colpi di fulmine
sotto l’equatore
Dall’autore di
Guida agli uccelli dell’Africa orientale
«Nicholas Drayson dà vita con un tocco ironico
e divertente a un mondo variopinto e affascinante
che si specchia nelle tinte calde dell’Africa.»
Il Venerdì di Repubblica
«Un piccolo gioiello narrativo. Grande dolcezza
di cuore, assieme a tanta ironia. Dieci e lode.»
Giovanni Pacchiano – Il Sole 24 Ore
«Una vera e propria favola.»
TTL – La Stampa
«Un protagonista irresistibile.»
Marie Claire
«Si legge e si partirebbe subito.»
Donna Moderna
«Una storia che incanta.
Ideale per chi ama Alexander McCall Smith.»
Joanne Harris, autrice di Chocolat
NICHoLAS DRAYSoN
CoLPI DI FULMINE
SoTTo L’EQUAToRE
Traduzione di
velia Februari
Titolo originale:
A Guide to the Beasts of East Africa
Copyright © Nicholas Drayson, 2012
All rights reserved
The moral right of the author has been asserted
Grateful acknowledgement is made for permission to reprint lyrics from Is That
All There Is. Words and music by Jerry Leiber and Mike Stoller. Copyright © 1966
Sony/ATV Music Publishing LLC; copyright renewed. All rights administered by
Sony/ATV Music Publishing LLC, 8 Music Square West, Nashville, Tennessee,
TN 37203. International copyright secured. All rights reserved. Reprinted by permission of Hal Leonard Corporation.
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni
dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.
Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)
ISBN 978-88-566-2935-4
I Edizione 2013
© 2013 - Edizioni Piemme Spa, Milano
www.edizpiemme.it
Anno 2013-2014-2015   -   Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)
1
Le ali della farfalla non hanno la forza
di quelle dell’aquila.
«Ti dico che non è stata lei.»
«E io ti dico che è stata proprio lei.»
«Senti, A.B.,» Mr Patel si protese sul tavolo «lui lo
aveva ammesso, perché mai ti ostini a negarlo?»
«Patel, amico mio caro,» Mr A.B. Gopez mise giù il
boccale di birra Tusker e si sforzò di sorridere «anch’io
ho letto le cronache. E riconosco che, effettivamente,
alcuni sostengono che lo avesse ammesso, ma sono soltanto prove “per sentito dire”. Ciarle, insomma.»
«Chiamale ciance o chiamale ciarle, fatto sta che sono negli atti. Lo ammise tre volte, a tre diverse persone.
Poi si ammazzò... e se questa non è un’ammissione di
colpevolezza, dimmi tu cos’è.»
«Ciarle, e prove indiziarie» replicò Mr Gopez «che
in tribunale non reggerebbero mai. Ecco che arriva il
Tigre. Lui conosce la legge come le sue tasche. Se non
mi credi, chiedi a lui, che è un buon avvocato.»
Affermare che H.H. “il Tigre” Singh, dottore di secondo livello in giurisprudenza a Oxford fosse un buon
avvocato, sarebbe stato come dire che Walter Lindrum
– campione mondiale di biliardo dal 1933 fino all’anno
del suo ritiro nel 1950, l’uomo che durante un tour in
5
Sudafrica totalizzò un punteggio di mille in ventotto
minuti e la cui serie di punti consecutivi di 4137 contro
il grande Joe Davis il 19 gennaio del 1932 al Victoria
Club di Londra resta ancora un record imbattuto – fosse un tipo piuttosto bravino con la stecca. Nelle controversie legali, il Tigre era l’artigiano e l’artista. Non solo
la sua conoscenza della legge era senza pari nelle aule
giudiziarie e negli studi legali di tutta Nairobi, ma la
sua capacità di leggere nella mente della corte, di comprendere le speranze e le passioni che governavano la
parte civile, l’imputato, il giudice e la giuria, era prodigiosa... per alcuni addirittura soprannaturale.
