Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Anno 2 - N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 La secessione è la norma L’autodeterminazione nel Diritto Internazionale I paradossi del “diritto di autodeterminazione dei popoli” Neofederalismo e “piccole patrie” Criteri per l’applicazione del diritto di autodeterminazione L’autodeterminazione nel mondo Intervista a Gianfranco Miglio Intervista a Ettore A. Albertoni 7 Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Periodico Bimestrale Anno II - N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana, C.P. 792, via Cordusio 4, 20123 MILANO La secessione è la norma - Brenno L’autodeterminazione nel Diritto Internazionale Una carrellata dei principali documenti pertinenti Carlo Corti I paradossi del “diritto di autodeterminazione dei popoli” - Alessandro Vitale Neofederalismo e “piccole patrie”: per superare lo Stato moderno - Carlo Lottieri Criteri per l’applicazione del diritto di autodeterminazione - Gilberto Oneto L’autodeterminazione nel mondo: le strade degli altri La secessione della Padania comincia dalle Regioni - Alessandro Storti Appendice: altre vie per raggiungere l’indipendenza della Padania Intervista a Gianfranco Miglio - Alessandro Storti ntervista a Ettore A. Albertoni - Alessandro Storti Il nome vero dei nostri paesi Biblioteca Padana Musica Padana 1 3 6 10 16 21 42 48 50 54 58 60 69 La secessione è la norma ei 47 stati oggi esistenti in Europa, ben 25 (53%) hanno conquistato l’indipendenza nel corso del XX secolo (1). Di questi, soltanto la Yugoslavia è sorta dall’unione di più parti (2) mentre tutti gli altri sono nati dalla separazione da uno stato esistente. In particolare, due (Malta e Cipro) sono colonie che si sono liberate, lo Stato del Vaticano nasce come una sorta di “restituzione-ammenda” per una annessione violenta e tutti gli altri 21 traggono vita dalla secessione da uno stato di cui erano parte. Di questi, quattro sono il risultato di eventi bellici che hanno coinvolto aree molto più estese (le guerre balcaniche per l’Albania e la prima guerra mondiale per Finlandia, Polonia e Cecoslovacchia) ma che hanno visto la partecipazione attiva di movimenti indipendentisti locali. Tutti gli altri si sono liberati e separati senza alcun consistente intervento esterno e grazie a movimenti e lotte di liberazione che si sono svolte nella stragrande maggioranza dei casi in forma pacifica. In realtà, solo l’Irlanda ha ottenuto l’indipendenza con una lunghissima e sanguinosa guerra di liberazione; la Croazia e la Bosnia hanno dovuto combattere per periodi più o meno lunghi ma soprattutto per questioni legate alla definizione di confini e a causa di una situazione di estremo frastagliamento e compenetrazione delle comunità etniche locali. La Slovenia - che non aveva gli stessi problemi di spartizione - si è limitata a scontri militari poco più che simbolici. Tutti gli altri 14 hanno seceduto e ottenuto la loro libertà con atti di volontà politica, con colpi di mano e con manifestazioni elettorali di autodeterminazione, sviluppati su tempi più o meno lunghi che hanno a volte conosciuto momenti di disordini e tensioni ma mai situazioni di violenza che abbiano potuto far loro perdere la connotazione di operazioni pacifiche. D Sintomaticamente si riscontrano condizioni del tutto analoghe anche nel comportamento dei numerosi movimenti autonomisti e indipendentisti oggi attivi in Europa. Fra i numerosi paesi dove sono in atto forme di lotta per l’indipendenza o per il raggiungimento di una fortissima autonomia, solo 3 (Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Corsica) sono interessati da episodi di violenza sporadica o sistematica e solo nei paesi caucasici (e cioè in un’area piuttosto marginale in termini geografici e culturali rispetto al resto d’Europa) si assiste a vere e proprie operazioni di guerriglia o di guerra civile. Da tutti questi dati si traggono alcuni elementi di riflessione estremamente importanti. Innanzitutto che la secessione non è un atto straordinario (e improbabile) ma che costituisce in Europa il normale strumento di raggiungimento dell’autonomia e della libertà politica (3). E poi che la secessione è stata nella stragrande maggioranza dei casi in cui ha avuto luogo un atto assolutamente pacifico (4). Raccontano delle volgari balle quelli che ci dicono che la secessione è una pericolosa stravaganza storica, che le secessioni comportano inevitabilmente lunghe scie di sangue e di violenze e che le divisioni non possono che portare danni a tutti. Questi agitano spettri bosniaci dimenticando che lì - secessione o non secessione - si sono sempre accapigliati e che la divisione politica può proprio essere l’unico modo per evitare che continuino a farlo. Questi agitano immagini di tragedia che derivano solo dalla loro malafede e dalla frequentazione giovanile di film come Via col Vento e che non vogliono tenere conto di come si sia mossa la storia nella stragrande maggioranza dei casi. Questi ci sbattono in faccia le bombe basche (spesso, oltre a tutto, di origine “istituzionale”) e si dimenticano delle gioiose manifestazioni dei (1) In realtà essi sarebbero 27 considerando anche l’Austria e l’Ungheria che però esistevano formalmente come stati autonomi dalla metà del secolo precedente. (2) La Yugoslavia è nata dall’unione di due stati indipendenti (Serbia e Montenegro) che si sono allargati a spese dei vicini inglobando numerose altre comunità erroneamente ritenute simili. L’unione non ha portato fortuna alla Yugoslavia ed è sintomatico che la federazione si sia ridotta oggi ai soli due stati originari con qualche appendice riottosa (il Kossovo albanese e la Vojvodina ungherese). (3) Su 25 stati europei sorti nel ‘900, ben 21 (84%) sono nati da una secessione. (4) Delle 21 secessioni, solo 3 (14%) hanno avuto connotazioni violente. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Quaderni Padani - 3 1 Le secessioni in Europa nel ’900 1 - Norvegia (1905, dalla Svezia) 2 - Albania (1913, dalla Turchia) 3 - Finlandia (1917, dalla Russia) 4 - Polonia (1918, dalla Russia) 5 - Cecoslovacchia (1918, dall’Austria-Ungheria) 6 - Irlanda (1919/22, dalla Gran Bretagna) 7 - Islanda (1918/44, dalla Danimarca) 8 - Slovenia (1990/91, dalla Yugoslavia) 9 - Estonia (1991, dall’Unione Sovietica) 10 - Lettonia (1991, dall’Unione Sovietica) 11 - Lituania (1991, dall’Unione Sovietica) 12 - Bielorussia (1991, dall’Unione Sovietica) 13 - Ucraina (1991, dall’Unione Sovietica) 14 - Moldavia (1991, dall’Unione Sovietica) - Georgia (1991, dall’Unione Sovietica) - Armenia (1991, dall’Unione Sovietica) - Azerbaigian (1991, dall’Unione Sovietica) 15 - Croazia (1991, dalla Yugoslavia) 16 - Macedonia (1991/92, dalla Yugoslavia) 17 - Bosnia (1992, dalla Yugoslavia) 18 - Slovacchia (1992/93, dalla Cecoslovacchia) paesi baltici e delle civili votazioni di Norvegia e Slovacchia. Ci prospettano scenari di miseria e fingono di non vedere che ovunque i paesi liberati sono diventati più prosperi, che sempre la secessione ha migliorato le loro condizioni economiche, per non parlare di quelle sociali: e se non fosse così perché l’avrebbero fatto? La storia delle secessioni europee è una statistica di pace e civiltà. Noi vogliamo che tale statistica si arricchisca di occorrenze e si colori sempre più di pace. Noi siamo pacifici e civili. E gli Italiani? Brenno 24 - Quaderni Padani A - Irlanda del Nord B - Scozia C - Galles D - Paese Fiammingo E - Bretagna F - Galizia G - Paese Basco H - Catalogna I - Savoia L - Padania M - Tirolo N - Corsica O - Toscana P - Sardegna Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 L’autodeterminazione nel Diritto Internazionale Una carrellata dei principali documenti pertinenti di Carlo Corti I l Diritto di autodeterminazione (o di autodecisione), pur essendo di elaborazione dottrinale relativamente recente, è stato ampiamente pubblicizzato ed elevato quasi allo status di verità autoevidente. Ad esso si paga ormai, magari malvolentieri, un tributo formale: le divisioni sono spostate all’interno dell’interpretazione che vi si vuole attribuire. La dottrina dell’autodeterminazione nasce con l’affermarsi della sovranità popolare, attraverso le rivoluzioni nordamericana e francese. Il primo documento in cui si trova una enunciazione di quello che sarebbe in seguito divenuto noto nella dottrina come “Diritto di Autodeterminazione” è la Dichiarazione d’Indipendenza americana, del 1776, nella quale si legge: “ Consideriamo come evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà, il perseguimento della felicità; che, per assicurare questi diritti, vengono istituiti tra gli uomini governi i quali attingono i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo porta a distruggere questi scopi, il popolo ha diritto di cambiarla o di abolirla, istituendo un altro governo ... (1) L’espressione “autodeterminazione delle nazioni” compare per la prima volta in un testo del 1865 il “Proclama sulla questione polacca” approvato dalla Conferenza di Londra della prima Internazionale. L’apparizione ufficiale sulla scena politica in- L'autodeterminazione nei documenti delle Nazioni Unite La Carta della Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26 giugno 1945, recita, all’Art. 1: I fini delle Nazioni Unite sono: 1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale ... 2. Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto del principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, ... (2) Ed all’art. 55 (Sotto il capitolo IX “Cooperazione internazionale Economica e sociale”): Al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli tra le nazioni, basati sul (1) La traduzione è quella riportata nel “Dizionario di Politica UTET”, Seconda Edizione sub voce “Autodeterminazione”. (2) Testo italiano contenuto nella L.17 Agosto 1957 n. 848 con la quale la Carta è stata ratificata dal Parlamento Italiano. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 ternazionale del Diritto di autodeterminazione avviene nel corso della Prima Guerra Mondiale. Essa è dovuta da una parte a Lenin, con le sue “Tesi sulla Rivoluzione Socialista e sul Diritto delle nazioni all’autodeterminazione”, dall’altra al presidente statunitense Woodrow Wilson, con i suoi “14 punti” su cui si sarebbe dovuta basare la pace. Il diritto di autodeterminazione, non trovò posto nel testo finale della statuto della Società delle Nazioni, benché fosse stato presente nei primi due progetti di redazione dello stesso. Accenni al diritto di autodeterminazione ricorrono in documenti internazionali stilati nel corso della Seconda Guerra Mondiale, a partire dalla Carta Atlantica dell’agosto 1941. 3 Quaderni Padani - 5 rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti o dell’autodecisione dei popoli, ... Le Nazioni Unite hanno in seguito sviluppato il tema dell’autodeterminazione con la Risoluzione 1514 (XV) “Dichiarazione sull’assicurazione dell’Indipendenza ai paesi e popoli coloniali”, approvata dall’assemblea Generale nel 1960, annus mirabilis della decolonizzazione: Art. 2 - Tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione; in virtù di tale diritto essi determinano liberamente il proprio status politico e liberamente perseguono il proprio sviluppo economico, sociale e culturale.(3) All’art. 6 si aggiunge tuttavia, secondo le note contraddizioni: Ogni tentativo volto alla parziale o totale rottura dell’unità nazionale e l’integrità territoriale di un paese è incompatibile con i fini ed i principi della Carta delle Nazioni Unite. Il riferimento quali beneficiari è a tutti i Popoli, tanto nella Carta che nella Dichiarazione 1514 del 1960, relativa all’indipendenza dei Popoli coloniali. Il sostenere che il principio di autodeterminazione compare in questi documenti a beneficio esclusivo delle popolazioni coloniali risulta infondato sulla base dei testi stessi. Gli stati sorti dal processo di decolonizzazione hanno avuto interesse ad avvalorare la tesi che l’autodecisione varrebbe solo per il distacco dalla potenza coloniale, poiché si tratta nella maggior parte dei casi di compagini caratterizzate da forte multietnicità, le quali hanno spesso sposato il tradizionale modello occidentale di stato, che fa dell’omogeneità culturale e psicologica dei cittadini di ogni area un postulato ed un progetto. Si è assistito dunque a questo paradosso: se nel trentennio 1915-45 si tendeva a considerare come più o meno tacitamente inapplicabile il principio nei paesi extraeuropei ad amministrazione coloniale, nel trentennio successivo, ed anche oltre, si è teso spesso ad avvalorare una visione diametralmente opposta: ad essere escluse dall’applicazione sono apparse le popolazioni dei vecchi territori “metropolitani”. Questa nuova arbitraria limitazione è apparsa sempre più indifendibile, di fronte all’«effetto dimostrazione» dato dallo smantellamento dei sistemi coloniali, al diffondersi delle teorie sul cosiddetto “colonialismo interno”, ed alla generale crisi della forma-stato tradizionale. In definitiva si impone la considerazione che dominio “coloniale” significa qualsiasi forma di governo che il 46 - Quaderni Padani Popolo interessato interpreta liberamente come tale. Se il superamento del colonialismo classico appariva alcuni decenni or sono l’attuazione principale dell’autodecisione, la storia stessa si sta incaricando, come spesso accade, di far prevalere la generalità dei termini sull’effettività parziale che era stata loro accordata in origine. Un grande esempio in questo senso è offerto dall’applicazione della stessa Dichiarazione di Indipendenza americana: in essa si attesta che tutti gli uomini sono stati creati eguali con diritto alla vita e alla libertà, ma ci vollero alcune generazioni perché questo enunciato venisse applicato agli afro-americani. Nel 25° dell’Organizzazione venne adottata la Risoluzione 2625 (XXV) che recita, sotto il titolo “Il principio degli uguali diritti e dell’autodeterminazione dei popoli”: ...tutti i popoli hanno il diritto di determinare liberamente, senza interferenza esterna, il proprio status politico e di perseguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale, ed ogni Stato ha il dovere di rispettare questo diritto in conformità con le disposizioni della Carta. (3) Ogni Stato ha il dovere di promuovere, attraverso azione congiunta o separata, la realizzazione del principio di eguali diritti e autodeterminazione, in conformità con le disposizioni della Carta, e di prestare assistenza alle Nazioni Unite nell’adempimento delle responsabilità ad esso affidate dalla Carta concernenti l’applicazione del principio, al fine di: a) Promuovere relazioni amichevoli e cooperazione fra gli stati; e b) portare rapidamente a compimento il colonialismo, avendo il dovuto riguardo alla volontà liberamente espressa dei popoli interessati; e tenendo in mente che la soggezione di popoli ad altrui soggiogamento, dominazione e sfruttamento costituisce una violazione del principio, così come una negazione di diritti fondamentali, ed è contraria alla Carta. Ogni stato ha il dovere di promuovere attraverso azione congiunta e separata rispetto universale ed osservanza dei diritti umani e delle libertà fondamentali in conformità con la Carta. Lo stabilirsi di uno stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione con (3) Traduzione nostra dal testo ufficiale in inglese. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 uno Stato indipendente, o il passaggio ad ogni altro status politico liberamente determinato da un popolo costituiscono modalità di attuazione del diritto di autodeterminazione da parte di quel popolo. Ogni Stato ha il dovere di astenersi da qualunque azione violenta che privi i popoli cui ci si è sopra riferiti nell’elaborazione del presente principio del diritto all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza. nella loro azione contro, e resistenza a tale azione violenta in perseguimento del proprio diritto di autodeterminazione, tali popoli hanno titolo a cercare e ricevere sostegno in conformità con i fini ed i principi della carta ... Tutto bene? Leggiamo la ciliegina finale del capitolo: Niente nei precedenti paragrafi sarà interpretato come autorizzante o incoraggiante qualunque azione che smembrerebbe o menomerebbe, in tutto o in parte, l’integrità territoriale o unità politica di stati sovrani indipendenti che si comportano in conformità con il principio di eguali diritti e autodeterminazione dei popoli come sopra descritti, e perciò dotati di un governo rappresentativo dell’intero popolo appartenente al territorio, senza distinzione di razza, credo o colore. Ogni stato si asterrà da qualunque azione mirata alla rottura dell’unità nazionale ed integrità territoriale di ogni altro Stato o Paese. Una lettura strumentale del penultimo capoverso esenterebbe di fatto dall’obbligo di rispettare il Diritto di autodeterminazione qualsiasi stato che non sia scopertamente razzista o teocratico, togliendo così ogni valore alle notevoli enunciazioni contenute nello stesso Documento. Appare cruciale pertanto stabilire se uno stato, sia esso pure dotato di forme di rappresentatività di tutte le popolazioni dimoranti entro i suoi confini, possa essere ritenuto conformarsi al diritto di autodeterminazione qualora esso postuli la propria indivisibilità e preveda il perseguimento con la forza di qualsiasi atto che non si conformi a tale postulato. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Documenti di ambito europeo L’universalità del principio di autodecisione ha trovato una nuova enunciazione nell’ “Atto Finale della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa” del 1975 (“Atto di Helsinki”), ove si legge, nella “Dichiarazione sui Principi che reggono le relazioni fra gli stati partecipanti”, all’art. VIII: In virtù del principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, tutti i popoli hanno sempre diritto, in piena libertà, di stabilire quando e come desiderano il loro regime politico interno ed esterno senza ingerenza esterna, e di perseguire come desiderano il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale (4). È da notare che non sussistevano in Europa esempi di colonialismo classico che potessero giustificare letture restrittive del principio. Non a caso, inoltre, fu impiegato, a Helsinki, il termine “inviolabilità”, che implica un mutamento forzoso, e non, poniamo, “immutabilità” o “intangibilità”. Era la delegazione sovietica che avrebbe voluto vedere sancita la “immutabilità” dei confini. Infine nella “Carta di Parigi per una Nuova Europa” del 1990 si ribadiscono senza svilupparli i concetti presenti nei documenti sopra ricordati: Riaffermiamo l’eguaglianza dei diritti dei popoli e il loro diritto all’autodeterminazione conformemente alla carta delle Nazioni Unite ad alle pertinenti norme di diritto internazionale, incluse quelle relative all’integrità territoriale degli Stati (5) . Da questa carrellata si evince la necessità di un’ulteriore evoluzione giuridica e concettuale che conduca, contro mille resistenze, a risolvere le ambiguità e le aporie venutesi a creare, e a sviluppare l’enorme potenziale insito nel principio di autodeterminazione. (4) Versione italiana ufficiale. Da “Testimonianze di un negoziato. Helsinki-Ginevra-Helsinki 1972-75”. a cura di Luigi Vittorio Ferraris. Pubblicazioni della Società Italiana per l’Organizzazione internazionale. Pag. 605 e seguenti. (5) Versione italiana ufficiale. Da Dossier n. 1 Unità interservizi Studi - relazioni internazionali. Camera dei deputati. Pag. 241 e seguenti. Quaderni Padani - 7 5 I paradossi del “diritto di autodeterminazione dei popoli” di Alessandro Vitale a fine della “pace da caserma” dell’ordine bipolare ha comportato anche la conclusione della situazione statica sul piano regionale garantita in precedenza dalle due ex superpotenze e dalla sovranità limitata. Se da una parte oggi si continua a parlare di “globalizzazione” (economica, politica, dell’informazione, ecc.) si dimentica volentieri che a quest’ultimo processo si è andato affiancando quello complementare (e in controtendenza) della “localizzazione” e della ripresa massiccia del particolarismo. La fedeltà nei confronti degli Stati nazionali viene tendenzialmente soppiantata da quella verso le organizzazioni etnico-nazionali, regionali, locali. Le frontiere statual-nazionali vengono sempre più viste e sentite come ostacoli alla creazione di sottosistemi politico-economici razionali, basati sulla volontà di stare insieme, indipendenti e dotati di autogoverno; la pluralità, la varietà, la differenza vengono contrapposte all’omogeneizzazione unitaria degli Stati e alle forze di omogeneizzazione economica massificante; i gruppi minoritari, tendenzialmente spianati da queste forze politico-economiche riscoprono i loro diritti, la loro cultura e le loro caratteristiche e li impongono come irrinunciabili contro le forze unificanti e globalizzanti. Questa controtendenza è destinata a intensificarsi e a diventare permanente proprio parallelamente ai processi di “globalizzazione” (1). Questo significa che se la dinamica internazionale globa- L le va nel senso dell’integrazione, le dinamiche regionali sono sospinte da questo complesso di forze nel senso contrario, cioè verso la frammentazione. A fronte di questa controtendenza stimolata dall’evolversi delle dinamiche internazionali, le comunità politiche territoriali diverse dagli Stati nazionali che tendano a non riconoscere più questi ultimi come legittimi, per veder riconosciuti i loro diritti all’autogoverno non trovano nel diritto internazionale (per definizione interstatuale e quindi incapace di riconoscere questa nuova dinamica particolaristica, che si contrappone all’unica organizzazione che ha diritto di cittadinanza nel sistema internazionale, quella dello Stato nazionale) che il vecchio e decrepito principio-diritto di “autodeterminazione”. Non esiste oggi di fatto alcuno Stato che non abbia da temere dalla trasformazione delle proprie minoranze in soggetti giuridici internazionali, sia nell’Europa orientale che in quella occidentale. Tuttavia il “diritto di autodeterminazione” gioca a favore degli Stati esistenti, contro le minoranze (alle quali al massimo va concessa una certa “autonomia”) ed è quanto di più confuso vi sia oggi nel campo del diritto internazionale: «Senza alcun dubbio il concetto di “autodeterminazione” non è chiaro» (2). Questo diritto risulta immerso in una sorta di greyzone, che impedisce di dire con sicurezza che cosa intenda in merito il diritto internazionale. (1) James J. Rosenau “Les processus de la mondialisation: retombées significatives echanges impalpables et symbolique subtile”. In: Etudes Internationales XXIV (settembre 1993), 3. Un altro politologo nordamericano, John Lewis Gaddis, è su questo fenomeno ancora più drastico di Rosenau: identificando la dinamica della globalizzazione internazionale con i processi di integrazione, egli parla di una controtendenza rispetto a questi ultimi an- cora più netta: quella della frammentazione, ossia dell’esplosione degli Stati nazionali esistenti. ( 2) Theodor Veiter “Political Notion of Ethnicity”. In: “Ethnicnost danes. Vshodni in zahodni pristop” (L’etnicità oggi. Approcci orientali e occidentali). Revija za narodnostna vprasanja. Razprave in gradivo (Rivista di Studi etnici. Trattati e documenti). Ljubljana, december 1988. 68 - Quaderni Padani Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Esso è per di più caratterizzato da macroscopici paradossi. 1) La nozione di “popolo” L’Atto finale di Helsinki stabilì il principio della legittimità del ricorso all’autodeterminazione, una volta bandite le interferenze esterne, nell’ambito di Stati sovrani e indipendenti. Questo diritto risultò, almeno teoricamente, applicabile ai “popoli” esistenti all’interno di ciascuno di tali Stati. Tuttavia in seguito si è evitato di concettualizzare la differenza fra “popoli” e minoranze. Resta del tutto indeterminato che cosa sia un “popolo”, beneficiario esclusivo del diritto di autodeterminazione. Pertanto resta indeterminato e del tutto arbitrario a chi spetti il diritto all’autodeterminazione Questa nozione di “popolo” deriva in realtà dal nazionalismo ottocentesco (del tutto opposta allo “etnonazionalismo contemporaneo”) (3) ed è frutto di una ben precisa ideologia. Essa corrisponde infatti al vecchio nazionalismo e nemmeno minimamente al revival etnico attuale o alla ripresa della aspirazione alla formazione delle comunità politiche per consenso volontario e/o per contratto. Considerare l’autodeterminazione come esclusiva per quelle comunità nelle quali si ha una comunità etnica omogenea, un “popolo”, significa non tenere conto ad esempio della realtà svizzera (che infatti viene considerata, in quanto “Confederazione”, un’anomalia e una sorta di compagine “nonperfetta” rispetto ai canoni giuridici dello Stato unitario accentrato). L’idea dell’autodeterminazione concessa solo a comunità etnicamente omogenee, nel senso di comunità “nazionali”, corrisponde esattamente al principio nazionale della coincidenza (impossibile quasi ovunque) fra Stato e Nazione (4). La nozione di “popolo” quale titolare del diritto di autodeterminazione appare legato esclusivamente all’etnicità. Senza di essa non c’è nemmeno diritto di secessione, ne di cambiamento di sovranità. Questo però è in totale contrasto con la formazione contemporanea di nuove iden- (3) Per non tornare su questa fondamentale distinzione, rimando al mio “Condizioni giuridiche internazionali per il principio di autodeterminazione” ecc. In: Quaderni Padani 5, (maggio-giugno 1996), 3. È interessante notare che perfino John Stuart Mill sosteneva che «In generale una condizione necessaria delle libere istituzioni è che i confini degli Stati coincidano all’ingrosso con quelli delle nazionalità». J. Stuart Mill Considerations on Representative Government. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 tità, che si coagulano in base a bisogni e aspirazioni precise e soprattutto che esprimano l’esigenza, non riconosciuta con un’autentica Costituzione federale, di autogoverno. 2) L’esclusione delle minoranze dal diritto di autodeterminazione A partire dall’Atto Finale di Helsinki, alle minoranze venne inibito qualsivoglia diritto di secessione, contrastabile legittimamente con l’uso della forza (l’VIII Principio del Decalogo dell’Atto Finale asserisce appunto che solo il “popolo” è titolare del diritto di autodeterminazione). Tutto ruota attorno al vago concetto di “popolo”. Solo con la Conferenza di Vienna (1989) si è posto il problema del riconoscimento dei diritti collettivi delle minoranze. Nel 1990, tuttavia, nel documento conclusivo della Conferenza di Copenhaghen è stata inserita una clausola “capestro”, con la quale si ribadisce il principio del rispetto dell’integrità territoriale degli Stati esistenti, precisando che gli obblighi in materia di minoranze non implicano il diritto di queste ultime ad agire in contrasto con tale principio. Questo era in accordo con la mancata attribuzione di un diritto di gruppo alle minoranze, già sancita a Helsinki e dall’Onu. A Copenhaghen venne riconosciuto il diritto di autodeterminazione per gli Stati nei quali esistono più “popoli”. Alle minoranze venne fatto espresso divieto di agire contro l’inviolabilità delle frontiere e l’integrità dei territori degli Stati esistenti. La tutela delle minoranze viene inserita dunque nell’ottica umanitaria e non in quella politica. Esse vengono relegate alla garanzia della salvaguardia del loro “folklore”, che è semplicemente l’anticamera dell’estinzione. 3) La restrizione dell’autodeterminazione al solo diritto di costituirsi in Stato nazionale Questo paradosso, che vede la legittimità della contestazione di uno Stato nazionale esistente solo a patto che se ne ricostituisca un’altro e la contraddizione insanabile fra diritto alla secessione e il riconoscimento dell’ideologia della Oxford 1924, 384. Il diritto di “autodeterminazione” è strettamente collegato ad una nozione finora controversa e irrisolta: chi sia il titolare del diritto e cosa si debba intendere per “popolo”. (4) Un’idea questa che portata alle estreme conclusioni ha come sbocco logico ad esempio la “Grande Serbia”, che riunisca tutti i serbi ed escluda tutti gli altri: le conseguenze di queste idee sono sotto gli occhi di tutti. 7 Quaderni Padani - 9 sovranità assoluta, «riduce considerevolmente il potenziale di liberazione del quale le collettività umane sono portatrici» (5). Tanto più questo è vero oggi, in una fase nella quale domina la ricerca di comunità politiche “per consenso”, per soddisfare bisogni precisi e limitatamente a certi scopi collocati nel tempo. Si tratta di un paradosso derivante dal “principio delle nazionalità” («Ogni nazione tende a trasformarsi in Stato»), che fu alla base del diritto di autodeterminazione secondo i presupposti nazionalisti ottocenteschi. 4) La preminenza dell’ordine interno degli Stati Ogni Stato esiste per un diritto riconosciuto internazionalmente e toccare la sua organizzazione è ritenuto minacciare l’ordine sociale interno e/o l’equilibrio internazionale. Questa visione internazionale coincide con l’argomento classico dei giuristi, cioè con quello classico della “unità-indivisibilità” dello Stato, principio scritto in numerosi preamboli delle Costituzioni esistenti, che viene frequentemente usato non solo dai giuristi, ma anche dagli intellettuali e che cessa automaticamente però di essere giuridico, per trasformarsi in qualcosa di puramente performativo e prescrittivo. 5) L’applicazione pratica del diritto Nel modo in cui il principio di autodeterminazione viene applicato, proprio per l’incertezza estrema della sua sfera di applicazione, si ha una forte compressione e un impoverimento della nozione democratica di “popolo”. In teoria non dovrebbero fare parte di Stati popoli che non esprimano il loro consenso in quella direzione. In pratica, per quanto visto in merito agli altri paradossi, questo è impossibile in base al diritto di autodeterminazione come viene internazionalmente inteso. Nella pratica l’autodeterminazione non è stata riconosciuta che ai popoli soggetti ad una dominazione coloniale o sotto occupazione straniera o sottomessi ad un regime razzista. Al di fuori del contesto coloniale, fino ad oggi del diritto di autodeterminazione hanno goduto solo entità ritenute “di rango statale”, quindi con alla base “popoli” come intesi nel diritto internazionale e quasi esclusivamente componenti Stati federali. Per tutte le altre “nazioni senza Stato”, accedere al rango di “popoli” rimane una chimera. (5) Plures (dir. da F. Rigaux) Le concept de peuple. Story-Scientia, Bruxelles 1988, 21. 8 10 - Quaderni Padani 6) Il diritto interno preso come indicatore di chi debba essere titolare di un diritto riconosciuto nel campo internazionale. Si è assistito così al ridicolo paradosso in base al quale è in realtà una qualificazione di diritto interno a identificare la titolarità di un diritto riconosciuto dall’ordinamento internazionale. La frammentazione degli Stati unitari centralizzati non ammette pertanto di fatto il ricorso e l’accesso al diritto di autodeterminazione e la dimostrazione di costituire un “popolo” rimane una pia illusione. Il caso dei baschi insegna. In questo caso il paradosso continua a basarsi sulla definizione “interna” di “popolo”. Inoltre, sotto questo paradosso cade anche la contraddizione fra diritto all’autodeterminazione e il principio di diritto internazionale dell’integrità territoriale degli Stati. Il diritto all’autodeterminazione, anche se sancito nel diritto internazionale, è contraddetto da sovrapposizioni e deroghe a favore dell’integrità territoriale degli Stati. Se le statuizioni di Helsinki sono servite nel caso dei maggiori processi di secessione avvenuti dopo il 1989 nell’Est europeo, è perché gli abitanti di questi Paesi hanno potuto godere del riconoscimento dell’ambiguo status di “popoli”, da parte della Comunità Internazionale. Questo ha impedito il ricorso alla forza previsto anche ad Helsinki per il ricorso all’autodeterminazione da parte delle minoranze. In tal modo questi “popoli” hanno potuto utilizzare lo schema classico della dichiarazione parlamentare di sovranità abbinata al referendum popolare confermativo. Tale schema si è rivelato attuabile soprattutto nel caso dei Paesi Baltici, per i quali del resto però si trattava non di “secessione”, ma di restaurazione di una precedente sovranità statuale e di un’indipendenza soppressa con un’occupazione manu militari, a seguito di una spartizione internazionale illegittima fra potenze (Urss staliniana e Germania nazista). 7) L’autodeterminazione come strumento per disciplinare le relazioni internazionali e non per incrementare la libertà dei soggetti Questo paradosso è un vizio di fondo del diritto in questione e trova le sue origini nel tentativo di Wilson di disciplinare le relazioni internazionali nel periodo fra le due guerre. Corrispondentemente al principio “ogni Stato una Nazione” / “ogni Nazione uno Stato”, che produce la conseguenza “confini netti fra gli Stati secondo chiare linee etniche”, egli cercò di applicare i Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 suoi quattordici punti. Basti dire che gran parte del sangue versato nell’ex Jugoslavia fu dovuto proprio negli anni recenti a questa contraddizione fra imposizione di un ordine “interstatuale” forzato in base a quel diritto e libertà effettiva dei popoli coinvolti. Non vi è del resto attualmente nel diritto internazionale alcuna idea del diritto di “autodeterminazione” nemmeno per le popolazioni titolari di territori che furono oggetto di occupazioni od annessioni più o meno violente. S e questi lampanti paradossi del diritto di “autodeterminazione” come viene inteso e riconosciuto in campo internazionale, sempre più chiari man mano che la crisi della concezione degli Stati nazionali e della stessa teoria del diritto internazionale come diritto meramente “interstatuale” avanza, si riveleranno centrali e gravidi di nuove, insanabili contraddizioni, ci sarà in futuro da aspettarsi una differenza enor- me nelle posizioni internazionali che prenderanno singoli Paesi nei confronti dei futuri appelli di comunità territoriali vecchie o nuove al diritto di “autodeterminazione”. Già importanti avvisaglie erano apparse nel caso del riconoscimento dei Paesi Baltici e di Croazia e Slovenia. Non esiste in realtà alcun accordo chiaro fra giuristi relativamente allo status del diritto di autodeterminazione nel diritto internazionale. L’applicazione e il riconoscimento di questo diritto pertanto sono questioni puramente politiche e non giuridiche e rimarranno tali finché non verrà presa coscienza del fatto che il declino del diritto internazionale come diritto “interstatuale” procede parallelamente al declino degli Stati che ne sono i soggetti e non si inventeranno conseguentemente nuove forme di riconoscimento e di disciplina delle convivenze emergenti, che sono in contrasto irriducibile con la logica tendenzialmente totalitaria di quelle statuali-nazionali esistenti. “È bello avere qui più dolcemente evitato il furore dell'estate”. Portale Renon-Ritten (BZ) (foto Silvio Lupo) Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Quaderni Padani - 11 9 Neofederalismo e “piccole patrie”: per superare lo Stato moderno di Carlo Lottieri l manifestarsi sulla scena politica contemporanea di forti rivendicazioni anti-centraliste merita una riflessione di carattere generale che, pur senza alcuna pretesa di esaurire la questione, cerchi di rintracciare le questioni teoriche che si trovano all’origine di tali lotte contro lo Stato nazionale moderno e che dia ragione del moltiplicarsi, anche nei paesi occidentali, di movimenti di carattere etnico-nazionale che si appellano alle piccole patrie e mettono in discussione gli attuali confini politici. Appare evidente, in via preliminare, che ogni analisi su tali questioni non può prescindere da una disanima - per quanto sommaria - di quelli che sono i tratti essenziali dello Stato moderno e, soprattutto, della sua versione nazionalista affermatasi nel corso dell’Ottocento. Da molto tempo, infatti, la vita politica è dominata da istituzioni che si sono imposte sopra ogni altra realtà e che tendono ad assorbire entro di loro ogni ambito della vita civile: l’economia, la cultura, l’istruzione, la religione, ecc. Non c’è storico della filosofia politica, d’altro canto, che non attribuisca un ruolo di primo piano a Nicolò Machiavelli; e questo perché nel Principe vi è il preannuncio di un tratto fondamentale dello Stato moderno: la liberazione della politica da ogni vincolo morale. Scrive Machiavelli che “è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità” (1). Il comportamento del governante, che per la tradizione giudaico-cristiana era sempre stato sottopo- I sto a ben precise norme di carattere etico (2), viene qui totalmente tecnicizzato. La politica inizia a sovrastare la morale ed è solo in virtù di questo che è possibile il trionfo delle istituzioni statali, le quali si impongono grazie ad un costante esproprio dei diritti dei singoli. Lo Stato moderno ha dichiarato guerra ad ogni forma di autonomia sociale e ad ogni forma di diritto naturale: ma esso non è mai riuscito ad imporsi compiutamente fino a quando non ha utilizzato l’appello alla nazione quale instrumentum regni. Sotto taluni aspetti la cultura liberalnazionale del XIX secolo rappresentò un (infelice) compromesso tra il principio della libertà e quello della nazione, dove a prevalere - a conti fatti - fu il secondo. Nella cultura filosofica dell’idealismo tedesco, d’altra parte, la libertà veniva intesa in termini del tutto astratti e la nazione finiva per essere pensata secondo criteri che prescindevano del tutto dalle volontà dei singoli, dalle loro opinioni, dalle loro aspirazioni. In Fichte e in Hegel, per giunta, la parola Freiheit ha un significato del tutto diverso da quello che i termini freedom e liberty assumono nei testi dei pensatori della tradizione politica inglese o scozzese. Essa non rinvia affatto alla scelta personale e all’opzione del singolo di fronte a due o più possibilità, ma ad una condizione metafisica di superamento di quella stessa finitudine che è propria dell’individuo mortale. Ad un concetto propriamente politico, quello di libertà, viene attribuito un valore che va ben al di là del suo senso tradizionale e (1) N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Feltrinelli, 1983 (1513), pag. 65. (2) Per avere un’idea della concezione medievale della sovranità, ad esempio, basta pensare al re francese Luigi IX, che sotto certi aspetti può essere considerato l’archetipo di quel monarca tradizionale così lontano dai modelli di uomo virtuoso proposti da Machiavelli. Luigi IX il Santo, infatti, consacra la propria vita nelle Crociate (fino a morire in battaglia, a Tunisi, nel 1270), investe somme notevoli nell’acquisto di reliquie sacre e nell’edificazione di chiese e cattedrali (basti pensare alla Sainte-Chapelle di Parigi), mostra una sincera devozione per l’autorità spirituale della Chiesa. Egli si considera “il luogotenente di Cristo, la sua immagine”, ma questo non gli impedisce di condividere in larga misura - nel bene e nel male quelle che sono la cultura e la sensibilità della gente comune del suo tempo (cfr. G. Duby, L’Europa nel Medioevo, Milano, Garzanti, 1987 (1984), pag. 119). 