I GIOVEDÌ AL MUSEO DEL RISORGIMENTO Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento 6 giugno - 10 ottobre 2013 “Di quell’amor ch’è palpito dell’universo intero” Il 2013 con Giuseppe Verdi e altri anniversari Un progetto a cura di Comune di Milano | Cultura Polo Raccolte Storiche e Case Museo Sindaco Giuliano Pisapia Assessore alla Cultura Filippo Del Corno Direttore Centrale Cultura Giulia Amato Direttore Settore Soprintendenza Castello, Musei Archeologici e Musei Storici Claudio Salsi Coordinamento Barbara Romano Testi di Carlo Vitali Con un contributo di Vittorio Zago Immagine di Peter Bottazzi Progetto grafico e impaginazione Francesca Tamanini Stampa Stamperia Comune di Milano Polo Raccolte Storiche e Case Museo Direttore Marina Messina Responsabile Collezioni Disegni e Stampe Patrizia Foglia Responsabile Comunicazione Barbara Romano Ufficio amministrativo Elisabetta Ciccarelli Ufficio Sicurezza Clara Terrosu Biblioteca e archivio Pasquale Arrigo Francesco Basile Alessio Foresta Nicoletta Rivolta Enrico Tomasini Sezione didattica Giuliana Bertolini Manuela Carbonere Liana Pascon Si ringraziano inoltre: Sonia Arienta, Cristina Balboni, Carlo Balzaretti, Rosangela Bonardi, Francesco Bossi, Antonio Calbi, Carmela Calitri, Francoise Calteaux, Nicola Cattò, Valeria Ferrario, Federico Frascherelli, Giovanni Gavazzeni, Davide Griffa, Stephen Hastings, Giovanni Iannantuoni, Fulvio Luciani, Cyprien Katsaris, Kuniko Kumagai, Emanuela Medea, Valeria Palumbo, Simeone Pozzini, Antonella Riccio, Stefania Susy Rossi, Rita Rovelli, Francesco Saggio, Gianfranco Scafidi, Chiara Trussoni, Andrea Venturi, Laura Zagordi “Di quell’amor ch’è palpito dell’universo intero” Il 2013 con Giuseppe Verdi e altri anniversari Il celebre distico di Francesco Maria Piave con cui Alfredo si dichiara a Violetta in “La Traviata” (1853) titola il primo dei progetti commemorativi, dal 6 giugno al 10 ottobre 2013, che il Polo Raccolte Storiche e Case-Museo del Comune di Milano | Cultura dedica a Giuseppe Verdi nel bicentenario della nascita. Fervente patriota e sostenitore dei moti risorgimentali, Verdi incarna il legame indissolubile fra l’uomo e il suo tempo, fra il musicista e la storia che lo ispira. Un legame che Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento, celebra e perpetua. Si mira così a rievocare l’atmosfera del salotto di Clara Maffei, amica intima di Verdi, nella fertile convivenza fra musica e ideali risorgimentali che la società intellettuale milanese di metà Ottocento nutriva ardentemente nella tensione dei moti rivoluzionari. La rassegna è dunque un omaggio al Maestro di Busseto, ma è anche un tributo alla Storia tutta e agli artisti che nel corso dei secoli hanno consegnato all’umanità il proprio lascito creativo. Se “l’amor ch’è palpito” esalta il sentimento come impulso poietico per eccellenza, “l’universo intero” ci introduce in un piano simbolico che dal Verdi nazionale si estende al più ampio scenario della composizione, senza limiti tematici o spazio-temporali. Protagonisti della rassegna sono i compositori di cui si celebrano quest’anno importanti ricorrenze. Annus mirabilis della musica, il 2013 annovera infatti una quantità straordinaria di prestigiosi anniversari, ingiustamente oscurati dai rivali Verdi e Wagner nel bicentenario della nascita. Parliamo di John Dowland (*1563), Carlo Gesualdo (†1613), Arcangelo Corelli (†1713), Pietro Mascagni (*1863), Paul Hindemith (†1963), Francis Poulenc (†1963), Witold Lutosławski (*1913), Benjamin Britten (*1913), Bruno Bettinelli (*1913), oltre naturalmente ai già citati Verdi e Wagner. In loro onore il Polo Raccolte Storiche e Case-Museo dedica il presente dossier di dieci ritratti, a cura del musicologo e critico musicale Carlo Vitali, con un tributo di Vittorio Zago al milanese Bruno Bettinelli. Marina Messina Direttore Polo Raccolte Storiche e Case-Museo 1 John Dowland (Londra? Dublino? 