Singh il Tigre posò il boccale sul tavolo e prese posto
sulla solita sedia nel bar dell’Asadi Club, accanto ai due
amici.
«Buonasera, signori. Prego, continuate pure. Non fate
caso a me.»
«Ah, Tigre. Capiti giusto a fagiolo per dire a Patel,
qui, che sta sparando stupidaggini. Per favore spiegagli
– a parole semplici, se non ti dispiace – che le prove
“per sentito dire” non valgono un bel niente.»
«Hai ragione, A.B. Il tipo di prova a cui, credo, ti
riferisci non può essere usato contro un imputato in
una causa penale.»
«Sentito?» esclamò Mr Gopez. «Che ti avevo detto?»
«Ribadisco: solo nelle cause penali, ovviamente» aggiunse il Tigre, mettendosi comodo. «Nei procedimenti civili le regole sono un po’ diverse: onus probandi e
via dicendo.»
«Civile, penale, che differenza fa? Non parlavamo
del processo, stiamo parlando di cosa disse dopo il processo. Di ciò che ammise a tre persone distinte.»
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«Ah» esclamò Singh il Tigre. «Ne deduco, cari signori, che stavate discutendo dell’omicidio di Lord Erroll, o sbaglio?»
Per caso pasteggiate regolarmente a champagne?
La cocaina e l’eroina sono la vostra passione?
E, ditemi, il sesso sfrenato vi si addice?
Se avete risposto di sì a una o più di queste domande, avreste potuto sentirvi perfettamente a vostro agio
con il ristretto gruppo di coloni che, negli anni a cavallo tra i due conflitti mondiali, si stabilirono a Nairobi e
nelle ricche piantagioni del Nord. Nella cosiddetta
Happy Valley, la “Valle felice”, tutti dovevano dedicarsi a tali passatempi: ammesso, cioè, che si trattasse di
individui giovani, sani e bianchi. Ma all’alba di un mattino piovoso nel gennaio del 1941, tutto cambiò. Il ventiduesimo conte di Erroll, noto agli amici come Joss,
uno dei membri più attivi della comunità della Happy
Valley, fu trovato morto stecchito nella sua auto, ucciso
da un colpo di rivoltella alla testa.
Josslyn Hay era fuggito dalla Gran Bretagna alla volta del Kenya nel 1924 in compagnia di una ricca vedova
inglese. Quattro anni dopo, alla morte del padre, aveva
ereditato la contea di Erroll e, dodici anni dopo ancora,
aveva già divorziato dalla prima moglie e si era separato
dalla seconda. Era, a detta di tutti, un uomo piacente
con una folta schiera di amanti; talvolta gli capitava anche di avere due o tre tresche allo stesso tempo. Nessuno si era stupito quando, nel dicembre del 1940, la bella Diana Broughton, allora ventisettenne e appena
giunta in Kenya con il novello sposo, il cinquantasettenne Sir Jock Delves Broughton, si era invaghita di lui.
Broughton lo scoprì subito. Il 10 marzo, di ritorno da
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un safari di caccia di due settimane con la moglie, Sir
Jock Delves Broughton fu arrestato dalla polizia per
l’omicidio di Lord Erroll.
Il processo finì in prima pagina, non solo in Kenya
ma anche nel resto del mondo. La polizia riscontrò che
la sera dell’omicidio Broughton, Diana, Erroll e la loro
amica June Carberry avevano cenato insieme al Muthaiga Club. Alcuni testimoni li avevano visti, e avevano sentito Erroll proporre a Diana di unirsi a lui dopo
cena e andare a ballare in un locale notturno, il Claremont Club. Broughton non ne aveva voglia e aveva
chiesto a Erroll di riportare Diana a casa entro le tre.