10 12 - Quaderni Padani Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 che preannuncia il trionfo di quelle ideologie politiche (basta pensare al marxismo) che per lungo tempo hanno promesso agli uomini la cancellazione di tutte le loro infermità. Non si può trascurare, a questo proposito, che la nascita della filosofia romantica avviene entro uno scenario ben preciso: nel momento in cui dal giacobinismo rivoluzionario (strano intreccio di temi caratteristici del nazionalismo francese e dell’universalismo razionalista) emerge la figura di Napoleone Bonaparte, protagonista di una vera e propria guerra all’Europa. Dopo essere stati in vario modo affascinati dal generale corso e dopo aver subito amare disillusioni, gli intellettuali tedeschi elaboreranno - per la prima volta - quell’idea di Volksgeist che in breve tempo spazzerà via quasi ogni traccia della tradizione illuminista e liberale tedesca, facendo venir meno ogni attenzione ai diritti e alle libertà del singolo. Con Johannes Gottfried Herder, ad esempio, la cultura romantica tedesca elabora una nuova concezione - totalmente storicistica - del linguaggio. Se per Kant esistevano ancora categorie universali che stavano all’origine della lingua e della possibilità per gli uomini di comunicare e di intendersi, per Herder “chi conosce anche soltanto un paio di lingue non potrà credere che sussista un legame sostanziale tra il linguaggio e il pensiero e tra il linguaggio e le cose” (3). Ma questa rinuncia all’eredità kantiana e all’idea illuministica di ragione implica già una nazionalizzazione della lingua e della cultura, e in questo modo apre la strada alla collettivizzazione dell’intera società e alla calpestazione dei diritti dei singoli. Nel mondo culturale e politico tedesco dell’Ottocento, diviso in tante piccola realtà, il pluralismo istituzionale verrà allora avvertito quale debolezza e arretratezza, quale origine di frustrazioni. E questo favorirà quella rapida trasformazione, a cui già abbiamo fatto riferimento, del concetto di libertà: sempre meno riferito agli individui e sempre più riferito ai popoli. Da un lato, così, viene proclamata l’esistenza di nazioni intese sulla base di argomenti storici, linguistici, etnici, ecc.; e dall’altro lato si attribuisce solo a tali realtà la facoltà di autodeterminarsi e di decidere del proprio futuro. L’epoca risorgimentale, tanto ricca di richiami retorici al tema dell’indipendenza e tanto povera di pratiche liberali, è il risultato di un equivoco incontro tra questa idea di nazione e questa idea di libertà. Non si può certo ignorare, ad ogni modo, come l’adozione della teoria nazionalista da parte dello Stato moderno (e perfino da parte di dinastie cosmopolite...) sia anche da interpretare come l’ennesima astuzia di classi politiche molto abili nell’utilizzare a proprio vantaggio, e secondo i rigidi schemi della Realpolitik, sentimenti identitari i quali furono poi ulteriormente radicati nella coscienza popolare tramite l’utilizzo di potenti strumenti di persuasione: istruzione pubblica, mezzi di comunicazione, ecc. Se diamo uno sguardo alla storia della penisola italiana del XVIII e XIX secolo, ad esempio, non possiamo non rilevare come lo Stato piemontese, prima, e quello italiano, in seguito, abbiano sottratto alla Chiesa cattolica alcuni tra i principali strumenti di socializzazione (4), sapendo poi fare leva in modo efficace su quell’aspirazione al conformismo e all’unità che gioca un ruolo importante in ogni animo umano (5). Ma chi osserva la storia della Prussia e della sua conquista dell’unità tedesca (un’unità territoriale e non solo: basti pensare al Kulturkampf...) ritrova dinamiche molto simili, proprie di tutti i gruppi di potere volti ad allargare la propria sfera di dominio. Per tutte queste ragioni, legate alle ideologie dell’epoca e all’opportunismo delle classi dirigenti, l’Ottocento è stato il secolo degli irredentismi, delle guerre per l’unità e del trionfo di quel principio nazionalista secondo cui ad ogni popolo dovrebbe corrispondere uno Stato: anche se per popolo non viene intesa qui una comunità di persone che decidono liberamente di vivere insieme, ma un’entità definita dall’esterno sulla (3) J. G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Bologna, Zanichelli, 1971 (1791), pag. 223. (4) In un volume di Piero Gobetti (tipico esponente di quella cultura italiana che, anche se volle definirsi liberale, si schierò sempre dalla parte dello Stato moderno) si trova un’interessante rappresentazione di alcuni tra i principali conflitti che hanno opposto il Piemonte e la Chiesa nel corso del XVIII secolo, e che hanno anticipato i contrasti ottocenteschi. Cfr. P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino, Einaudi, 1969 (1926), specialmente alle pagg. 13 ÷ 64. (5) Pareto si riferisce a tutto ciò quando parla di quel partico- lare residuo che risponde al “bisogno di uniformità”. A giudizio dell’autore del Trattato di sociologia generale, infatti, una delle molle che sono all’origine del comportamento umano è da cercare nel desiderio di non differire dagli altri. Per Pareto “se si tinge una gallina in rosso e si rimette con le proprie compagne, queste l’aggrediscono subito”; ma ancor più diffusa di questa repulsione dell’anti-conformista, tra gli esseri umani, è la tendenza a non uscire dal gregge e ad adeguarsi di propria volontà alle regole prevalenti (cfr. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Milano, Edizioni di Comunità, 1981 (1916), vol. II, pag. 161). Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 11 Quaderni Padani - 13 Liberalismo o nazionalismo Il tentativo di coniugare lo spirito nazionalista con la tradizione liberale classica, antistatalista e anticentralista, era comunque destinato a fallire. Sul piano intellettuale, infatti, questa pretesa di tenere in equilibrio le ragioni della libertà e quelle della nazione (intesa quest’ultima secondo rigidi schemi collettivisti) inizia a venir meno nel momento in cui la Germania, a conclusione del conflitto del 1870, si annette l’Alsazia e la Lorena: terre di lingua e cultura tedesche che alla fine del secolo precedente erano state perfino le vittime dell’intolleranza repubblicana e omologante dei giacobini, ma che in quel momento per molte e differenti ragioni - aspiravano a rimanere (o a tornare ad essere) francesi. Nel noto giuramento di Bordeaux, i rappresentanti alsaziani e lorenesi si ribellarono con veemenza all’occupazione tedesca e alla sua ratifica da parte dell’Assemblea nazionale francese, pretendendo che venisse riconosciuto alle popolazioni il diritto a decidere in merito al proprio futuro: “Nous déclarons encore une fois nul et non avenu le pacte qui dispose de nous sans notre consentement” (6). La riflessione di Ernest Renan (7), al pari di quella di Numa-Denys Fustel de Coulanges (8), proviene da questa amara esperienza storica. Di fronte all’alternativa tra nazionalismo e liberalismo, Renan sceglie il secondo. E in questo modo pone le premesse per una reinterpretazione non coercitiva del concetto di nazione. Egli sa bene come gli elementi identitari siano importanti per definire una comunanza nazionale e non ignora che la nazione è “una grande solidarietà”, la quale “presuppone un passato”. Subito aggiunge, però, che essa “si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme” (9). A Renan sembra del tutto evidente che ogni libera e volontaria adesione ad un’identità e/o ad un’istituzione si giustifica, storicamente, sulla base di affinità, di legami e di altre relazioni oggettivamente rilevabili a partire dalle tradizioni, dalla cultura, dalla religione e da altri fatti, ma ugualmente gli appare chiaro che questi ultimi non possono essere più o meno arbitrariamente usati per calpestare la libertà di chi intende costruire il futuro seguendo le proprie inclinazioni e le proprie aspirazioni. In altre parole: è ragionevole pensare che persone accomunate dalla storia vogliano vivere assieme, e che lo decidano se sono in condizione di farlo. Ma devono essere esse stesse a stabilirlo, senza che qualcuno pretenda di sostituirsi alla loro autonoma scelta sulla base di presunti appelli alla scienza o ad altro. Lo storico francese, insomma, opta per gli individui: per la loro mutevole volontà e per il pluralismo che essa comporta. Ben consapevole che tale approccio liberale è destinato a minare alle fondamenta lo Stato moderno, in quanto Stato nazionale centralizzato, e ad aprire un’epoca di rivendicazioni e lotte per l’indipendenza. Dinanzi ai teorici dell’etno-linguismo tedesco, di fronte a storici come Mommsen e Strauss (i quali pretendevano di anteporre il parere di taluni studiosi tedeschi alle concrete opinioni degli abitanti di Metz e di Strasbourg), Renan si appella alle decisioni dei singoli e al fatto che le istituzioni politiche non possono trascendere le loro opinioni. Egli chiarisce: “Abbiamo scacciato dalla politica le astrazioni metafisiche e teologiche. Cosa resta, dopo? Restano l’uomo, i suoi desideri, i suoi bisogni” (10). Vi è, in queste parole, una grande onestà intellettuale, dal momento che Renan ha qui la forza di prendere atto che una società la quale abbia rinunciato a credere nell’origine divina del potere regale (tanto da ghigliottinare il proprio monarca) non può certo aderire a quella sorta di nuova religione civile propagandata dal patriottismo nazionalista. La fine della teologia politica tradizionale porta con sè anche l’eclissi di ogni altra sacralizzazione della politica, la quale diventa il luogo d’incontro di uomini liberi e padroni del proprio destino. Un altro importante autore di lingua francese, Joseph de Maistre, si era perfettamente reso conto di quanto fosse divenuto fragile lo Stato moderno nel momento in cui, con la decapitazione di (6) Traduzione: “Dichiariamo ancora una volta nullo e mai avvenuto il patto che dispone di noi senza il nostro consenso”; citato in Raoul Girardet, Le nationalisme français, Parigi, Seuil, 1983, pag. 37. (7) Cfr. E. Renan, Che cos’è una nazione, Roma, Donzelli, 1993. (8) Si veda, in particolare, il seguente scritto: N.-D. Fustel de Coulanges, L’Alsace est-elle allemande ou française? Réponse à M. Mommsen, Parigi, 1870. (9) E. Renan, Che cos’è una nazione, op. cit., pag. 20. (10) Ibidem. base di (arbitrari) criteri di ordine linguistico, storico, etnico, ecc. In ossequio ad una logica positivista sempre più indifferente alle ragioni e ai diritti dei singoli, dei gruppi e delle comunità. 14 - Quaderni Padani 12 Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Luigi XVI, si era definitivamente messa da parte ogni provenienza divina del potere politico. Nel suo Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane de Maistre si domanda come mai potrà “una legge essere al di sopra di tutti, se qualcuno l’ha fatta?”, ben consapevole che nel momento in cui il potere viene desacralizzato, ogni successivo tentativo di ri-sacralizzarlo sarà votato prima o poi al fallimento e sottoposto ad ogni genere di obiezione, scetticismo, incredulità. Egli comprende pure che, con la crisi della trascendenza del punto di vista dello Stato rispetto a quelli individuali, l’obbligazione politica in quanto tale tende a svanire: ciascuno diviene sovrano a se stesso. Renan riparte da qui, convinto che questa nuova situazione - che ha liberato la politica dalle astrazioni teologiche e metafisiche - comporti una disgregazione delle istituzioni pubbliche: “La secessione, mi direte, e, alla lunga, la frammentazione delle nazioni sono la conseguenza di un sistema che mette questi vecchi organismi alla mercé di volontà spesso poco illuminate”. Per poi aggiungere: “È chiaro che in una materia come questa nessun principio deve essere spinto all’eccesso. Le verità di questo genere sono applicabili solo nel loro insieme e in modo assai generale. Le volontà umane cambiano; ma cosa non cambia quaggiù? Le nazioni non sono qualcosa di eterno. Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine” (11). Benché egli stesso si spaventi di fronte agli spazi di libertà che la sua riflessione ha aperto e per questo motivo parli dell’esigenza di non spingere all’eccesso tali idee (tanto più che egli partecipa dell’aristocraticismo di molti intellettuali del tempo, che consideravano irrazionale ogni preferenza della plebe e - come amavano dire - della folla (12) ...), Renan sgancia la nazione da ogni determinazione oggettiva. In questo quadro lo stesso concetto di identità è destinato, comunque, ad assumere significati nuovi. Non vi è alcun dubbio che le lotte per l’indipendenza che attraversano la nostra epoca e che vedono protagoniste tante piccole patrie coinvol(11) E. Renan, Che cos’è una nazione, op. cit., pagg. 20-1. (12) Basta pensare agli scritti su tale tema alquanto scivoloso di autori già allora molto contestati e pure molto letti: da Gabriel Tarde a Scipio Sighele, fino a quel Gustave Le Bon a cui si deve la Psicologia delle folle del 1895 e che ebbe un’influenza non irrilevante sulle scienze sociali e sul dibattito politico. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 gono anche, e forse soprattutto, popoli definibili in quanto tali secondo i criteri più tradizionali. Ed è questo il caso dei baschi, degli irlandesi, dei curdi, dei québecois, dei ceceni, dei tibetani, ecc.: gruppi minoritari che si differenziano dal resto della popolazione sulla base di forti differenziazioni etniche, linguistiche, religiose o storico-culturali. Ma è ugualmente vero che stiamo pure assistendo all’emergere di concetti del tutto nuovi, che prescindono dal riferimento a quei tratti sulla base dei quali, tradizionalmente, vengono definiti i popoli. Quella che sta profilandosi, insomma, è una teoria postmoderna della nazionalità, la quale è fortemente condizionata da alcune importanti esperienze storiche e dalla rielaborazione che esse hanno ricevuto. Se poniamo mente a quella che fu l’Europa continentale durante l’epoca dei nazionalismi aggressivi e centralizzatori, dobbiamo subito riconoscere che due furono le principali realtà che - seppure in modo molto diverso - seppero resistere ai patriottismi risorgimentali o che comunque si sforzarono di contrastarli: la federazione elvetica e l’impero asburgico. Costituitesi fin dall’origine quali realtà sovranazionali e pluraliste, queste due istituzioni centro-europee rappresentano (anche simbolicamente) la matrice di alcune nuove attitudini dinanzi al problema della nazione e dell’indipendenza. Quando volgiamo la nostra attenzione verso la realtà svizzera, ad esempio, non possiamo non riconoscere che, pur con le sue ovvie manchevolezze, essa rappresenta ancora oggi - all’interno dell’Europa - il migliore esempio di istituzione federale: in senso liberale e anticentralista. E non c’è affatto da stupirsi se nelle sue elaborazioni intellettuali il neofederalismo contemporaneo guardi alla Confoederatio Helvetica come al luogo in cui meglio si è espressa la resistenza delle comunità politiche di fronte alla vocazione armonizzatrice, omologante e predatoria del potere centrale. In Svizzera, popoli che hanno identità differenti (sul piano linguistico, religioso, storico, ecc.) convivono positivamente in ragione del loro voler stare assieme e del carattere in qualche misura contrattuale, poiché federale, del patto istituzionale che li collega. Ma la stessa idea di Mitteleuropa, che ha svolto un ruolo di rilievo nell’elaborazione politica del dissenso anti-sovietico (in Ungheria e in Cecoslovacchia, in modo particolare), è in grado di aiutarci a rinvenire elementi di questa particolare de-oggettivazione dell’identità nazionale quaQuaderni Padani - 15 13 le ha luogo nell’epoca postmoderna e che già fu preannunciata dall’importante conferenza di Renan del 1882. Per un dissidente di Praga o di Budapest, riconoscersi erede delle istituzioni asburgiche e della cultura dell’Europa di mezzo ha significato, per molti anni, il miglior modo di sfuggire ad un’inaccettabile reclusione entro un’Europa orientale essenzialmente russa e, in quegli anni, dominata dal regime sovietico. Come ha scritto André Reszler, quella della Mitteleuropa è stata allora un’identité de combat: un’identità antagonista basata più sulla volontà di sottrarsi all’universo concentrazionario socialista che non sulla determinazione a dar vita ad un nuovo impero o ad un nuovo Stato. Ma questo tema dell’identità mitteleuropea e, per certi versi, lo stesso pluralismo svizzero ci obbligano a riconoscere che l’identità nazionale non è da intendersi sempre e necessariamente in senso tradizionale. Nell’epoca attuale, segnata da una profonda crisi delle istituzioni politiche, la nazione non è più pensata quale premessa indispensabile alla costruzione di uno Stato. Comunità che si riconoscono quali membri di una medesima identità possono decidere liberamente di appartenere a Stati differenti, e magari insieme a comunità politiche di tutt’altra tradizione. In questo senso, è ragionevole sostenere che chi oggi parla di Padania pensa evidentemente ad una nazione sovranazionale, ad una nazione di nazioni, ad una nazione pluralista: seppure non priva di elementi comuni e unificanti. Come del caso della Mitteleuropa, l’identità padana pare costituirsi essenzialmente in funzione polemica: in opposizione al centralismo romano, alla meridionalizzazione culturale delle regioni alpinopadane e, soprattutto, alla redistribuzione discriminatoria attuata dallo Stato italiano ai danni delle aree più produttive del paese. La riflessione teorica sulla dottrina neofederale conferma come all’interno del dibattito politico contemporaneo il tema della comunità politica stia per essere progressivamente riformulato mettendo da parte le concezioni gerarchiche proprie dell’età moderna. L’obbligazione politica è destinata a lasciare posto alla delega privata, il contratto sociale cede spazio di fronte al contratto tout court. Sotto questo punto di vista è interessante rilevare come in taluni scritti di Gianfranco Miglio emerga l’ipotesi di una graduale trasformazione in senso privatistico delle istituzioni pubbliche che, da un lato, recupera un modello proprio delle più antiche e tradizionali strutture politiche padane (i liberi Comuni medievali (13)) e, dall’altro, getta un ponte verso il liberalismo integrale di un autore come Murray N. Rothbard (14). (13) Tali questioni sono state affrontate in modo molto interessante anche da Boudewijn Bouckaert in un suo recente saggio; cfr. B. Bouckaert, “L’aria delle città rende liberi. Le città medievali come comunità volontarie”, Biblioteca della Libertà, ottobre-dicembre 1994, n. 127, pagg. 5 ÷ 58. (14) Cfr. M. N. Rothbard, L’etica della libertà, Macerata, Liberilibri, 1996. (15) G. E. Rusconi, Se cessiamo d’essere una nazione, Bologna, Il Mulino, 1993. (16) G. E. Rusconi, Se cessiamo d’essere una nazione, op. cit., pag. 23. 16 - Quaderni Padani 14 Oltre la nazione, oltre lo Stato moderno Il conflitto del nostro tempo, allora, è innanzi tutto il conflitto tra le forze che difendono lo Stato moderno (nazionale, accentrato, interventista) e quelle che cercano di liberare la società civile dai vincoli imposti dalla tecnostruttura legale. Ed è quanto mai significativo che il tema della solidarietà sociale (coatta) si saldi sempre di più a quello della solidarietà nazionale (ugualmente coatta). Come ha scritto Gian Enrico Rusconi a proposito dell’Italia (15), se cessiamo di essere una nazione siamo anche portati a pensare che non vi è alcuna buona ragione di utilizzare le norme per ridistribuire risorse e favorire taluni gruppi e talune aree geografiche. Va aggiunto che a proposito della questione padana, lo stesso Rusconi ha perfettamente ragione quando afferma che “la posta in gioco della contestazione leghista non è soltanto l’unità nazionale storica, ma una certa idea di cittadinanza nazionale e universale con essa concresciuta” (16): ovvero sia lo Stato moderno che ha dato vita al Welfare State e che è basato sul monopolio della legge, sulla centralizzazione del potere, sull’arbitrio fiscale di un ceto politico-burocratico che nega i diritti fondamentali dei singoli e delle comunità. La difesa, da sinistra, dell’idea moderna di patria dimostra come sia proprio la collettivizzazione nazionale delle identità a favorire e rendere possibile la collettivizzazione solidarista delle risorse economiche. Tutto questo, però, sta franando sotto i nostri piedi. Non soltanto vi sono ormai un gran numero di nazioni (universalmente riconosciute come) che sono prive di Stato, ma talune di queste rifiutano volontariamente la coincidenza stessa tra Stato e nazione. Ed uno dei tratti più caratteristici della logica neofederale sta proprio nel su- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 peramento dell’indebita confusione tra istituzioni politiche e identità. Il federalismo autentico, infatti, non soltanto muove dall’idea che le comunità politiche hanno il diritto di stringere patti ed alleanze tra di loro: liberamente e senza perdere alcuno dei propri diritti. Un altro concetto cardine è da rinvenire nella facoltà dei singoli di costituirsi in comunità sulla base di opinioni, aspirazioni e volontà che non possono essere messe in discussione. È proprio in questo senso che si può legittimamente parlare di una vocazione libertaria del neofederalismo. Quanto sta avvenendo nell’Italia settentrionale è da inquadrare entro questo scenario. La riemersione delle piccole patrie e di identità a lungo negate, la contestazione di un’unità nazionale mai volontariamente adottata dalle comunità politiche che compongono la Repubblica italiana, la nascita di nuove sovranità simulate, la richiesta di una maggiore concorrenza istituzionale e - in tal modo - di più ampie garanzie per gli individui e per i gruppi, l’aspirazione a relazioni neofederali: tutto quanto sta iniziando a manifestarsi nei dibattiti sul futuro della Padania segnala come i vecchi paradigmi politici stiano entrando in crisi. Nessuno sa, e nessuno può oggi sapere, se la federazione padana in fieri conquisterà la propria indipendenza. E non è neppure agevole sapere se e fino a che punto questa teoria postmoderna della nazionalità riuscirà ad emergere: vincendo le resistenze di chi pretende di difendere una concezione per così dire kelseniana della nazione (secondo la quale sono nazioni soltanto quelle realtà sancite come tali dalle leggi...) e, soprattutto, il permanere del positivismo dei Mommsen, degli Strauss e di tutti coloro che sono persuasi di possedere la chiave a partire dalla quale si può definire dove una nazione inizia e dove finisce. Non si può neppure essere certi che eventuali comunità politiche padane del tutto indipendenti, e tra loro federate, sappiano evitare la riproposizione dei patriottismi ottocenteschi: destinati a favorire politiche centralizzatrici e pianificatorie. È ragionevole ipotizzare, però, che le ragioni libertarie e anti-nazionaliste espresse dalle spinte secessioniste in varie parti del mondo non potranno facilmente essere accantonate nel momento in cui i progetti indipendentisti dovessero risultare vincenti. D’altra parte, questo risultato sarà un giorno ottenuto soltanto se i protagonisti di tali lotte sapranno costruire una coalizione di sentimenti, interessi, ragioni e volontà: senza adottare in modo esclusivo nessuna delle motivazioni (economiche, etniche, culturali, religioAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 se, ecc.) che inducono molti a rivendicare identità che sono negate e che le classi politiche al potere combattono duramente. Non si può negare, d’altra parte, che vi sia una specificità dell’identità padana, dato che la storia e la tradizione dell’Italia settentrionale sono segnate da un gran numero di differenze e di contrasti. Se pure esiste una comunanza - a vari livelli - tra le molte nazioni storiche che compongono l’area padana, se certo vi sono elementi che unificano e accomunano realtà anche molto diverse, l’unico argomento veramente decisivo che può essere opposto a chi combatte l’ipotesi indipendentista è da rinvenire nell’esigenza che non si possa in alcun modo ignorare la volontà di chi vive nella Padania. Più che altrove, insomma, e più che nel Québec o nel Tibet, è nel Nord della penisola italiana che le tesi sulla nazionalità espresse da Ernest Renan devono essere prese sul serio. Un’identità storica pluralista quale è quella Padana, allora, può essere premessa ad un ordine politico maggiormente liberale, conseguente ad un nuovo modo di intendere l’identità nazionale e il suo rapporto con lo Stato. Molti secoli fa l’Europa ha conosciuto una grande fase di crescita civile, di sviluppo economico e di dinamismo culturale per merito di quella rivoluzione capitalista e comunalista che ha visto in prima fila le libere città dell’Italia centro-settentrionale e delle Fiandre. A distanza di tanti anni l’area padana conosce una nuova opportunità di elaborare istituzioni e relazioni umane più libere e meno oppressive, più rispettose dei diritti della persona. È chiaro, ad ogni modo, che il successo di tale progetto non potrà essere facilmente raggiunto senza una demitizzazione dello Stato e, in particolare, dei confini: non più da considerarsi quali realtà “sacre e inviolabili”, secondo i precetti di quell’organicismo collettivista che ha causato innumerevoli lutti alle popolazioni europee. Ma il ripensamento delle frontiere e del loro ruolo rinvia ancora una volta ad una riformulazione dello stesso Stato moderno: una realtà che da almeno cinque secoli opprime le comunità politiche volontarie (17) e che oggi pretende di sbarrare la strada alla loro volontà di riconquistare le libertà perdute. (17) Quelle che Murray N. Rothbard definisce le nazioni per consenso. Cfr. M. N. Rothbard, “Nations by Consent: Decomposing the Nation-State”, Journal of Libertarian Studies, vol.11, n.1, fall 1994, pagg. 1 ÷ 10. Quaderni Padani - 17 15 Criteri per l’applicazione del diritto di autodeterminazione di Gilberto Oneto parole in Italia sono oggi tutti federalisti e pronti a trasformare questo paese in una repubblica federale. In realtà tutto il vecchio establishment è terrorizzato da ogni possibile cambiamento e cerca di guadagnare tempo dedicandosi a roboanti professioni di federalismo, a discussioni lunghissime, a sottili teorizzazioni bizantine in attesa che “passi la nottata”, che di federalismo non si parli più e che tutto continui come prima. In questa ottica opportunista vanno letti sia le cortine fumogene presidenzialiste che le proposte di riforme regionaliste. Attribuiranno qualche tassa in più alle Regioni e tutto finirà lì; anzi potranno dire alla gente: avete voluto il federalismo (fiscale e non) e avete visto, vi ha portato solo nuove tasse, nuova burocrazia parassitaria e nuova inefficienza! Qualcuno ogni tanto si azzarda in qualche funambolico esercizio di accorpamento di alcune delle Regioni esistenti ben sapendo che non se ne farà nulla e che nessun apparato burocratico, anche il più inutile, rinuncerà mai ad esistere (1). In realtà una delle più probanti cartine al tornasole della non volontà di cambiamento è proprio rappresentata dalla scarsa attenzione che viene mostrata verso la discussione sulle entità che dovrebbero formare la nuova federazione (o che avrebbero solide ragioni di esercitare il loro diritto di autodeterminazione). Si guarda anzi con fastidio ad ogni iniziativa in questo senso: l’articolo 132 della Costituzione è - ad esempio - considerato una pericolosa jattura e si liquidano A come noiose stravaganze tutti i tentativi di ragionamento sulle possibili applicazioni positive di tale norma (2). In più, si utilizza capziosamente il paravento di un federalismo “teorico e di maniera” per combattere ed esorcizzare ogni serio tentativo di ridiscussione del centralismo statalista: alle entità vere che stanno (ri)sorgendo nella coscienza popolare si contrappongono entità burocratiche (le Regioni esistenti) o regioni-patacca (il Nord-Est) per creare confusione e distogliere l’attenzione e la tensione dai problemi reali. Ogni riforma federalista o indipendentista deve invece essere realizzata sulla base di entità organiche vere e non su suddivisioni burocratiche fasulle. Le attuali Regioni italiane sono principalmente il parto di invenzioni ministeriali, il risultato di accorpamenti di Provincie prefettizie e di giochi politici che hanno scarsi legami con le realtà oggettive del territorio, della sua storia e delle sue popolazioni. Dare oggi maggiori poteri a queste regioni significa ripetere l’esperienza dell’indipendenza degli Stati africani che, salvo poche eccezioni, avevano confini derivati da maneggi colonialisti e da patteggiamenti fra stati europei e nulla avevano a che vedere con le reali suddivisioni etnolinguistiche, culturali, storiche o altro. Quello che è successo laggiù lo sanno tutti. Qui si adotta lo stesso atteggiamento colonialista che non mostra alcun rispetto per la volontà popolare. Sulla carta geografica della Padania questa attitudine burocratico-colonialista ha partorito suddivisioni artificiose e umilianti per la cultura (1) I Quaderni Padani si sono già occupati di queste proposte (serie e stravaganti) di divisione nel numero 1 (estate 1995) e a quello studio si rimanda ogni riferimento. (2) Articolo 132. Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di abitante, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse. Si può, con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra. 16 18 - Quaderni Padani Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 e la volontà dei popoli che l’abitano: così - ad esempio - i confini della Regione Piemonte hanno poco a che fare con quelli della Patria Cita; lo stesso vale per la Lombardia; l’Emilia è una pura invenzione burocratica, oltre a tutto gravata da un nome infausto che ricorda una occupazione violenta e sanguinosa, uno dei primi veri genocidi della storia. Si tratta di una denominazione tanto poco felice che ad un certo punto hanno dovuto attaccarle quella di Romagna, infaustamente bizantino, ma almeno consistente in termini di permanenza storica. Solo la Liguria e il Friuli assomigliano con una certa approssimazione a quello che dovrebbero essere. Intere comunità nazionali e storiche (come i Ladini, gli Occitani e i Valdesi) sono state ignorate e inghiottite dalla protervia e dall’ignoranza della geografia colonialista. In realtà ogni vero autonomista e federalista sa che ogni entità ha ragione di essere proprio solo in funzione delle sue caratteristiche. Queste non contemplano l’uniformità: non devono cioè avere necessariamente dimensioni territoriali simili o avere lo stesso numero di abitanti. Uniformità di superficie territoriale e di numero demografico sono criteri giacobini (adottati dai giacobini per delineare i Dipartimenti rivoluzionari) e sono volutamente nemiche di ogni realtà organica. Non è un caso che esse ricompaiano nell’articolo 132 della Costituzione italiana e ne appesantiscano l’applicazione. Le vere entità autonomiste nascono invece dalle diversità e ammettono le diversità, esse sono inevitabilmente molto differenti fra di loro anche per dimensioni, abitanti e forma fisica: la carta delle vere autonomie è inevitabilmente una carta di enclavi, un complicato patchwork fatto di scampoli molto diversi per dimensione, forma, colore, disegno e tipo del materiale. A l momento di dover applicare il diritto di autodeterminazione (per delineare le entità che intendono fare parte di una federazione o quelle che si vogliono rendere indipendenti, o desiderano chiedere l’annessione ad un altro Stato) occorre anche poter definire con precisione chi sono gli aventi diritto di espressione, ovvero quali siano gli ambiti geografici entro i quali può essere esercitata la facoltà di autodeterminazione. Tutte le dichiarazioni di principio sul diritto di autodeterminazione parlano di precisi legami col territorio ma nessuna dà delle definizioni precise sui criteri che vanno adottati per delimitare lo Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 spazio entro il quale tale diritto può essere esercitato. Tutti i documenti internazionali parlano di diritti di “popoli” e di “minoranze etno-linguistiche” senza entrare nel merito della definizione di tali entità e - soprattutto, nel trattare dei loro diritti di salvaguardia e di autodeterminazione senza specificare come questi debbano essere esercitati rispetto all’estensione territoriale del voto. In altre parole, si sottolinea il diritto di una minoranza di difendere la propria specificità ed eventualmente di diventare uno stato indipendente, ma non si definisce quali siano i limiti geografici delle aree da sottoporre a voto di autodeterminazione, chi debba avere il diritto di partecipare al voto, se questo debba essere limitato alla sola minoranza o concesso anche alla maggioranza da cui ci si vuole staccare. Non si dice se debbano essere consultati solo gli abitanti di un’area circoscritta e quali siano i criteri per stabilire chi abbia il diritto di esprimersi. I casi nei quali il diritto di autodeterminazione sia stato espresso mediante un referendum popolare sono relativamente pochi e non possono costituire un sicuro riferimento giuridico. A decidere sull’indipendenza della Norvegia sono stati nel 1905 - per espressa decisione delle due parti coinvolte - solo i Norvegesi e all’interno di confini amministrativi consolidati che coincidevano alla perfezione con quelli etno-linguistici. Largamente analoga è stata la situazione del Québec: si è votato solo all’interno dei confini amministrativi dello Stato e hanno votato tutti coloro che al momento vi risiedevano. Non sono perciò state escluse dal voto le minoranze anglofone comprese all’interno del Québec ne sono state coinvolte le comunità francofone presenti negli stati confinanti: visto il margine minimo che ha determinato l’esito del voto, una diversa definizione delle aree geografiche da sottoporre ad autodeterminazione (con ritocchi anche solo marginali degli attuali confini amministrativi che non coincidono con quelli etno-linguistici) avrebbe quasi sicuramente ribaltato il risultato. Questo ci porta a considerare con grande at(3) Il gerrymandering consiste nel trucco di suddividere il territorio in distretti elettorali che diano ad un partito politico (o ad una opzione di scelta) la maggioranza nel maggior numero di distretti, contenendo la forza elettorale della parte avversa nel minor numero di distretti possibile. Il termine deriva da Elbridge Gerry (1744-1814), governatore del Massachussets, che l’aveva applicato con maliziosa efficienza. 