1563 - Londra 1626) Un genio in fuga da se stesso, protetto da principi e ambasciatori che ne tolleravano i costumi irregolari in considerazione del suo supremo talento di liutista e cantore. Percorse la Francia, l’Italia, la Germania e la Danimarca; cambiò due volte religione, morì in esilio. Della diagnosi collettiva di “acedia”, ossia angoscia senza oggetto né speranza, che la società inglese del tardo Rinascimento pronunciava su se stessa nelle pagine corrosive dell’utopista Robert Burton, le musiche di John Dowland sono insieme il sintomo e la terapia omeopatica. Oscurità e silenzio, dolore e vergogna, lacrime e lamenti sono le parole chiave - ripetute e variate fino ai limiti del possibile - di tante liriche musicate da Dowland; la faccia nascosta di quella “Merry England” che durante il regno della giovane Elisabetta aveva voluto dimenticare il sangue sparso nelle guerre di religione. Assai varia è la stesura musicale: dalle scandite scritture di danza del First Book of Songs a quattro voci (1597) fino allo stile italianizzante, ispirato alla libera declamazione monodica di Giulio Caccini, che si palesa nello splendido madrigale monostrofico “In darkness let me dwell”(1610), dove l’invocazione iniziale, rintoccante come una campana a morto nel diagramma quasi piatto della linea melodica, ricompare alla fine con effetto di sintesi ciclica. Malinconia sì, ma ispirata e feconda. “From silent night” è incluso nel Pilgrimes Solace (1612), collezione petrarcheggiante tanto nella tessitura dei versi e delle immagini quanto nella bipartizione, amorosa e spirituale, del materiale; mentre dal Second Book of Songs (1600) provengono “Sorrow stay” e “Flow my tears”, senza dubbio il più celebre brano di Dowland. Arrangiandolo tre volte per diversi organici strumentali e dandogli tutto un seguito di Lachrymae antiquae e modernae, egli ne fece una sorta di personale griffe musicale; l’equivalente del motto araldico che si era attribuito giocando sulle assonanze anglo-latine del proprio cognome: “Semper Dowland, semper dolens”. 2 Carlo Gesualdo (Venosa 1566 - Gesualdo 1613) Carlo Gesualdo, conte di Conza e principe di Venosa, era un aristocratico napoletano colto, ombroso, appassionato di caccia e di musica. Signore feudale duro, marito autoritario, uccise la prima moglie Maria d’Avalos colta in flagrante adulterio. Dopo tre anni e quattro mesi dal duplice omicidio passò a nuove nozze con Eleonora d’Este dei duchi di Ferrara: altro matrimonio infelice, ma dai pochi anni del soggiorno a Ferrara, centro delle avanguardie musicali del tempo, nacque il grosso della sua produzione madrigalistica stampata. Fu Stravinskij, negli anni fra il 1940 e il 1960, a toglierlo dall’oblio dedicandogli un Monumentum pro Gesualdo per fiati, archi e pianoforte. Si è voluto leggere la musica di Gesualdo in termini autobiografici, a partire dalle balorde elucubrazioni del critico musicale britannico Philipp Helseltine, morto suicida nel 1930 dopo un’esistenza dedicata al satanismo e a pratiche sessuali estreme; ma più che un perverso, Gesualdo fu uno spirito introverso e bizzarro. Le sue stupefacenti invenzioni armoniche, che dilatano le classiche leggi del contrappunto senza spezzarle del tutto, consentono alla sua musica di suggerire il non-detto oltre la lettera dei testi cantati. Lungo la via dell’espressionismo fondato sulle “durezze” cromatiche, lo avevano preceduto il napoletano Ascanio Mayone e il ferrarese Luzzasco Luzzaschi, da lui ammiratissimi; Monteverdi superò poi tutti con l’attento studio delle passioni umane e la valorizzazione del connubio fra voce sola e colore strumentale. Gesualdo non sarà forse il primo dei moderni, ma certo è l’ultimo e il più ardito dei manieristi rinascimentali. Ha detto Ernst Krenek: “Se ai suoi tempi Gesualdo l’avessero preso sul serio quanto oggi, la storia della musica avrebbe preso tutta un’altra strada”. Per Teresa Rampazzi, pioniera della musica elettronica in Italia: “Non ci sono buchi nei madrigali di Gesualdo e la conseguenza è sempre la stessa: dove non c’è spazio non c’è tempo; la dimensione religiosa delle sue ultime opere ne è la riprova”. 