Broughton e June Carberry erano andati invece nella
casa che l’uomo aveva affittato a Karen, un quartiere di
Nairobi. La pubblica accusa sosteneva che, quando
Broughton aveva sentito Erroll rientrare con Diana intorno alle 2.20, aveva indossato un paio di scarpe da
ginnastica bianche, era uscito dalla finestra della camera e si era calato lungo la grondaia senza essere visto.
Armato di un revolver, di cui in precedenza aveva denunciato il furto, si era nascosto sul sedile posteriore
dell’auto di Erroll. Quando il conte aveva rallentato al
primo incrocio, gli aveva sparato. Poi era corso a casa e
si era arrampicato fino in camera, di nuovo senza essere
visto da nessuno.
Broughton ribadì la propria innocenza e pagò cinquemila sterline, oltre a una bottiglia di whisky al giorno, al miglior avvocato difensore di tutta l’Africa. Il
processo iniziò il 26 maggio. Nel tardo pomeriggio del
primo giugno, il presidente della giuria si alzò per
esprimere il verdetto.
Non colpevole.
Ma, se non era stato Broughton, chi allora?
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Questo dilemma è il tema principale di innumerevoli conversazioni animate nel bar di ogni albergo e di
ogni club di tutto il Kenya da oltre sessant’anni e, almeno sotto questo aspetto, l’Asadi Club non fa eccezione.
«Altroché se stavamo parlando del caso Erroll» rispose Mr Patel. «Ma, come ho detto, non è tanto il processo che ci interessa, quanto ciò che accadde dopo.»
«E, come sto cercando di spiegarti, mio caro Patel, le
notizie di seconda mano su ciò che Sir Jock Delves
Broughton avrebbe o non avrebbe detto non hanno alcun valore, né fuori né dentro un’aula di tribunale. Ancora un po’ e ci chiederai di credere che ci fosse lo zampino dei servizi segreti britannici: l’sos, o come accidenti
si chiamava.»
«A.B., credo che l’acronimo giusto sia soe: Special
Operations Executive, esecutivo operazioni speciali.
Anche tu hai letto il libro, non è vero? Ma lascia perdere complotti e cospirazioni. È stato Broughton.»
«È stata Diana, stammi a sentire. Lei ed Erroll avevano litigato; la domestica li aveva sentiti. Probabilmente
il conte aveva intenzione di scaricarla. Non fa una grinza: la donna respinta, è un classico. Forse era stata proprio lei a rubare la pistola, quella di cui Broughton aveva denunciato la scomparsa. Ah, lo avevi dimenticato,
non è così?»
«Quello che tu sembri aver dimenticato, A.B., è che
Diana aveva un alibi.»
«Oh, tutti avevano un alibi. A quei tempi ce n’era
uno in regalo in ogni confezione di cereali.»
«E allora perché il piedipiatti non l’ha arrestata subito?»
«Perché, caro il mio Patel...» rispose Mr Gopez, vol9
tandosi di nuovo verso la terza persona al tavolo «...e
sono certo che il Tigre converrebbe con me su questo
punto, il “piedipiatti”, come lo definisci tu, era un idiota incompetente che non avrebbe risolto il caso nemmeno se avesse avuto il nome del colpevole tatuato sul
tululu.»
«Giusto» confermò il Tigre. Svuotò il boccale e si
alzò. «Ora, se volete scusarmi, signori, ho promesso a
Bobby Bashu di fare una partita veloce a biliardo prima
dell’arrivo di Malik. Avvisatemi quando lo vedete, vi
spiace? Devo parlargli del safari del club.»
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Dalla cima del formicaio l’aquila non vede
più in là della formica.
Il safari annuale dell’Asadi Club era ormai una specie
di istituzione. La prima volta si era trattato di un evento
piuttosto rilassante, benché non privo di avventura. Un
venerdì pomeriggio nel novembre 1958, cinque membri del club avevano stipato le rispettive famiglie in automobile e avevano guidato per un paio d’ore verso la
parte meridionale di Nairobi, fino alla pianura di Athi.