17 Quaderni Padani - 19 tenzione la possibilità che accorte operazioni di gerrymandering (3) possano pilotare l’esito di elezioni o la predominanza di una componente etnolinguistica (o anche solo elettorale) su di un’altra: la suddivisione delle contee dell’Ulster nel 1920 ne è stato un triste esempio. I n mancanza di consolidati riferimenti o di esempi giuridici condivisi, si possono a questo punto avanzare delle proposte di soluzione che abbiano valenza di principio, che siano rispettose del diritto di autodeterminazione, della democrazia e di tutti i valori di libertà in gioco. Nello specifico caso di un’area che deve essere sottoposta a un referendum di autodeterminazione, di un popolo o di una minoranza che si vogliono costituire in comunità organizzata o che vogliono secedere da uno stato esistente per costituirne uno nuovo o per aggregarsi ad un altro, è giusto e necessario che a partecipare al processo decisionale siano chiamati solo gli individui e i gruppi direttamente interessati e non componenti estranee cui questi sono stati eventualmente collegati mediante suddivisioni amministrative casuali o maliziose. Per fare un caso concreto e conosciuto: se ai Sudtirolesi fosse finalmente concesso di scegliere liberamente il loro destino politico essi dovrebbero - ad esempio - essere in condizione di poterlo fare da soli in quanto Sudtirolesi. In altre parole sull’eventualità di indipendenza del Sudtirolo dovrebbero essere chiamati ad esprimersi solo gli abitanti del Sudtirolo e non già tutti i cittadini della Repubblica italiana. E all’interno dello stesso Sudtirolo dovrebbero essere chiaramente individuati gli aventi diritto che non coincidono necessariamente con i residenti in sito in quel momento. Si porrebbe cioè con evidenza il delicato problema di stabilire chi abbia il diritto di esercitare il potere di autodeterminazione e in quale forma, quali cioè siano i criteri che possano definire ed eventualmente limitare tale diritto. Questi possibili criteri concernono: 1) la delimitazione delle aree geografiche, 2) la definizione degli aventi diritto all’interno di tali aree e 3) l’essenza stessa dell’oggetto della decisione (limiti decisionali). Delimitazione dell’area geografica Nel caso che l’area interessata da rivendicazioni coincida con una suddivisione burocratica in atto, questa va rispettata. Si tratta di una eventualità piuttosto rara perché, in generale, gli Stati 18 20 - Quaderni Padani oppressori tendono a smembrare le entità oppresse. Abbiamo visto che questo è stato il caso della Norvegia; potrebbe da noi essere con buona approssimazione il caso della sola Provincia di Bolzano i cui confini amministrativi coincidono con quelli storici ed etno-linguistici con la sola eccezione delle comunità ladine e - in particolare dell’Ampezzano e del Livinallongo. Nella più parte dei casi però - e sicuramente in quasi tutta la situazione italiana - i confini amministrativi non coincidono con quelli organici delle comunità che vogliono esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione. In questi casi i limiti dell’area referendaria vanno ricercati applicando criteri di valore primario e secondario. I primi riguardano la comunanza etno-linguistica, la storia, l’omogeneità culturale e sociale e i caratteri produttivi. I secondi derivano dalle divisioni amministrative esistenti e dalla geografia. Una importante osservazione va fatta sulla possibilità di suddividere ulteriormente al suo interno l’area referendaria e di stabilire una unità territoriale minima che possa esercitare autonomamente il diritto di scelta: questa potrebbe essere trovata in un’area omogenea (secondo i criteri sopra espressi) o addirittura nella comunità locale. Questo permetterebbe una scelta più libera e differenziata. Si ricorda il caso del Comune di San Colombano al Lambro che non ha voluto far parte della neocostituita Provincia di Lodi e che è rimasto una isolata enclave della Provincia di Milano da cui è territorialmente separato. Definizione degli aventi diritto Per quanto riguarda l’esercizio del diritto di scelta referendaria degli individui presenti nell’area definita con i criteri sopra esaminati, vanno proposti alcuni criteri selettivi. Devono sicuramente poter votare tutti quelli che lì ci sono sempre stati (che hanno perciò acquisito un “diritto storico”) e anche quelli che ci sono stati un periodo sufficiente per acquisire dei meriti e dei “diritti personali” nei confronti della comunità locale. Devono invece essere esclusi dal diritto di autodeterminazione: a) quelli che sono appena arrivati, b) quelli che sono arrivati da più tempo ma che hanno commesso reati rilevanti contro la comunità, e sicuramente c) quelli che si trovano lì proprio in funzione di una situazione di affermazione politica (o di sopraffazione) che si Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 vuole cambiare. In quest’ultima fattispecie rientrano - ad esempio - gli immigrati funzionari dello Stato di cui si deve decidere la sopravvivenza e - a maggior ragione - poliziotti e soldati che sono lì per affermare una potestà che si vuole mettere in discussione. Una ragionevole ipotesi di lavoro potrebbe essere rappresentata dal consentire il voto a tutti i cittadini residenti da almeno due generazioni, a tutti i residenti da almeno dieci anni che non abbiano subìto condanne e che non siano dipendenti dello Stato. Limiti decisionali L’ultima (ma non ultima) considerazione tocca la legittimità delle scelte. Nel caso di richiesta di ampia autonomia o di indipendenza, questa deve essere giustificata dalla verifica dai parametri di oggettiva diversità di cui si è parlato più sopra. Occorre in ogni caso garantire i diritti delle nuove minoranze che potrebbero formarsi con il nuo- Proposta di suddivisione federale d’Italia in cinque Stati (Padavo assetto politico: la cosa mi- nia, Etruria, Italia, Sardegna e Sicilia), tre “Euregioni” (Arpigliore consiste nello stabilire i tania, Tirolo e Istria) e un Distretto federale (Roma). diritti di tutte le minoranze pri- Le aree puntinate sono da sottoporre a referendum popolare per ma ancora di esercitare il dirit- deciderne l’appartenenza to di autodeterminazione in modo da tutelarle tutte, qualsiasi sia l’esito del voto. el caso specifico e concreto dell’Italia, ci Nel caso invece di opzione per uno Stato esi- sembra che possano poter legittimamente eserstente, si deve verificare che questo a) sia demo- citare il loro diritto di autodeterminazione (sia a cratico e federalista, b) assicuri alle nuove mino- favore di una forte autonomia all’interno di qualranze tutti i diritti che saranno stabiliti prima che forma di riassociazione a struttura federale, del voto, c) abbia reali comunanze e affinità (sto- che di indipendenza all’interno di una confederiche, culturali, etno-linguistiche) con chi vuole razione, che di pura e semplice secessione) l’Aresercitare l’opzione e d) sia disposto ad accettare pitania, la Padania, il Tirolo, l’Etruria (Toscana), l’esito referendario senza condizioni (o con con- la Sardegna e la Sicilia. dizioni da discutere preventivamente). Sui caratteri e sulla legittimità dell’autonomia Non sono cioè accettabili situazioni abnormi della Padania e sui suoi confini (intesi come concome il progetto balordo (e ambiguo) avanzato fini entro i quali esercitare l’opzione) ci siamo alla fine della seconda guerra mondiale di stac- già soffermati sul numero 3 dei Quaderni Padacare la Sicilia per unirla agli Stati Uniti d’Ameri- ni (4). ca o opzioni come quella esercitata dal Voralberg Nel caso del Tirolo sono decisamente prevalenti nel primo dopoguerra a favore dell’annessione alla Svizzera e da questa rigettata. (4) Gilberto Oneto, “I confini della Padania”, su Quaderni Pa- N dani (n. 3, gennaio-febbraio 1996), pagg. 10 ÷ 18. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 19 Quaderni Padani - 21 due elementi: il confine storico (che coincide quasi completamente con quello amministrativo attuale) che è antico e consolidato e la divisione etno-linguistica. L’Etruria potrebbe coincidere (in una ipotesi di minima estensione) con la Toscana etno-linguistica (o storica) o allargarsi anche all’Umbria e alla Provincia di Viterbo (facendo prevalere antichi legami storici e la forza dei residui genetici) e alle Marche (privilegiando una forte omogeneità socioeconomica). Per la Sicilia e la Sardegna i caratteri storici e etno-linguistici sono del tutto sovrapponibili a quelli geografici, con la sola secondaria eccezione di talune isole alloglotte. L’Italia propriamente detta si presenta in compenso come una struttura piuttosto omogenea sotto tutti i punti di vista (con la sola presenza di qualche isola alloglotta) e con l’unica e specialissima possibile anomalia di Roma che potrebbe però, in una ipotesi federale, diventare un Distretto federale o trovare uno statuto speciale con forti componenti internazionali che le derivano dalla presenza del Vaticano. Molto interessante è affrontare il problema della possibile esistenza di “Stati cuscinetto” (Pufferstaat) indipendenti o costruiti secondo lo schema delle “Regioni europee” (“Euregioni”), dotate di forte autonomia sovrapposta a un delicato equilibrio di sovranità intrecciate (5). Un progetto del genere può riguardare la Valle d’Aosta, il già citato Tirolo e l’Istria. Le più recenti aspirazioni Savoisiane e l’autonomia storica della Valle potrebbero consentire la creazione di uno stato cuscinetto arpitano, do- (5) Si vedano: Gualtiero Ciola, “Der Pufferstaat: lo stato cuscinetto”, su Quaderni Padani (n. 5, maggio-giugno 1996), pagg. 26 ÷ 28. e Michel Korinman, “Euroregioni o nuovi Länder”, su Limes (n. 4, 1993), pagg. 65 ÷ 78. 20 22 - Quaderni Padani tato di doppia sovranità o largamente autonomo. Questo permetterebbe anche di porre fine all’ambiguità del francesismo di Aosta che tornerebbe arpitana a tutti gli effetti. Nel processo decisionale potrebbero anche essere coinvolte le valli arpitane del torinese e le altre aree franco-provenzali al di fuori della Savoia storica. Ancora più facilmente definibile è la situazione del Tirolo che potrebbe ritornare ai suoi confini storici ponendo fine a una dolorosa divisione durata ottant’anni: esso potrebbe però comprendere anche il Voralberg e il Trentino-Welschtirol (secondo l’esistente avanzato progetto di Euregione), coinvolgere le comunità ladine del bellunese (sia quelle tirolesi fino al 1918 che quelle storicamente “veneziane”) ed, eventualmente, anche l’isola linguistica tedesca di Sappada-Pladen. Anche in Istria ci sono forti fermenti autonomisti. Uno stato cuscinetto permetterebbe di risolvere molti dei problemi di quella terra, fra cui quello della minoranza istro-veneta (ora divisa fra tre Stati) e della situazione del porto di Trieste. Un caso a sé dovrebbero costituire le vallate occitane e la Slavia veneta che potrebbero in linea teorica chiedere di aggregarsi alle loro Nazioni di riferimento purché fossero verificate le condizioni di cui si è detto. Più complessa appare la situazione delle isole alloglotte di Greci, Albanesi e di Serbo-croati nell’Italia propriamente detta. L a nuova carta geopolitica della penisola italiana potrebbe così essere ridisegnata facendo prevalere buon senso, civiltà, riguardo per le libertà, per le autonomie e le differenze culturali (tutta merce purtroppo rara nell’Italia post-unitaria) e il supremo rispetto per l’inalienabile diritto naturale a decidere della propria vita di individui e di comunità e di scegliere di stare con chi si vuole. Ne trarrebbero vantaggio tutti. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 L'autodeterminazione nel mondo: le strade degli altri Norvegia La Norvegia ha cominciato a perdere gradualmente la propria indipendenza a partire dal XIV secolo; nel 1537 il Re di Danimarca ha ufficialmente sancito l’annessione della Norvegia al suo regno. Nel 1814, la Norvegia è stata tolta alla Danimarca e data alla Svezia in compenso dell’aiuto da quest’ultima prestato agli alleati nelle guerre anti-Napoleoniche e come risarcimento per la cessione della Finlandia (fino ad allora svedese) alla Russia. Per resistere a quella annessione decisa sulla testa del popolo norvegese si è costituito un gruppo di separatisti che si è autoconvocato in Assemblea nella cittadina di Eidsvold e ha proclamato l’indipendenza della Norvegia: in soli dieci giorni e dieci notti gli autonomisti sono riusciti a discutere, stendere e adottare una Costituzione che istitituiva una Assemblea nazionale (lo Storting). Tale documento è risultato essere lo strumento fondamentale più democratico e moderno allora esistente al mondo, con una struttura così ben concepita e agibile che ancora oggi essa è la Costituzione Norvegese. L’esercito svedese ha però ben presto e facilmente avuto la meglio su quella sparuta minoranza di indipendentisti e ha saldamente occupato il paese. Su suggerimento inglese però, Svezia e Norvegia sono stati mantenute come due regni formalmente separati e uniti sotto una unica corona (come Inghilterra e Scozia): il sovrano svedese nominava anche un Gabinetto norvegese che però aveva sede a Stoccolma e agiva alle dirette dipendenze del Re. A Oslo era invece insediato un Governatore Genera- le che rappresentava la corona svedese. Per evitare disordini e reazioni la Svezia ha lasciato formalmente in vita lo Storting privandolo di ogni potere reale e facendone una sorta di giocattolo formale. In verità, in questa e in tutte le occasioni successive, la Svezia si è sempre comportata con grande civiltà e moderazione, esercitando il proprio potere senza eccessi e lasciando in vita una serie di strutture formali che non rappresentavano nessun reale pericolo per la sua autorità. Negli anni successivi la Norvegia ha gradualmente ottenuto qualche piccolo scampolo di autonomia (la separazione delle carriere burocratiche fra i funzionari dei due regni, la separazione dei debiti nazionali) e un importante e significativo (seppur temporaneo) risultato: la creazione di una banca centrale norvegese in grado - pur fra mille difficoltà economiche - di battere moneta propria. Dal 1875 le monete sono state di nuovo parificate. L’autonomismo norvegese di quegli anni basava la sua azione su due linee portanti: 1) assumere la responsabilità finanziaria e la totale autogestione della propria economia con coraggio e ad onta della situazione complessiva tutt’altro che rosea e 2) cercare di raccogliere e ottenere qualsiasi frammento (anche solo simbolico) di indipendenza possibile, anche se poteva sembrare apparentemente marginale o incoerente. Così, nel 1821 la Norvegia si è data una bandiera (pur non riconosciuta come “nazionale”) e una festa nazionale: il 17 maggio, data di adozione della vecchia Costituzione del 1814. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 A partire dal 1859, lo Storting ha cominciato ad assumere un atteggiamento sempre più duro e a prendere posizioni in forte contrasto con quelle del Governo svedese e di quello norvegese fantoccio, in una contrapposizione che è durata 46 anni. Fra le iniziative che sono state poste in atto ci sono state quella di rigettare la validità reciproca delle decisioni dei tribunali e una proposta di unione doganale, e la richiesta di abolizione della carica di Governatore Generale. Nello stesso periodo i Norvegesi si sono impegnati per incrementare le loro attività commerciali (e il loro benessere) e si sono dedicati con grandissimo impegno a studiare la propria storia, il proprio folclore e a crearsi una lingua propria. Quello della lingua norvegese costituisce uno dei più straordinari episodi di rinascita culturale e di impegno indipendentista: gli intellettuali norvegesi (ma anche gli insegnanti e la gente comune) hanno cominciato ad inserire nel Danese (allora usato come “lingua franca” scandinava) quanti più parole e modi di dire locali potevano trovare, fino a fare diventare gli elementi indigeni più numerosi e prevalenti: il linguaggio che si è formato in questa continua opera di trasformazione (che dura tutt’oggi) è poi diventato lingua ufficiale del Paese. Il movimento indipendentista si è trovato nella seconda metà del XIX secolo anche a dovere contrastare l’azione e l’influenza di una forte corrente culturale e politica “scandinavista” che rivendicava l’unità fra tutti i paesi scandinavi: a quel tempo l’unificazione politica 21 Quaderni Padani - 23 era spesso vista come un segno di progresso e come un illusorio strumento di diffusione di civiltà. La storia tedesca e - soprattutto - quella panslava e italiana sono anche il triste risultato della diffusione di tali disastrose utopie. Per loro fortuna, gli argomenti autonomisti hanno avuto la meglio sulle mode “scandinaviste” grazie al diffuso buon senso e a una serie di avvenimenti illuminanti, come la guerra fra Germania e Danimarca del 1864. La perseverenza dello Storting ha cominciato a dare i suoi frutti nel 1873 con l’abolizione del Governatore Generale, sostituito dalla figura del Ministro di Stato per la Norvegia: una vittoria poco più che simbolica, ma importante sulla strada dei piccoli passi. La Norvegia proseguiva con ostinazione nella sua politica “del tarlo”, fatta di richieste continue e assillanti, eseguite con baldanza e pervicacia per stancare l’avversario. Ad un certo punto, in perfetta coerenza con la linea perseguita, lo Storting ha cominciato a deliberare che il Gabinetto per la Norvegia risiedesse permanentemente a Oslo. Ogni volta la Svezia esercitava il suo diritto di veto e ogni volta lo Storting lo rideliberava. Ad un certo punto lo Storting ha intimato ai Ministri di ubbidire e al loro rifiuto li ha dichiarati decaduti. In un clima di crescente tensione si temeva un colpo di mano militare da parte degli Svedesi e si è cominciato ad organizzare Corpi volontari di fucilieri. A quel punto o la Svezia usava la forza o accettava la richiesta di nominare un Governo che fosse responsabile davanti allo Storting. La Svezia ha scelto ancora una volta la via pacifica e ha concesso nel 1884 di formare un Governo norvegese risiedente a Oslo e responsabile davanti all’Assemblea nazionale. Il modo con il quale lo Storting ha da allora gestito i propri poteri è esemplare in termini di rispetto per la democrazia e di coerenza nel percorrere la strada dell’indipendenza: si è preoccupato di introdur- 22 24 - Quaderni Padani re un nuovo sistema giuridico, di migliorare il sistema scolastico e di estendere il suffragio elettorale. Più minacciosamente, ha anche cominciato a organizzare l’esercito norvegese su basi più popolari: da questo momento il poi lo Storting avrebbe potuto contare sull’esercito. La situazione si è tranquillizzata per alcuni anni ma, a partire dal 1888, il conflitto ha ripreso a infiammarsi su controversie economiche. La Svezia si stava in qualche modo vendicando del rifiuto opposto anni prima dalla Norvegia a costituire una unione doganale applicando nei suoi confronti una pesante politica tariffaria: la Svezia rappresentava per la Norvegia una larghissima fetta del suo interscambio commerciale e, per rimediare ai guasti che la politica doganale svedese le procurava, Oslo non poteva che rimediare incrementando i suoi commerci con l’estero. Per fare ciò la Norvegia doveva però poter disporre liberamente di una propria rappresentanza diplomatica all’estero che curasse i suoi interessi. Nel 1892 lo Storting ha perciò deliberato di sospendere alla Svezia il pagamento del contributo per il servizio consolare aggiunto che fino ad allora questa svolgeva per conto della Norvegia e di istituire unilateralmente un proprio servizio diplomatico autonomo. Il Re di Svezia ha posto il suo veto che doveva però essere controfirmato dai ministri del Governo norvegese che si sono rifiutati di farlo. Il Re ha allora sciolto il Governo norvegese e ha formato un nuovo Gabinetto ma lo Storting si è rifiutato di approvare quest’ultima risoluzione e ha di fatto messo il nuovo Gabinetto in condizione di non poter governare su di un parlamento e su di un popolo che non ne riconoscevano l’autorità. Ancora una volta si sono sentiti rumori di guerra ma (ancora una volta e come sempre) entrambe le parti hanno mostrato grande saggezza e moderazione prendendo tempo e continuando estenuanti negoziati. Di nuovo lo Storting ha votato la costituzione di un sistema diploma- tico indipendente, ancora una volta il Re ha posto il suo veto, ancora una volta i Ministri (pur da lui nominati) non hanno controfirmato il veto: ci si trovava di nuovo in una situazione di stallo identica alla precedente. I Ministri hanno così finito per dimettersi ma il Re ha respinto le loro dimissioni affermando che “nessun altro governo poteva essere formato”. A quel punto il Primo ministro norvegese Michelsen ha sottilmente sostenuto la tesi che il Re poteva esercitare le sue funzioni reali solo costituzionalmente e poiché questo significava che egli poteva esercitarle soltanto per mezzo di un Gabinetto, egli stesso, sostenendo che nessun governo poteva essere formato, aveva affermato che egli non poteva più governare la Norvegia, e così egli stesso aveva sciolto l’unione. Questa interpretazione è stata fatta passare come una trovata dello Storting, che prontamente ha approvato, il 7 giugno 1905, una risoluzione che sosteneva che l’unione della Norvegia con la Svezia era giunta a termine e che, quindi, da quel momento avrebbe cominciato a comportarsi come il Parlamento di uno stato sovrano. Ne è - come prevedibile - seguito un altro periodo di grandi tensioni: il Riksdag, il Parlamento svedese, ha rifiutato di ammettere che l’unione era stata sciolta e ha perciò revocato la decisione dello Storting. Di fronte alla prospettiva di uno scontro militare, le parti (soprattutto la Svezia) hanno però mostrato ancora una volta grande moderazione. Su suggerimento di Danimarca, Russia e Francia, la Svezia ha infatti finito per decidere di risolvere la questione dicendo che se i Norvegesi avessero accettato certe condizioni, la Svezia sarebbe stata disposta a negoziare la fine dell’unione. Le principali condizioni poste erano che la Norvegia smantellasse tutte le fortificazioni costruite fino ad allora ai confini e che in Norvegia si tenesse un referendum per sapere se il popolo volesse dav- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 vero porre fine all’unione. Si trattava del riconoscimento del fondamentale diritto di autodeterminazione. Le condizioni erano accettabili per la Norvegia. Nell’agosto del 1905 la stragrande maggioranza dei norvegesi si è espressa liberamente votando per la secessione e i negoziati sono iniziati con sollecitudine. Questi erano complessi e difficili ma ormai la Svezia accettava il fatto che la Norvegia avesse deciso di diventare indipendente e, da parte sua, la Norvegia riconosceva l’evidente buona fede della Svezia. In questa atmosfera distesa le trattative di accordo si sono svolte con rapidità e con risultati proficui che sono stati di buon grado accettati da entrambi i paesi tant’è che entro la fine dell’anno 1905 tutto era risolto. È difficile dire se la soluzione trovata e le modalità con cui si erano evoluti gli eventi abbiano onorato di più la Svezia o la Norvegia. A goderne in immagine e in benefici sono state entrambe e a uscirne del tutto vittoriosa è stata la civiltà che tutti hanno saputo mostrare. La separazione così come si era svolta non aveva danneggiato nessuno dei due paesi; al contrario, li ha sicuramente favoriti entrambi, tanto economicamente che politicamente. Oggi Svezia e Norvegia sono due democrazie libere e prospere, esse vivono in grande amicizia e sono le migliori clienti commerciali l’una dell’altra. Si è trattato di una secessione attuata senza ribellione armata, senza violenza, con ragionevolezza e civiltà. Costituisce sicuramente un esempio per tutti. Gilberto Oneto Irlanda Con l’invasione anglo-normanna dell’Irlanda e l’insediamento di Enrico II sul suo trono, gli occupanti cercano di sostituire le tradizionali leggi con norme discriminatorie nei confronti della popolazione nativa. I tentativi inglesi non sortiscono alcun effetto per secoli: nonostante i dettami di un parlamento composto unicamente da elementi fedeli al re d’Inghilterra e riunito per la prima volta a Kilkenny nel 1366, molti nuovi abitanti assumono lingua e tradizioni irlandesi e la corona d’Inghilterra è costretta a limitare la propria giurisdizione effettiva a una limitata zona intorno alla città di Dublino. Solo i Tudor (sec. XVI) si impegnano a fondo per sottomettere definitivamente l’intera Irlanda: Enrico VIII inaugura una campagna di conquista proseguita poi da Maria e, soprattutto, da Elisabetta I, che stronca spietatamente la ribellione del conte ulsteriano Hugh O’Neill. Dopo questo cruento confronto armato, l’Inghilterra si accorge che gli abitanti dell’Ulster (che è poi l’antico regno settentrionale d’Irlanda) sono i più ostinati oppositori del dominio inglese e rappresentano, quindi, un costante pericolo per i progetti di Londra. Viene, perciò, deciso di schiacciare definitivamente la popolazione della regione attraverso l’insediamento di coloni fedeli alla corona d’Inghilterra: Giacomo Stuart, successore di Elisabetta e sovrano d’Inghilterra e di Scozia, assegna un gran numero di terre a personaggi provenienti da questi due regni. Il collante che tiene uniti i nuovi abitanti dell’Ulster è rappresentato dalla religione: i coloni sono protestanti, mentre la popolazione irlandese non ha aderito alla Riforma ed è, quindi, rimasta cattolica. La colonizzazione forzata dell’Ulster è proseguita massicciamente da Oliver Cromwell che, dopo aver preso il potere in Inghilterra, sottomette con le armi l’Irlanda e la mette a ferro e fuoco. Viene così compiuto il furto in larga scala ai danni degli irlandesi che, da legittimi abitanti dell’isola, vengono, nell’Ulster, gradualmente ridotti a minoranza. Con la successiva guerra, in cui Guglielmo d’Orange sottomette gli eserciti cattolici di Giacomo II Stuart (1691), si inaugura, in tutto il Paese, rimasto a maggioranza cattolica (a differenza della sua parte settentrionale), una politica di durissima discriminazione religiosa nei confronti dei cattolici. Nel frattempo i protestanti dell’Ulster si raggruppano in un’organizzazione massonica denominata “Loggia di Orange” (in onore di Guglielmo), che si fa portatrice di una politica di terrore nei confronti dei cattolici rimasti. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Sull’onda della Rivoluzione americana, lo scenario sembra mutare. Gli stessi protestanti irlandesi, detentori di un potere smisurato nei confronti dei cattolici ma scontenti della scarsa autonomia concessa loro da Londra, forzano la mano a un’Inghilterra stremata dalla guerra con le colonie d’oltre oceano e impongono a Londra di concedere loro una buona dose di autogoverno (1782). Legato ancora all’Inghilterra ma sufficientemente autonomo per legiferare, un Parlamento irlandese ancora interamente composto da membri della minoranza protestante (i cattolici, infatti, non possono accedervi) inizia la propria attività, restando comunque legato a un approccio strettamente anglosassone. Contemporaneamente, si notano segnali contrastanti nell’Ulster: mentre, da un lato, prosperano le logge orangiste anti-cattoliche e anti-irlandesi, dall’altro un buon numero di protestanti cambia posizione e si schiera con le società repubblicane degli United Irishmen. Aconfessionale e anti-colonialista, questo nuovo movimento si batte per il totale affrancamento dall’Inghilterra, la parità di diritti tra cattolici e protestanti e la nascita di una nuova Irlanda in cui tanto gli autoctoni quanto i discendenti dei coloni si sentano pienamente irlandesi. Proprio lo sviluppo degli United 23 Quaderni Padani - 25 Irishmen e un’insurrezione indipendentista tentata dal loro leader, Wolfe Tone, con l’appoggio di reparti francesi, sono il pretesto con cui Londra (ormai ripresasi dallo choc americano) revoca l’autogoverno irlandese. Nel 1800, dunque, il Parlamento d’Irlanda, ormai privo delle spinte anti-inglesi del 1782, vota per esautorarsi. L’“Atto d’Unione” tra Gran Bretagna e Irlanda è, quindi, cosa fatta. Il diciannovesimo secolo vede lo sviluppo del repubblicanesimo irlandese e un ammorbidimento delle leggi discriminatorie nei confronti dei cattolici (finalmente eleggibili); i disastrosi moti del 1848 e la tremenda carestia (provocata da Londra) che dimezza la popolazione; l’esplosione del movimento irredentista dei feniani (la Irish Republican Brotherhood) e la successiva affermazione del partito irlandese per l’autogoverno (guidato da Parnell, personalità di grande spessore); niente, tuttavia, scardina il potere dell’Inghilterra sull’Irlanda. Due piani elaborati dal premier inglese Gladstone (liberale) per l’autogoverno irlandese vengono bocciati a Westminster per l’opposizione degli “orangisti” dell’Ulster, contrari ad ogni indebolimento del loro smisurato potere nei confronti dei cattolici. I protestanti ulsteriani sono fomentati da due personaggi di opposti schieramenti politici: il conservatore Randolph Churchill e il liberale Joseph Chamberlain. Proprio Chamberlain è il progenitore di un’idea ritenuta ai suoi tempi piuttosto strana: la partizione dell’Ulster dal resto del Paese. In queste condizioni la storia irlandese si affaccia al novecento, periodo cruciale per la pur mutilata indipendenza irlandese. La bocciatura dei due piani di autogoverno (Home Rule Bills), unita alla morte di Parnell e al disfacimento del suo partito, sembrano aver tacitato le speranze in un miglioramento delle condizioni dell’Irlanda. In realtà, qualcosa di nuovo cova sotto le ceneri. Si afferma la figura del leader socialista-separatista James Connolly che sostiene il confronto armato e, ricalcando il vecchio detto secondo cui ogni difficol- 24 26 - Quaderni Padani tà dell’Inghilterra può rivelarsi una buona occasione per l’Irlanda, propone una rivoluzione nazionale mentre è in corso la guerra boera. Sale anche il nazionalismo piccoloborghese, più refrattario nei confronti di scenari insurrezionali e avverso alla lotta di liberazione dei proletari e ai diritti della classe lavoratrice. Nel 1904, il leader di questi ultimi schieramenti, il cattolico Arthur Griffith, elabora una originale strategia politica per l’indipendenza dell’Irlanda partendo da un semplice assunto: un Parlamento non ha il potere di deliberare la fine dell’indipendenza del proprio Paese. Nel 1800, invece, il Parlamento irlandese ha votato la fine del pur parziale autogoverno dell’Irlanda. Quindi, l’Atto d’Unione è formalmente nullo, l’Irlanda è ancora indipendente per legge e la presenza inglese in Irlanda è illecita. Il ritorno alle condizioni esistenti nell’ultimo ventennio del settecento (aggiungendo, naturalmente, l’eleggibilità dei cattolici, diritto conquistato nel corso del secolo successivo) avrebbe dato all’Irlanda una sorta di indipendenza, perfezionabile con il tempo. Stabilito il punto, Griffith traccia le strategie per ristabilire la legalità. Ispirandosi all’accordo austro-ungarico del 1867 e all’azione dei nazionalisti magiari, il pensatore irlandese rinuncia al repubblicanesimo e lancia il compromesso della duplice monarchia. A grandi linee è anche la situazione degli anni 1782/1800: due stati indipendenti con il sovrano in comune e qualche altro legame tra di loro. Una simile soluzione - sostiene Griffith - potrebbe rappresentare un compromesso tra il repubblicanesimo e le posizioni unioniste dei protestanti dell’Ulster (semplice illusione: gli orangisti avevano, in passato, bocciato con forza piani di autogoverno ancora più blandi). Come arrivare a una simile situazione? Imitando i nazionalisti magiari che, nella seconda metà dell’ottocento, avevano rifiutato di sedersi al Parlamento di Vienna riunendosi in assemblea autonoma in patria. Anche i deputati irlandesi - precisa Griffith - devono rifiutarsi di sedere al Par- lamento di Londra: l’unione tra Irlanda e Inghilterra non ha validità legale e, di conseguenza, lo stesso Parlamento del Regno Unito è fuorilegge. I deputati nazionalisti irlandesi dovranno astenersi dalle sedute di quel consesso e, una volta ottenuto il 51% dei seggi irlandesi, formeranno un Parlamento autonomo a Dublino. A questo punto - sempre secondo le previsioni di Griffith - gli inglesi reagiranno con la forza. La popolazione irlandese dovrà adottare una strategia nuova e nonviolenta: la resistenza passiva. In realtà, in quel momento storico, i deputati nazionalisti irlandesi (nel frattempo il partito che era stato di Parnell si era riunificato) sono moderati e non intendono lasciare Westminster, accontentandosi di lottare per l’autonomia. Nasce, così, un nuovo movimento indipendentista (fondato dallo stesso Griffith), la cui idea cardine è l’indipendenza dell’Irlanda da ottenersi attraverso il non riconoscimento del Parlamento di Londra e la formazione di un’assemblea indipendente a Dublino. Il nuovo movimento viene a chiamarsi “Sinn Féin” (gael. “noi stessi, noi con le nostre forze”) e i suoi teorici affiancano la vecchia idea di “indipendenza dall’alto” a una nuova tattica di “indipendenza dal basso”. Contemporaneamente al boicottaggio del Parlamento di Londra, bisognerà spronare all’azione i “parlamentini” delle contee (sorte di consigli regionali): riunendoli insieme come Parlamento a Dublino si potrebbe ugualmente dichiarare l’indipendenza (essendo i consiglieri di contea eletti regolarmente da cittadini irlandesi). Nel mentre, si dovrebbero spargere per l’Europa “rappresentanti commerciali” irlandesi che agirebbero praticamente da ambasciatori e consoli e, a livello popolare, boicottare Londra (anche attraverso scioperi fiscali). Il “Sinn Féin” si presenta, inizialmente, come un grosso contenitore di diverse posizioni politiche. Unici punti fermi sono, infatti, il non riconoscimento dell’unione tra Gran Bretagna e Irlanda, il rifiuto di sedersi al Parlamento di Londra e l’obiettivo di formare un’assem- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 blea sovrana a Dublino una volta raggiunta la maggioranza assoluta dei seggi ottenuti in Irlanda. La resistenza passiva e la trasformazione dello stato in duplice monarchia, propugnate da Griffith, non divengono dottrina ufficiale del movimento, ma restano una delle vie percorribili: all’interno del Sinn Féin convivono pacifisti e irredentisti, repubblicani e sostenitori della duplice monarchia. Il Sinn Féin non