3 Arcangelo Corelli (Fusignano 1653 - Roma 1713) Roma, piazza Barberini, 8 gennaio di tre secoli fa. Un appartamentino di tre stanze bene arredate: un centinaio di quadri d’autore, un clavicembalo, un violone e un violoncello, due violini, argenterie, libri e carte in quantità, due pistole, un inginocchiatoio e un Crocifisso. Un lettino da scapolo accanto al quale un sacerdote in stola violetta sta recitando le preghiere degli agonizzanti. L’uomo di sessant’anni, che sul calar della sera chiudeva gli occhi dopo aver fatto testamento tre giorni avanti, apparteneva secondo il metro della sua epoca alla classe dei gentiluomini, benché avesse professato in vita l’umile mestiere del “suonatore”. Nato da una famiglia possidente di Fusignano nelle Romagne, portava i titoli di guardiano dell’Accademia di Santa Cecilia e di pastore d’Arcadia. Per lui era in vista anche un titolo nobiliare tedesco (marchese di Ladenburg), che fu ereditato dai parenti assieme alla pinacoteca e a poco più di settemila scudi in titoli di debito pubblico. Ai due servitori lasciava un piccolo vitalizio, ad amici importanti come i cardinali Colonna e Ottoboni un quadro ciascuno, a Matteo Fornari, allievo prediletto, i violini e le carte manoscritte, fra cui dodici concerti grossi pronti per la pubblicazione come “Opera 6”. Al mondo lasciava cinque collezioni strumentali a stampa già diffuse in sessantacinque edizioni, per un totale di sessanta brani fra sonate a tre e sonate a violino e basso continuo: un corpus piccolo, ma di classica perfezione. Nel 1708, ancora lui vivente, il suo pupillo Francesco Gasparini l’aveva proclamato “vero Orfeo de’ nostri tempi”. E il sepolcro dove il suo cadavere, imbalsamato e rinchiuso in una triplice cassa di piombo, cipresso e castagno, fu deposto dopo il rito funebre, era vicino al tumulo di Raffaello nella chiesa di Santa Maria della Rotonda, quel Pantheon che il genero di Augusto aveva edificato in onore di tutti gli Dei. Apoteosi di un uomo riservato e malinconico che aveva conquistato Roma non con la spada, ma con l’archetto del suo violino. 4 Richard Wagner (Lipsia 1813 - Venezia 1883) L’Idillio di Sigfrido: questo breve lavoro sinfonico, dedicato da Richard Wagner a Cosima Liszt per la nascita del loro primogenito Siegfried (1869), fu eseguito in forma privata il giorno di Natale dell’anno seguente nella loro villa di Triebschen, il cui stile le guide turistiche definiscono “Biedermeier” nella versione tedesca, “Early Victorian” in quella inglese e “Louis-Philippe” in quella francese. Come potremmo definirlo in italiano se ce ne venisse la voglia? Con la sua collinetta, l’imbarcadero sulla riva del lago di Lucerna, la selvetta dietro, la capace cantina e quant’altro serve a vivere benino, quella casa a Wagner piaceva non poco, così da fargli pronunciare il 15 aprile 1866 un suo personale hic manebimus optime, esso pure riportato dalle suddette guide. La partitura tuttora vi si ostende ai visitatori e di là si spande per il mondo in mille e mille facsimili formato cartolina aperti fra le pagine 10 e 11. Un mito riconciliante anche per gli antiwagneriani più viscerali. Quante volte non li abbiamo sentiti dire: “L’unico pezzo di Wagner che riesco ad ascoltare?” Hanno