Avevano scelto un campeggio vicino al fiume, dove gli
uomini avevano piantato le tre tende vecchie e pesanti
dell’esercito e le brande, gentilmente offerte dal General Emporium di Amin & Sons, allora come adesso una
caverna delle meraviglie di oggetti, dai più ordinari ai
più arcani. Le donne avevano fatto i letti, i bambini raccolto la legna. Avevano cenato tutti insieme sotto le
stelle, mangiando riso e le diverse pietanze al curry che
avevano portato già pronte da casa. Si erano coricati
presto; gli uomini in una tenda, le donne in un’altra e i
bambini in una terza.
Assuefatti com’erano al brusio metropolitano, nessuno aveva chiuso occhio. Quel fruscio tra i cespugli...
era un topo o il passo felpato di un leopardo famelico?
Quei colpi di tosse in lontananza... qualche innocuo
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uccello notturno o il richiamo di una iena impazzita? E
quel ruggito vicino... era un leone o solo Sonny Bashu
che russava? Ma quando, l’indomani, era sorta un’alba
luminosa, tutti i terrori della notte erano stati dimenticati. Le famiglie avevano fatto colazione con chapati e i
piatti al curry rimasti, bevendo tè con latte e zucchero.
Mentre le donne si affaccendavano a rassettare, gli uomini avevano scelto il compito ben più oneroso di pianificare il resto della giornata. I bambini giocavano.
Quando, però, era giunto il momento di prepararsi
per la prima escursione, il giovane Bindu Ghosh non si
trovava più. Giocava a cowboy e indiani (ah, beata innocenza!) giù al fiume insieme con altri quattro bambini, che non sapevano dove fosse finito, e non rispondeva ai richiami della madre. Dato che non rispondeva
nemmeno alle esortazioni sempre più minacciose del
padre, era stata organizzata una piccola squadra di ricerca che, pur non trovando bambini, aveva localizzato
un enorme pitone arrotolato sotto un cespuglio accanto a una pozza di abbeveraggio. A circa un terzo del
corpo tra testa e coda, Mr Ghosh aveva scorto un gonfiore sospetto.
Il mio amico Kennedy mi ha raccontato che una volta
stava guidando fuori Nairobi sulla strada secondaria
che porta a Limuru quando aveva notato un tronco che
poco più avanti invadeva completamente la carreggiata.
Dapprima aveva pensato che fosse caduto da un camion, forse impegnato nel prelievo non autorizzato di
legna da ardere dalla vicina foresta statale. Poi il tronco
si era mosso. Non era un tronco, ma un pitone di Seba,
grosso come la sua coscia. Quanto alla lunghezza, aveva atteso che si fosse tolto dalla strada prima di misurarla a passi. Otto metri. Ventisei piedi. Di fronte alla
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scoperta di un pitone di simili dimensioni vicino al fiume, Mr Ghosh si era sentito in difficoltà. Da buon giainista – i cui fedeli più fanatici, camminando, puliscono
la strada davanti a sé per allontanare qualsiasi animaletto possa essere calpestato da un piede sbadato – era
istintivamente riluttante a uccidere il serpente che giaceva sonnacchioso ma cosciente davanti a lui. Se però
voleva una minima possibilità di salvare il suo piccolo
Bindusar da una lenta digestione nello stomaco del
suddetto essere cosciente, allora non aveva alternative.
Gli era tornato in mente di aver visto un paio di machete all’accampamento e, con molta astuzia, si era precipitato verso le tende, incurante dell’eventuale presenza
di formiche, cimici o coleotteri sotto i suoi passi impetuosi.