ottiene, inizialmente, grandi fortune elettorali, mentre a Westminster si discute un terzo piano di autogoverno per l’Irlanda, ancora più debole dei due precedenti. Nonostante questa ultima considerazione, i protestanti dell’Ulster lo rifiutano con forza, si armano e si fanno minacciosi. L’esercito britannico, nonostante gli ordini, si rifiuta di opporsi con le armi agli unionisti. Davanti a questi avvenimenti, i nazionalisti (anche i più moderati) si armano per potersi difendere. Nasce così il corpo degli Irish National Volunteers. Nel mentre, scoppia la prima guerra mondiale. Il campo nazionalista irlandese si divide: Redmond, capo dei moderati e degli Irish National Volunteers, si schiera con l’Inghilterra: l’autogoverno - sostiene - è a un passo e Londra lo concederà con maggiore facilità se gli irlandesi combatteranno a fianco dell’Intesa. Questa posizione è aspramente contestata da Connolly, Griffith e Patrick Pearse, grande teorico repubblicano e influente membro dell’Irish Republican Brotherhood, che si schierano a fianco della Germania. L’invito che Redmond rivolge agli Irish National Volunteers di affiancarsi all’esercito britannico per combattere le armate tedesche sdegna coloro che vedono l’Inghilterra come l’unica potenza nemica. Ne segue la scissione degli Irish National Volunteers: nasce la milizia degli Irish Volunteers, che comincia a organizzarsi e ad armarsi. Nel mentre, James Connolly fonda una milizia di ispirazione socialista, la Citizen Army (prima “Armata Rossa” della storia), impiegata inizialmente per difendere la classe lavoratrice. Il Lunedì di Pasqua del 1916, que- ste due milizie si uniscono e forniscono l’esercito della Repubblica Irlandese, proclamata a Dublino in mattinata da Patrick Pearse. La dichiarazione d’indipendenza non è stata deliberata (come aveva teorizzato Griffith) da un Parlamento sovrano, ma da alcuni leaders nazionalisti (dal cui novero è assente lo stesso Griffith). Il principio di legalità evocato nel testo della dichiarazione d’indipendenza ha origini ancora più remote di quello caro ai sostenitori del Sinn Féin: “Noi sosteniamo il diritto del popolo irlandese alla proprietà dell’Irlanda e ad un controllo senza alcuna restrizione dei destini irlandesi, perché essi siano sovrani e inalienabili. La lunga usurpazione di questo diritto da parte di un popolo straniero e di un governo straniero non ha estinto quel diritto, né esso può essere mai spento eccetto che con la distruzione del popolo irlandese”. L’ultimo governo legale dell’isola non è, quindi, il Parlamento del 1782/1800, concesso da Londra, ma la libera Irlanda precedente alla prima invasione inglese. Per secoli, gli irlandesi hanno lottato per tornare liberi: ciò rafforza il loro diritto all’indipendenza e stabilisce virtually la repubblica sovrana. L’insurrezione, avversata da gran parte della popolazione, è domata in una settimana; i leader repubblicani che la hanno guidata, tra cui Pearse e Connolly, vengono fucilati; altri personaggi che niente vi avevano avuto a che fare sono arrestati; ogni associazione nazionalista o culturale irlandese viene sciolta. L’emozione popolare che segue le fucilazioni è fortissima: gli irlandesi, precedentemente paghi di una soluzione di autonomia, si radicalizzano proprio in seguito alla reazione delle istituzioni inglesi. Il Sinn Féin ritorna sulla scena, riaffermando i propri principi cardine (illegalità di Westminster, formazione di un Parlamento a Dublino) ma cambiando la prospettiva strategica. L’obiettivo non è più la duplice monarchia, ma la repubblica: tutti i rap- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 porti con l’Inghilterra devono essere tagliati. Il mutamento è reso possibile dalla presa di potere, all’interno del partito, degli intransigenti, guidati da Eamon De Valera e Michael Collins. Alle elezioni del 1918 il Sinn Féin conquista la maggioranza assoluta dei seggi ottenuti in Irlanda. Secondo i dettami del movimento, i parlamentari del Sinn Féin si riuniscono in assemblea a Dublino e proclamano la Repubblica d’Irlanda. Le forze favorevoli alla resistenza passiva sono, ormai, numericamente inferiori rispetto agli intransigenti. Ne segue una dura guerra con le forze britanniche, mentre i delegati irlandesi a Versailles si appellano (invano) al presidente americano Wilson e al principio di autodeterminazione dei popoli. Nel 1921 viene firmata una tregua e si aprono trattative. L’Irlanda, praticamente vittoriosa sul campo, si fa battere dalle armi diplomatiche degli abili delegati britannici, guidati da Lloyd George. I rappresentanti irlandesi, Griffith e Collins, si fanno clamorosamente imbrogliare e accettano la mutilazione dell’indipendenza irlandese. Sei contee dell’Ulster restano in mano britannica; inoltre, lo Stato irlandese non sarà repubblicano ma parte del Commonwealth. Il Parlamento irlandese approva a stretta maggioranza il trattato di pace. Gli intransigenti protestano con i moderati: essi stessi avevano sostenuto l’impossibilità da parte di un Parlamento di menomare l’indipendenza già conquistata di una nazione: come avevano potuto essi firmare un trattato di segno contrario? Proprio questo principio è alla base della guerra civile irlandese, combattuta tra i sostenitori del trattato e i repubblicani (capitanati da De Valera). Vincono i primi, e l’indipendenza del paese rimane menomata. Qualcosa cambia: nel 1937, De Valera, ora a capo del governo, promulga una costituzione quasi repubblicana. Nel 1948 l’Irlanda diviene una repubblica, tagliando i residui legami con l’Inghilterra. Le sei contee del nord restano, però, saldamente nelle mani di Londra fino ai giorni nostri. Max Costello 25 Quaderni Padani - 27 La cosiddetta «Irlanda del Nord» L’Irlanda è stata smembrata in due stati distinti solo in epoca recente, nel 1920, dopo che era stata riconosciuta come unità per più di 1500 anni. L’inizio delle invasioni anglo-normanne risale al 1169, ma fino al 1600 gli invasori non riuscirono ad infrangere il sistema gaelico di organizzazione sociale grazie alla strenua resistenza popolare. La conquista vera e propria avvenne per opera dei Tudor. In quanto promotore della Riforma Anglicana, Enrico VIII (che nel 1541 si fece nominare re d’Irlanda) contribuì involontariamente al processo di identificazione tra cultura gaelica e cattolicesimo. Il successivo coinvolgimento del Papato e degli Spagnoli nel conflitto anglo-irlandese proietterà a lungo sugli Irlandesi il sospetto di operare al servizio di potenze straniere. Dopo che i capi clan dell’Ulster erano stati sconfitti nella battaglia di Kinsale, le loro terre vennero confiscate dai colonizzatori e la città di Derry divenne “Londonderry”. Con questa operazione di confisca prese avvio il metodo della “piantagione”, ossia quello di trapiantare nelle colonie ribelli una popolazione “lealista”, fedele alla corona. All’epoca vennero impiegati circa 200.000 coloni, al 90% scozzesi. Nel 1641 una rivolta per l’indipendenza e la libertà di religione portò alla costituzione del Parlamento Nazionale di Kilkenny. Nel 1649 la brutale repressione di Oliver Cromwell, alla testa dell’esercito puritano, mise fine alla rivolta e una ulteriore confisca favorì la nascita di una nuova classe di proprietari terrieri protestanti. Ebbe così inizio un processo di diversificazione tra l’Ulster (a cui vennero concessi particolari privilegi per favorire lo sviluppo dei commerci e delle attività produttive) e il resto dell’Irlanda che, a causa dello sfruttamento coloniale, sprofondò nella miseria. Il 1690 è l’anno della battaglia del fiume Boyne e della vit- 26 28 - Quaderni Padani Murales in onore di Pearse e Connolly toria di William d’Orange contro gli Stuart, di recente restaurazione (1685) e di simpatie cattoliche. Nel corso del 1600 le terre di proprietà degli irlandesi si erano ridotte dal 90% al 14% e in seguito diminuirono ulteriormente. Con le “Penal Laws” i cattolici vennero privati anche dei diritti politici ed erano inoltre esclusi da ogni carriera remunerativa e di prestigio. Nel corso del XVIII secolo tra i contadini cominciarono a diffondersi società segrete di resistenza e le idee democratico-repubblicane cominciarono a influenzare gli irlandesi, sia cattolici che presbiteriani. Dopo la firma del trattato angloirlandese la provincia dell’Ulster, ora costituita solo da sei contee (Londonderry, Antrim, Tyrone, Fermanagh, Armagh, Down) per garantire ai protestanti la maggioranza, restava parte integrante del Regno Unito. Il Parlamento nordirlandese, lo Stormont vide succedersi una serie di governi regolarmente dominati dall’Ulster Unionist Party, legato all’Orange Order. Nel 1929 venne abolita la rappresentanza proporzionale dei collegi uninominali, indebolendo ulteriormente il peso politico del- la minoranza cattolica. Va ribadito che questa minoranza è stata comunque creata artificialmente, ritagliando frontiere ad hoc; i cattolici del nord sono in realtà ben consapevoli di appartenere ad una maggioranza nell’ambito del territorio nazionale, cioè dell’Irlanda intera. Venne inoltre mantenuto nelle elezioni amministrative locali, invece del suffragio universale, il diritto di voto per i soli contribuenti (ratepayers’ franchise) favorendo ulteriormente le discriminazioni nella assegnazione dei posti di lavoro e nell’assegnazione di case popolari. Contro queste discriminazioni nel 1968 si costituì l’Associazione per i Diritti Civili in Irlanda del Nord (NICRA) con lo slogan “one man, one vote”. Il NICRA richiedeva: suffragio universale nelle elezioni locali, equa regolamentazione per la assegnazione degli alloggi, abolizione dei poteri speciali della polizia. Ben presto però il comportamento della RUC (Royal Ulster Constabulary, polizia nordirlandese composta in massima parte da protestanti) e dei “B Specials” (Special Ulster Constabulary) nei confronti delle manifestazioni, tolse ai cattolici ogni illusione di poter paci- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 ficamente riformare il sistema. Le marce di protesta venivano regolarmente attaccate dagli estremisti protestanti e le forze di polizia si schieravano apertamente con questi ultimi. Inoltre in varie occasioni vennero attaccate le aree cattoliche di Derry (Bogside) e Belfast (Falls Road). Da qui bisogna ripartire per comprendere come quello che inizialmente era stato un movimento pacifico per i diritti civili segnasse la ripresa della lotta armata da parte dell’IRA. Il 15 agosto 1969, le truppe inglesi entrano a Belfast e il 6 febbraio 1971 l’IRA abbatte il primo soldato inglese. Il 9 agosto dello stesso anno viene introdotto l’internamento a tempo indeterminato (durante il quale viene impiegata anche la tortura fisica). Si intensificano gli scontri di strada e il 30 gennaio 1972 le truppe massacrano tredici manifestanti indifesi a Derry (domenica di sangue). Due mesi dopo Londra riprende direttamente in mano l’amministrazione dell’Ulster e “concede” ai detenuti repubblicani lo status di prigionieri politici. Ma la pressione giudiziaria si fa sempre più pesante: nel 1973 vengono introdotti i tribunali speciali, senza giuria, e nel 1974 con il “Prevention of terrorism act”, il fermo di polizia viene portato a sette giorni. Nelle carceri si organizzano scioperi della fame che provocano alcune vittime (Michael Gaugham e Frank Staff). Nel 1975 viene revocato lo status di prigioniero politico. Il 27 ottobre del 1980 inizia negli H Block del carcere di Long Kesh (un ex aeroporto denominato “Maze”) uno sciopero della fame che - dopo essere stato sospeso a Natale e ripreso nel marzo 1981 porterà alla morte di sette militanti dell’IRA e tre dell’INLA: Bobby Sands, Francis Hughes, Raimond Mc Creesh, Patsy O’Hara, Joe Mc Donnel, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kieran Doherty, Thomas Mc Ilwee, Miki Devine. La seconda metà degli anni ottanta è segnata dall’infinita sequenza di omicidi settari operati da squadre della morte lealiste (UVF, UFF). Con la tregua decretata due anni fa dall’IRA e i successivi colloqui di pace sembrava che la soluzione politica fosse a portata di mano. Oltre all’amni- stia per i prigionieri politici (circa settecento) condizione indispensabile per un duraturo cessate il fuoco era il graduale ritiro delle truppe britanniche dall’Irlanda del Nord. “Questo - come ci aveva confermato Gerry Adams - non comporterebbe l’immediata riunificazione perché è un problema su cui deve decidere l’intero popolo irlandese. Naturalmente il Sinn Fein auspica uno stato unitario, con strutture governative decentrate; ma una società veramente democratica è assolutamente impensabile finché permane la presenza militare inglese”. Secondo il Sinn Fein (ma su questo concorda sostanzialmente anche l’altro partito cattolico dell’I.d.N., il Social Democratic and Labour Party) la decisione sul futuro assetto dell’Irlanda dovrebbe essere presa da un referendum indetto in tutta l’isola. Invece i lealisti lo vorrebbero solo nell’Irlanda del Nord, dove rappresentano ancora una maggioranza (anche se, va ricordato, sempre più esigua: attualmente sono il 55% della popolazione). Gianni Sartori Islanda Popolata nel IX secolo da coloni norvegesi, l’Islanda si è data il primo Parlamento autonomo (l’Althing) nel 930: esso ha continuato a funzionare sotto il dominio norvegese e poi sotto quello danese (subentrato nel 1380) fino alla sua soppressione nel 1800. Il periodo di assolutismo danese ha cominciato a placarsi solo dopo le guerre napoleoniche. Gli anni precedenti il 1848 sono stati il periodo di incubazione di un movimento nazionale che aveva, sotto la guida di Jòn Sigurdsson, lo scopo di ottenere il ripristino dell’autogoverno. Nel 1843, re Cristiano III di Danimarca è stato costretto dalle pressioni autonomiste a fare parziali concessioni, riconvocando l’Althing, sia pure soltanto con fun- zioni consultive. Queste prime vittorie incoraggiarono il movimento autonomistico spingendolo verso la richiesta pura e semplice dell’indipendenza o quanto meno di un’ampia autonomia legislativa e del riconoscimento all’Althing del diritto di intervenire in materia fiscale: nel 1874 Cristiano VIII concedeva il potere legislativo all’Althing (la cui composizione fu riformata nel 1903), affermando il definitivo consolidamento degli organi di autogoverno locali. Ma neppure il soddisfacimento di queste istanze più avanzate fu sufficiente ad arginare le tendenze centrifughe, il cui fervente separatismo fu ulteriormente incoraggiato dall’esempio della secessione della Norvegia dalla Svezia nel 1905. In que- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 sto clima fu intrapreso da Federico VIII il tentativo di organizzare un nuovo assetto dei rapporti tra l’Islanda e la Danimarca. Esso sfociò nel 1918 nel riconoscimento dell’indipendenza dell’isola, i cui legami con la Danimarca sopravvivevano soltanto nell’unione personale del sovrano; all’Islanda era riconosciuto inoltre il diritto di sciogliere anche questa residua unione dopo il 1940. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, l’Althing proclamava lo scioglimento dell’unione con la Danimarca che diventava effettivo a partire dal 17 giugno 1944. Acquistata così l’indipendenza completa, l’Islanda si diede la forma istituzionale repubblicana. Ottone Gerboli 27 Quaderni Padani - 29 Bretagna La Bretagna del Neolitico vide lo sviluppo di una civiltà megalitica caratterizzata dall’innalzamento di dolmens e menhirs, dal culto dei morti e della Luna. Nel 600 a.C. i Celti invasero l’Europa occidentale installandosi soprattutto nell’attuale Irlanda, in Gran Bretagna e nelle Gallie. In Bretagna varie popolazioni di origine celtica si scontrarono nel 57 a.C. con le legioni romane di Giulio Cesare. Successivamente (nel V sec.) le invasioni dei sassoni costrinsero i bretoni delle isole a cercare una nuova terra. Per questo sbarcarono nell’Armorica. Le frontiere storiche e l’indipendenza della Bretagna vennero di fatto riconosciute dai Franchi dopo la sconfitta loro inflitta dall’esercito bretone nell’845. Purtroppo la stabilità del regno di Bretagna non era destinata a durare. Pochi anni più tardi i normanni invasero a più riprese la penisola, installandovi loro basi e inserendosi nelle lotte di successione tra i principi bretoni. Solo nel 938, sotto la guida di Alano Barbatorta, i Bretoni riuscirono a scacciare gli invasori. Per la Bretagna, pienamente inserita nel sistema feudale con capitale Nantes, ebbe inizio un periodo denso di alleanze, cospirazioni, rivolte e tradimenti (con la Guerra dei Cento Anni sullo sfondo), venendo tra l’altro occupata dagli inglesi per trentanni. Nel 1487 ebbe inizio la guerra di Indipendenza della Bretagna. Il ducato di Bretagna È importante segnalare che nell’epoca feudale, la Bretagna aveva molte caratteristiche di un paese democratico, per lo meno rispetto ai suoi vicini. La più notevole istituzione era quella degli Stati di Bretagna, più conosciuta come il Parlamento, che ebbe grande influenza nella vita politica del paese, soprattutto a partire dal secolo XV fino alla sua abolizione nel 1790. Nel 1489, la duchessa Anna di Bretagna viene incoronata all’età di dodici anni. Nel 1491, Anna viene costretta a sposarsi con 28 30 - Quaderni Padani Carlo VII per salvare il paese dal saccheggio francese. In questo modo ottiene di salvaguardare per il futuro l’indipendenza della Bretagna, obbligando il Re di Francia a riconoscere tre diritti fondamentali: pagare solamente le tasse stabilite dall’Assemblea degli Stati di Bretagna, applicare gli arbitri solamente in difesa del paese e che nessun bretone avrebbe potuto essere giudicato fuori dalla Bretagna. Nel 1532 Francesco I, re di Francia, realizzò la definitiva annessione della Bretagna. Nello stesso anno venne ratificato dagli Stati bretoni un Atto di Unione in cui si stabiliva che i diritti e le libertà di Bretagna sarebbero stati mantenuti e rispettati. Naturalmente questo accordo bilaterale che salvaguardava l’identità bretone, sarà costantemente violato dai francesi. La rivolta dei Bonnets Rouges Nel 1675, Luigi XIV è in guerra con l’Olanda. Per poter far fronte alle forti spese, il Re francese ordina di riscuotere nuove imposte senza l’accordo degli Stati bretoni. I contadini e gli abitanti dei quartieri poveri di Nantes e Rennes si sollevano in quella che sarà conosciuta come la rivolta dei Bonnets Rouges. La repressione francese è tanto brutale che la resistenza contadina bretone si trasforma in un vero e proprio esercito di liberazione. Successivamente i francesi, molto più numerosi, finiranno con lo schiacciare la ribellione. La Bretagna dovrà subire la maggiore e più feroce repressione di tutta la sua storia. All’epoca si disse che “da ogni albero bretone pendeva un impiccato”. Ma la resistenza continuò con altri mezzi: società segrete, cospirazioni, colpi di mano... e naturalmente continuò anche la repressione. Nel 1720, venne scoperta una cospirazione antifrancese e numerosi patrioti bretoni vennero decapitati a Nantes. Nel 1789, con la Rivoluzione francese, scompare ogni traccia di autonomia bretone quando la Convenzione decide di sopprimere totalmente l’esistenza degli Stati di Bretagna (1790) e questa viene divisa in cinque dipartimenti. Nel 1793, nasce un movimento bretone che si oppone al centralismo giacobino della Rivoluzione: la Chouanerie. Verrà sconfitta solo dopo alcuni anni e il suo capo, Cadoudal, verrà giustiziato per ordine di Napoleone. Così come la Rivoluzione, anche il primo Impero pretende di trasformare la popolazione bretone in francese, inviando migliaia di giovani al servizio militare. L’economia viene letteralmente dissanguata; a risentirne saranno soprattutto le condizioni di vita di contadini e operai. La Bretagna diventa allora terreno propizio per un socialismo di ispirazione cristiana, almeno fino al 1884 quando comincia a svilupparsi il sindacalismo, che porterà a numerosi scioperi e scontri con le forze dell’ordine francesi. Il primo Emsav Alla fine del secolo XIX, la repressione contro la lingua e la cultura bretone raggiunse il suo parossismo. Apparve allora il primo Emsav (Movimento di Liberazione Bretone). Durante la Ia Guerra Mondiale, la Bretagna pagò un alto tributo di sangue: 240.000 morti, un bretone su quattro tra quanti erano stati arruolati. Questa ecatombe portò alla nascita del secondo Emsav da cui si staccarono gruppi come Breizh Atao (Bretagna sempre). Il suo fondatore, Morvan Marchal è anche l’ideatore della bandiera bretone attuale, il Gwenn ha Du (Bianca e Nera). La minoranza collaborazionista Con la II Guerra Mondiale, la Bretagna viene occupata dai nazisti. Molti giovani bretoni partono per Londra per unirsi alle Forze Francesi Libere, dirette da De Gaulle, mentre nell’interno della Bretagna comincia a svilupparsi la resistenza. I comunisti, maggioritari nella parte centrale di Bretagna e a Saint-Nazaire, si organizzano nelle FTP. Ad essi si uniscono molti militanti dell’ala di sinistra del nazionalismo bretone, come Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 il comandante Thomas, più tardi assassinato dai nazisti. Invece la componente di destra del nazionalismo bretone mostrerà chiaramente le sue preferenze per le forze di occupazione, tentando di ottenere da Hitler uno statuto di autonomia. Questa minoranza collaborerà attivamente con i tedeschi. Celestin Lainé, che dirige il settore più oltranzista di questi nazionalisti di destra, crea la Bezen Perrot, una milizia armata che si contraddistingue per la sua collaborazione con la Gestapo e con le SS nel dare la caccia ai resistenti. Una delle sue “imprese” più note (e che dopo la guerra verrà rinfacciata a tutti coloro che rivendicano il diritto all’autodeterminazione dei bretoni) è il massacro di decine di civili, partigiani e paracadutisti francesi a Saint Marcel, nel Morbihan (giugno 1944). Azioni come questa vennero poi usate strumentalmente dallo Stato francese per poter perseguitare i nazionalisti bretoni con lo stesso rigore usato contro i collaborazionisti francesi. Lainé e i suoi accoliti vennero fucilati o presero la via dell’esilio, ma nel dopoguerra spesso non si fece distinzione tra i veri collaborazionisti e coloro che si erano semplicemente limitati a continuare la loro militanza in difesa della lingua e della cultura bretone. Sconfitto e discreditato il movimento bretone comincia a risollevarsi solo negli anni cinquanta. Nel 1957 nasce il MOB (Movimento di Organizzazione di Bretagna), federalista e interclassista. Da esso nel 1964 si staccano alcuni giovani militanti che costituiscono la UDB (Unione Democratica Bretone). Nel 1966, a causa della totale indifferenza dimostrata dallo stato verso le rivendicazioni dei bretoni, entra in scena una organizzazione armata: il FLB (Fronte di Liberazione di Bretagna). Attraverso attentati e sabotaggi, il FLB rilancia la questione della difesa dell’identità bretone. Anni dopo sarà l’ARB (Esercito Rivoluzionario Bretone) che prenderà il posto del FLB. Verso la fine degli anni settanta entrano nella lotta nuovi gruppi nazionalisti. È questo il momento in cui si as- siste al rifiorire dell’insegnamento della lingua bretone, ad un maggior numero di pubblicazioni, alle lotte in difesa dell’ambiente. Nel ’78, la petroliera Amoco-Cadiz naufraga di fronte alle coste bretoni provocando una terribile marea nera: 230.000 tonnellate di greggio contaminano 400 km di litorale. All’inizio degli anni ottanta la popolazione di Plogoff, sulla punta della penisola, si oppone alla costruzione di una centrale nucleare creando una vasta mobilitazione in tutta l’opinione pubblica bretone. Dopo tre mesi di manifestazioni e scontri con la gendarmeria, il progetto sarà ritirato. La situazione attuale Breizh, BHZ: le tre lettere attaccate alla parte posteriore delle automobili bretoni riflettono il profondo sentimento di appartenenza a una cultura, una lingua, un popolo e una nazione senza stato. La Bretagna è una nazione che vive una situazione conosciuta poco e male. Questo paese è in mano all’Amministrazione francese che la divide territorialmente e che non tiene assolutamente conto della sua lingua, della sua cultura, delle sue infrastrutture economiche. Tantomeno delle sue profonde rivendicazioni di autodeterminazione. Dal punto di vista economico e sociale la Bretagna, come altre regioni periferiche dell’Esagono, vive un momento difficile, dovuto alla crisi generale e alla politica economica francese. L’agricoltura e la pesca, pilastri fondamentali della realtà socio-economica bretone, sono state fortemente penalizzate dalle direttive CEE. In particolare i piccoli agricoltori, la maggioranza in Bretagna, si vedono sottoposti alle fluttuazioni del mercato dell’esportazione (v. accordi del GATT). La pesca va ormai per la stessa strada e da alcuni anni è entrata in crisi. Nel 1993 si è assistito quasi quotidianamente a manifestazioni, scontri con la polizia, vere e proprio azioni di commando dei pescatori contro l’importazione selvaggia di pesce da altri paesi. Nell’industria, molte imprese stanno optando per il trasferimento in altri stati dove la mano d’opera è a buon mercato. Per la Francia il solo Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 sviluppo adeguato per la Bretagna è quello legato al turismo, anzi ad un certo tipo di turismo: porti sportivi, campi da golf, centri di talassoterapia ... Anche sul piano culturale la situazione non è molto incoraggiante. Attualmente la lingua bretone attraversa un periodo critico. Dopo il 1789, la politica centralista francese ha ostacolato il suo uso, negandole inoltre qualsiasi riconoscimento ufficiale. Tuttavia, le scuole Diwan continuano a lottare per avere finanziamenti e, nonostante le grandi difficoltà, molti adulti cominciano a riappropriarsi del loro idioma. Per quanto riguarda il panorama politico, le formazioni dominanti in Bretagna sono quelle dello stato francese. Storicamente hanno sempre prevalso le tendenze conservatrici, come quasi sempre accade in territori segnati dalla marginalità. Attualmente prevalgono partiti come l’UDF e il PS. In alcune zone (aree rurali di Finisterre) sono relativamente forti i comunisti. La consistenza numerica (ed elettorale) delle varie formazioni nazionaliste bretoni (UDB, POBL, Emgann, RAB, Skoazell Vreizh, Dazont, oltre alla formazione armata ARB) è piuttosto modesta, anche se alcuni valori come la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale, l’orgoglio della propria identità sono molto diffusi e radicati nella popolazione. Non vanno sottovalutati i problemi di comunicazione del movimento nazionalista bretone che si autofinanzia a base di quote e donazioni e che non può certo competere con le campagne “pubblicitarie” dei partiti francesi. Non esiste una emittente televisiva bretone e la stampa è alquanto frammentaria, determinando un contesto che non è certo il più favorevole per lo sviluppo di un vero dibattito politico. In ogni caso, per quanto grave, la situazione non è disperata: un sondaggio del 1991 ha mostrato che al momento di scegliere tra l’appartenenza alla Francia o alla Bretagna, un 23% dei consultati dichiarava di appartenere innanzitutto alla Bretagna, contro un 11% che sceglieva la Francia. Gianni Sartori Quaderni Padani - 29 31 Catalogna La Catalogna, terra di antica ed elevata cultura, è universalmente nota come la patria di Ramon Llull, di Gaudì, di Picasso, di Dalì, di Mirò. Montserrat divenne una delle più importanti sedi musicali dopo il IX secolo e Albeniz era catalano. Il catalano, lingua ufficiale del regno d’Aragona, fu una delle maggiori lingue europee fino al XVI secolo. Dopo tre secoli di declino la cultura catalana ha conosciuto un vero e proprio rinascimento che nemmeno il franchismo ha potuto strangolare. Corridoio naturale tra Francia e Spagna, questa terra è stata ripetutamente pervasa sia da fermenti di opposizione sociale (basti pensare alla “lunga estate” dell’anarcosindacalismo) che da lotte di liberazione nazionale. Ma andiamo in ordine. La Catalogna (o Gotolonia, “paese dei Goti”), era uno di quei regni cristiani della penisola iberica invasi dagli Arabi (occupazione di Barcellona: 717-718) e poi riconquistati a partire dall’XI secolo dai sovrani di Aragona e Castiglia. Attualmente il termine Catalunya indica una regione autonoma dello stato spagnolo composta dalle quattro province di Barcellona, Gerona, Lerida e Terragona (31.930 km2; circa 600.000 abitanti, metà dei quali vivono e Barcellona). La Catalogna quindi è solo una parte dei Páisos Catalans, in cui si usa la lingua catalana. “El català” si parla tradizionalmente in Andorra, nelle isole Baleari, in una parte dei Pirenei-Orientali (Catalunya-Nord, nello stato francese, con circa 200.000 catalano-parlanti) e nel Paìs Valencià. Come è noto lo parla anche la minoranza di Alghero, in Sardegna. La Catalogna attuale deriva dalla Marca di Spagna, divenuta indipendente dall’impero franco a partire dal X sec., dopo che un conte di Urgel e di Barcellona ne aveva preso il controllo nell’873 (conte Guifrè I, detto il Peloso). L’unione, per matrimonio, tra la Catalogna e l’Aragona risale al XII sec. Nel XV, 30 32 - Quaderni Padani Manifesto in difesa della lingua catalana conservando le proprie istituzioni, si integra nella Spagna dei Re Cattolici. Il nazionalismo catalano nasce nel XVII sec., cogliendo l’occasione delle rivalità franco-spagnole. Nella prima metà del secolo XVII, nonostante tutti i suoi sforzi, la monarchia non riesce a ottenere l’unità politica, economica e militare della penisola iberica. I Paisos Catalans, grazie alla loro autonomia, si sottraggono alla forte inflazione monetaria castigliana. Questa opposizione da economica diventa politica, preludio a un tentativo violento di separazione. Nel 1640 inizia quella che passerà alla storia come “Guerra dels Segadors” (v. il famoso inno catalano), rivolta nazionale e sociale contro il regime feudale e contro la monarchia assoluta e centralista. Si costituisce una repubblica catalana sotto la protezione di Luigi XIII di Francia. Pau Claris riunisce tutte le classi medie e popolari, contadine e urbane, mentre la nobiltà, filo-castigliana, passa in blocco dalla parte di Filippo IV. La “Guerra dei Mietitori” finisce nel 1652 con la capitolazione di Barcellona. Nel 1700 il re Carlo II muore senza successori. Filippo di Borbone, rappresentante del centralismo francese e degli interessi aristocratici e feudali, si scontra con Carlo d’Austria, in qualche modo portavoce di uno spirito federalista e decentralizzatore. Su quest’ultimo convergono gli interessi e le speranze delle classi medie e popolari catalane. Contemporaneamente Luigi XIV proibisce l’uso ufficiale della lingua catalana nella CatalunyaNord sottoposta alla Francia. Nel 1705 Carlo d’Austria sopprime alcuni privilegi nobiliari nel Pais Valencià; nel 1707 Filippo V sconfigge i valenziani nella battaglia di Almansa, restaura i privilegi nobiliari soppressi e scatena una durissima repressione contro le classi popolari. Nel 1714 (11 settembre: Diada, festa nazionale catalana) dopo 13 mesi di assedio anche Barcellona cade sotto le armi di Filippo V. Con la capitale cade tutta la Catalunya e l’anno dopo anche Mallorca (Maiorca). Minorca invece, con la pace di Utrecht (1713) era passata sotto il dominio inglese. Alla repressione statale fece seguito una forte recessione economica, sociale e culturale. Il decennio successivo sarà ricordato come un continuo di insurrezioni popolari, guerriglia e “bandolerisme” contro il nuovo regime. Il naziona- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 lismo comunque tornerà a crescere e svilupparsi per tutto il secolo XIX, quando i catalani, approfittando dell’indebolimento e della corruzione del potere spagnolo, tenteranno ripetutamente di liberarsi dal centralismo. La rinascita del catalanismo favorirà anche un vasto movimento letterario (Aribau, Verdaguer, Maragall, Guimerà) e la formazione della Llega, un partito regionalista conservatore. Così come nel Paese Basco, anche in Catalunya nel 1931 vincono i repubblicani e viene negoziato con Madrid uno stato di autonomia. Durante e dopo la Guerra Civile, il franchismo (proprio come nel Paese Basco e con gli stessi metodi) farà tavola rasa del catalanismo. Bisogna ricordare che la Catalogna ha un’antica tradizione d’autonomia e che l’industrializzazione del paese era stata opera di una vasta porzione della società (al contrario di Euskal Herria dove era in mano all’elite finanziaria di Bilbao e San Sebastian). Perciò mentre è talvolta esistita una convergenza d’interessi tra alcuni settori della borghesia basca e Madrid, questo non è avvenuto con gli imprenditori catalani, in stragrande maggioranza oppositori del franchismo. Per questo Franco, dopo il ‘39, distrusse con ferocia e con la forza delle armi ogni istituzione locale dei Catalani. Lo stesso trattamento venne riservato alla cultura, alla lingua, all’economia (nel 1960 la catalogna produceva il 21,4% del reddito nazionale e non partecipava al budget dello Stato spagnolo che per il 7%). Incalcolabile poi il numero delle vittime delle “sacas”, le esecuzioni sommarie di massa che per anni e anni decimarono quelle classi popolari catalane che maggiormente si erano rese protagoniste della lotta al franchismo e all’ordine sociale esistente (la maggior parte dei giustiziati erano membri della CNT). Contro Franco Durante i primi anni del regime franchista, l’opposizione catalana fu soprattutto simbolica. I grandi leaders politici erano morti o in esilio e così i capi del movimento sindacale. Da ricordare in particolare Lluis Companys (dirigente dell’Esquerra Republicana de Catalunya, fondata nel 1931) rifugiato in Francia, che venne consegnato a Franco dalla Gestapo e fucilato nell’ottobre del 1940. Solo durante gli anni cinquanta l’opposizione prese a manifestarsi apertamente attraverso varie forme di resistenza civile come il boicottaggio di massa dei trasporti pubblici a Barcellona nel 1951. Si ricominciò anche a riaffermare l’identità culturale catalana. Vennero operati sabotaggi e attentati, ma non paragonabili alle azioni di ETA nel Paese Basco. Forme di resistenza al franchismo saranno invece praticate da gruppi libertari catalani come quello del “Chico” e dal M.I.L. (v. Salvador Puigh Antich, garrotato nel marzo 1974). Dopo la morte di Franco (novembre ‘75), le aspirazioni autonomiste poterono manifestarsi più liberamente. Una lunga serie di scioperi e di manifestazioni di massa (appoggiati anche dalla Chiesa e dalle principali autorità del paese) portarono alla “concessione” dello statuto di autonomia del dicembre 1979 e, a differenza di quanto avviene nel Paese Basco, le cose sostanzialmente sono rimaste ferme a quel punto. Lo scopo del catalanismo moderato era l’autonomia, garantita nel quadro dello stato spagnolo della Generalidad di Catalogna. Nessun programma politico più ambizioso (come per esempio quello di Herri Batasuna per il Paese Basco) è stato finora seriamente sostenuto e difeso dai gruppi storici. Nel corso degli anni ottanta non sono comunque mancati tentativi di dar vita ad organizzazioni radicali di impronta dichiaratamente indipendentista. Per quanto minoritari (e attualmente scomparsi dalla scena politica) vanno ricordati il Men (Moviment d’Esquerra Nacionalista) in cui convivevano ambientalisti, pacifisti, antinucleari, femministe, liberali...; notevole anche l’esperienza dell’Mdt (Moviment de Defensa de la Terra) che, ispiran- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 dosi a Herri Batasuna, seppe coniugare le istanze indipendentiste con la radicata tradizione ambientalista delle lotte sociali. In quegli anni l’organizzazione che godette di maggiore notorietà, soprattutto nell’universo spettacolare dei media, fu sicuramente Terra Lliure, dedita alla lotta armata. Autosciolta nel ‘92, la maggior parte dei suoi militanti si sarebbero integrati nell’Esquerra Monteagudo, ucciso dalla Guardia Civil dopo il tragico attentato di Vic. La “Crida a la Solidaritat” (nata nel 1981, anch’essa attualmente autosciolta e confluita nell’Esquerra Republicana) rappresentò una risposta al tentativo di golpe di Tejero. In quella occasione un’assemblea di migliaia di persone