torto, ovviamente. Strumentato per piccola orchestra (flauto, due clarinetti, oboe, fagotto, due corni, tromba e archi), l’Idillio deriva gran parte del suo materiale tematico dal Siegfried, l’opera che Richard andava terminando di comporre in quel torno di tempo, identificando in modo non del tutto inconscio la propria complessa situazione familiare con quella di Siegmund e Sieglinde, incestuosi genitori dell’eroe nibelungico. Eppure riesce difficile vedere Hans von Bülow, marito remissivo fino all’eroismo, nei panni del vendicativo Hunding! Si noti però che i due temi principali provengono da più lontano, ossia dall’abbozzo di un quartetto d’archi risalente al 1864. Di quando in quando fa capolino nella parte centrale il tema di una ninna-nanna popolare tedesca destinata a cullare i sonni dell’augusto infante, che morirà nel 1930 dopo aver composto una quindicina di drammi musicali oggi giustamente dimenticati. 5 Giuseppe Verdi (Roncole di Busseto 1813 - Milano 1901) Eduard Hanslick, il temuto critico viennese venuto a Roma nel 1893 per recensire una recita del Falstaff, schizzò questo ritratto di un Verdi da poco entrato nell’ottantesimo anno di vita: “Qualcosa d’infinitamente mite, modesto e aristocratico nella stessa modestia, riluce nella figura di quest’uomo che la fama non ha reso vanitoso, gli onori non arrogante, l’età non bisbetico. Il suo volto è profondamente scavato, l’occhio infossato, la barba bianca, tuttavia il portamento eretto e la voce ben sonante lo fanno sembrare meno vecchio”. E ancora nella primavera del 1897 il musicologo Heinrich Ehrlich ne descriveva il passo “quasi elastico come quello di un vigoroso cinquantenne”, rivelando poi alcuni curiosi dettagli sul suo stile di vita: “Il Maestro si alza in inverno allo spuntar del giorno; in estate alle cinque. Nell’inverno, che trascorre a Genova nel palazzo Doria, si dedica al lavoro: nell’estate, che trascorre nel suo podere di Sant’Agata, visita le sue stalle e le sue scuderie, cui dedica grandi cure”. Come già con Goethe all’inizio del secolo, a Verdi si chiedeva d’incarnare il mito di se stesso; come il vegliardo di Weimar anch’egli reagì con uno stile di olimpico distacco che sconfinava nel fastidio per i contemporanei e per le loro manifestazioni d’idolatria. Nel 1889 cercò invano d’impedire le feste per il cinquantenario del suo debutto con l’Oberto, così come aveva rifiutato la statua nel foyer della Scala; dopo il trionfo del Falstaff scongiurò il ministro-letterato Ferdinando Martini affinché si rinunciasse a conferirgli il titolo di marchese (proprio a lui che si era sempre vantato delle sue origine contadine). In musica egli stava assiso fra i due secoli come un Giano bifronte. Interessato alle prime prove di Giacomo Puccini e di Pietro Mascagni, non perdeva occasione per raccomandare ai giovani lo studio dei classici italiani: anzitutto il Palestrina, poi Corelli, Alessandro Scarlatti, Benedetto Marcello, perfino il quasi sconosciuto Padre Vallotti. Claudio Monteverdi no, perché “non metteva bene le parti”. 6 Pietro Mascagni (Livorno 1863 - Roma 1945) Cavalleria rusticana: profondo Meridione d’Italia, immobile sotto la vampa del sole, dove cupe tragedie carnali si consumano fra le processioni religiose e le povere celebrazioni orgiastiche di una plebe rurale intinta di Cristianesimo appena in superficie. Con questo lavoro, ispirato a una novella di Giovanni Verga, si può dire inaugurato il filone dell’opera verista italiana. Fu una grande occasione perduta per l’editore Giulio Ricordi che ne aveva respinto il manoscritto, raccomandatogli da Giacomo Puccini, profetizzando incautamente: “Non vedo futuro per questa composizione”. E invece nel 1894, solo quattro anni dopo il debutto di Cavalleria al teatro Costanzi di