Al suo arrivo era stato accolto dalla moglie tutta sorridente, che lo aveva informato che suo figlio, nonché
unico erede maschio, era sano e salvo. A quanto pareva,
il giovane Bindu si era stufato di giocare a cowboy e
indiani e, una volta tornato all’accampamento senza essere notato, si era addormentato rannicchiato sotto le
coperte. Il padre aveva reagito a quella notizia gioiosa
secondo le antiche usanze. Aveva stretto Bindu al petto,
lo aveva preso a scapaccioni sulle orecchie, gli aveva fatto una bella lavata di capo e lo aveva rispedito a letto. Il
pitone era stato lasciato in pace a digerire il cucciolo di
dik-dik che aveva ingurgitato quel mattino (e in effetti
la preda era decisamente più piccola di Bindu Ghosh,
che era un bambino in carne).
Scegliere la destinazione di quell’anno per il safari
dell’Asadi Club non era stato semplice. Alcuni membri
proponevano di scendere verso la costa, altri sosteneva13
no che una vacanza al mare non fosse un safari e che la
giusta meta fosse il Masai Mara. Krish Advani aveva
sentito dire che il lago Magadi era ottimo per i fenicotteri quell’anno, al che Abby Antul aveva protestato che
passare un fine settimana a fissare piumini rosa con la
testa affondata in cinque centimetri d’acqua che puzzava di uova marce non corrispondeva alla sua idea di
divertimento. La fase di stallo era stata superata da Mr
Malik che, chiacchierando con Hilary FotheringtonThomas durante una delle escursioni di birdwatching
organizzate dalla Società Ornitologica dell’Africa
Orientale, aveva scoperto che la donna aveva un amico
che possedeva una casa vicino a Meru.
«La casa del vecchio Johnson sul Thanandu. Il fiume, sa. Ippopotami, elefanti, cobi: fauna di tutti i tipi.
C’è un posto delizioso che sarebbe perfetto per accamparsi, lungo il fiume, e una vecchia casa colonica occupata da un branco di babbuini... uno spasso. Sono certa
che Dickie sarebbe lieto di ospitare lei e i suoi amici per
qualche giorno. Vuole che glielo chieda?»
«Ci sono leoni per caso?» (Nessun safari dell’Asadi
Club poteva considerarsi degno di tale nome senza la
remota possibilità di avvistare un leone).
«Leoni? Quanti ne vuole, suppongo. Comunque lo
chiederò a lui. In fatto di fauna selvatica, non c’è niente
che Dickie Johnson non sappia.»
«Be’, allora la ringrazio, Mrs Fotherington-Thomas»
aveva detto Mr Malik. «Accetto l’offerta.»
Dickie Johnson le aveva risposto che, sì, ne sarebbe
stato ben lieto. E lei lo aveva riferito a Mr Malik. A sua
volta, lui aveva informato la commissione, che si era
espressa a favore. Ora, tutto ciò che Mr Malik doveva
fare era scoprire quanti e quali membri, con moglie e
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prole al seguito, intendevano partecipare, poi prenotare un pullman e un numero adeguato di pulmini scoperti e di guide, mettersi in contatto con Ally Dass per
prendere accordi sul catering, accertarsi che il campeggio fosse predisposto, far arrivare tutto e tutti a destinazione e riportarli indietro sani e salvi.
Perciò i tempi sono cambiati, il numero dei partecipanti è aumentato e la scelta della destinazione è un po’
più avventurosa, ma lo spirito di quel primo safari
dell’Asadi Club sopravvive. Come al solito, quell’anno
ci sarebbe stata una tenda per i signori, una per le signore e una terza per i bambini sotto i dodici anni. E
inoltre una tenda per cucinare, una per mangiare e una
per il personale. Quell’anno, infine, ci sarebbe stata
una tenda in più, la settima. Perché Mr Malik, quell’anno, aveva organizzato una sorpresa.
«Oh, eccolo che arriva.» Mr Patel distolse l’attenzione dalla discussione perennemente accesa con A.B. e
guardò in direzione di un ometto basso e grassoccio
dall’acconciatura impeccabile che attraversava il bar
dell’Asadi Club per unirsi a loro. «Il Tigre ti cercava,
vecchio Malik.»
«Ah, davvero? Sapete cosa vuole?»