all’Università di Barcellona produsse un manifesto intitolato “crida a la solidaritat en defensa de la lengua, la cultura i la naciò catalana”, basato sulla rivendicazione dei diritti nazionali storici della Catalunya, sul progetto di unità dei Paisos Catalans, sul diritto all’autogoverno, sulla difesa della lingua catalana come lingua propria e unica del paese, sull’approfondimento della democrazia come forma di progresso sociale. In ogni caso, nonostante la presenza di queste organizzazioni, nelle elezioni legislative dell’80 e dell’84 la maggioranza toccò ancora ai moderati della CIU (Convergenza e Unione nazionalista) di Jordi Pujol, partito aderente all’internazionale democristiana e favorevole al dialogo con Madrid, che ottenne più di settanta seggi su 135. Altri quaranta andarono al PSC (Partito socialista catalano). Come è noto Pujol e la CIU sono stati un’indispensabile stampella politica per il governo di Felipe Gonzales (ruolo che sembrano voler mantenere anche nei confronti di Aznar). Nelle elezioni per il Parlamento europeo (giugno 87) i voti del Men, dell’Mdt (oltre a quelli di Nuova Falce, della Lcr e dell’Mce) convergendo sugli indipendentisti baschi di Herri Batasuna resero possibile l’elezione di Txema Montero. Gianni Sartori 31 Quaderni Padani - 33 Corsica Le prime tracce di insediamenti umani nel sud-est della Corsica risalgono al 6000-6500 a. C. Le successive invasioni (v. la civiltà detta torreana) determinarono spostamenti di popolazioni verso nord e verso l’interno. Durante il VI secolo a.C. i Greci fondarono Alalia (la futura Aleria), iniziando a colonizzare la costa orientale. Ulteriori tentativi di penetrazione venero operati da Cartaginesi e Fenici. I romani vi sbarcarono verso la metà del III secolo a.C., incontrando una fiera resistenza. All’occupazione romana fece seguito quella dei vandali, degli ostrogoti, dei bizantini, dei longobardi ... finché nel 755 d.C. Pipino il Breve ne fece dono al papa. Tra il 1077 (si deteriorano i rapporti tra il Papa Gregorio VIII e l’imperatore Enrico IV) e il 1284 la Corsica venne periodicamente affidata, spartita, contesa tra Genova e Pisa. Con la battaglia della Meloria (1284) cade definitivamente sotto il dominio genovese. Lo scontro tra le due repubbliche marinare era stato sapientemente usato dai corsi per rafforzare la propria autonomia estendendo a tutto il territorio un sistema amministrativo basato sull’autogoverno. Anche i Genovesi, come tutti i precedenti invasori, si vedono ben presto costretti ad acquartierarsi lungo la costa, chiusi nelle loro fortezze. L’interno, la “montagna” (il 70% del territorio) resta saldamente in mano ai corsi. Nel 1297 papa Bonifacio VIII rispolvera i suoi “diritti” sull’isola di granito e la concede a Jaume II che regge la corona catalano-aragonese. Questo provoca profonde lacerazioni anche all’interno della società corsa. Si assiste ad una provvisoria convergenza di interessi tra una parte dei corsi e i “Comunali” genovesi, nel quadro delle lotte antifeudali. Sambuccio d’Alando rappresenta la figura carismatica di questo periodo (quasi un antesignano dell’indipendentismo); la sua riorga- 32 34 - Quaderni Padani nizzazione sociale sulla base delle “terre comuni” contribuisce ad innestare il profondo legame tra i corsi e la loro terra, fino ai nostri giorni. Anche quando la corona catalana rinuncia ai suoi “diritti” la Corsica resta politicamente divisa. L’occupazione viene portata avanti dal Banco di San Giorgio, sotto forma di investimenti e repressione. Il 23 agosto 1533 Sanpiero Corso sbarca sull’isola per contrastare con le armi lo strapotere del Banco di San Giorgio ma viene sconfitto dall’ammiraglio Andrea Doria. La maggior parte delle rivolte si registrano nel ‘700, determinate dalla sistematica opera di rapina e sfruttamento operata da Genova con l’esproprio delle terre. Nel 1753 i genovesi fanno assassinare Goffri, un leader dell’opposizione, provocando una vasta sollevazione popolare a carattere indipendentista. Si forma un direttorio presieduto da Clemente Paoli che chiede al fratello Pasquale di rientrare dall’esilio. Nel luglio del 1755 la “Consulta” di Casabianca investe Pasquale Paoli di tutti i poteri. Mentre l’Europa sottostava alle varie dittature monarchiche in Corsica, grazie al progetto costituzionale di Paoli, si va delineando un assetto politico fondato sul voto, sul suffragio a tutti i livelli. Per la prima volta nella sua storia la Corsica poteva fregiarsi degli attributi di una autentica sovranità quali una stamperia nazionale, una moneta corsa, una armata popolare... Luigi XV invia 35.000 uomini a sedare la pericolosa rivolta, il cui esempio potrebbe essere contagioso. I Corsi vengono sconfitti nel maggio del 1769 nella battaglia di Ponte Novu. Con il trattato di Versailles l’isola viene letteralmente venduta alla Francia. Ogni ulteriore resistenza viene tacciata di “banditismo”; la repressione imperversa a base di esecuzioni sommarie e deportazioni; intere comu- nità vengono massacrate (Niolu), i paesi distrutti ... Contemporaneamente si assiste ad una sistematica opera di alienazione culturale e di distruzione della memoria storica; si cerca di indurre i giovani delle famiglie più in vista ad integrarsi come funzionari dello stato o dell’esercito. Dal 1817 vengono tassati tutti i prodotti che escono dall’isola; esentati quelli che vi entrano. L’economia corsa viene annichilita e al popolo corso non resta altro che una massiccia emigrazione. Dopo la seconda guerra mondiale, nonostante il notevole contributo dei corsi alla lotta di liberazione, la tendenza colonizzatrice si accentua. I successivi interventi economici della Francia favoriranno soprattutto gli immigrati francesi, in particolare i “piedi neri” (ben 15.000 nel 1961 provenienti dall’Algeria) provenienti dalle colonie nordafricane che avevano riacquistato l’indipendenza. Sempre negli anni sessanta si costituiscono vari organismo di autodifesa culturale ed economica per opera di studenti e commercianti. Per prima l’Union corsa. Nel 1964 nasce il Centro di studi e di difesa degli interessi corsi (Cedic). Nel 1965 nasce il Fronte regionalista corsu (Frc) da cui nel 1967 fuoriescono Max ed Edmondo Simeoni fondando l’Azione regionalista corsa (Arc). In seguito il Frc diventerà Partito di u populu corsu e l’Arc Azione per a rinascita di a Corsica. Il 21 agosto 1975 ad Aleria una trentina di militanti dell’Arc occupano la cava vinicola Depeille. L’intervento della gendarmeria provoca uno scontro armato con morti e feriti. L’anno successivo nasce il Fronte di liberazione naziunale di a Corsica (FLNC) dichiaratamente indipendentista. Come principale controparte il FLNC individua le varie creature del colonialismo: l’amministrazione statale, le numerose forze di occupazione mili- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 tare (basi della Legione straniera, basi missilistiche e aeree, quelle per i sommergibili, altre per le “teste di cuoio”...) i mezzi di informazione francesi (v. attentati agli impianti televisivi) considerati responsabili della deculturazione, gli spacciatori di droga... Suo obiettivo è l’instaurazione di un potere autenticamente democratico, espressione della volontà del popolo corso. La lotta armata è un modo per danneggiare il potere coloniale, supportare la lotta politica. Secondo il Fronte alle prime due fasi (propaganda armata e guerriglia si dovrà sostituire “l’autodeterminazione intesa come pratica generalizzata dei diritti nazionali”. Lo stato risponde a suo modo: repressione, militarizzazione del territorio, schedature di massa, incriminazioni per reati d’opinione, “guerra sporca”... Su imitazione del Gal antibasco nasce il Francia (Front d’action nouvelle contre l’indipendence et l’autonomie) che compie attentati contro i militanti nazionalisti corsi. I tragici fatti dell’ultimo anno (una vera e propria matanza di militanti e simpatizzanti de A Cuncolta e del Fronte) sono stati prontamente strumentalizzati dai media per decretare la fine della lotta di liberazione. In realtà è scontato riconoscervi l’operato dei servizi segreti francesi e dei vari interessi mafiosi (v. speculazione edilizia, traffico di droga...) messi in crisi dall’attività del Fronte. È almeno dal 1989 che il Flnc (Canale Storico) e A Cuncolta denunciano ripetutamente le operazioni condotte dai Servizi per screditare il movimento di liberazione e cercare di dimostrare che il popolo corso è incapace di autogovernarsi. Già allora si registrava, accanto ad un apparente ammorbidimento della repressione ufficiale, una serie di iniziative tese a corrompere o a provocare derive in seno al movimento, instaurando rapporti occulti con personaggi in passato legati all’indipendentismo e garantendo loro carriere amministrative, vantaggi economici, il controllo di determinate zone turistiche. Gianni Sartori Cecoslovacchia Cronologia 1989, Autunno. “Rivoluzione di velluto”. Il centralismo comunista si sfalda e viene rimesso in discussione lo Stato cecoslovacco. 1990, aprile. Continuano le pressioni di Bratislava, capitale della Slovacchia, per il riconoscimento della propria separatezza, mentre il nome dello Stato diventa “Repubblica Federale Ceca e Slovacca”. giugno. Le elezioni per l’Assemblea Federale sembrano sostenere la causa di coloro che vogliono l’unione. L’unico partito separatista, il Partito Nazionale Slovacco, ottiene solo 15 seggi dei 300 disponibili. Ciònonostante la questione della struttura e della direzione governativa della Cecoslovacchia rimane aperta e diventa sempre più scottante. agosto. In Slovacchia dimostrazioni per ottenere maggiore indipendenza della Repubblica in materia economica, così come compensazioni per il diverso impatto dei processi di “transizione”. Nel 1991 la disoccupazione in Slovacchia sarà tre volte tanto quella esistente nella repubblica ceca. dicembre. Emendamenti alla Costituzione che portano ad una maggiore distribuzione del potere fra le due Repubbliche federate. 1991 Appelli di Vladimir Meciar (Primo Ministro slovacco) all’autonomia slovacca. Tuttavia i suoi metodi e le sue idee non attirano molti slovacchi e soprattutto altri politici. aprile. Meciar viene congedato dal Consiglio Nazionale Slovacco. In seguito aumentano i discorsi separatisti di Meciar. ottobre. Meciar proclama che se i colloqui sulla federazione falliranno, si procederà alla battaglia per unire la Slovacchia e la Moravia. Il successore di Meciar come Primo Ministro slovacco, Jan Carnogursky, adotta la causa separatista, sebbene la difenda con toni più smorzati del suo predecessore. Sebbene Carnogursky prende parte al gruppo incaricato di redigere il progetto di Costituzione, dichiara che la Slovacchia aspira ad ottenere la piena indipendenza entro il 2000 e che un assetto confederale può essere adottato in via provvisoria. 1992 giugno. Elezioni. Ritorno di Meciar. Tuttavia la maggio- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 ranza dei cittadini in entrambe le Repubbliche continua a sostenere la Federazione e ad aspirare ad una modifica del corso economico delle riforme, troppo pesante per la Slovacchia. (Nel 1991, il 70% degli slovacchi e il 53% dei cechi). Solo il 23% degli slovacchi ritiene la secessione desiderabile. L’autodeterminazione slovacca sembra un fine minoritario. Invece la situazione precipita subito dopo le elezioni. I cechi intravedono un vantaggio nel distacco della Slovacchia. Gli slovacchi identificano Praga con l’“oppressore” e la Federazione come “un’invenzione ceca per limitare l’autonomia slovacca”. Klaus accentua il suo centralismo e anziché l’alternativa fra nuova federazione e secessione pone il contrasto fra Stato centralizzato o separazione. I negoziati fra i due leader dei maggiori partiti, Meciar e Klaus, rapidamente falliscono. Instabilità governativa. Meciar propone la creazione di una confederazione temporanea, con monete differenti, riforme economiche proprie, esercito differente. Klaus rifiuta. Il potere federale è in rapida dissoluzione e Jan Strasky (nuovo Primo Ministro), 33 Quaderni Padani - 35 riconoscendo che il potere centrale è in declino, parla apertamente della separazione delle due Repubbliche. In Slovacchia Meciar, dopo aver ordinato ai suoi deputati di negare appoggio alla rielezione del Presidente Havel, forma un governo dominato da suoi fedeli e adotta una diversa politica economica. I membri della burocrazia vengono rimpiazzati con esponenti locali. luglio, 17. Proclamazione della sovranità della Slovacchia da parte del Consiglio Nazionale della Slovacchia. ottobre. Decisione formale nel corso di negoziazioni, di separare le due Repubbliche. Viene fissata la data del 1 gennaio 1993. novembre, 11. La dissoluzione della Cecoslovacchia viene approvata formalmente (ma illegalmente, poiché la Costituzione in vigore richiedeva un referendum) dall’Assemblea Federale. Dinamica Tutto il periodo dal 1989 al 1992 rappresenta la continuazione della lotta interna fra cechi e slovacchi per il controllo delle istituzioni e per una adeguata rappresentanza degli interessi etnici nel processo decisionale. Nel 1990 si ebbe una significativa discussione sulla denominazione della Cecoslovacchia, che rispecchiava le posizioni centraliste e quelle federali o per la separazione. La discussione sul bilanciamento federale del potere incomincia nell’autunno del 1990 e culmina negli emendamenti adottati in dicembre. Tuttavia i negoziati per la nuova Costituzione federale falliscono rapidamente. Poi, nonostante le apparenze della solidità dello Stato unitario, le posizioni separatiste guadagnano velocemente terreno. Le posizioni favorevoli ad un distacco della Slovacchia erano molto più radicate delle espressioni (retoriche e spesso folcloristiche) di Meciar. Infatti, il suo successore adotta la causa separatista seppur usando toni differenti. Una volta adottata dalla classe 34 36 - Quaderni Padani politica slovacca la posizione separatista, la popolazione finisce per seguire. Una spinta notevole viene data a queste posizioni dalla riforma economica avviata a livello federale da Vaclav Klaus, troppo gravosa per la Slovacchia. Dopo le elezioni del giugno ’92, che non producono un chiaro accordo di governo, un numero crescente di cechi si convince che abbandonare la Slovacchia potrebbe essere un vantaggio, non solo per i problemi delle minoranze della Slovacchia meridionale (ungheresi), ma anche per l’economia ceca. Gli slovacchi vedono in Praga la fonte delle loro difficoltà. Inoltre, la posizione centralista di Klaus aggrava la situazione e fa fallire i negoziati su una nuova confederazione. La polarizzazione politica e la frustrazione diffusa giocano un ruolo determinante. L’autorità del centro perde legittimità e si disintegra con rapidità estrema. Cause principali Le cause economiche (disparità di sviluppo fra cechi e slovacchi) e la diversità etnica inconciliabile fra le due etnie principali (in realtà si tratta di differenze minime, come qualsiasi slavista può facilmente attestare, nemmeno paragonabili a quelle esistenti fra popolazioni padane e popolazioni meridionali) sono state ritenute a lungo le sole ragioni della disintegrazione della Cecoslovacchia. Si tratta però di interpretazioni non soddisfacenti. Infatti anche in altri Paesi dell’Est europeo cause economiche ed etniche di contrasto non sono state sufficienti a far esplodere lo Stato territoriale. Alla base della costante tendenza alla separazione fra Slovacchia e Cechia va rilevata la questione istituzionale, quella dell’esercizio del potere nello Stato, quello della rappresentanza di alcuni gruppi a discapito di altri. Le cause etniche cioè sono comprensibili solo se viste attraverso il filtro istituzionale. I gruppi insoddisfatti della localizzazione, della distribuzione e della bilancia del potere (la maggior parte del potere e dell’amministrazione era nelle mani dei cechi), nonché della squilibrata rappresentanza, hanno portato al cambiamento della forma istituzionale, fino alla frammentazione. In Cecoslovacchia dal 1918 il contrasto è sempre stato fra centralizzatori e unitaristi (in maggioranza cechi, in posizione dominante), decentralizzatori (in maggioranza slovacchi) e separatisti (slovacchi). La separazione era già avvenuta nel 1939, con l’appoggio tedesco agli slovacchi, ed aveva contribuito a rafforzarne il senso di indipendenza e la convinzione di sapere autogovernarsi. Dopo il 1948 però essi vennero controllati rigidamente dai comunisti, i quali, ristrutturando le istituzioni statali in senso centralistico durante tutti gli anni ’50, resero impotente la causa dell’indipendenza slovacca anche all’interno della “federazione”. Le maggiori rivendicazioni slovacche divennero allora prevalentemente istituzionali: un autentico sistema federale (e non solo una “valvola di sfogo” per le frustrazioni) e una rappresentanza uguale nello Stato e nell’amministrazione, che ne consentisse il controllo. La questione istituzionale diventa centrale quando fioriscono le discussioni sulla riforma economica per la fuoriuscita dal socialismo reale. La somiglianza più rilevante con l’odierna situazione della Padania era data, prima della separazione fra Repubblica ceca e Slovacchia, da due condizioni per rimediare alle quali per decenni sono continuati i tentativi di riformare le istituzioni: 1) l’impossibilità slovacca di influire sulle decisioni (politiche, economiche) prese a livello centrale; 2) la netta prevalenza di personale amministrativo ceco, che occupava le cariche principali e la stragrande maggioranza dei posti pubblici. Alessandro Vitale Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 I Paesi Baltici Va rilevato subito che per i Paesi Baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), il termine secessione, usato per indicare quanto è accaduto con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, non è del tutto corretto: occorre infatti parlare di “restaurazione” dell’Indipendenza, già posseduta da queste Repubbliche nel periodo ricompreso fra le due guerre mondiali. Tuttavia va detto anche che per ottenere la prima Indipendenza dall’Impero russo e poi dal nuovo Stato dei bolscevichi, i baltici misero in atto una secessione. Inoltre, le procedure adottate, i meccanismi, la dinamica degli avvenimenti del 1989-1991, corrispondono ad un vero e proprio processo di secessione avvenuto in maniera extra-legale (rispetto alle leggi di attuazione del diritto di secessione riconosciuto dall’articolo 72 della Costituzione dell’Urss, del 1977) e in seguito internazionalmente riconosciuto. Nonostante la propensione delle civilissime popolazioni baltiche verso la legalità, il rifiuto della violenza ecc., nel corso della riconquista dell’Indipendenza a imponenti manifestazioni di massa si sono aggiunte dichiarazioni “illegali” di Indipendenza seguite da sanzioni economiche e militari. Contrariamente a quello che si pensa, i Paesi Baltici hanno ottenuto l’Indipendenza pur non essendo affatto entità etnicamente omogenee: nemmeno nel caso della Lituania, che costituisce una parziale eccezione. Le prime tappe. Il 23 agosto 1989, nel 50° Anniversario del Patto Molotv-Ribbentrop, due milioni di persone formarono una catena umana che si snodò per 600 km, unendo Tallin, Riga e Vilnius, le capitali. Il 27 dello stesso mese Il Cremlino, che definì la manifestazione del 23 agosto “un’isteria nazionalistica” (e gli attivisti vennero accusati di avere contatti con centri stranieri), rispose con un ultimatum, nel quale i dirigenti baltici venivano peren- toriamente invitati a porre fine al “corso rovinoso delle forze nazionaliste”. Tuttavia è interessante notare che, mentre la Tass parla di un milione di persone, i differenti quotidiani di Mosca, grazie anche alla retorica della glasnost’, non travisano, ne alterano i dati numerici sulla partecipazione delle popolazioni baltiche alla catena umana da Vilnius a Tallinn, che a Mosca viene conosciuta così nelle sue reali dimensioni. La “Komsomolskaja Pravda” (giornale della gioventù comunista), a partire da quegli anni sempre più ironico e critico nei confronti dell’establishment sovietico, aumenta addirittura le cifre, parlando di tre milioni di persone. Il movimento indipendentista delle tre Repubbliche, a forte legittimazione popolare, (il Sajudis in Lituania, il Tautas Fronte in Lettonia, l’Eestimaa Rahvarinne in Estonia) e autore di una azione politica decisa, che nel 1990 era giunto a proclamare la sovranità, vide il riconoscimento dell’Indipendenza da parte dell’Urss il 6 settembre 1991 (della Lituania il 29 luglio 1991), dopo che agli inizi dello stesso anno nei tre Paesi si erano svolti appositi referendum secondo le leggi interne delle tre Repubbliche sovietiche. I tre Fronti si erano schierati inizialmente a favore del progetto di ristrutturazione della società sovietica; tuttavia gradatamente i gruppi massimalisti dei movimenti, che inizialmente non avevano trovato spazio, hanno fatto prendere all’intero movimento connotazioni indipendentiste radicali, di fronte all’immobilismo di Mosca. Gli esponenti politici baltici, federalisti e favorevoli ad una nuova confederazione con Mosca (come ad esempio il Primo Ministro estone Toome, che considerava il referendum per la secessione come una “risorsa di ultima istanza”) vengono progressivamente scavalcati, travolti e dimenticati dagli stessi avvenimenti. Già nel maggio del 1990 l’Assemblea Baltica, che riuniva i rappre- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 sentanti dei tre Fronti popolari, aveva sottoscritto un programma d’azione comune. L’11 marzo del 1990 il Parlamento lituano aveva già proclamato l’Indipendenza della Repubblica quasi all’unanimità. Mosca dichiara nulle le decisioni lituane e chiede la ritrattazione della dichiarazione di Indipendenza. I passaggi successivi furono: 1) L’11 aprile la visita di Gorbaciov in Lituania convince da una parte il Presidente dell’Urss che l’Indipendenza è voluta da tutti e convince dall’altra i lituani che l’Indipendenza non può essere chiesta, ma va conquistata. Fallisce la proposta di una nuova Confederazione sovietica, illustrata da Gorbaciov. Il 20 aprile 1990 i paracadutisti sovietici bloccano i rifornimenti energetici alla Lituania, occupano le fabbriche e isolano Vilnius dal resto del mondo. Si forma una guardia repubblicana di volontari e si invitano i coscritti lituani a disertare dall’Armata Rossa. Due giovani lituani si danno fuoco per protesta, uno a Mosca (Stanislovas Zemaitis) sulla Piazza Rossa e l’altro alla frontiera sovietico-ungherese di Cjop. Il Capo del Governo lituano inizia un vano giro per le capitali europee per cercare appoggio. L’Europa politica sta a guardare. Nessuno riconosce la nuova Lituania. Estonia e Lettonia dichiarano la loro indipendenza il 4 marzo e il 30 maggio 1990. 2) L’approvazione (in Estonia e Lituania) di una legge che dichiarava “esclusivo patrimonio nazionale”, del tutto sottratto al controllo di Mosca, la terra e le risorse del sottosuolo, i boschi e le acque (questi ultimi fortemente compromessi dalla devastazione prodotta dal regime “pubblico” collettivizzato). 3) L’approvazione di una legge che sanciva la “sovranità economica” delle due Repubbliche. 4) L’appello all’Urss, alla BRD, alla DDR e all’ONU, affinché dichiarassero solennemente nulle le clausole e i protocolli segreti del Patto te- 35 Quaderni Padani - 37 desco-sovietico Ribbentrop-Molotov del 1939. All’ONU venne richiesto di sovrintendere allo svolgimento di libere elezioni e al ritiro delle truppe sovietiche d’occupazione. Mosca risponde inizialmente con la concessione alle tre Repubbliche del riconoscimento del chozraschet: l’autonomia di bilancio, la facoltà di decidere autonomamente gli investimenti e di disporre degli utili. Tuttavia, quando il Sajudis lituano annuncia l’arruolamento di volontari per la difesa del territorio lituano, Gorbaciov autorizza le truppe sovietiche a passare dalle azioni “dimostrative” ad attacchi veri e propri. Tuttavia il popolo lituano rimane tranquillo e disciplinato, evitando ogni possibile scontro e sconfiggendo la forza bruta con pacifiche mobilitazioni di massa. 5) Il Soviet Supremo (Auksciausioji Taryba) della Lituania forma una Commissione Speciale che dimostrò il carattere violento dei Patti tedesco-sovietici e la nullità conseguente degli atti ad esso successivi. La richiesta di secessione diventava una conseguenza logica. 6) Le Repubbliche sovietiche baltiche cambiano nome. Viene perfino ripristinata l’ora finlandese e dell’Europa Centrale (come ai tempi dell’Indipendenza), per sottolineare il distacco dall’ora di Mosca. Vengono ripristinati articoli delle Costituzioni precedenti all’occupazione sovietica. 7) Nella riunione di Jurmala (Lettonia) viene rifiutata la partecipazione alle trattative con Mosca per la conclusione di un nuovo “Patto federale”, che regoli i rapporti fra le Repubbliche sovietiche su una base più liberale. Tutti i trattati con Mosca vengono infatti subordinati alla restaurazione dell’Indipendenza per le tre Repubbliche. Parte la richiesta di un seggio all’ONU. I governi dei Paesi baltici si rifiutano di prendere parte alla stesura del nuovo Trattato dell’Unione, varati da Mosca per ridisegnare i termini della Federazione. Va detto che già negli anni precedenti le proposte ingannevoli di Mosca di cambiare la Costituzione del 1977 in senso “federale” (lascian- 36 38 - Quaderni Padani do però immutati alcuni articoli centralisti, quali il 73, con i suoi famigerati 12 punti, che negavano qualsiasi sovranità alle Repubbliche) vennero denunciate in Lituania con l’iniziativa “Un milione di firme”, contro le modifiche costituzionali previste da Mosca. In pochi giorni vennero raccolte 1.800.000 firme per la sovranità della Repubblica lituana e in Lettonia un milione, così come in Estonia. Da allora in poi le popolazioni baltiche non si accontentavano più di cambiamenti “cosmetici” del sistema, cioè delle promesse gorbacioviane di maggiore decentramento, che non avrebbe mutato affatto il modello staliniano di “federazione unitaria”. 8) Viene rifiutata integralmente da parte degli esponenti dei tre Paesi la procedura per il referendum prevista dalla legge di attuazione del “diritto all’uscita libera” (svobodnogo vychoda) dall’Urss, del 3 aprile 1990. Gorbaciov insisteva perché venissero seguite quelle procedure e i termini imposti da Mosca, che di fatto avrebbero bloccato la secessione. Come sempre accade negli Stati unitari, Mosca pretendeva in realtà che il destino dei baltici venisse deciso dall’intera Unione Sovietica, le cui popolazioni avrebbero potuto consentire o meno all’indipendenza dei Paesi Baltici. La motivazione del rifiuto da parte dei baltici è che Lettonia Estonia e Lituania non sono territori unitisi volontariamente all’Unione Sovietica, ma Stati occupati: quindi è impensabile risolvere il problema secondo le leggi dello Stato occupante. L’autodeterminazione era già stata ottenuta nel 1918. 9) Da parte dell’Urss prosegue il tentativo di destabilizzare contemporaneamente sul piano politico e su quello economico le Repubbliche Baltiche. Il blocco economico interrompe le forniture di petrolio, di gas, di materie prime, di prodotti alimentari, di medicinali. Tuttavia i baltici non erano spaventati nemmeno dalla prospettiva di dover pagare all’Urss “riparazioni” per investimenti russi o mancate consegne: sono disposti anche a “pagarsi” l’Indipendenza. Nel gennaio 1991 il Cremlino impiega il pugno di ferro: reparti corazzati sparano e travolgono la folla inerme a Vilnius, provocando 14 morti e 230 feriti (alcuni muoiono in seguito) fra coloro che difendevano la torre della televisione. A Riga cadono quattro indipendentisti e ci sono molti feriti. Secondo l’organizzazione autonoma degli ufficiali russi “Scit”, solo il Presidente dell’Urss aveva potuto autorizzare l’intervento dei “berretti neri” sovietici. Questa repressione compatta maggiormente le popolazioni baltiche intorno all’idea di Indipendenza. Vengono formate forze di difesa baltiche per proteggere gli edifici pubblici indipendentisti. 10) Le truppe sovietiche importunano con controlli a tappeto e perquisizioni gli abitanti delle città, presso i nodi stradali maggiori. Si tenta di disorientare l’opinione pubblica dei Paesi Baltici con false informazioni. 11) Gorbaciov indice un referendum sull’unità dell’Urss, ma i baltici decidono di boicottarlo e di indirne uno per l’Indipendenza. Gorbaciov lo invalida con un decreto presidenziale (5 febbraio) prima ancora che si svolga. Egli ribadisce la necessità di preservare l’Unione Sovietica, riservando al Partito comunista il ruolo di garante dell’unità nazionale e approvando la linea dura delle Forze armate nei confronti degli indipendentisti. Gorbaciov aveva dichiarato due anni prima che «... realizzare il diritto all’autodeterminazione con la secessione significa mandare all’aria l’Unione, mettere i popoli gli uni contro gli altri, predisporre i conflitti, la morte e il sangue: ecco a cosa stanno lavorando i separatisti». Nel corso della sua visita a Vilnius nel 1990 aveva detto: «Se qualcuno tenta di metterci gli uni contro gli altri e se questo porta ad uno scontro, allora sarà una tragedia ...». Questa è dunque una vera e propria “profezia che si autoadempie”.... 12) Il referendum indipendentista si svolge però in Lituania, nonostante il tentativo dei filosovieti- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 ci di farlo fallire, il 9 febbraio 1991, senza incidenti e sotto la supervisione di un centinaio di osservatori stranieri. I risultati sono un plebiscito (più del 91%) per l’Indipendenza. In Estonia è favorevole all’Indipendenza il 96% della popolazione, quindi con la stragrande maggioranza dei russi. Mosca voleva che i referendum eventuali sull’Indipendenza dovessero portare alla secessione solo se i due terzi dell’elettorato fossero stati d’accordo. In realtà Gorbaciov mirava a includere tutti i russi negli elettorati dei Paesi Baltici per questi referendum, condizione che avrebbe fatto fallire (soprattutto in Lettonia ed Estonia, per la massiccia immigrazione forzata slava del periodo staliniano) le rivendicazioni indipendentiste. Tuttavia il criterio della selezione etnica (necessario, a fronte dello snaturamento delle popolazioni baltiche), previsto per la partecipazione ai referendum prevalse: già nel 1990 il Congresso lettone ed estone del resto erano stati eletti dai cittadini residenti in Lettonia ed Estonia da prima del 1940 e dai loro figli, escludendo in tal modo i russi che si erano stabiliti più tardi nei Paesi Baltici e gli altri immigrati successivi. Va detto comunque che nei Paesi Baltici un numero imponente di russi ha appoggiato i movimenti indipendentisti baltici e la loro lotta per l’Indipendenza. Non pochi russi sono stati eletti nelle liste dei Fronti popolari. 