Roma, un’autorevole rivista americana conteggiava i 90.000 dollari riscossi da Pietro Mascagni in diritti d’autore e i 220.000 incassati dal suo editore Sonzogno. Nel frattempo Ricordi era corso ai ripari commissionando Pagliacci a Leoncavallo (1892) e a Puccini una Lupa, sempre su soggetto verghiano, che non andò oltre gli abbozzi iniziali e fu rimpiazzata da una più esotica Bohème. Sempre nel 1892 Umberto Giordano completava con Mala vita, su soggetto di Salvatore Di Giacomo, la trilogia di un verismo meridionalista che nell’Italia umbertina era destinato a vita effimera, forse perché metteva in piazza certi panni sporchi di cui il pubblico borghese preferiva dimenticarsi almeno all’opera. Sfumate le istanze di realismo sociale che avevano ispirato la sua produzione di studente, come la cantata sinfonico-corale In filanda, Mascagni vi tornerà una volta sola nel 1921 con Il piccolo Marat. Tutta la sua residua produzione di opere e operette, conclusa nel 1935 con un Nerone scaligero, è segnata da un amaro paradosso: man mano che si andavano affinando i suoi strumenti espressivi e s’innalzava il livello letterario delle sue collaborazioni librettistiche, le risposte di critica e di pubblico oscillavano tra il nobile fallimento e il successo di stima. Nel 1929 la nomina ad Accademico d’Italia ne imbalsamava una carriera ormai tutta dietro le spalle. 7 Paul Hindemith (Hanau 1895 - Francoforte sul Meno 1963) Violista dalla tecnica perfetta e dal suono maschio ai limiti della ruvidezza, si esibì come concertista in molti paesi fra cui l’Italia. Come compositore, contribuì alla rivalutazione del contrappunto antico e all’affermazione di quello dissonante, elemento fondamentale del suo stile. La sua predilezione per la musica antica è rintracciabile in molti lavori di sapore modale dove emerge la raffinata combinazione di linee melodiche individualmente concepite; il tutto nel quadro di un tonalismo allargato che non sconfina mai in esperienze dichiaratamente atonali o espressioniste. Il tradizionalismo di Paul Hindemith s’inquadra in quel generale clima di recupero delle forme preromantiche che si è convenuto di chiamare “neoclassico”, nel desiderio di ristabilire un’artigianale chiarezza di linguaggio da tempo venuta meno. Ecco allora che mentre Stravinskij col suo Pulcinella rifà il verso a Pergolesi, Hindemith volge lo sguardo verso Händel, a Bach, e ancor più indietro verso il Rinascimento. Al rifiuto dell’avanguardismo artistico si sposava in lui un deciso impegno sociale. Nel 1927 dichiarò: “Oggi un compositore dovrebbe scrivere solo se ha ben chiaro lo scopo per cui sta scrivendo”. È questo il canone poetico della Gebrauchsmusik, o “musica d’uso”, che Hindemith si sforzava di diffondere anche attraverso un nuovo mezzo come la radio. Quella che doveva essere un’opera teatrale dedicata a Gutenberg si trasformò in Mathis der Maler (1935), un polittico in sette quadri ispirato alla vita del pittore Mathias Grünewald (ca. 1475-1528). Ma il suo libretto, ricco di allusioni agl’ideali di libertà, provocò la scomunica di Goebbels, il divieto di rappresentazione, e la conseguente emigrazione del compositore: dapprima in Turchia, dove fornì un apprezzato contributo alla modernizzazione della pedagogia musicale, poi in Svizzera e infine negli Stati Uniti, che gli concessero la cittadinanza nel 1946. Dal 1953 si stabilì a Zurigo, continuando fino alla morte l’attività d’insegnante e direttore d’orchestra. 