«Informazioni riguardo ai preparativi per il safari,
credo. A proposito di preparativi, venerdì mi sono dimenticato di chiederti... ci sono novità sul ricevimento
nuziale?»
Mr Malik annuì. «Le ho parlato stamani ed è tutto
deciso. Abbiamo optato per installare un padiglione in
giardino, come ci avevi consigliato tu, A.B. E seguendo
il tuo suggerimento, Patel, chiederò ad Ally Dass qui al
club se può occuparsi del catering.»
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«Ha organizzato la festa di Shobah, la figlia maggiore di mio fratello, sai» precisò Mr Patel, piluccando dalla ciotola dei popcorn al chili. «Mi pare che
avesse cucinato un ottimo biryani – con la foglia d’argento e tutti i crismi – anche se ricordo di aver pensato
che ai gamberoni al curry mancasse un certo non-soche.»
«Infido, il curry» commentò Mr Gopez. «Specialmente se ci sono wazungu tra gli invitati. L’uomo bianco medio, ho notato, difficilmente riesce a tollerarlo.»
«Oh, non saprei» replicò Mr Malik. «Ho letto di recente che il chicken tikka masala è il piatto più diffuso
nel Regno Unito.»
«Già, ma lo hai mai assaggiato?» Mr Patel stralunò
gli occhi. «Ho letto una ricetta per il chicken tikka masala in una di quelle riviste femminili: pollo precotto,
curry in polvere, latte condensato e zuppa di pomodoro in barattolo.»
«Quello non è un piatto al curry, ma un crimine bello e buono» esclamò Mr Gopez. «A ogni modo, puoi
star certo, mio caro Malik, che Ally Dass non permetterebbe mai a una bustina di “curry in polvere” di avvicinarsi a meno di cento metri dalla sua cucina. E niente
piselli nei samosa. Non li sopporto proprio, i piselli nei
samosa.» E si servì un’altra manciata di popcorn. «E
così è diventata un’abitudine, eh, Patel?»
«Cosa?»
«Leggere le riviste femminili.»
Mr Patel si rivolse a Mr Malik.
«A proposito...» disse «...non indovinerai chi ho incontrato stamani in città.»
«Il tuo strizzacervelli?» borbottò Mr Gopez. «Oh,
be’, tentar non nuoce, immagino.»
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«Molto simpatico, A.B. No, il vecchio amico di scuola di Malik.»
“Oh no” pensò Mr Malik. “Non...”
«Sì, Harry. Harry Khan.»
Sì, è vero che Mr Malik e Harry Khan avevano frequentato insieme l’Eastlands High School – in effetti
erano arrivati al convitto esattamente lo stesso giorno
del settembre 1955 – ma sarebbe un’esagerazione definirli «amici». Allora come adesso, Mr Malik era un ragazzo di indole tranquilla, più incline ad affondare il
naso in un libro che a girare la manopola di una radio
di contrabbando una volta spente le luci, più felice di
starsene seduto sulle gradinate con la matita in mano e
il libretto segnapunti sulle ginocchia che di brandire la
mazza sul campo da cricket. Harry Khan era di un’altra
pasta. In classe e sul campo sportivo era lui a spiccare.
Lui, che conosceva tutti ed era conosciuto da tutti, il
capobanda che rifilava nomignoli a compagni e insegnanti. Che agitasse la mazza davanti al wicket o esibisse il suo sorriso sul podio nella partita di fine trimestre,
Harry amava essere al centro dell’attenzione: con la sua
interpretazione di Shylock in chiave punjabi nello spettacolo di fine anno del 1959 de Il mercante di Venezia
aveva fatto crollare il teatro per gli applausi, e il suo
punteggio di trentaquattro in un unico over era un record scolastico imbattuto. E sebbene Mr Malik – o
“Jack” come era stato soprannominato, per motivi che
non staremo qui a indagare – non fosse l’unico bersaglio degli scherzi, verbali e non solo, di Harry Khan,
non c’è dubbio che ne ricevesse più della giusta razione
che gli spettava.