13) La repressione continua anche dopo i referendum: con attacchi ai posti di dogana da parte dei reparti speciali sovietici (Omon) con devastazioni e incendi, assassinio di doganieri baltici, attacchi alla centrale telefonica per ordine del Ministero degli Interni di Mosca, ecc. Durante il colpo di Stato dell’agosto del 1991, viene fatto appello nei Paesi Baltici alla disobbedienza civile. Viene bloccata da parte dei sovietici l’informazione radio-televisiva, colonne di carri armati accerchiano Vilnius. Viene proclamato allora lo sciopero generale politico ad oltranza. Tutti e tre gli Stati Baltici approvano un proclama, indirizzato ai parlamenti e ai governi di tutto il mondo, con il quale si chiede il riconoscimento immediato della loro Indipendenza. Dopo il fallimento del colpo di Stato di Mosca, che ha dato un impulso insperato alle aspirazioni baltiche di indipendenza, gli avvenimenti si susseguono ad una velocità incredibile. I Parlamenti dei Paesi Baltici approvano decreti decisivi e irreversibili per l’Indipendenza. Con molto ritardo gli Stati europei e di altri continenti (gli Stati Uniti due settimane dopo i principali Paesi occidentali) riconoscono uno dopo l’altro l’indipendenza dei Paesi Baltici. Oggi i Paesi Baltici si trovano ai primi posti fra i Paesi dell’ex Blocco orientale, per prospettive di sviluppo. Nemmeno il pesante boicottag- gio economico sovietico subito negli anni successivi alla riacquisizione dell’Indipendenza è riuscito a piegarne le capacità e le energie. I rapporti fra le etnie sono andati oggi notevolemente migliorando nei Paesi Baltici con la riacquisizione dell’Indipendenza. Infatti, la causa principale delle tensioni etniche era, come affermavano gli stessi esponenti dei Fronti popolari, la politica coloniale attuata dal potere sovietico d’occupazione, nel campo nazionale, economico e sociale. Il caso più lampante di distensione attuale è quello dei rapporti fra russi e lituani, in Lituania. Vengono ampiamente garantite l’istruzione nelle rispettive lingue materne, la pubblicazione di giornali, riviste, volumi nelle lingue nazionali (perfino i Fronti Popolari avevano organi ufficiali stampati nelle differenti lingue), esistono forti garanzie dei diritti delle minoranze. D’altra parte, già nel periodo dell’Indipendenza fra le due guerre, i Paesi Baltici avevano una legislazione molto liberale sulle minoranze etniche e dopo la restaurazione dell’Indipendenza lo sforzo maggiore è stato quello di annullare i danni successivi, prodotti dall’immigrazione slava forzata staliniana (con il fine di annientare le etnie baltiche e di sconvolgerne l’equilibrio etnico), dalle deportazioni in Siberia, dalla violenza e dalle discriminazioni che le popolazioni baltiche hanno dovuto a lungo subire. Alessandro Vitale Paesi baschi L’epigrafia, la toponomastica, la linguistica hanno contribuito a stabilire la specificità etnica e linguistica (più antica di quelle indoeuropee) delle popolazioni originarie del territorio pirenaico. I baschi seppero validamente opporsi all’assimilazione da parte di romani, galli, merovingi e carolingi. Basti citare la famosa battaglia di Roncisvalle (778) in cui i baschi (e non gli arabi) eliminarono la retroguar- dia dell’esercito di Carlomagno che aveva distrutto le mura di Pamplona. Dalle secolari lotte con franchi e visigoti ebbero origine il principato di Vasconia (VI-IX sec.) e il regno di Navarra (IX-XVI sec.). Il principato di Vasconia venne usurpato e smembrato nell’XI sec. dal duca di Aquitania, mentre il regno di Navarra venne sistematicamente sottoposto a intrighi e congiure da parte della Castiglia, tra il XIII Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 sec. (annessione della Biscaglia, di Guipuzcoa e Alava) e il XVI sec. (occupazione militare della Navarra). Da ricordare che alla vigilia dell’invasione della Navarra (1512) il Papa scomunicò i legittimi sovrani, Jean d’Albret e Caterina di Navarra, fornendo alla Castiglia lo jus belli. Gli aristocratici che non si vollero allineare vennero eliminati fisicamente e i loro castelli rasi al suolo. Successivamente Papa 37 Quaderni Padani - 39 Adriano VI con una bolla del maggio 1523, accordò a Carlo V il privilegio di nominare personaggi di suo gradimento, ovviamente filocastigliani, nelle principali cariche ecclesiastiche della chiesa di Navarra. Con il pretesto della caccia alle streghe e agli eretici il Tribunale dell’Inquisizione perseguitò tutte le élites intellettuali, aristocratiche e religiose della Navarra, comprese le minoranze etniche arabe ed ebree. I primi segnali di un consapevole nazionalismo basco contro il centralismo di Madrid e i suoi processi di “ispanità” e di integrazione economica nel mercato spagnolo, si possono individuare nel corso del XVIII secolo. Il centralismo spagnolo trovò seguaci tra la borghesia mercantile del paese basco dato che commercianti e imprenditori vedevano con favore la costituzione di un mercato unificato nel quadro dello stato spagnolo. Erano invece apertamente ostili le classi popolari legate alle antiche leggi tradizionali, i Fueros. La questione del “fuerismo” attraversa tutto il sec. XIX con le due guerre carliste (dal re Don Carlos che si schierò con i fueros baschi). La prima guerra carlista durò dal 1833 al 1839, la seconda dal 1872 al 1876. Già allora alcuni autori interpretarono il sollevamento carlista come una vera e propria guerra di liberazione nazionale, paragonandola a quelle dei greci e dei polacchi. La sconfitta nella prima guerra carlista determinò il negoziato della Convenzione di Bergara e l’elaborazione di un arsenale legislativo che riduce sensibilmente le libertà dei baschi. La legge del 25 ottobre 1839, pur mantenendo i fueros, comportò una sostanziale assimilazione dei baschi. Infatti l’articolo 1 “conferma i fueros nelle province basche” ma “senza pregiudizio per l’unità costituzionale della Spagna”. Inoltre una legge del 16 agosto 1841 soppresse definitivamente il vicereame e le Cortes di Navarra, trasformando l’antico regno di Navarra in una semplice provincia spagnola, mentre la politica fondiaria di Madrid trasfe- 38 40 - Quaderni Padani riva nelle mani dell’oligarchia terriera e mercantile i terreni comuni dei contadini baschi. Dopo la seconda guerra carlista, una legge del 21 luglio 1876 trasformò i baschi in sudditi spagnoli a tutti gli effetti. Il nuovo quadro istituzionale imposto al paese basco, l’integrazione nel mercato spagnolo e nel suo apparato legislativo, permisero il decollo dell’oligarchia industriale e finanziaria. A partire dall’azione di Sabino Arana, i primi decenni del ’900 videro lo sviluppo del moderno nazionalismo basco. Dopo la costituzione della seconda repubblica spagnola (aprile 1931) i baschi elaborarono un progetto di statuto di autonomia (Statuto di Estella) che fece delle quattro province basche uno stato quasi indipendente. Il progetto venne respinto dalle Cortes e la nuova Costituzione repubblicana fece della Spagna uno stato unitario. Un progetto di autonomia venne invece approvato da un referendum nel novembre 1933. Al momento del sollevamento franchista (luglio 1936) la maggior parte dei baschi si schierò con la repubblica e alla fine del ’36 si formò un governo autonomo basco. Sotto la presidenza di Agirre , il governo basco partecipò alla guerra contro il fascismo con le prerogative di un potere sovrano: costituzione di un esercito basco, emissione di moneta, rilascio dei passaporti. Nell’aprile del ’37 per ordine di Franco venne bombardata e distrutta la città basca di Guernica, simbolo dei fueros. Il prezzo pagato dai baschi, durante e dopo la guerra civile, è stato altissimo in numero di morti, prigionieri, esiliati. La vittoria franchista comportò una ulteriore ondata repressiva in tutta la Spagna, ma in particolare nei Paesi baschi e in Catalogna. Venne abolita l’autonomia, si impose la spagnolizzazione dei patronimi baschi, il divieto di esporre la bandiera basca e di insegnare il basco nelle scuole. La nascita di ETA e della lotta armata per l’indipendenza (in particolare l’attentato del dicembre 1973 contro il capo del governo Carrero Blanco) portarono ad un ulteriore inasprimento repressivo. Basti ricordare i numerosissimi casi di tortura (tra cui quello di Eva Forest) e le fucilazioni di Txiki e Otaegi nel settembre 1975, due mesi prima della morte del dittatore. Il passaggio al postfranchismo è avvenuto senza sostanziali rotture con il precedente regime, ma le rivendicazioni nazionalistiche costrinsero il governo centrale a concedere una amnistia e a emanare provvedimenti di “pre-autonomia” alla Catalogna e alle Vascongadas. Nel 1978 venne preparata la Costituzione spagnola, approvata in dicembre mediante referendum. Le quattro regioni basche, uniche in tutto il paese, la respinsero a larga maggioranza in quanto nega apertamente le principali aspettative del popolo basco. Infatti la Costituzione definisce lo stato “unità indissolubile che garantisce il diritto all’autonomia delle nazionalità e delle regioni”. In pratica nega il diritto all’autodeterminazione e vieta la possibilità di costituire federazioni tra le regioni autonome. L’esercito mantiene tutte le sue prerogative, in particolare la sua organizzazione ignora l’ordinamento autonomista e la lingua delle nazionalità. Lo stesso vale per i corpi di sicurezza, come la guardia civil, cui spetta nella realtà il mantenimento dell’ordine (anche dove è prevista una polizia autonoma, come in Euskadi e in Catalogna). Si tratta in sostanza di una autonomia di carattere amministrativo ulteriormente limitata nella sua applicazione pratica. Con le elezioni legislative del marzo 1979 Herri Batasuna (Unità popolare, dichiaratamente indipendentista) per la prima volta elesse tre deputati e un senatore che però non occuperanno i loro seggi nel parlamento di Madrid. Nell’estate del ’79 venne elaborato lo statuto di autonomia per le tre Vascongadas, approvato in ottobre con un referendum popolare. Lo statuto sancisce la separazione tra Vascongadas e Navarra e, nella logica della Costituzione, consente solo un’opera di decen- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 tralizzazione amministrativa. Contemporaneamente una parte di ETA decise di continuare la lotta armata ritenendo che le autentiche aspirazioni del popolo basco non venissero adeguatamente riconosciute. Il primo parlamento basco venne eletto nel marzo 1980; anche in questo caso Hb decise di non occupare i seggi. Nel 1981 ETA uccise l’ingegnere Ryan della centrale nucleare di Lemoiz; una settimana più tardi nei locali della Direzione generale di sicurezza di Madrid morì sotto tortura il militante basco Joseba Arregi. Le due uccisioni daranno origine a imponenti manifestazioni politicamente contrapposte , favorevoli al clima per il tentativo di golpe militare (23 febbraio). Nell’ottobre del 1982 il PSOE di Felipe Gonzales vinse le elezioni legislative. Dall’anno successivo vengono a formarsi gli squadroni della morte del Gruppo antiterrorista di liberazione (Gal) formato da poliziotti spagnoli in borghese, da ex miliziani franchisti, da delinquenti comuni e anche da neofascisti italiani trapiantati in Spagna. Il loro compito, organico e complementare alla repressione ufficiale, è stato quello di colpire i rifugiati politici in Iparralde (Euskadi nord, in territorio francese). Contemporaneamente venne elaborato il piano Zen (Zona especial norte) rivolto a schiacciare ogni forma di resistenza in Hegoalde (Euskadi sud, in territorio spagnolo). A questo bisogna aggiungere, dal 1984, l’espulsione dei rifugiati dalla Francia. La stragrande maggioranza, una volta nelle mani della polizia spagnola, verrà sottoposta a tortura. Alla fine degli anni ottanta si sono svolti ad Algeri, in varie fasi e dopo vari tentativi, “conversazioni politiche” tra il governo di Madrid e l’ETA; i colloqui sono stati favoriti da due tregue successive. Nel marzo dell’89 ETA accusò il governo di non aver rispettato i patti e il dialogo venne interrotto. Il 20 novembre una squadra della morte ha ucciso Josu Muguruza, deputato di Herri Batasuna, alla vigilia della storica decisione di partecipare alla seduta del parlamento di Madrid per porre all’ordine del giorno la questione del diritto all’autodeterminazione. Gli avvenimenti più recenti: nell’aprile del ’95 ETA lancia una proposta di negoziati politici per la soluzione del conflitto tra Euskal Herria e Stato spagnolo. Secondo ETA lo Stato spagnolo dovrà riconoscere il diritto all’autodeterminazione e l’integrità territoriale di Euskal Herria. In questo caso ETA annuncerebbe un cessate il fuoco che aprirebbe la strada ad un processo democratico in cui i cittadini baschi decidano tutti gli aspetti della futura organizzazione di Euskal Herria. Questi i punti fondamentali della proposta, denominata “Alternativa Democratica per Euskal Herria”: a) Il riconoscimento da parte dello Stato spagnolo di Euskal Herria, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione e all’unità del territorio nazionale; Per ETA “il diritto all’autodeterminazione non è una semplice opzione politica; si tratta di un diritto democratico che ci appartiene in quanto popolo. La decisione sul fatto di sapere quando, come e in che modo questo diritto sarà esercitato spetta ai cittadini baschi. Ma deve essere garantito il riconoscimento di questo diritto, indispensabile perché il Paese Basco determini liberamente il proprio destino”. Continua il comunicato: “Il riconoscimento di Euskal Herria esige che si metta fine all’attuale divisione territoriale (tra Vascongadas e Navarra n.d.r.), le frontiere istituzionali devono essere tolte, l’unità del nostro territorio accettata”. Come si articola concretamente l’unità territoriale? Come si struttura il Paese Basco? Tutto questo compete all’esercizio della sovranità nazionale da parte di Euskal Herria. b) Il rispetto da parte dello Stato spagnolo del processo democratico che si aprirà nel Paese Basco . ETA ribadisce che “il punto di vista del popolo basco dovrà essere pienamente rispettato. Lo stato Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 spagnolo deve impegnarsi a rispettare lo sviluppo di questo processo democratico, qualunque sia il risultato (il corsivo è nostra ndr). Naturalmente “la condizione fondamentale per l’avvio di questo processo è che tutti i cittadini possano prendervi parte senza subire alcuna pressione. Per questo deve coincidere con una amnistia generale, con l’uscita dal carcere di tutti i prigionieri e con il ritorno di tutti gli esiliati, senza eccezione”. Ben conoscendo il ruolo storico di quello che è stato definito (sia da Franco che da Gonzales) “colonna vertebrale dello stato”, cioè l’esercito, l’organizzazione armata precisa che sarà “ ugualmente necessario che siano prese adeguate misure affinché le forze armate spagnole non possano influire per niente su questo processo”. Nel comunicato ETA afferma anche che la nuova proposta per “superare il conflitto, ottenere la pace basata sulla sovranità nazionale e costruire la democrazia in Euskal Herria” viene fatta “con la legittimità di essere parte integrante della società basca e con la garanzia dell’apporto dato alla lotta per l’indipendenza”. La proposta di ETA è “uno strumento che la società basca deve raccogliere nelle proprie mani”. Conclude segnalando che “nella misura in cui si creeranno nuove condizioni e strumenti democratici, ETA, senza abbandonare la lotta per l’indipendenza e per una società basata sulla giustizia sociale, adeguerà la sua attività alla nuova situazione in cui verrà a trovarsi il conflitto. Lo sviluppo di questa proposta determinerà il superamento del conflitto armato tra Euskal Herria e lo Stato”. Alla fine del giugno ’96 ETA ha rilanciato la sua proposta di “Alternativa Democratica” con una nuova tregua senza però che il nuovo governo di Aznar (PP) rispondesse in modo adeguato. Successivamente l’organizzazione indipendentista ha avviato una nuova campagna contro le infrastrutture turistiche. Gianni Sartori Quaderni Padani - 41 39 Québec Nell’ottobre del 1995 i fautori della secessione del Québec dalla federazione canadese sono stati sconfitti, con un margine molto esiguo, nel referendum con il quale chiedevano di fare dell’unica provincia (intesa come Stato, regione, Land) francofona del Canada, uno Stato indipendente e sovrano. I principali fattori, da un punto di vista meramente tecnico, che hanno permesso di giungere alla storica consultazione - la quale fa seguito ad un analogo referendum svoltosi nel 1980, e da cui i separatisti del Parti québecois (Pq) uscirono parimenti sconfitti dal 60% di contrari all’indipendenza - sono tre. Va in primo luogo precisato che il progetto secessionista è stato in procinto di essere realizzato grazie a quanto previsto dalla costituzione canadese. La quale, sebbene non contempli la secessione di una o più province dalla Federazione, ad esse concede un ampio margine di autonomia, anche in campo legislativo locale. Pertanto, per il Québec (così come per qualsiasi altra provincia), è realisticamente più semplice ottenere l’approvazione della secessione dal Canada anglofono, e dalle stesse autorità federali, piuttosto che realizzare solo alcuni e parziali cambiamenti; le modifiche a livello costituzionale esigono infatti la unanime approvazione delle dieci assemblee legislative provinciali e delle due Camere federali. Tanto è vero che - ed è questo il secondo fattore che ha permesso di indire il referendum svoltosi l’anno scorso - è stato un rifiuto parziale, quello di due province anglofone contrarie a ratificare l’“Accordo del Lago Meech”, nel 1990, ad accellerare un processo che era comunque in atto da tempo. Con tale accordo i secessionisti québecois volevano infatti introdurre nella Costituzione canadese il concetto di “società distinta” per i francofoni del Qué- 40 42 - Quaderni Padani bec, in favore dell’identità linguistica ed etnica dei quali il Pq si batte con appassionata costanza da oltre trent’anni. Il terzo elemento è la vittoria ottenuta dal Parti québecois alle ultime elezioni provinciali che si sono svolte in Québec un anno prima del referendum. Nel settembre 1994 i secessionisti francofoni, dopo dieci anni di governo retto dal Partito liberale (i cui elettori sono, in gran parte, anglofoni), contrario ad un Québec sovrano, hanno infatti vinto con il 45% ottenuto dagli avversari. Per quanto esiguo sia stato il margine con il quale è stata ottenuta la vittoria è di importanza relativa, poiché essa ha consentito al Parti québecois di disporre comunque di un’ampia maggioranza parlamentare con cui governare e indire il referendum per la secessione. Tra le cause della sconfitta di quest’ultimo, determinata anche dall’indisponibilità dell’elettorato anglofono residente in Québec di recepire le istanze indipendentistiche, vi è la pressione degli ambienti economici e finanziari canadesi (e dei canali, altrettanto influenti, di cui essi dispongono) che, contrariamente a quanto fecero in occasione del referendum del 1980, durante la più recente campagna elettorale, non hanno lesinato la descrizione degli scenari apocalittici nel caso il Québec fosse diventato uno Stato sovrano, paventando una caduta di benessere socioeconomica non solo nella provincia francofona, ma in tutto il continente. Ed arrivando al punto di dichiarare, pur con doverosi distinguo, che il Canada non avrebbe intessuto alcun rapporto con un eventuale nuovo soggetto politico nato dalla disgregazione del Paese. Una caduta di benessere comunque da verificare, dal momento che il Québec - un paese di 1.540.680 km2 e 7 milioni di abitanti, con vaste foreste, giacimenti di oro, titanio, rame, stagno e ferro, vivaci industrie cartarie, alimentari, tessili, meccaniche, del metallo e del legno - contribuisce con il 22,5% al PIL canadese, è la ventesima potenza economica al mondo, esporta la metà di ciò che produce ed intesse ottime relazioni economico-commerciali con l’Europa e gran parte degli Stati Uniti d’America. Le istanze indipendentistiche presenti in Québec che, nel corso degli anni, ha comunque ottenuto una serie notevole, non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente di riconoscimenti, tanto da essere rappresentato all’estero non da ambasciate o consolati canadesi, ma da apposite «delegazioni», non sono il frutto di tensioni esplose dopo la caduta del muro di Berlino, come invece è successo per numerosi Stati che hanno recentemente raggiunto l’indipendenza in Europa. Ma risalgono agli anni Cinquanta (anche se, a onor del vero, la prima rivolta québecois contro gli anglofoni risale al 1837). Quando coloro che sino a quel momento si autodefinivano «franco canadesi», e nei confronti dei quali il governo di Ottawa praticava una sorta di «apartheid», cominciarono a farsi chiamare québecois. Negli anni Sessanta, le condizioni economiche in cui vivevano i cittadini di lingua francese erano infinitamente inferiori rispetto a quelle della rimanente popolazione del Canada. Ed il francese, nei rapporti tra le province della Federazione canadese non godeva certamente dello status di lingua ufficiale. Era solo l’idioma con cui una parte della popolazione, in una limitata realtà territoriale, poteva comunicare. Ed è stato questo - il mancato riconoscimento dell’identità etnica e linguistica della propria provincia - a sviluppare nei québecois quel senso di appartenenza che lo avrebbe condotto sulla strada delle richieste indipendentistiche negli anni a venire. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Nel 1960 nacque l’Azione socialista per l’indipendenza del Québec, nel 1963 il «Front de liberation québecois, Flq», un movimento politico che, nel corso dei suoi dieci anni di attività, concentrò le proprie energie per il raggiungimento dell’indipendenza, compiendo numerosi attentati contro gli interessi «anglo-canadesi». Gesti gravi e plateali, che furono, però, la conseguenza di situazioni particolarmente disagiate in cui giacevano milioni di persone di lingua francese. Basti pensare che nel 1970, a Montreal, il 38% dei cittadini viveva sulla soglia di povertà. E nei sobborghi francofoni della città sulle rive del fiume San Lorenzo, gli analfabeti ammontavano a circa 300 mila persone. O che, sino a metà degli anni Sessanta, il novanta per cento dei posti di alto livello nella finanza, nell’industria e nelle ferrovie era occupato da canadesi anglofoni. Nel 1967 si impose all’attenzione dei québecois René Levesque, l’artefice dei profondi mutamenti che si verificano negli anni seguenti in Québec. Dapprima militante del Partito liberale (che da qualche tempo insisteva per un riordinamento di tipo federale per il Canada), questo intraprendente politico in quell’anno fondò il Par- ti québecois, con il cui programma indipendentista vinse, nove anni dopo, le elezioni. Nel 1968 il primo ministro federale liberale Pearson cedette il posto al québecois Trudeau. Il quale ottenne, con l’approvazione della «legge 22», che il francese venisse considerato, insieme all’inglese, lingua ufficiale in tutto il territorio del Canada (attualmente, nell’insieme canadese, escluso il Québec, il francese viene parlato solo dal 3,2% della popolazione). Nel frattempo, le più o meno numerose formazioni secessionistiche confluirono nel Parti québecois indipendentiste, ed il clima politico cominciò a surriscaldarsi. Nel 1970 l’Flq sequestrò l’addetto economico del consolato britannico a Montreal ed il ministro del Lavoro e dell’Immigrazione del governo del Québec, Laporto, che gli indipendentisti restituirono cadavere. Il Front de liberation du Québec venne dichiarato illegale e sciolto d’autorità. La tensione tra le comunità francofona e anglofona aumentò ed il paese piombò in un clima di stato di guerra. Vennero inviati migliaia di soldati in tutta la provincia nella quale, durante un periodo di sei mesi, furono arrestate migliaia di persone. A gettare benzina sul fuoco ci pen- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 sò il generale francese De Gaulle che non esitò a provocare una crisi diplomatica tra Francia e Canada quando, in visita a Montreal, durante un discorso esclamò l’ormai celeberrimo: “Vive le Québec libre!”. Nel corso delle consultazioni elettorali che si svolsero nel novembre del 1976, il Parti québecois di René Lavesque, di ispirazione social democratica e appoggiato, in particolare, dalla media borghesia, chiese l’esercizio dell’autodeterminazione per il Québec. E ottenne la vittoria. Nel 1980 Lavesque lanciò il referendum per chiedere l’indipendenza della provincia francofona dalla Federazione canadese. Ma lo perse e si dimise. Dopo la sconfitta, il Pq subì una profonda trasformazione. Migliaia di militanti indipendentisti vennero espulsi e la causa «pour le Quebéc libre» emarginata. Ma il Parti québecois, quando nel 1994 si presentò alle elezioni, ottenne i peggiori risultati della sua storia. Fu in questa occasione che il Partito liberale ricevette il mandato per governare la provincia francofona, revocato solo nel settembre 1994, con la vittoria dei secessionisti di Jaques Parizeau, fine economista e leader del Pq. Corrado Galimberti 41 Quaderni Padani - 43 La secessione della Padania comincia dalle Regioni di Alessandro Storti La rappresentatività delle Regioni La questione del separatismo padano può rappresentare un caso giuridico e politico di notevole interesse per gli studi di diritto internazionale. Ciò è dovuto alle particolari condizioni amministrative e socio-politiche in cui si trovano le nazioni padane. Se andiamo infatti a confrontare il nostro caso con quello dei popoli storicamente in lotta per l’indipendenza, troviamo notevoli differenze. La prima e più importante è che la Padania non è dotata di un organo rappresentativo generale, ma di ben sette consigli regionali che non hanno alcun legame istituzionale fra loro. Se pensiamo al Québec, alla Catalogna, alla Slovacchia, soltanto per citare alcuni esempi, osserviamo che in quelle terre la popolazione ha ed ha avuto la possibilità di esprimere la propria volontà autonomista secondo un percorso unitario. Ciò, evidentemente, non è così semplice per la Padania, che non è giuridicamente rappresentata nella sua completezza. Non è qui il caso di soffermarci sui difetti della ripartizione amministrativa che i burocrati piemontesi tracciarono all’indomani dell’unità. Sarebbe necessario un intero volume per cercare di stabilire con una certa precisione le reali delimitazioni delle nazioni padane, in base a studi di carattere linguistico, storico, sociale ed economico. Inoltre la questione della non corrispondenza è un problema più apparente che sostanziale. Sarebbe infatti sufficiente un movimento secessionista interno alle regioni per modificarne i confini attraverso lo spostamento di Comuni o gruppi di Comuni. È questa una procedura che, oltre a dover partire dal basso, è preferibile rimandare al dopo-separazione. Per il momento un qualsiasi approccio alla questione del distacco della Padania dallo Stato Italiano deve partire da ciò che già c’è: le Regioni. Questi organi rappresentativi territoriali sono infatti gli unici livelli di governo intermedi fra 44 - Quaderni Padani 42 Comuni e Province da un lato e Stato centrale dall’altro. La dimensione regionale, sotto il profilo demografico, geografico e politico, è la sola in questo momento capace di “pesare” istituzionalmente nella grande partita a scacchi che i Padani stanno giocando con il potere romano. Certamente sarebbe stato meglio poter disporre di una Assemblea sovraregionale, rappresentativa della macroregione Padania: a questo obiettivo puntava il percorso costituzionale delineato dal Professor Miglio nel 1992, quando egli teorizzava la necessità che i nostri Comuni promuovessero i referendum per la fusione delle regioni della Valle del Po. In quel caso si sarebbe giunti ad avere una sola area amministrativa (ma con una forza politica dirompente) contrapposta allo Stato centrale. La partita avrebbe assunto i contorni del braccio di ferro a due. Purtroppo quella strada non è stata seguita, con la conseguenza che allo stato attuale la Padania esiste nella realtà, ma non nel campo del diritto. Bisogna a questo punto fare alcune considerazioni sul Parlamento della Padania e sul Governo collegato, creati dalla Lega Nord. In questo caso ci troviamo di fronte, infatti, a un tentativo di dare rappresentanza unitaria alla nostra terra. Questi organi si sono venuti a sovrapporre alle Regioni, ma finora fortunatamente non vi sono state posizioni vicendevolmente ostili. I parlamenti regionali hanno “ignorato” l’Assemblea mantovana, che a sua volta non ha assunto posizioni conflittuali verso gli Enti Locali. Sul rapporto fra queste istituzioni (costituzionali o autoproclamate) torneremo in prosieguo. Ora è utile fare alcune considerazioni sulle differenze fra esse esistenti e sulle funzioni che loro spettano di conseguenza. Le effettive potenzialità giuridiche del Parlamento della Padania sono molto ridotte in conseguenza di due fatti: in primo luogo esso è ancora oggi espressione di una sola forza politica: non Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 c’è stata penetrazione di gruppi esterni, quindi non è ancora avvenuta una forma di reale legittimazione. In secondo luogo l’appartenenza al Parlamento non si basa su criteri elettivi. Gli organi padani della Lega Nord hanno pertanto acquisito l’aspetto di comitati di liberazione. Questo ruolo si concilia con possibili richieste di autodeterminazione, con relativi appelli all’ONU e agli altri organismi internazionali. Ma non è adattabile all’esercizio del diritto di secessione. Tale facoltà appartiene infatti alle comunità politiche, cioè ai gruppi di cittadini organizzati istituzionalmente su un determinato territorio. Il carattere di organizzazione si fonda essenzialmente sul consenso, ovvero sul fatto che la stragrande maggioranza degli abitanti di un’area si riconoscano nelle istituzioni rappresentative dell’area medesima. E nel caso padano ciò può dirsi delle Regioni, ma non del Parlamento di Mantova, in cui si identifica una parte, per quanto vasta, comunque minoritaria dei nostri concittadini. Inoltre il fatto stesso che esistano già dei consigli legislativi regionali toglie spazio all’Assemblea mantovana, che assume dunque un significato soprattutto simbolico e ideale. Territorialità del conflitto Prima di analizzare le strade giuridicamente percorribili per il distacco della Padania dallo Stato Italiano, è utile concentrarsi brevemente sul concetto di “territorialità”. Da molti anni si parla di riforme in senso federale della Repubblica Italiana. Tuttavia in pochi hanno sostenuto la necessità che tali processi partissero dalle comunità politiche che avrebbero dovuto comporre la federazione. Anzi, il più delle volte si è avuta la sgradevole sensazione che “federalismo” fosse soltanto un termine scelto per mascherare quelli che in realtà si presentavano come progetti di puro decentramento. E, come si capisce dalla parola stessa, “decentrare” significa che un organismo unitario si ristruttura senza scomporsi: esattamente l’opposto di qualsiasi struttura autenticamente federale, formata cioè da entità di base che autonomamente, liberamente e consensualmente decidono, attraverso un patto di natura contrattuale, quali funzioni delegare ad un Governo comune (fatta salva la possibilità di revocare tali concessioni e di scindere addirittura il proprio rapporto con le altre entità). Il problema reale consiste quindi nel ruolo che viene assegnato al territorio. Se questo è soltanto visto come ambito in cui agisce un potere, attraAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 verso una organizzazione e suddivisione amministrativa proveniente dall’alto, allora siamo certamente in uno Stato centralista e unitario. Se, al contrario, il territorio si autodefinisce come centro di interessi della comunità politica che in esso risiede (e che ne è proprietaria), allora ci troviamo in presenza di uno stato che si fonda sulla territorialità. Oggi la Repubblica Italiana è un esempio di aggregazione statuale di tipo ultracentralistico, dove il potere sorge dall’alto e si irradia alle comunità che compongono lo Stato; uno Stato che si autopone dichiarandosi “uno e indivisibile”, ergendosi dunque a divinità laica intangibile e perfino fuori dalla storia e dal diritto. Pensare di poter procedere ad una riforma federale in queste condizioni è impossibile (o quasi). I meccanismi costituzionali sono pressoché inutilizzabili, soprattutto perché si basano sull’attribuzione del potere costituente a deputati che sono svincolati completamente dal territorio (1). Lo Stato italiano sembra una cassaforte chiusa dall’interno. Che fare? È venuto il momento che sia il territorio a riprendersi il potere sottrattogli dalla Carta costituzionale e dai partiti che la redassero, costruendo un sistema dei partiti medesimi e non delle comunità politiche. Proprio ad esse spetta in queste ore il gravoso, ma determinante compito, di adire tutte le strade disponibili e giuridicamente legittime - ma non necessariamente legali - per ottenere la propria sovranità. Le Regioni in particolar modo, con il sostegno del Parlamento e del Governo della Padania, possono far sì che le nazioni padane riacquistino un potere contrattuale attraverso il quale trattare con lo Stato. Non sappiamo se in futuro le Comunità Padane sceglieranno di dar vita ad un patto federale con lo Stato Italiano: certo è che soltanto il distacco può permettere loro di scegliere in una posizione di parità, senza dover chinare il capo di fronte a qualsiasi Commissario di Governo. Referendum, deliberazioni e tesoreria regionali Cominciamo dunque ad esaminare i vari tipi di azioni che potrebbero essere promosse dai Consigli e dalle Giunte regionali, al fine di creare un conflitto giuridico con lo Stato Italiano. Essenzialmente esse sono riconducibili a tre gruppi (parliamo di gruppi poiché le modalità di applicazione possono variare e le azioni possono esse(1) Su questo specifico tema ci permettiamo di rinviare a Alessandro Storti, “Per la libertà della Padania una Costituente territoriale”, in Quaderni Padani, n.4, marzo-aprile 1996 Quaderni Padani - 43 45 re molteplici e non singole): i referendum, le deliberazioni in contrasto con l’indirizzo imposto dalla Costituzione attraverso il Commissario di Governo, l’apertura di tesorerie e conti correnti regionali con lo scopo di raccogliervi i versamenti tributari che oggi i cittadini destinano allo Stato. 1) Referendum In questi mesi la Regione Lombardia ha pubblicamente dichiarato di voler promuovere un referendum regionale consultivo sul tema delle riforme costituzionali, secondo quanto prevede lo Statuto. Inoltre il Presidente Formigoni ha presentato altri otto referendum di iniziativa regionale che porterebbero all’abolizione di altrettante leggi e articoli di legge allo scopo di avviare una svolta federalista dal basso (attraverso l’eliminazione di alcuni ministeri e di forme di controllo centralistico sugli enti locali). L’iniziativa della Regione Lombardia ha suscitato e susciterà molte reazioni, ma non si tratta soltanto di commenti politici: la decisione di Formigoni infatti verrà necessariamente a scontrarsi con la Costituzione. La Carta fondamentale dello Stato Italiano riconosce ai Consigli regionali la facoltà di richiedere consultazioni referendarie per tutto il territorio della Repubblica (2). Tuttavia non è concesso alle Regioni di convocare i cittadini in esse residenti per sottoporre loro quesiti che esulino dalle competenze regionali (esattamente come le riforme istituzionali). Già in passato si sono avute bocciature in tal senso da parte dei Commissari di Governo, i quali hanno posto il veto a referendum consultivi riguardanti materie che la Costituzione esclude dalle competenze dei Consigli Regionali. Quindi dell’iniziativa lombarda si salverebbe solo la seconda parte, quella cioè che prevede la indizione di 8 referendum nazionali. Cadrebbe invece la consultazione locale sulla forma di Stato preferita dai cittadini lombardi. La partita a questo punto sembrerebbe chiusa, ma non è così. Bisogna infatti tener conto non soltanto degli aspetti giuridici, ma anche dei riflessi politici dell’iniziativa della Regione Lombardia. In primo luogo il Presidente Formigoni è (2) “È indetto un referendum popolare per deliberare la abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali” art. 75, comma 1, Costituzione dello stato Italiano (3) v. Ilvo Diamanti, “I tre bersagli di Formigoni”, su Il Sole 24 Ore del 25 luglio 1996 44 46 - Quaderni Padani sostenuto da una maggioranza di colore opposto a quella del Governo centrale. Da parte di Formigoni c’è l’interesse a dimostrare di aver fatto qualcosa di concreto sulla strada delle riforme, sia per mantenere vitale il proprio schieramento, sia per contenere la concorrenza politica della Lega Nord, fortissima in Lombardia (3). È quindi molto difficile credere che la Regione abbassi la testa tanto facilmente di fronte ad un veto da parte del Governo. E bisogna anche chiedersi come potrebbe il Governo stesso giustificare un “no” a un referendum esclusivamente consultivo, in un momento in cui le spinte secessioniste in Padania si sono fatte molto concrete. In secondo luogo bisogna considerare anche la valenza che avrebbe un referendum di questo tipo. Se esso venisse indetto dal Parlamento di Mantova, mancherebbe di legittimazione generale, sarebbe di difficile realizzazione e di non facile controllo: al contrario, provenendo da una istituzione quale la Regione esso avrebbe i requisiti perfetti dell’atto giuridico e legittimo, in quanto promosso da un organo che lo Stato stesso riconosce nella Costituzione e i cui rappresentanti sono stati eletti dalla grandissima maggioranza dei cittadini in libere elezioni. Inoltre, se andiamo ad analizzare il contenuto del referendum proposto dallo staff di Formigoni, notiamo ulteriori potenzialità. Il Presidente ha affermato che i cittadini dovrebbero trovare sulla scheda tre possibilità di scelta: Stato unitario attuale, Stato federale, Secessione. Si tratta evidentemente di una terminologia che dovrebbe essere meglio specificata, soprattutto per evitare che la maggior parte dei cittadini si dichiarino in favore dell’ipotesi federalista senza nemmeno conoscerne i precisi confini, e quindi rischiando di ricevere in cambio una riforma svuotata di reali contenuti. Al di là comunque del difetto di forma, la proposta acquista sfumature realmente rivoluzionarie laddove presenta anche la scelta secessionista. Ciò infatti significa che, pur restando su un piano consultivo, una Regione si arroga il diritto legittimo di decidere del proprio destino, ponendosi quindi in una posizione contrattuale nei confronti dello Stato Italiano. È indubbio quindi che una serie di referendum così congegnati, nel momento stesso in cui dovessero essere deliberati (o addirittura effettivamente votati), genererebbe un conflitto insanabile con il Governo centrale. E un Presidente che si dichiari federalista deve puntare proprio a questo risultato. La Regione Lombardia (e possibilmente anche le altre padane) potranno proseguire senza timore su questa strada, Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 dimostrando pubblicamente l’ostilità dello Stato verso qualsiasi riforma costituzionale che non parta da esso, sotto forma di concessione ai territori che compongono la Repubblica Italiana (4). 2) Deliberazioni Nella elencazione su riportata abbiamo accennato alle deliberazioni in contrasto con l’indirizzo imposto dalla Costituzione attraverso il Commissario di Governo. In sostanza si tratta di quelle delibere consiliari o di giunta regionale che esulano dalle competenze determinate costituzionalmente per gli enti locali. Parlando in precedenza dei referendum consultivi abbiamo di fatto già citato un tipico caso di deliberazioni in contrasto con la Carta fondamentale. Abbiamo tuttavia dedicato una sezione apposita a queste azioni poiché esse non vanno limitate al solo caso delle consultazioni referendarie, ma anche ad altre decisioni del Consiglio che vengano bocciate dal Commissario di Governo (5). Questi è un organo attraverso il quale lo Stato centrale esercita un controllo preventivo e vincolante sugli atti delle Regioni. Peraltro proprio uno dei referendum abrogativi promossi dalla Lombardia punta all’eliminazione di tale lacciolo centralista. Ma fino a quando il Commissario resterà, è possibile innestare anche attorno alla sua figura un conflitto insanabile fra Regioni e Governo centrale. In che modo? A questa domanda hanno già risposto nel secolo scorso i membri dello Storting, l’autoproclamato Parlamento norvegese ai tempi in cui questa nazione era sottomessa alla Svezia. Lo Storting, nel corso di una lotta giuridico-politica durata decenni, venne più di una volta in contrasto con la corona svedese, che si serviva proprio di una sorta di Commissario per controllarne e bocciarne le deliberazioni. E ogni volta lo Storting le ripresentava, vedendosele regolarmente respingere. Non citiamo certamente questo caso per puro vezzo: la scelta di prendere continuamente gli stessi ordini del giorno già cassati ha contribuito al raggiungimento dell’indipendenza della Norvegia, grazie all’ottenimento graduale di sempre maggiori poteri, fino alla sovranità (6). Un conflitto giuridico di questo tipo si trasformerebbe velocemente in contrasto politico, capace ancora una volta di mostrare quanto sia pesante il controllo di merito e di legittimità che lo Stato esercita sugli atti delle comunità politiche regionali. Come per la Norvegia, anche le Regioni padane potrebbero ottenere moltissimo attraverso questa via, senza peraltro ricorrere ad azioni illegali. 