8 Francis Poulenc (Parigi 1899 - 1963) “Gabriel Marcel ha creduto di scoprire nel finale scandalosi e inesplicabili segnali militari. Ha totalmente ragione. Per me, eterno cittadino, le trombe del forte di Vincennes, udibili dal bosco vicino, non sono meno poetiche di quanto fossero per Weber i corni da caccia in una grande foresta”. Sono parole di Francis Poulenc per illustrare la genesi del suo Concert champêtre. Lungo i viali del Bois de Vincennes s’aggirava col suo passo dinoccolato fra le colline alberate, i laghetti alimentati dalle acque della Marna, i prati intorno all’ippodromo. I testimoni ne ricordano gli occhi vivacissimi nel viso sfuggente sormontato da un enorme naso, la pettinatura casuale, le bianche mani dalle unghie rosicchiate, gli eleganti abiti di Lanvin sporchi e stazzonati. Era ricco: morendo nel 1917, suo padre gli aveva lasciato molte azioni dell’impresa farmaceutica di famiglia, poi divenuta la multinazionale Rhône-Poulenc. Le sue case mostravano lo stesso miscuglio di opulenza alto-borghese e trascuratezza. Nell’appartamento di città sui giardini del Luxembourg - 25 ettari di aiuole, statue e fontane non lontano dalla cupola del Panthéon - il sole entrava dai finestroni accendendo la moquette arancione delle pareti, ma le assi del parquet scricchiolavano sinistramente. A Noizay, nella valle della Loira fra Orléans e Tours, aveva ereditato una villa immacolata, austera; quasi un castello. Il parco, inselvatichito negli anni, la circondava di una fitta coltre vegetale. Qui egli compose la maggior parte della sua produzione vocale da camera, accudito da alcuni dei suoi grandi amori. Alla fine degli anni Venti fu il pittore Richard Chanlaire, primo di tutti; poi Raymonde Linossier, l’unica donna che avrebbe forse potuto sposare. Ai percorsi “verdi” della sua ispirazione ne alternava altri di sapore proustiano: i moli di Deauville battuti alla ricerca di furtivi incontri con giovani operai e pescatori, i decadenti salons di Passy come quello della principessa di Polignac, dove fraternizzò con Erik Satie. 9 Witold Lutosławski (Varsavia 1913 - 1994) Per Witold Lutosławski, che ogni anno dedicava una settimana agli esercizi spirituali in monastero, scrivere musica significava “andare a pesca di anime”: formula simile a quella del santo controriformista Filippo Neri, l’inventore dell’oratorio. Magari non per salvarle, obiettivo forse troppo ambizioso per un compositore del ventesimo secolo, ma più laicamente per stabilire con esse una qualche intima risonanza. Dalle puntute ironie bartokiane e stravinskiane della Prima sinfonia (1947), ricca di contrappunti e di dense sovrapposizioni armoniche, alla travolgente eloquenza della quarta ed ultima (1992), tutto il suo itinerario compositivo lo vide impegnato nella ricerca di risposte ai grandi interrogativi esistenziali intavolati dalle filosofie del Novecento. Lo fece da musicista e non da ideologo, ripensando i tradizionali concetti di armonia e melodia per ricreare ex-novo quelle strutture su larga scala di cui le avanguardie avevano decretato l’irrevocabile trapasso. Ma la sua non fu una serena maturazione entro una torre d’avorio. A cinque anni, sfollato a Mosca con la famiglia, aveva visto il padre e lo zio trascinati alla fucilazione; suo fratello cadde nella seconda guerra mondiale. Lui stesso evitò la coscrizione solo grazie ai suoi talenti d’intrattenitore, suonando il piano nei locali in duo col collega Andrzej Panufnik. Improvvisazioni jazzistiche di contrabbando, e perfino quella musica di Chopin che i nazisti avevano bandito al pari dell’arte “degenerata giudeo-negroide”. Dopo la guerra, nuove pericolose schermaglie col regime comunista polacco. Quale membro eminente dell’Unione dei Compositori, Lutosławski si sforzò di adempiere al meglio le commissioni della radio nazionale e delle orchestre pubbliche. Vennero poi il silenzio durante il golpe del generale Jaruzelski e l’adesione clandestina a Solidarność. Parrebbe una biografia esemplare da intellettuale frondista nei paesi del socialismo realizzato; stupisce solo che sulla