Perché? Perché il sole sorge a oriente? Perché il gatto
mangia il topo? Harry Khan non poteva trattenersi dal
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tormentare Mr Malik, come Brahma non potrebbe fare
a meno di creare e Shiva di distruggere. Anche se gli avvenimenti di quei giorni lontani sono ormai più leggende
scolastiche che veri e propri ricordi, la storia del pitone
in pigiama riesce ancora a evocare un sorriso sulle labbra
dei più scontrosi studenti di quarta, mentre il panino alla
vaselina fa ancora la sua apparizione all’Eastlands High
a distanza di oltre mezzo secolo dalla sua geniale invenzione da parte di Harry Khan, in occasione della tredicesima festa di compleanno di Mr Malik. Quando, nel
1962, la famiglia Khan aveva lasciato Nairobi per trasferirsi in Canada portando Harry con sé, Mr Malik
non aveva potuto fingersi triste per la loro partenza.
«Harry Khan, eh?» chiese Mr Gopez.
«Sì. Mi ha detto di essere qui per affari. L’ho invitato
a passare dal club.»
«Questo club?» domandò Mr Malik.
L’ultima volta in cui aveva visto Harry Khan era stato
quattro anni prima, quando quest’ultimo, in visita in
Kenya con l’anziana madre, si era messo a fare la corte
alla dolce Rose Mbikwa, la guida delle escursioni di
birdwatching del martedì per la quale Mr Malik, vedovo da diversi anni, aveva perso la testa.
«Sì. È ancora un membro, sai. Ha continuato a versare la quota associativa.»
«Mi domando se porterà anche quella ragazza, sua
nipote» disse Mr Gopez. «Come si chiamava... Emily,
Ermintrude?»
«Elvira» lo corresse Mr Malik.
La nipote di Harry Khan – o, per la precisione, la figlia minore della sorella della moglie di suo cugino –
era rimasta impressa nella memoria dei membri
dell’Asadi Club.
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«Esatto. Bella ragazza... e una gran...»
«Ballerina?»
«Ora che mi ci fai pensare, vecchio Malik, ballava
proprio bene.»
Pochi dei presenti la sera del ballo annuale del Nairobi Hunt Club avrebbero dimenticato lo spettacolo di
Elvira che, con un succinto abitino rosso, ballava il
rock’n’roll con lo zio Harry sulle note di Milton Kapriadis e i suoi Safari Swingers. Ma, alla faccia di molti,
quella sera Rose Mbikwa aveva scelto di ballare con Mr
Malik, e poco dopo Harry Khan era tornato in America
con la coda tra le gambe.
Cosa ci faceva esattamente stavolta Harry Khan a
Nairobi, si chiedeva ora Mr Malik.
«Anche lei era una gran ballerina» soggiunse Mr Gopez. «Erano andati a ballare – al Claremont Club, sapete – la sera in cui lo uccise.»
Mr Patel fu risparmiato dal dover discutere ulteriormente sul caso Erroll dal ritorno del Tigre Singh, fresco
fresco da una vittoria al tavolo da biliardo (nessuno ricordava da quanto tempo il Tigre non perdesse una
causa o una partita al tavolo verde).
«Ah, eccoti, Malik! Speravo proprio di vederti. Quali nuove dal fronte safari?»
Durante i fine settimana Singh il Tigre era solito indossare abiti dal taglio casual – camicia gialla e pantaloni rossi a quadri era uno dei suoi abbinamenti preferiti – e difficilmente lo si vedeva sul campo da golf
senza il suo Tam o’shanter verde portafortuna in testa.
Ma essendo un lunedì, sfoggiava una mise più formale:
un completo scuro e un turbante grigio abbinato.