3) Tesoreria Una delle tematiche puramente autonomiste è quella dello sciopero fiscale, quale atto di resistenza e di disobbedienza civile. In uno Stato le tasse e le imposte corrispondono al sangue che circola nel corpo umano: senza di esse il sistema crolla. Proprio per questo motivo l’arma della protesta fiscale va saputa usare con grande intelligenza. Non bisogna abusarne ne prospettarla come un miraggio. Infatti è bene che i cittadini non perdano l’abitudine di pagare i tributi, poiché il patto sociale fra uomini si fonda esattamente sul pagamento di quote in cambio di servizi (primi fra tutti la tutela dell’ordine pubblico e l’esercizio del potere giurisdizionale, al fine di comporre i conflitti d’interesse che sorgono fra cittadini). È evidente che una Padania federale e libera dovrà puntare ad avere un sistema fiscale razionale e quanto più possibile “leggero”; ma non si può far credere alla gente che pagar le tasse è cosa per i meno furbi (col rischio di “meridionalizza- (4) Questo punto è di fondamentale importanza. Lo dimostrano ampiamente le reazioni che studiosi e costituzionalisti hanno avuto. Per tutte riportiamo le dichiarazioni di Livio Paladin e di Ilvo Diamanti: “(...) andrebbero precluse in partenza consultazioni come i referendum, sia pure consultivi, mediante i quali l’elettorato di alcune o di tutte le regioni del Nord fosse chiamato a pronunciarsi sull’ipotesi di una secessione. In quanto il solo fatto di consentirne lo svolgimento legittimerebbe giuridicamente le aspirazioni dei secessionisti. Vanno dunque bloccati anziché incoraggiati i propositi referendari della Regione Lombardia.” (Livio Paladin, citato in Antonio Socci, “Quando Mazzini difendeva il libero diritto alla secessione”, su Il Giornale del 25 agosto 1996); “(...) il problema vero è che un referendum darebbe legittimità istituzionale e costituzionale alla secessione (quella politica è ormai un dato), promuoverebbe la Lega quale rappresen- tante del disagio e della voglia di autonomia del Nord, facendone un solo, unico territorio socio-politico. (...) Meglio, allora, lasciare -se proprio non se ne può fare a meno- alla Lega lo sforzo di promuovere referendum” (Ilvo Diamanti, “La trappola del referendum”, su Il Sole24 Ore del 17 agosto 1996) (5) “Un commissario del Governo, residente nel capoluogo della Regione, sopraintende alle funzioni amministrative esercitate dallo Stato e le coordina con quelle esercitate dalla Regione” art. 124 Costituzione dello stato Italiano “Ogni legge approvata dal Consiglio regionale è comunicata al Commissario che, salvo il caso di opposizione da parte del Governo, deve visitarla nel termine di trenta giorni dalla comunicazione” art. 127 Costituzione dello stato Italiano (6) Per una analisi storica più specifica si veda la scheda di Gilberto Oneto sul caso della Norvegia, riportata su questo stesso numero dei Quaderni Padani, pag. 21 Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 45 Quaderni Padani - 47 re” la Padania). È interessante invece studiare la possibilità che il prelievo fiscale possa essere deviato in favore delle Regioni. Questo potrebbe avvenire in una fase avanzata del processo separatista, in un momento in cui lo Stato dovesse mostrarsi assolutamente debole e incapace di negoziare il distacco. Se dovessero prevalere, in seno al Governo di Roma, spinte ultranazionaliste e centraliste le Giunte regionali avrebbero il diritto di invitare i cittadini residenti a versare le tasse in conti correnti appositi, facenti capo a Tesorerie speciali. Si tratterebbe di un legittimo esercizio del diritto di resistenza. In questo modo le Regioni, che in quel momento potrebbero già essersi unite in un patto interfederale, sarebbero in grado di assumere in pieno tutte le funzioni prima riservate allo Stato, garantendo il pagamento dei pubblici dipendenti e dei pensionati. Questi sono infatti due dei maggiori problemi di carattere finanziario che si prospettano non appena si discute di secessione della Padania dallo Stato Italiano: chi pagherà pensioni e lavoratori dei servizi pubblici? e con quali fondi? La risposta sta proprio nel procedimento che abbiamo sopra illustrato. Certo si tratta di una azione che va al di là dell’ordinamento costituzionale; ma è chiaro che una separazione, se non è consensuale, non può svolgersi secondo un percorso di piena legalità. D’altronde ciò non toglie che gli atti compiuti da Governi e Assemblee regionali siano comunque legittimi e perfettamente giuridici, poiché assunti da organi che, come detto, godono del requisito della piena rappresentatività di tutta la popolazione residente. E in questo sta la forza delle Regioni, nel fatto di essere comunità politiche a tutti gli effetti. Azioni del Governo della Padania Fin qui abbiamo elencato le azioni che potrebbero essere compiute dalle Regioni al fine di procedere verso un distacco dallo Stato Italiano (o comunque al fine di posizionarsi su di un piano di parità, con la prospettiva quindi di essere in grado di contrattare direttamente con il Governo centrale). È ora il momento di concentrarsi sui compiti che spettano invece agli autoproclamati Governo e Parlamento della Padania. Già in precedenza abbiamo detto che tali organismi hanno una funzione soprattutto simbolica. Non si deve però pensare che con tale termine se ne voglia sminuire l’importanza. Al contrario, è grazie alla presenza del Governo della Padania che è possibile una politica di accelerazioni da parte delle Regioni. 46 48 - Quaderni Padani Noi crediamo che lo specifico ruolo delle istituzioni create della Lega Nord sia quello di dare una legittimazione politica e ideale alle azioni regionali che sono state sopra individuate. Se le istanze secessioniste per la Padania non avessero trovato una materializzazione nel Parlamento di Mantova, oggi probabilmente i Consigli e le Giunte regionali si troverebbero in posizione di difesa rispetto al Governo di Roma: oggi invece le Regioni possono condurre una politica di “attacco”, proprio perché sanno che lo Stato dovrà dare loro ascolto se non vuole lasciare tutto lo spazio dell’iniziativa alle posizioni più radicali rappresentate dal Parlamento della Padania. Tuttavia è possibile individuare anche per il Governo di Venezia delle specifiche azioni che ora andremo ad esaminare: procedura per il riconoscimento internazionale attraverso il diritto di autodeterminazione e invito a non sottoscrivere titoli di Stato. 1) Autodeterminazione Nel corso dell’ultimo cinquantennio molti paesi del terzo mondo hanno acquistato la propria indipendenza attraverso il riconoscimento internazionale. Tali comunità si sono appellate al principio di autodeterminazione, come sancito da numerosi trattati e documenti sottoscritti dalle Nazioni. Di fatto, però, proprio perché soggetto ad una valutazione di altri Stati, il principio di autodeterminazione si è ridotto ad una concessione fatta a quei territori che avevano subito una dominazione coloniale e che non avevano legami storici con le potenze dominatrici. Pertanto sono state riconosciute, ad esempio, le nazioni africane, ma non quelle che lottavano per l’indipendenza nel continente europeo (baschi, bretoni, irlandesi, ecc.) o nell’ex-blocco sovietico (emblematico il caso della Cecenia). Per tali motivi è ben difficile credere che alla Padania possa essere riconosciuto lo status di nazione sovrana e indipendente giuridicamente dallo Stato Italiano. Al contrario, è prevedibile che le richieste fatte in tal senso all’Organizzazione delle Nazioni Unite non vengano nemmeno prese in considerazione. Ciò comunque non giustifica la scelta di scartare a priori tale percorso. E crediamo che a farsi carico di queste procedure possano essere proprio gli organismi creati dalla Lega Nord. Essi infatti hanno la pretesa di rappresentare unitariamente la Padania, al di là delle divisioni amministrative regionali. Il Governo della Padania incarna quindi l’ideale di un popolo che aspira alla libertà, e come tale è giusto che si rivolga all’ONU per sottoporre il caso delle comunità paAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 dane al consesso delle Nazioni. Questo atto non contrasta con le azioni regionali: semplicemente le integra, laddove quelle sono limitate al territorio di competenza e, quindi, non adatte a rappresentare tutta la Padania. 2) Disinvestimento dei Titoli di Stato Così come le Regioni potrebbero, ad un certo momento, decidere di raccogliere direttamente le imposte, ugualmente il Governo di Venezia avrebbe un’arma formidabile per togliere ossigeno allo Stato: invitare i cittadini a disinvestire i propri Titoli di Stato, deviandoli su altre forme di risparmio (ad esempio buoni ordinari comunali o regionali, oppure fondi obbligazionari esteri). Questa strada non avrebbe soltanto la funzione di indebolire il Governo centrale; tale obiettivo potrebbe essere addirittura di secondaria importanza. In realtà il disinvestimento dei Titoli di Stato avrebbe il fondamentale scopo di ridurre l’incidenza del debito pubblico in previsione della secessione. Quando uno Stato si divide, esattamente come in una società o in una coppia di coniugi, sorgono i problemi relativi alla separazione dei debiti e dei crediti. Pochissimi questi ultimi per la Repubblica Italiana. Moltissimi invece i primi, e purtroppo concentrati soprattutto in Padania, dal momento che i nostri concittadini sono i maggiori sottoscrittori di Titoli di Stato. L’unica soluzione per non trovarsi nella più fitta delle tempeste, o almeno per contenerne gli effetti, sarebbe quella di far capire ai cittadini che è bene rinunciare a rendite più alte preferendo una maggior garanzia di restituzione del denaro. Certo questa azione si scontra con la paura delle persone, con le minacce dell’Autorità centrale e con il senso di disfatta economica che dichiarazioni del genere fanno prevedere. Ma nel caso dello Stato Italiano e della prossima ventura Unione Federale delle Comunità Padane vale proprio il detto “prevenire è meglio che curare”. Relazioni fra Regioni e Governo della Padania Siamo così giunti all’ultimo punto della nostra trattazione. Un punto cruciale per il futuro della Padania, poiché dai rapporti che il maggior movimento autonomista saprà avere con le Regioni dipende forse l’esito del conflitto giuridico e politico fra Comunità padane e Stato centrale. Nel corso dell’esposizione abbiamo già avuto modo di sottolineare come il Governo della Padania possa svolgere un ruolo di copertura nei confronti dei Consigli e delle Giunte regionali della nostra terra. Questa posizione dipende essenzialmente dal fatto che le Istituzioni leghiste Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 sono rappresentative al tempo stesso di un partito e di una istanza territoriale molto sentita: il Governo non può attaccarle con troppo rigore, poiché rischierebbe di sconfinare nella messa al bando di un movimento politico, senza peraltro dare adeguate risposte alle legittime richieste dei cittadini padani. In questo senso sono quindi più esposte le Regioni, che potrebbero essere bloccate dallo Stato attraverso lo scioglimento dei Consigli regionali per attività lesiva dell’interesse nazionale (7). Ci sembra evidente, perciò, che una politica padanista e libertaria del Governo di Venezia debba fondarsi sul sostegno a tutte le iniziative autonomiste delle nostre Regioni, stimolandole e incentivandole. Immaginiamo infatti che il Governo di Roma vieti l’indizione del referendum consultivo della Regione Lombardia: l’organo della Lega Nord avrebbe buon gioco ad attaccare l’autoritarismo della Repubblica Italiana; se invece il referendum si facesse, si otterrebbero al contempo due risultati: legittimazione giuridica della opzione secessionista e assunzione di una posizione contrattuale da parte delle Regioni verso lo Stato. Entrambi i fattori avvantaggerebbero la lotta per la libertà della Padania. Non va dimenticato infine che il Governo della Padania ha anche la possibilità di alzare il livello dello scontro giuridico, avanzando sempre maggiori richieste, e legittimando così sul piano politico ulteriori azioni delle Regioni. Conclusioni Per evidenti motivi questa trattazione non può che considerarsi come un primo passo nel dibattito sulle problematiche tecniche della scelta separatista. Gli spunti offerti sono numerosi e certamente non esauriscono la questione. Riteniamo peraltro che la strada aperta dai referendum regionali sia l’unica che possa offrire la concreta opportunità di discutere sulla secessione: non solo in linea teorica, ma anche, e soprattutto, nel merito degli aspetti di applicazione pratica. Da parte nostra, comunque, ci ripromettiamo di svolgere ulteriori analisi, anche in vista della auspicabile e decisiva campagna elettorale sulla consultazione referendaria promossa dalla Regione Lombardia. (7) “Il Consiglio regionale può essere sciolto, quando compia atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge, o non corrisponda all’invito del Governo di sostituire la Giunta o il Presidente, che abbiano compiuto analoghi atti o violazioni. (...) Può essere altresì sciolto per ragioni di sicurezza nazionale” art. 126, comma 1 e 3, della Costituzione dello Stato Italiano 47 Quaderni Padani - 49 Appendice: altre vie per raggiungere l’indipendenza della Padania* 1) Misure adottabili in campo internazionale. Fermo restando che assoluta priorità va assegnata alle misure e alle azioni regionali descritte da Alessandro Storti in questo numero dei Quaderni Padani, possono essere affiancate ad esse misure supplementari in campo internazionale volte a insistere in direzione dell’ottenimento del diritto di autodeterminazione. Oltre alla via classica della proclamazione dell’indipendenza - referendum per le popolazioni interessate (ma come si è visto, plasmata e rimeditata partendo dalle regioni), vanno affiancate immediate misure internazionali quali: a. La richiesta di una missione OCSE di esperti sul territorio padano. Questa misura serve a presentare agli esperti OCSE la realtà delle discriminazioni e delle violazioni dei diritti naturali dei cittadini padani da parte di uno Stato iper-centralizzato come quello italiano. In particolare, i temi da porre al centro dell’attenzione degli osservatori internazionali sono: - la violazione del par. 1 dei Covenants sui Diritti dell’Uomo (1966) relativo alla «libera disponibilità da parte di ogni popolo delle proprie ricchezze e delle risorse nazionali»; - la rapina fiscale, che diminuisce, consuma ed esaurisce le ricchezze, dissangua l’economia, abusa del lavoro, della fatica, del sudore e dei beni dei cittadini, soffoca i rapporti di scambio; - i trasferimenti squilibrati di risorse a favore di una sola parte della popolazione; - il fatto che i territori dello Stato unitario italiano siano stati acquisiti con la forza e per conquista. Questo infatti pone sullo stesso piano logico il caso dei baltici e quello padano; - Tutte quelle discriminazioni che sono state ampiamente visualizzate dalla “Rubrica silenziosa” dei Quaderni Padani. In particolare assumono rilievo le discriminazioni dei padani nell’accesso ai posti pubblici, ragione che è stata alla base anche della secessione fra Slovacchia e Repubblica Ceca (si veda l’analisi riportata in questo stesso numero dei Quaderni Padani), ma non solo: basterebbe analizzare lo stesso fenomeno nei Paesi Baltici e in Croazia e Slovenia, per rendersi conto di quanto sia stato determinante nel fondare un vero e proprio sistema coloniale. Tutti questi elementi infatti sono stati parte integrante * A cura della redazione 48 50 - Quaderni Padani del riconoscimento delle nuove indipendenze dell’Est europeo. b. Correlativamente, il ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia, competente per tutti questi casi di discriminazione. c. La ricerca di un supporto internazionale negli altri popoli che aspirano all’indipendenza, sia occidentali (baschi, catalani, irlandesi, scozzesi, ecc.) che orientali, le cui esperienze vanno assimilate, poiché è fonte di grave ingiustizia il riconoscimento di alcune indipendenze all’Est e non in Occidente, dove sussistono spesso simili condizioni di discriminazione palese. Occorre lavorare soprattutto con gli indipendentisti occidentali per una continua azione di distruzione logica della politica, adottata in campo internazionale, dei “due pesi e delle sue misure”. Con queste minoranze etniche vanno scambiate sempre più strettamente esperienze comuni e strategie per ovviare al farraginoso meccanismo internazionale di riconoscimento del diritto di autodeterminazione, praticamente precluso nei casi riferiti all’Occidente. d. La ricerca di un supporto internazionale negli altri Paesi maggiori dell’Occidente. Come si è visto nel caso della secessione dei Paesi Baltici, ma soprattutto in quello della Slovenia e della Croazia, ben più determinante dell’assenso delle Istituzioni Internazionali (in alcuni casi mai arrivato) si è rivelato l’appoggio di singoli Paesi occidentali, in particolare della Germania, alle giuste rivendicazioni dei popoli. Se nel caso della Croazia e della Slovenia non fosse giunto tempestivamente il riconoscimento tedesco, anche in quei due Paesi di recente indipendenza si sarebbe assistito ad un massacro di vaste proporzioni, in tutto simile a quello avvenuto in Bosnia. Pertanto vanno studiate forme di ambasciata padana permanente in Paesi come la Germania, sebbene quest’ultimo tema fortemente la concorrenza di una regione economica padana omogenea, che balzerebbe in breve tempo ai primi posti in Europa. Del pari, vanno studiate forme di rappresentanza commerciale padana all’estero e in particolare in quelle regioni dell’Est europeo di recente indipendenza, confinanti con la regione padana, che stanno decollando economicamente. Alcune addirittura (come la Slovenia, ma anche la Croazia), sono costrette a rivolgersi Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 a Roma per instaurare relazioni con la Padania, subendo oltre tutto il ricatto nazionalistico dovuto a contenziosi vecchi, sciovinistici e mai risolti: una cosa che finisce per danneggiare gli interessi padani. A riprova di questo basterebbe ricordare gli ostacoli vergognosi che Roma ha sempre frapposto all’iniziativa Alpe Adria, che coinvolgeva numerose regioni padane. Gli organi di rappresentanza della Padania, per quanto imperfetti o non pienamente legittimati, devono funzionare fin da ora come punti di riferimento per questi Paesi, al fine di instaurare rapporti stabili con la Padania stessa. In numerose conferenze di studio svoltesi in questi Paesi, infatti, gli esponenti di questi ultimi hanno rilevato l’impossibilità di avere un interlocutore esclusivamente padano e il conseguente, automatico fallimento delle iniziative, per quanto ben programmate. 2) Misure interne alla Padania a. Propaganda. Questo settore va particolarmente curato, primariamente per far giungere ai cittadini padani la verità su alcuni elementi fino ad oggi passati sotto silenzio e in particolare: - la Padania non abbandona affatto l’opzione federale, ma la ri-orienta laddove possibile, cioè sul territorio padano, fa le entità nazionali (venete, lombarde, piemontesi ecc.) e sub-etniche (ladini, friulani, sud-tirolesi, romanci, occitani, liguri ecc.) che vogliano federarsi. Questo “spostamento” della scelta federale alla sola Padania indipendente avviene perché si è constatata l’impossibilità di adottare un sistema federale su scala nazionale e soprattutto la volontà di ingannare i cittadini padani con già enunciate pseudo-riforme spacciate per “federalismo” quali quella dell’importazione di un sistema “alla tedesca” (che non è affatto un sistema federale), regionalista, di decentramento amministrativo, delle “autonomie”, che con il federalismo non hanno niente a che fare e che ne sono anzi l’opposto. - le istituzioni della Padania possono ottenere in termini di legittimità una forza di gran lunga maggiore rispetto a quelle nazionali. Attorno ad esse si può coagulare un forte consenso e la stessa identità di popolazioni legate da un sistema economico fortemente integrato e da abitudini, tradizioni, storia comuni. - questione delle énclaves: le aree che decidessero di non aderire alla confederazione padana rimarrebbero “schiave di Roma” indipendentemente dalle scelte del resto della Padania. In una confederazione padana, nata per consenso, si colloca per forza di cose la questione delle énclaves formate da cittadini che non vogliono aderire al contratto confederale. Va messo bene in chiaro che queste comunità che rifiutano l’adesione rimangono énAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 claves di Roma interne alla Padania, che rimangono suddite della vecchia capitale. Prima che si formassero gli Stati moderni in Europa, l’organizzazione per énclaves era la regola. La pretesa di costituire Stati territorialmente omogenei non appartiene allo spirito della rivoluzione federale contemporanea. Il rifiuto della contiguità e dell’omogeneità territoriale da conseguire a tutti i costi (che invece è un argomento tipico dei nazionalisti), potrebbe costituire un forte elemento di rottura nel campo internazionale e dimostrare la profonda coerenza di una comunità politica come quella padana, nata realmente per consenso. Inoltre va tenuto conto che l’effetto di trascinamento della Padania sulle eventuali énclaves di Roma che non volessero aderire alla confederazione, sarebbe (soprattutto per motivi economici), dirompente. - propaganda per la libertà di scelta di utilizzazione di una qualsiasi delle monete europee. Questa azione va affiancata all’obiezione monetaria (vedi di seguito), e deve comprendere anche il rifiuto della moneta unica europea, strumento di un nuovo maxi-Stato nel quale si riproduce il monopolio della produzione monetaria, che finisce per legare i cittadini ad un potere politico ancora più lontano e incontrollabile. I cittadini devono invece poter scegliere la moneta che rende il maggior numero di servizi. b. Rifiuto sistematico, a fronte di qualsiasi problema, di far ricorso ai poteri pubblici per vederne la soluzione. La soluzione delle questioni tradizionalmente ritenute “pubbliche”, va ricercata quanto più possibile mediante l’auto-organizzazione e l’autogestione, facendo il più possibile ricorso a fondi privati. Solo in questo modo è possibile dimostrare l’inutilità delle istituzioni “pubbliche” e il carattere di “rapina”, senza alcuna contropartita, del prelievo fiscale. c. “Obiezione monetaria” per favorire la “doppia moneta”. Il processo di “denazionalizzazione della moneta” si rivela indispensabile per ottenere la “doppia moneta” e per slegare i cittadini padani dalle gravi conseguenze in termini economici provocati dal monopolio della produzione monetaria detenuto dallo Stato nazionale, dagli effetti distruttivi dell’inflazione (che ha cause principalmente politiche), da tutti quei fenomeni di “pervertimento” della moneta che gravano pesantemente sull’economia della Padania. L’ “obiezione monetaria” corrisponde di fatto ad una vera e propria “obiezione di cittadinanza” (individuale e di gruppo). Si tratta pertanto di una misura di grande portata, decisiva nei suoi effetti dirompenti, ma che va studiata in modo approfondito, sia per i suoi risvolti economici, sia per individuare le strategie adottabili, che comportino una efficacia minima nella perseguibilità da parte dei detentori del potere politico e delle forze di repressione ad essi soggette. 49 Quaderni Padani - 51 Intervista a Gianfranco Miglio a cura di Alessandro Storti P rofessor Miglio, Lei ha introdotto il termine “Padania” nel dibattito politico già molti anni fa. Questo nome ha avuto peraltro una certa fortuna soprattutto in pubblicazioni di storici stranieri e di nostri economisti di inizio secolo. Ma anche in tempi più recenti è stato utilizzato da studiosi come Camporesi e da ricercatori come quelli della Fondazione Agnelli; e ancora prima, il compianto “bardo” padano Gianni Brera, nelle sue “Storie”, parlò proprio di Padania. Tuttavia, da quando il maggior movimento indipendentista, e al contempo federalista, ha proclamato la nascita delle istituzioni padane e la Dichiarazione d’Indipendenza, la generalità dei mezzi d’informazione e dei politici nazionalisti hanno cominciato una lenta opera di demolizione del concetto; dopo le virgolette, si è passati al “cosiddetta Padania”, e poi alle esplicite affermazioni che tendono a negare l’esistenza della Padania stessa. Secondo Lei la Padania è finzione o realtà? Miglio - Una delle cose che mi irritano di più è la polemica che fa una certa “cultura” (cultura è già un’espressione elogiativa non meritata) contro la nozione di “Padania”. Ora, che ci sia stata una evoluzione storica nella Valle del Po abbastanza omogenea in certi momenti storici è un dato certo. Basti pensare per esempio alle Repubbliche urbane medioevali che sono padane: gli storici tedeschi usano da sempre infatti il termine “padanische”. Se si trova un altro nome per indicare la valle del Po si può essere d’accordo; tuttavia è assurdo negare che nella valle del Po ci siano popolazioni, indubbiamente dotate di loro particolarità, ma al contempo piuttosto omogenee, e che esse abbiano avuto una vicenda istituzionale in certi periodi molto simile, come accade in quelle fasi storiche in cui è spontanea, e non determinata da conquiste esterne che impongono divisioni fittizie. Ed è strano che non si riconosca questo; così come naturalmente non si può non riconoscere che c’è oggi un’unità geopolitica della Padania, cioè geografica e socio-economica. Basta percorrere da Occidente a Oriente o viceversa la Valle 50 52 - Quaderni Padani Padana, per vedere come ci sia una continuità di nuclei urbani, tanto da far pensare, a un certo punto, a una grande “metropoli lineare”, per usare il concetto definito negli anni ’70 da una scuola di studiosi di insediamenti. T utti i progetti federalisti dell’ ‘800 e del ‘900 (fino a quello di Assago della Lega Nord) prevedevano la presenza, fra gli Stati membri della Federazione Italiana, del “Cantone padano”. Si è sempre dato per scontato, cioè, il fatto che la Padania non dovesse essere smembrata con divisioni amministrative forzate. È evidente quindi che qualsiasi disegno federalista non potrebbe prescindere da questo dato di fatto. Ma se non si arriva ad un assetto autenticamente federale a livello nazionale (Federazione Italiana), quale possibilità resta alla Padania per conquistare il completo autogoverno, che è un elemento essenziale del federalismo? Miglio - Noi del gruppo dei cattolici federalisti del Cisalpino, durante e dopo il secondo conflitto mondiale, non abbiamo mai avuto dubbi sull’unità del cantone settentrionale, perché è un dato storico, socioeconomico e politico. Venendo alla questione dell’autogoverno l’alternativa è: o il distacco e la creazione di uno Stato autonomo, oppure l’inserimento della Padania in un contesto federale. Nell’ambito dei progetti federalisti attuali c’è stata una tendenza a dire che, almeno in una fase iniziale, bisognerà dare una struttura bipolare (Nordovest e Nordest), e questo però soprattutto perché i veneti hanno il terrore di andare a stare sotto Milano. Ma qui bisogna superare il concetto di capitale, e con l’idea di una “capitale reticolare” questo problema dovrebbe essere superato. Per quanto riguarda l’ipotesi di completamento del progetto di secessione, bisogna che la Padania mantenga relazioni con tutti i vicini, non solo quelli che la contornano geograficamente, ma anche con entità più lontane; perché oggi l’idea dello Statonazione chiuso, come è stato teorizzato alla metà del secolo scorso da Fichte, lo Stato commerciale chiuso, autarchico, non sta più in piedi. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 L e autorità autoproclamate della Padania hanno dichiarato di volersi appellare al principio di autodeterminazione, sancito dai trattati internazionali, per raggiungere l’indipendenza. Tuttavia l’esperibilità di queste procedure giuridiche si è rivelata difficoltosa e non certa. Le esperienze dell’Est europeo, dove si sono verificate numerose secessioni nei pochi anni che ci separano dalla caduta del muro di Berlino, hanno dimostrato che il riconoscimento internazionale dei neonati Stati è avvenuto sulla base di una situazione di fatto - pur trattandosi di paesi assolutamente privi di omogeneità etnica - dal momento che si trattava di processi extralegali ed extracostituzionali. Secondo lei, dunque, quali prospettive giuridiche esistono perché il Governo della Padania possa concretamente procedere lungo la strada del ricorso al principio di autodeterminazione? Miglio - Vede, non esiste una dottrina a questo riguardo. Helsinki ha scolpito il principio dell’autodeterminazione, però non ha fornito indicazioni di quali vie giuridiche si debbano seguire. È una strada tutta da inventare, mentre per quanto riguarda il principio della resistenza, del diritto di insorgere quando la Costituzione non è libera, ci sono delle vie che storicamente si conoscono; anche per la secessione ci sono stati una quantità di esempi (ultimi quelli della Slovacchia, e della Slovenia e Croazia, forme da una parte pacifiche, dall’altra cruente). Ho letto delle osservazioni molto ineressanti, in un recente volume francese, sul referendum, dove si nota che di questo istituto si è fatto poco uso a livello internazionale, per staccare una parte di un paese dal resto, mentre dovrebbe trattarsi di un procedimento rientrante nella norma. C’è una storia poco conosciuta di un principio nel diritto internazionale europeo moderno; inizialmente vigeva la concezione patrimoniale dello Stato, per cui il principe era proprietario dei territori e li scambiava, insieme con la popolazione che li abitava contro altri, oppure li affidava in dote a una figlia che si sposava, come farebbe un cittadino privato che dispone dei suoi beni. Gradualmente si è affacciato il principio che si dovessero consultare le popolazioni, ma non si è affermato molto facilmente e dando luogo a strutture e a forme precise. Ecco perché le vie per arrivare a rendere normale la secessione sono ardue. Lei, per esempio, si è mai domandato perché certi Stati resitono con ogni mezzo al tentativo di una parte della comunità statuale ad andarsene? Perché gli spagnoli fanno fuoco e fiamme per tenere Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 i baschi, perché i russi hanno fatto quello che hanno fatto della Cecenia? O i canadesi con il Québec? Se vogliono andare se ne vadano, dice qualcuno; generalmente l’attaccamento a mantenere unito un territorio è dovuto al fatto che questo ha delle ricchezze naturali, economiche, che interessano allo Stato; ma questo allora è semmai un motivo in più per andarsene. Se sono risorse che si trovano soltanto lì, spettano alle popolazioni che abitano in quella terra; chi lo dice che devono essere usate dagli altri? È un problema, questo della secessione, che coinvolge capitoli mai chiusi della storia del diritto internazionale, e poi una serie di problematiche che non sono mai venute a galla, mai venute alla superficie in maniera che se ne possa discutere pacificamente. Anche Buchanan non tocca questi temi; affronta problemi di natura psicologica, ma non questi di natura istituzionale, che spiccano perché, mentre da una parte si è moltiplicata la letteratura sulla democrazia, le sue forme e le garanzie di democraticità o meno di una comunità politica - e c’è una montagna di libri inutili su questo-, sul distacco, che è sempre stato un grosso problema nella storia della comunità delle genti europee, non esiste letteratura, non esiste quanto meno una dottrina abbastanza sviluppata a tale riguardo. A proposito della secessione padana, qualcuno ha detto che “devono essere d’accordo tutti gli italiani, la maggioranza degli italiani”; e perché? Allora quello che si comincia a capire, e voglio vedere come si fa a sostenerlo, è che esiste l’idea di un diritto di tutti quelli che stanno intorno ad un territorio a trattenerlo all’interno dello Stato. Questo dà un’idea dell’abisso di problemi che si apre a tal proposito; e sono tutte questioni che, prima o poi, dovremo affrontare, anche se noi non avessimo i padani che vogliono secedere. Perché, quando si dice “l’Europa deve trovare un suo assetto istituzionale”, ecco che tutti questi problemi ritornano fuori. Quindi noi proponiamo una serie di tematiche alle quali comunque dovremo dar risposta. Analizziamo il punto del referendum e della delimitazione dello stesso, cioè se andrebbe fatto fra la sola popolazione che vuole andarsene o con tutti gli altri. Nell’articolo 132 della Costituzione dello Stato Italiano c’è l’idea della procedura con cui una regione può dividersi o unirsi ad un’altra: “si può con legge costituzionale, sentiti i consigli regionali, disporre la fusione di regioni esistenti o la creazione di nuove regioni”. La procedura è fatta con referendum che calcola la mag51 Quaderni Padani - 53 gioranza delle popolazioni interessate; poi però interviene il Parlamento (si parla di legge costituzionale), il che significa che devono essere d’accordo anche tutti gli altri, e questo vuol dire allora che si presuppone una specie di diritto patrimoniale di tutta la comunità su una parte della popolazione e del suo territorio: è una patrimonializzazione che naturalmente, una volta posta sul tavolo, diventa difficile da sostenere. Come si fa ad ammettere che dei cittadini abbiano dei diritti sugli altri? Abbiamo modificato profondamente l’istituto del matrimonio e della famiglia e non arriveremo domani a concepire le comunità come paritarie su un piano giuridico e dei diritti di scelta? Se avessi tempo, sarei tentato di scrivere un libretto sulla secessione e metterei in campo problemi tali da sollevare un vero pandemonio, e vorrei vedere poi le reazioni degli intellettuali. Sarei tentato di farlo perché si sollevano problemi di diritto delle genti, di diritto internazionale, di diritto comune che mettono in crisi l’idea di “democrazia” che siamo stati abituati a conoscere; cioè si scopre che la nostra “democrazia” è una povera cosa, e non ha ancora affrontato i veri problemi della convivenza fra uomini e dei rapporti fra comunità politiche. L ei ha parlato della famiglia; già in passato aveva citato il caso del divorzio come possibile paradigma per spiegare la secessione, un tema quasi sempre affrontato retoricamente e senza lucidità, come dimostra chi, in risposta alle spinte separatiste della Padania, propone di far esporre obbligatoriamente il tricolore con appositi progetti di legge. Miglio - Certo, mentre una volta c’era l’idea che la moglie era un’appendice del marito, oggi la visione è completamente mutata. Nel diritto romano il marito poteva tranquillamente ripudiare la donna, per il codice fascista essa dipendeva giuridicamente dall’uomo; erano cose inconcepibili. Oggi diciamo: “Come si è potuti vivere in una situazione in cui uno dei partner che contribuiva a creare la prole e sostenere la famiglia, la moglie, era considerata come un oggetto?”, e abbiamo considerato un grande guadagno di civiltà la parificazione dei ruoli e dei diritti dei coniugi. Però non abbiamo ancora fatto un ragionamento simile sulle comunità politiche. Q uale è, a suo parere, il ruolo delle Regioni nel processo di riacquisizione dei poteri da parte del territorio? Miglio - È notorio che le Regioni sono state il 52 54 - Quaderni Padani tentativo che i Costituenti hanno fatto per affrontare, senza risolverlo, il problema del carattere composito dello Stato nazionale. Lo sapevano tutti che lo Stato nazionale si era rivelato, proprio durante la seconda guerra mondiale, un qualcosa di appiccicato, e andava affrontato; così è sorta quella contraddizione tra l’enunciazione del principio “Italia come Stato unitario”, e però con larghissime autonomie, con la porta aperta a tutte le forme di pluralismo: