qualcuno di noi prova solo strani turbamenti» e indicò P. Pan, seduto alla sua sinistra, «oppure fa strani sogni con un unico tema: quello dei menhir. Altri sono ormai passati a crisi di sonnambulismo nelle notti di luna piena, e si recano nudi o in pigiama nei luoghi segnati dal Demonio. A me, però, in queste notti è successo di peggio.» Un mormorio di sdegno e curiosità si sollevò tra gli undici ascoltatori. «La mia parte bestiale è emersa alla luce della luna, mentre il corpo restava nel letto, ed è andata vagando per le campagne fino all’alba. Ho sofferto i tormenti dell’inferno, tanto la mia anima era combattuta. Quanti altri saranno domani nelle nostre condizioni? Se è un’opera di Lucifero si estenderà a macchia d’olio!» Il Ciclonauta cominciava a capire. Collegò il suo incontro notturno in Sardegna con quello dei suoi amici a Minervino, e i sogni di Sebastiano con l’improvvisa comparsa degli abbattitori di menhir. Don Gesualdo continuò il suo sermone: «Cercate i vostri compagni di sventura e distruggiamo insieme le pietre del demonio! Una dopo l’altra, prima che sia troppo tardi!» 64 Furono concordate due azioni per la notte successiva. I Carabinieri vennero avvisati dai Ciclonauti all’ultimo momento e i congiurati colti sul fatto, quindi accompagnati in caserma. Anche P. Pan fu fermato, per non destare sospetti. A corollario di questi bizzarri eventi, il dott. Paoli formulò una teoria che andò a completare lo studio congiunto compiuto con Augusto Cornelius, secondo cui la Grande Griglia aveva creato dei mostri. Agendo a livello subliminale, l’energia esplosa dopo l’anno Mille si era irraggiata tramite i monoliti preistorici, colpendo indiscriminatamente uomini e donne. Chi ne aveva subito il contatto, con molta probabilità, aveva visto amplificarsi in modo abnorme la propria parte istintiva. Il tragico evento doveva essere accaduto di notte, a detta dello studioso, e probabilmente con la luna piena. Non era quindi azzardato collegare il pullulare di mostri e demoni della fantasia popolare con l’esplosione di potenziale energetico della Griglia. Che avesse tuttora poteri di manipolazione della psiche e del corpo umano, lo avevano sperimentato di recente. Questo potere negativo negli ultimi secoli era calato notevolmente: i Ciclisti di Hofmann erano quindi la causa prima della sua riattivazione? Perché allora gli effetti malefici della Grande Griglia risparmiava proprio loro tre? Malgrado fosse metà ottobre, l’autunno non si faceva ancora sentire. Le giornate erano diventate più corte e i Ciclisti di Hofmann ripresero a uscire di mattina, dopo le otto, quando la nebbia si era già diradata. Il dott. Paoli e il prof. Cornelius non riuscivano a essere spensierati come in passato. Non solo le vittime degli influssi negativi della Grande Griglia avrebbero potuto risalire a loro attraverso Franco il barbiere, ma era l’esistenza stessa di questi uomini dannati a mettere in crisi le coscienze dei Ciclonauti. Ogni loro pedalata poteva significare un nuovo licantropo, 65 ogni Accesso avrebbe potuto contribuire alla nascita di un mostro. La gioia di navigare, l’ebbrezza del ciclista, trovava un inesorabile freno nella consapevolezza di produrre energia bipolare. Bisognava trovare in fretta il sistema di annullare gli effetti collaterali della Grande Griglia. Quel giorno i tre avevano raggiunto la “Specchia dei Mori”, una curiosa collinetta artificiale fatta di pietre accumulate con una certa logica, forse i resti di una grande torre preistorica. Dalla cima si notavano i Laghi Alimini e nelle giornate limpide non era difficile vedere l’Adriatico. Le biciclette giacevano ai piedi della specchia. I Ciclonauti sedevano sulla sommità, con il vento umido in faccia. P. Pan, al suo solito, gesticolava nervosamente: «Forse basterà interrompere Viandanti e Pedalanti per riuscire a disattivare la Griglia.» «Non risolverebbe il problema dell’energia già accumulata. Potrebbe durare anni o forse secoli: che ne sappiamo in fondo?» rispose Paoli. «I nostri Pedalanti esteri hanno segnalato l’aumento di frequentazioni notturne nelle zone più significative» disse Cornelius. «Obiezione, vostro onore!» esclamò il creativo. «Chiedo che i Ciclonauti interrompano la sollecitazione viaria. Possiamo contare su un buon numero di Pedalanti: mandiamoli contemporaneamente nei centri di raccolta energetica che conosciamo e ordiniamo loro un contatto alla stessa ora.» Sarebbe stata la prima volta, e con buona probabilità anche l’ultima, in cui i Pedalanti avrebbero potuto fruire di un Accesso, la cui concretizzazione era stata fino ad allora esclusivamente appannaggio del vertice dei Ciclisti di Hofmann. «Un’esperienza lisergica di massa per scaricare la Grande Griglia? Niente male, ragazzo» disse Cornelius dandogli una pacca sulla spalla. «Potrebbe funzionare o risultare un fiasco incredibile, e poiché nel secondo caso nessuno se ne accorgerebbe, approvo la mozione!» 66 Quando si trattò di decidere una data, il dott. Paoli sorrise rapito, inseguendo già con la mente gli eventuali sviluppi della soluzione prospettata: «Facciamo il 31 ottobre?» 67 continua... Indice Prologo Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Primo intermezzo Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Secondo intermezzo Capitolo 17 Capitolo 18 Epilogo Nota dell’autore 7 9 15 17 25 33 39 43 45 51 57 61 69 79 85 99 103 109 121 123 129 135 137 © 2014 I sognatori, Lecce ISBN 978-88-95068-36-7 Per contattare la casa editrice I sognatori, consultare il sito internet: www.casadeisognatori.com in copertina disegno di Francesca Santamaria (per gentile concessione dell’autrice) finito di stampare nel mese di maggio 2014 presso Digital Print srl Segrate (MI)