«Tutto sistemato. Ally Dass partirà giovedì con alcuni dei suoi ragazzi per allestire la cucina, e Mr Hapula
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– il giardiniere del club – porterà i suoi uomini per
montare l’accampamento. Viaggeranno in pulmino. Ah,
e anche il mio giardiniere, Benjamin, si è offerto di dare
una mano. Partirà con loro. Ho prenotato il pullman
per venerdì mattina per noi, in modo da arrivare tutti
prima che faccia buio.»
«Splendido» esclamò il Tigre. «Ti sei iscritto, Patel?»
«Sì» rispose Mr Patel. «Anche se non credo che riuscirò a convincere la mia amata mogliettina a venire,
quest’anno. “Quando hai visto un artiodattilo, li hai visti tutti”, ecco come la pensa.»
«E tu, A.B.?»
«Io? Stessa storia: non saprei distinguere una gazzella di Thomson da una gazzella di Grant. Però, come
diceva sempre mio padre, hanno tutte lo stesso sapore
nel vindaloo.»
«Ma partecipi al safari?»
«Oh, certo che vengo.» Assorto nei suoi pensieri,
A.B. Gopez prese un sorso dal boccale. «Mio padre
adorava i safari... parlo dei bei vecchi tempi, naturalmente. Mio padre adorava i fucili. Spendeva una fortuna in carabine lussuose, in sahariane, cappelli, ghette,
tutto l’armamentario. Quando ero piccolo, avevo l’impressione che lui e i suoi compari non parlassero d’altro, ovvero di cacciare i cosiddetti “grandi cinque”.»
«Ah» esclamò Patel. «Elefante, rinoceronte, ippopotamo, leone e leopardo.»
«Ippopotamo? Mai sentito di qualcuno che abbia
sparato a un ippopotamo! Bufalo, amico mio. Non esiste una bestia più pericolosa in tutta l’Africa.»
«Sono sicuro che sia l’ippopotamo» ribadì Mr Patel.
«E io ti ripeto che nessun cacciatore degno della sua
doppietta ha mai sparato a un ippopotamo. Sarebbe
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come mirare a un’anatra impagliata. Un’anatra bella
grossa, lo ammetto, ma pur sempre impagliata.»
«Non è quello che intendevo.»
«E allora perché lo hai detto?» replicò Mr Gopez
picchiandosi la fronte con il palmo della mano con fare
esasperato.
«Perché intendevo, A.B., quello che ho detto. Per
quanto concerne sparare a quelle bestiacce, riconosco
con piacere di aver torto sulla composizione dei “grandi cinque”, ma è appurato che in Africa gli ippopotami
uccidono più persone di qualsiasi altro animale, perciò
sono i più pericolosi.»
Un’opinione, se mi consentite la digressione, su cui il
mio amico Kennedy converrebbe certamente. Una sera
stava tornando a casa in auto da Limuru e pioveva a dirotto. Diluviava da due mesi, le piccole piogge erano ormai al termine. A circa sei chilometri da Nairobi, nel
punto in cui il fiume Matunda passa sotto la strada, l’acqua era alta da giorni, ma la sua Land Rover aveva attraversato il guado centinaia di volte. Aveva ingranato una
marcia bassa e schiacciato il piede destro sull’acceleratore. Poi lo aveva alzato prontamente per frenare di colpo.
Sotto uno scroscio di acqua e fango, la sua auto si era
fermata slittando a pochi centimetri da un grosso ippopotamo. Se ben ricordo, mi ha detto che a impressionarlo
non era stata tanto la stazza, né la sua presenza così vicina
al centro della città, quanto l’indifferenza del bestione.
«Mio caro Patel,» disse Mr Gopez «anche se in genere esito a dissentire, nel caso dell’ippopotamo mi permetto di farlo. Malik, vecchio mio, tu ne sai qualcosa,
di uccelli e di animali. Non convieni con me che...?»
«Tigre» chiamò Mr Malik. «Che ne diresti di una
partita veloce a biliardo?»
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