cioè la contraddizione tra l’ossequio al principio dell’unità e l’ossequio al principio del pluralismo. In proposito ho fatto tradurre e pubblicare nella mia collana “Arcana Imperii” il libro di Patrick Riley “La volontà generale prima di Rousseau” sul rapporto fra unitarismo, come idea di unità di volontà dello Stato, e pluralismo. L’esasperazione dell’unità statuale è nata nel ‘600 e, come mi diceva il Vescovo Maggiolini, dalla seconda Scolastica. Sono stati soprattutto i teologhi francesi, i quali erano al servizio della monarchia assoluta, a sviluppare questa idea; hanno riletto ad esempio alcuni passi del neotestamentario, Lettere di San Paolo, per cui un membro conta solo se è parte di un “corpo” unitario; era una teoria che aveva già pericolosamente introdotto Platone, quando aveva detto che, in fondo, lo Stato, la comunità politica, la polis è come un corpo: ma aveva detto (e qui sta la differenza) «è come» un corpo, non «è» un corpo. A tale conclusione arrivano invece nel ‘600. Dall’idea della somiglianza si era passati alla realtà, per cui ogni individuo o gruppo sarebbero parte dello Stato come lo sono le braccia e le gambe rispetto a un corpo; ma questo corpo dov’è? È un’invenzione, perché io quando guardo una comunità politica vedo i cittadini, vedo le istituzioni, i titolari di pubbliche funzioni, ma questo “corpo” non lo vedo. Neanche quando questo presunto “corpo” combatte è un’unica entità, ma è invece un coacervo di guerrieri, di soldati che si battono. Dunque esiste questo conflitto fra l’unità e la pluralità, che i Costituenti non hanno mai risolto, limitandosi a porli uno di fronte all’altro. Da qui deriva poi la conseguenza che non tocca ai magistrati scegliere quale dei due principi difendere, come fanno adesso. Tocca al potere politico perché è lo stesso Parlamento che può cambiare tutta la Costituzione e può risolvere finalmente quella contraddizione. Con le Regioni si è immaginato di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa; lei sa che le Regioni sono state scelte con la trasposizione pura e semplice delle circoscriAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 zioni fiscali dell’amministrazione centrale. Peraltro qui si aggiunge il fatto che tale trasferimento di delimitazioni amministrative fu operato senza interpellare le popolazioni: ritorna così il problema del non utilizzo dei referendum, ed è curioso che adesso qualcuno dica “ah, se volete fare tre grandi cantoni bisogna che nascano dalla base”: già, perché forse le regioni sono nate dalla base? In qualche caso comunque i limiti territoriali corrispondevano storicamente, ma molto spesso no, e quindi si può tranquillamente affermare che le Regioni sono state fatte senza alcun criterio; è su queste però che bisognerà puntare, perché la struttura esistente è quella. I governi regionali sono nati e cresciuti male, ma ogni discorso autonomista e finanche separatista deve vederli in prima fila. Minghetti, che per primo parlò di regioni in Italia, pensava ad una controclasse politica locale che facesse da dialogo, “check and balance” meglio ancora, con la classe parlamentare. Minghetti si accorse immediatamente infatti di come il parlamento stesse rapidamente deformando il principio di rappresentanza , e allora immaginò una struttura radicata sul territorio. Lui già conosceva la letteratura al riguardo, il libro di Gneist, e tutto quello che era stato lo studio dell’introduzione delle libertà locali in Germania. Gneist aveva studiato il “selfgovernment” inglese, e Minghetti sapeva tutte queste cose, però il suo progetto è fallito. Quando sono nate, le Regioni sono diventate lo sgabello della carriera politica nazionale della stessa classe politica, purtoppo. Si cominciava, secondo la vecchia mitologia liberale, come si diceva, ad “imparare l’amministrazione nel Comune, prima come Consigliere comunale, poi Assessore, poi Sindaco”: e così cominciavano a imparare a rubare; “poi pian piano si doveva accedere a Provincia, Regione, fino ad arrivare in Parlamento” dove, diciamo, si facevano i grandi furti. I l ruolo che Lei descrive per le Regioni è stato il risultato di un disegno centralizzatore che mirava ad eliminare ogni forma di controllo del territorio sul centro; allo Stato regionale di Minghetti si preferì la struttura prefettizia francese. Un’altra grave conseguenza di questo sistema è Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 stata pertanto l’inesistenza di una concorrenza istituzionale, con un vuoto di responsabilità dei rappresentanti eletti ad ogni livello. Insomma, i cittadini sono stati costretti a tenersi i politici, senza avere la possibilità di scegliere fra differenti amministrazioni, per esempio in materia fiscale. Il bilanciamento forzato di tutti i centri di governo ha portato al sostanziale annullamento delle capacità di amministrare. Miglio - È così. Le Regioni conterebbero soprattutto come apparato di governo, con quel po’ di burocrazia che hanno e quel po’ di classe politica di quelli che non hanno voluto, e sono pochissimi, o non sono riusciti a fare il salto in Parlamento. Ecco perché io ho immaginato che i grandi cantoni debbano nascere dalla unione, dal consorzio delle regioni. N el quadro delle azioni possibili da svolgere da parte degli organi territoriali della Padania si inserisce di forza il referendum consultivo sulla forma di Stato che la Lombardia sta per deliberare. Lei è stato il principale ispiratore della svolta referendaria regionale, volta ad instaurare un conflitto giuridico con il governo centrale. Pensa che la consultazione lombarda possa rappresentare una tappa decisiva sulla strada delle riforme radicali in senso federale e/o indipendentista? Miglio - La fortuna è che lo Statuto della Regione Lombardia incorpora l’istituto del referendum conoscitivo e su questo punto si accenderà la mischia con la Corte Costituzionale, perché questa dirà che le regioni possono fare consultazioni referendarie solo su materie di interesse locale. Ma la struttura federale è una cosa che ci interessa direttamente come popolazione lombarda, dunque noi affermiamo il nostro diritto a esprimere la scelta sulla forma di Stato che preferiamo. Il referendum consultivo sulla forma di Stato che la Regione Lombardia delibererà in ottobre, sarà un momento fondamentale nel processo verso l’autogoverno della nostra terra. Sul conflitto giuridico che ne verrà fuori con gli organi dello Stato, si innesterà una campagna per sensibilizzare i cittadini; se la maggioranza si recherà alle urne noi avremo già ottenuto una grande vittoria e da lì ripartiremo all’attacco dello Stato centralista. 53 Quaderni Padani - 55 Intervista a Ettore A. Albertoni a cura di Alessandro Storti P rofessor Albertoni, da qualche mese i politici dei partiti centralisti hanno iniziato una preconcetta opera di “demolizione comunicativa” che ha per oggetto la Padania: il sociologo Ilvo Diamanti continua a ripetere, nei suoi interventi su ilSole24Ore che “la Padania è un’invenzione di Bossi”; il parlamentare ulivista Furio Colombo ha urlato in aula “La Padania non esiste!”; ultimi in ordine di tempo -ma primi per gravità dell’atto- i Presidenti di Camera e Senato, Luciano Violante e Nicola Mancino, hanno ufficialmente bandito il termine “Padania” dai verbali delle sedute, vietandone la trascrizione. Tuttavia risulta evidente che tali interventi sono la dimostrazione di una tremenda paura da parte dello Stato verso le istanze di libertà e di identità della nostra terra, una paura malamente dissimulata dai tentativi di minimizzare il fenomeno. Secondo lei la Padania è una realtà virtuale o storicamente esistente? Albertoni - Innanzitutto bisogna partire da una ovvia considerazione storica. I popoli padani e alpini che sono collocati territorialmente nelle attuali Regioni Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Veneto e, in parte, Marche da secoli costituiscono, pur con le innegabili diversità esistenti, una comunità naturale fondata su un condiviso patrimonio di valori e di cultura. In secondo luogo è certo che l’analisi economica e sociale più aggiornata ed attendibile ha da tempo individuato nella mappa delle “regioni economiche d’Europa” una ben esistente e reale Padania (come si evince infatti dallo studio della Fondazione Agnelli pubblicato nel 1992 e significativamente intitolato “La Padania, una regione italiana in Europa”). La Padania, quindi, esiste eccome! Va anche ricordato che alcune Regioni del Centro-Nord sin dalla metà degli anni ’70, come ha dichiarato pubblicamente e recentemente Guido Fanti, diedero vita ad iniziative di studio e di approfondimento proprio di quella precisa e vivente realtà che è la Padania. È piuttosto 56 - Quaderni Padani 54 singolare che si voglia affrontare oggi il federalismo che è, per una parte considerevole, problema territoriale, negando validità ad una posizione come quella della Lega Nord, che ha il merito di reintrodurre nel dibattito sulla riforma costituzionale (sia in ambito italiano che europeo), il tema della Padania; tema che è, stranamente, considerato valido ed elogiato solo se studiato da Fondazioni legate al potere economico o da politici ed amministratori emiliani appartenenti all’ex partito comunista. Occorre, perciò, parlare sempre di più di Padania perché è un modo assai pragmatico, democratico e coinvolgente di affrontare il presente e il futuro. I n tutti i casi di indipendenza acquisita da noi esaminati, una delle ragioni principali della lotta per l’autogoverno è stata quella della provenienza territoriale prevalente dei dipendenti pubblici da una sola area dello Stato. Che significato istituzionale ha questa motivazione centrale e così importante e quali considerazioni si possono fare sul caso padano? Albertoni - Il problema della burocrazia è cruciale, in particolare nel nostro caso. Nello Stato Italiano vi sono circa 4/5 milioni di funzionari pubblici (non si sa bene neppure quanti) e si parla di oltre 200 mila leggi. Questa pesantissima realtà burocratica e normativa blocca un processo che parte dal basso, perché alla base territoriale e sociale non ci sono forze adeguate per poter avviare processi di cambiamento incisivo: la struttura statale è enorme, pachidermica e fondata sull’esasperazione predatoria del fiscalismo rapace dello Stato centralista. Ecco dunque che nasce la necessità urgente di avere dei nuovi quadri concettuali e operativi di riferimento (e in questo caso la Padania è un quadro di riferimento molto importante) per una significativa azione. Non possiamo, infatti, pensare a microsoggetti istituzionali e a microentità giuridico-politiche. Nel processo di federalizzazione “per separazione” proposto dalla Lega Nord vi devono essere delle strutture autosuffiAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 cienti a tutti i livelli (partendo dai comuni, passando attraverso le associazioni di comuni, o ex-provincie, e le regioni economiche), fino ad arrivare all’Europa, in una dinamica che deve comunque partire dal basso, dalla base naturale che sono i popoli con i loro bisogni, interessi ed ideali. È evidente quindi che il problema delle burocrazie non territoriali ma reclutate altrove genera enormi scompensi a danno di tutti. Nel caso italiano il problema non è tanto quello di una semplice dualità fra Nord e Sud, ma piuttosto quello di una differenziazione fra le diverse grandi aree che compongono lo Stato (aree insulari, area padana, area toscana, ecc., ciascuna con proprie caratteristiche). L’elemento paradossalmente unificante l’attuale Repubblica centralista, uniformatrice e, tendenzialmente, illiberale ed autoritaria (nel senso dell’autoritarismo poliziesco), è una classe politica che ha ormai un peso sempre più ridotto e una burocrazia che ne ha uno sempre maggiore. La classe politica conta sempre meno ed è diventata istericamente e acriticamente “unitaria”; l’appello a Silvio Pellico è dichiarazione di impotenza. La burocrazia poi ha due strati: da un lato i “peones”, che provengono prevalentemente dal Sud, dove si è sviluppata come naturale sbocco lavorativo una classe di funzionari di bassa qualifica, di scarso peso, ma di grande fedeltà centralista; dall’altro il grande “generone alto-burocratico romano”, che è il vero problema della democrazia italiana. Quest’ultimo strato ha un peso specifico enorme a livello di direzioni generali di ministeri, di alti comandi, di strutture tecnico-amministrative, bancarie e, soprattutto, dell’economia diretta dallo Stato. Esso costituisce l’elemento cementificatore più consistente della nostra fatiscente ed arcaica organizzazione pubblica. L’attuale squilibrio territoriale si è sempre basato sul vecchio principio “al Nord gli affari, e a tutto il resto d’Italia, Sud e Roma cioè, la Pubblica Amministrazione”. Così oggi è pacifico che la Padania si trovi in una condizione di inferiorità, direi senz’altro di tipo coloniale. Certo la Padania, popoli ed élites, ha le sue responsabilità, poiché ha abdicato completamente alla guida della Repubblica per anni, pensando che fosse sufficiente sviluppare la propria vocazione economica, imprenditoriale e commerciale e che tutto il resto sarebbe automaticamente seguito. Anche la politica ha comunque una grandissima colpa, perché non è mai stato affrontato seriamente (diversamente da altri PaAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 esi) il tema della cultura della Pubblica Amministrazione che, oggi più che mai, dovrebbe basarsi sui risultati, l’efficienza e la responsabilità etica nei confronti dei cittadini. In ogni caso anche il problema del “corpo burocratico” dello Stato va letto in una nuova ottica; è necessario ragionare in termini di precisa localizzazione ambientale e territoriale (guardando alla dimensione padana, sarda, siciliana, ecc.) e di contesto europeo. A identità precise e consapevoli di popoli, territori ed istituzioni deve corrispondere un funzionariato adeguato e in sintonia. N ella sua risposta ha accennato al “federalismo per separazione”. Già in altri interventi scientifici e culturali ha avuto modo di sviluppare questo concetto; che cosa intende esattamente con tale espressione? E come si concilia il suddetto percorso giuridico e politico con il diritto di secessione e il principio di autodeterminazione? Albertoni - Per poter capire appieno il significato dell’espressione “federalismo per separazione” è prima indispensabile analizzare storicamente e comparativamente i diversi fenomeni di federalizzazione. In passato il federalismo è sempre stato una formula di unione; gli esempi al riguardo sono evidenti. Il caso peculiare dell’epoca moderna è quello delle 13 colonie dell’America del Nord di lingua inglese che diventano 13 Stati, si confederano tra loro e poi danno vita ad una federazione (“e pluribus unum”). Anche la vicenda della Svizzera è significativa, poiché fino al 1848 ebbe un assetto altamente confederativo, e successivamente passò ad una pur moderata centralizzazione federalistica dei poteri. Sono esperienze queste di “federalismo per aggregazione”, cioè formule politico-istituzionali che portano alla sintesi di quel ricordato principio tipico americano che dice “e pluribus unum”. Oggi però i processi di federalizzazione non sono più improntati al raggiungimento di una unità e omogeneità sedicente “nazionale”; al contrario essi si basano sulla tutela e sulla coesistenza delle diversità (“ex uno plures”). Le radici di questa inversione di tendenza si possono cogliere già nella nascita dello Stato tedesco del secondo dopoguerra. La Germania del 1949 era un paese lacerato per gli eventi della seconda guerra mondiale e che usciva dalla esperienza totalitaria e centralista in massimo grado del nazismo; il nuovo Stato non elaborò Quaderni Padani - 57 55 una costituzione federale ma una legge suprema, il Grundgesetz (peraltro mai accettata dal Land più grande, la Baviera), che incominciò a separare tra loro delle entità istituzionali reali che erano state concentrate coattivamente nella struttura monolitica e statuale del nazionalsocialismo: la logica dei Länder si contrappose palesemente al principio nazional-centralista: “un Popolo, un Reich, un Führer”. È altrettanto importante il recente caso della federalizzazione belga, frutto di un lavoro progettuale durato oltre 20 anni, che ha prodotto una divisione netta fra le due aree etno-linguistiche, con l’organizzazione ordinata in cinque livelli di potere istituzionale retto dalla sussidiarietà. Questi nuovi processi istituzionali dimostrano che, più si procede verso quella che io chiamo la “società plurale”, la “società multipla”, dove il grado di complessità sociale aumenta, più i passaggi di separazione, delimitazione e nuova articolazione territoriale dei poteri di governo e gestione si fanno complessi, difficili e non schematizzabili “a priori”. D’altronde l’elemento determinante nella destrutturazione degli Stati nazionali è stata ed è l’Europa. L’unione continentale rappresenta un momento di profonda svolta nella concezione giuridica e politica dei rapporti fra individui e comunità. Infatti appare ormai chiaro che l’Europa sta nascendo come aggregazione non di realtà statuali classiche, ma di entità in cui, su una storia comune, una geografia e una economia accomunanti, uno scambio culturale e sociale continuo, si inseriscono dei processi di alto sviluppo socio-economico e di nuove integrazioni, tali da generare, come già avviene, la nascita di veri e propri soggetti istituzionali (come la Padania, la Catalogna, la regione Rhones-Alpes, il Baden-Wurttemberg e altre). In questo quadro dunque si può più che legittimamente parlare di “federalismo per separazione”, e cioè di un percorso che afferma come prioritaria e preliminare per la costruzione federale l’autonomia e l’identità delle comunità che dovranno successivamente federarsi in una prospettiva che, però, non è più quella dello Stato-nazione ma dell’Europa-continente. Si tratta di una strada che ha al tempo stesso un notevole valore di innovazione nei processi riaggregativi in ambito italiano ed europeo, e che si basa sul principio internazionalmente riconosciuto dell’autodeterminazione dei popoli. La fase che stiamo vivendo presenta quindi caratteristiche di novità assolute rispetto al passato, 56 58 - Quaderni Padani soprattutto per i fenomeni di mutamento che sono velocissimi e in corso nelle strutture economiche e sociali. Abbiamo la stupefacente possibilità di assistere ad una globalizzazione dei rapporti umani che procede su due gradi: da un lato la ricordata integrazione fra territori, al di là delle frontiere statuali classiche, fondata sullo scambio e sui rapporti culturali e commerciali; dall’altro l’impoverimento del concetto portante degli Stati nazionali, cioè la caduta della sovranità. Se combiniamo assieme questi due fattori di libertà e di identità otteniamo appunto come risultato politico-istituzionale quello che io chiamo “federalismo per separazione”. Esso comporta anzitutto una scomposizione degli Stati nazionali tradizionali e contemporaneamente una riaggregazione regionale a livello europeo e, auspicabilmente, in futuro, mondiale. Questo processo, a mio parere, coinvolge pienamente la Padania, che ora deve solo assumere coscienza del suo ruolo e della sua forza. L o scenario che ha disegnato si basa, come detto, sul declino dello Stato nazionale così come lo abbiamo conosciuto. Ma con la fine degli Stati di ispirazione filosofica giacobina vengono messi in discussione soprattutto i concetti di sovranità e di nazione, fulcro dell’ideologia nazionalista che ha causato circa 100 milioni di morti nelle grandi guerre europee e mondiali. Come vede il passaggio al mondo nuovo? Albertoni - Lo Stato, così come si è formato e si è sviluppato dal ’500 in poi, ha avuto come suo connotato essenziale la sovranità, sempre più invadente e ramificata del potere pubblico. I dati propri della sovranità sono la legislazione uniformante e centralizzante, la forza armata, la moneta, il mercato diretto e chiuso, la burocrazia. Le sovranità nazionali, dopo la seconda guerra mondiale, si sono ridotte notevolmente, perché con il Patto Atlantico (1949) è stata limitata completamente la sovranità dal punto di vista militare; lo sviluppo delle istituzioni comunitarie ha diminuito i poteri dei singoli governi, così come ha fatto la creazione di un mercato prima comune e poi unico. Il colpo finale verrà tra breve dalla moneta europea. Perciò quando Umberto Bossi parla di doppia legalità dice una cosa vera, perché se è innegabile l’esistenza della legalità dello Stato italiano, è altrettanto certo che i processi di aggregazione europea sono tali per cui le dinamiche sociali, Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 economiche e culturali portano a cercare altre e ben diverse dimensioni istituzionali. La Padania è, quindi, molto più di un’ipotesi politica, è una via di salvezza al disastro italico. Tengo molto a sottolineare questo aspetto spontaneistico e volontaristico perché, secondo me, la visione puramente normativa di un secessionismo, ma anche di un “federalismo per separazione”, che si cerca in ogni modo di giustificare con le leggi non è sempre applicabile. Può avere un senso in casi come quello della ex Cecoslovacchia o, forse in futuro, del Belgio, dove si hanno situazioni fortemente duali; in società invece come la nostra, di tipo molto articolato e complesso, i procedimenti di separazione seguono vie che prescindono dal già conosciuto. Occorre perciò che si individuino mezzi e procedure efficaci e democratici al riguardo anche per il rapporto Padania/Europa. Venendo alla “nazione”, bisogna dire che si tratta di un concetto in termini giuridico-politici fortemente datato, elaborato a partire dalla Rivoluzione Francese e sviluppatosi soprattutto nell’ottocento. Si tratta di una autentica invenzione, di una ideologia molto coinvolgente ed emotiva per tenere insieme le parti e gli interessi spesso eterogenei dello Stato. Questo è un elemento importantissimo, perché la crisi seguita alla esasperazione nazionalista sia del nazifascismo che del comunismo sovietico porta oggi a fare considerazioni ben precise; assistiamo infatti al declino di quelle strutture (gli Stati), che avrebbero dovuto contenere le nazioni, e che invece non sono più in grado di rispondere alla nuova dialettica economica, sociale e culturale che investe ormai le nazioni stesse. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Basta guardare alla realtà italica: circa 5 milioni di imprese economiche, che corrispondono ad un rapporto di 1 impresa ogni 10/11 abitanti, formano un tessuto sociale impossibile da controllare da parte di uno Stato nazionale centralista ed omologante classicamente inteso, e da noi purtroppo ancora dominante. Le imprese economiche in un mercato chiuso vivono e muoiono d’autarchia, mentre in un mercato europeo unico e aperto, con rapporti globali con il resto del pianeta, hanno una possibilità di moltiplicazione e insediamento che prescinde completamente dalla logica delle frontiere. È questa l’autentica ed inedita frontiera delle “regioni economiche” che non corrisponde ormai più a quello degli Stati nazionali. In questo senso io vedo una federalizzazione che è lontana dal provincialismo italico e che è invece prima di tutto europea. In questo ambito gli Stati devono chiudere la loro esperienza di tipo nazionale (e quindi tendenzialmente sempre centralistica), e devono ricomporsi in un processo che vede come protagoniste nuove entità e nuove aggregazioni. Le regioni economiche sono e sempre più saranno i soggetti attivi della nuova frontiera del federalismo interno ed europeo, poiché esse seguono l’indicazione naturale dell’economia e dello sviluppo, di una nuova ed inedita cultura civile, di un’etica individuale e comunitaria assai profonda. Certamente si tratta di un processo piuttosto complesso dal punto di vista giuridico, perché parte dal basso ed è attraversato da una forte dinamica revisionistica delle strutture esistenti. Ma è il solo processo vitale perché l’Europa effettivamente viva e noi con lei. Quaderni Padani - 59 57 Il nome vero dei nostri paesi Dopo avere creato tutte le cose, il Buon Dio cominciò a dare loro dei nomi e disse loro: “Siete vive perché avete un nome. Il vostro nome è la vostra anima. Non fatevi togliere il nome perché sareste morte. Non fatevi cambiare il nome perché sareste schiave di chi ve lo ha cambiato”. (Da un racconto ossolano) Prosegue su questo numero il lavoro sistematico di divulgazione dei nomi in lingua locale dei comuni e delle località padane. Si tratta di elencazioni inevitabilmente incomplete: preghiamo chiunque possa farlo di darci informazioni su eventuali imprecisioni e di farci avere indicazioni su nomi mancanti. Le grafìe indicate sono quelle normalmente impiegate nelle varie lingue locali. La Grafia del Ligure a, e, i o u x z ö ä, ë, ï ç eu ô òu â,ê,î,û sc-c nnæ j come in italiano u italiana ma, se accentata, come o italiana u francese ma, se accentata, come u italiana come j francese come s sonora (es. it. “rosa”) oo oppure ou aa, ee, ii come la s dell’it. “sera” come in francese (ö tedesca) come u accentata in fine di parola e con suono strascicato come in it. in fine di parola in finale di parola indicano un rafforzamento del tono della vocale e un suo prolungamento, strascicandola come sc dell’it. uscio, seguita da c di ciao precede la vocale in finale di parola, che va letta distaccata e aperta e lunga come i consonantica N.B. tutti i digrammi (eu, æ) sono sciolti da accenti gravi e acuti 60 - Quaderni Padani 58 Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Toponomastica dell’area linguistica ligure a cura di Flavio Grisolia e Carlo Stagnaro La provincia di Savona Nome italiano Nome ligure Nome italiano Nome ligure Alassio Albenga Albissola Marina Albissola Superiore Altare Andora Arnasco Bellestrino Bardineto Bergeggi Boissano Borghetto Santo Spirito Borgio Verezzi Bormida Cairo Montenotte Calice Ligure Calizzano Carcare Casanova Lerrone Castel Bianco Catelvecchio di Rocca Barbena Celle Cengio Ceriale Cisano sul Neva Cosseria Dego Erli Finale Ligure Garlenda Giustenice Giusvalla Laigueglia Loano Arasce Arbenga A Moenn-a d’Arbisseua D’äto d’Arbisseua Latê Andeua Arnasco Barestin Bardënei Berzezzi Boinzan O Borgheto Bòrzi e Veresso Bormia Cairi Carxi Ligure Carizan Carcre Casaneuva Castregianco Magliolo Mallare Massimino Millesimo Mioglia Murialdo Nasino Noli Onzo Orco Feglino Ortovero Osiglia Pallare Piana Crixia Pietra Ligure Plodio Pontinvrea Quiliano Rialto Sassello Roccavignale Savona Spotorno Stella Stellanello Testico Toirano Tovo San Giacomo Urbe Vado Ligure Varazze Vendone Vezzi Portio Villanova d’Albenga Zuccarello Majeu Malëre Mascimin Mërexo Mieuja Moriaodo Naxin Nöi Onso Orco e Fegin Ortoê Oseria Palëre A Ciana A Prïa Ciòi O Ponte Cuggiæn Riaoto Ei Sascê Ròcavignâ Sann-a Spotorno A Steja Stananelo Testego Tojan O Tô L’Orba Voæ Väze Vendon Vessi Vilaneuva Sucarê Castreveglio Çelle Cengë O Çejâ Cixan Cosceria O Dê Erli O Finâ Garlenda Giustexine Giusvala L’Aigheuja Leua Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Quaderni Padani - 61 59 Biblioteca Padana Flavio Grisolia Il popolo Ligure tra etnia e nazione Padova: Editoriale Clessidra, 1995 Pagg. 103. Lire 12.000 Per la prima volta il tema del popolo Ligure viene trattato nella sua globalità, sia pure in forma sintetica e succinta, da un libro che si può porre come l’inizio di una serie di studi e pubblicazioni su argomenti finora poco trattati o affrontati disorganicamente. In particolare l’autore si sofferma ad accennare alla storia e alle origini dell’antico glorioso popolo dei Liguri che tanta parte ha avuto nella formazio- 60 62 - Quaderni Padani ne della Comunità padana. Non esistono studi sistematici sugli antichi Liguri e quello che si sa è il risultato delle descrizioni (quasi sempre parziali o faziose) degli scrittori contemporanei greci o latini, di indagini archeologiche e di supposizioni indiziarie. La sovrapposizione dei Liguri alle preesistenti popolazioni Garalditane ha fatto spesso sorgere confusione fra i due popoli (che sicuramente si erano intimamente fusi) fino a fare dubitare delle origini indoeuropee dei primi. Anche nei rapporti con i Celti (e soprattutto con i Protocelti) la confusione è grande; spesso erano gli stessi storici a confondere i Liguri con quei popoli e di certo non ci sono tracce documentarie di scontri ma solo di una convivenza sicuramente basata su caratteri di grande comunanza e similitudine. Dove mancano tracce documentarie “normali” sopperiscono i più recenti studi sui residui genetici che ci parlano della sopravvivenza degli antichi Liguri, della loro primaria influenza nella formazione delle attuali popolazioni padane: alla loro espansione l’autore giustamente fa cenno. Interessanti ed importanti considerazioni vengono dedicate alla lingua ligure, alla formazione sociale di quel popolo (e in particolare al fondamentale ruolo giocato dalla struttura familiare degli antichi feughi), all’architettura popolare e alla cultura di gestione del suolo che ha creato il moderno paesaggio ligure. Riferimenti non potevano non essere fatti alla vocazione commerciale di quel popolo e al ruolo che questa ha giocato nella storia della Repubblica di Genova, una delle maggiori Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Biblioteca Padana Componente ligure nei caratteri genetici della Padania potenze (non solo) commerciali che hanno dominato vaste parti del Mediterraneo (e non solo) per quasi mille anni. Purtroppo sono solo appena accennati alcuni importanti episodi storici come le insorgenze dei “Viva Maria” contro giacobini e bonapartisti, l’occupazione del 1 gennaio 1815 quando tristemente cessava di esi- stere la gloriosa Repubblica, la sollevazione indipendentista del 1849, il bombardamento della città e il suo saccheggio da parte delle truppe del Lamarmora coadiuvate dal mare dalla flotta inglese: un episodio quest’ultimo che ha visto centinaia di genovesi uccisi e che, con la sollevazione di Torino del 1864, fa parte di quella “sto- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 ria negata” delle lotte dei popoli padani per la loro autonomia e delle vergognose violenze che hanno accompagnato l’unità d’Italia. Alla Liguria non è neppure mai stata concessa una farsa di plebiscito. L’autore si dilunga poi in considerazioni sulla condizione attuale e sulle prospettive di autonomia del popolo ligure. Si tratta di argomenti che necessitano di un ulteriore approfondimento all’interno di quel processo di revisionismo storico che deve fare riscrivere la storia dei popoli padani di cui quello Ligure costituisce una delle componenti più importanti. È uno dei popoli più antichi che abita queste terre da sempre e la cui eredità genetica praticamente ogni padano porta dentro di sè, nel proprio sangue. Ottone Gerboli Quaderni Padani - 63 61 Musica Padana Negli ultimi anni la musica etnica, a livello discografico, non ha proposto tante novità. Abbiamo però individuato alcuni lavori veramente interessanti, che potranno accontentare, da una parte i palati più fini, dall’altra l’esigenza di sentire cose nuove, legate però alla tradizione e all’humus socio-culturale proprio della Padania. estinguere nel tempo lingue e tradizioni dell’antica cultura sviluppatasi fra le montagne occidentali della Padania. Bella e significativa anche l’immagine di copertina, che ritrae “bambini delle valli alpine di Cuneo in Provenza che tengono al guinzaglio la marmotta catturata sui loro monti.” Li Troubaires sono un gruppo formato da otto elementi i quali, alla strumentazione tipica classica (violino, violoncello, flauti), affiancano strumenti L a prima raccolta di canzoni, “A toun soléi” de “Li Troubaires de Coumboscuro” (Polygram Italia S.r.l. - 1995 - L. 21.900), contiene i suoni tradizionali tipici delle valli in Provincia di Cuneo, arrangiati in maniera suggestiva dal gruppo stesso. Si assiste oggi al rilancio della cultura di area provenzale per mezzo della musica etnica, attraverso la quale un vasto pubblico può riavvicinarsi a una lingua che i fermenti autonomistici degli ultimi anni investono di una nuova dignità culturale. “Nell’arco alpino occidentale la lingua e la cultura provenzale e franco-provenzale, rischiano di scomparire dimenticate. Li Troubaires suonano perché queste lingue e queste culture non muoiano”. Così recita la copertina del CD, a sottolineare come i testi dei brani, tutti in lingua, abbiano appunto lo scopo di non fare 62 64 - Quaderni Padani nanza delle stagioni): è una vita fatta di lavoro, di amarezze ma anche di gioie, soddisfazioni e speranze. Alla registrazione del CD hanno partecipato artisti del calibro di Fabrizio De Andrè, Franco Mussida, I Tazenda e Alan Stivell, con la sua ormai leggendaria arpa celtica. Tra i dodici brani che compongono la raccolta evidenziamo Mis amour, una ballata di delicata musicalità, interpretata da Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi, che riprende un tema di carattere arcaico del XIV secolo e Pastret di uei risents, un motivo dal testo bucolico, in cui emerge lo struggente desiderio di legare a sè la persona amata; in questo brano, la musica popolare celtica, saltellante e compatta, lascia ogni tanto voce a vivaci virtuosismi di violino. L della tradizione popolare (fisarmonica, chitarra) e strumenti contemporanei (chitarra elettrica, basso elettrico, batteria) ottenendo una sonorità originale, in una sorta di fusione tra la musica tradizional-popolare (con richiami celtico-provenzali) e i ritmi più attuali. I temi che alimentano le canzoni dell’album sono le vicissitudini della vita quotidiana (natura, amore, morte, alter- a seconda raccolta che Vi proponiamo è un vero esempio di musica popolareggiante. “El contacantastorie nomer dù” è il titolo della musicassetta contenente dodici brani composti, arrangiati, eseguiti ed interpretati da Iris Mario Perin, un cultore della “lingua” bresciana che da tempo si dedica allo studio e alla rivalutazione delle tradizioni della sua terra. Le canzoni proposte sono estremamente motivate e alternano un sottile filo ironico-sarcastico a momenti di chiara e palese delicatezza o ad altri di malinconica nostalgia. Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Da segnalare El scarpulì pelandrù, tipica e simpatica ballata sull’alternarsi dei giorni della settimana nel corso dei quali il calzolaio lazzarone trova sempre una scusa per rimandare il lavoro e Serenada a Luisa, una delicata canzone che parla d’amore in maniera semplice ma efficace.. Si tratta di atmosfere di vita quotidiana della Padania, che propongono sentimenti e valori di un tempo andato che è più che mai attuale e sicuramente proponibile come modello per la salvaguardia di una tradizione che vuol resistere alla globalizzazione dello stile di vita. Le musiche e gli arrangiamenti richiamano le sonorità della melodia etnico-popolare padana, il cui strumentobase è la fisarmonica. E proprio con la fisarmonica il Perin gioca, raccontandoci le sue storie e proponendoci le sue atmosfere. I nfine, e non perché sia meno degna di nota, segnaliamo “La famiglia Guerini” (1995), raccolta di canti di tradizione familiare. I canti sono stati “traghettati” a noi dall’im- pegno dei Guerini di Ponte Zanano, da sempre pronti a difendere la conservazione di un patrimonio culturale che rischia di essere depauperato dalla spersonalizzazione delle valli a favore dei nuovi modelli di costume sociale. La Val Trompia è, infatti, preda di una forte industrializzazione e di una relativa massiccia immigrazione che favoriscono il disagio e, per contro, il bisogno di arrestare questo processo inesorabile che soprattutto negli ultimi decenni ha aggredito il semplice modo di vivere contadino. Pasqua e Tilio Guerrini, con i loro amici, ci ripropongono alcuni dei più noti canti popolari della Padania in versione integrale. Tra questi i famosissimi “Mamma mia voi maritarmi” e “Mariet- Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996 Musica Padana ta Mariettina”, che appartengono alla Storia della musica etnica padana. Nando Uggeri 63 Quaderni Padani - 65