sostanza della sua musica abbia influito così poco. 10 Benjamin Britten (Lowestoft 1913 - Aldeburgh 1976) Figlio di un odontoiatra dilettante di canto, fin dall’età di cinque anni si appassionò alla musica. Cominciò a studiare privatamente il pianoforte e la viola, prese lezioni di composizione da Frank Bridge e nel 1930 vinse una borsa di studio presso il Royal College of Music di Londra, dove si perfezionò sotto la guida di John Ireland. Dopo il diploma decise di guadagnarsi la vita come compositore, scrivendo una gran quantità di colonne sonore e musiche di scena per il cinema, la radio e il teatro di prosa. Nel 1939, spinto dalla situazione politica, emigrò negli Stati Uniti in compagnia di Peter Pears, tenore già affermato al quale lo legava un'affettuosa amicizia. Nel 1942 tornò in Inghilterra per dedicarsi, su commissione della Fondazione Koussevitzky, alla composizione dell’opera Peter Grimes, che doveva dargli fama mondiale. Esonerato dal servizio militare in cambio dell’impegno ad esibirsi come pianista in concerti pubblici, si dedicò alacremente alla composizione per il resto della sua esistenza, accumulando successi e riconoscimenti senza precedenti nella storia del suo paese. La società britannica benpensante non cessò mai di detestarlo, perché incarnava ai suoi occhi tutte le "diversità" e le contraddizioni immaginabili: pacifista e devoto cattolico, ma anche socialista e omosessuale non troppo larvato. Ciononostante, nel 1976, ormai alla vigilia della morte, la regina Elisabetta II lo nominava Lord e Pari d'Inghilterra. Oltre alla copiosa produzione sinfonica e cameristica, lasciava una serie di capolavori drammatici oggi entrati stabilmente nel repertorio mondiale: oltre al citato Peter Grimes (1945), The rape of Lucretia (1946), Billy Budd (1951), The Turn of the Screw (1954); cui si può aggiungere la deliziosa operetta Albert Herring (1947). Una fondazione intitolata al suo nome e soprattutto il festival di Aldeburgh, da lui fondato nel 1948 in collaborazione con Peter Pears ed Eric Crozier, perpetuano l'eredità di quello che tutti considerano l'Orpheus britannicus del Novecento. 11 Tributo a Bruno Bettinelli (Milano 1913 - 2004) Nello scrivere musica spesso si avverte una seducente euforia rapportata a uno stimolante imbarazzo nel momento in cui le idee, già impostate in possibili soluzioni strumentali, prospettano itinerari multipli di elaborazioni gestuali e di coesioni formali: la riflessione sulla scelta - e quindi sull’accantonamento - può risultare persino dolente seppur necessaria. Nel novembre 2004, in questa condizione di sospesa esitazione sui dettagli ultimi della stesura dei miei Studi per violino, mi giunse la notizia della scomparsa di Bruno Bettinelli. Superando la comprensibile fase di lutto, realizzai a breve che il miglior omaggio a uno dei miei cari maestri fosse indirizzare quella scelta su stilemi che palesassero le sue peculiarità musicali, strettamente aderenti a quelle umane. Non potrò mai scindere nella memoria la solidità delle strutture musicali di Bettinelli dalla sua strenua salvaguardia della propria dignità intellettuale; l’efficacia poetica e materica del suo fraseggio dalla sua disponibilità all’ascolto; le nozioni concrete e schiettamente espressive della strategia compositiva dall’equilibrio interiore di un uomo che sapeva offrire i suoi disegni musicali più intimi quanto isolarsi nelle ardue ascese dolomitiche in solitaria. Non posso lealmente affermare quanto di ciò emerga dalla scrittura violinistica che si è concretata nei miei Studi, ma il laborioso e non sempre agevole processo di selezione ha certo risentito di un ultimo insegnamento del maestro. Vittorio Zago 12 PROGRAMMA 6 giugno 2013, ore 21 Lectio magistralis con CYPRIEN KATSARIS, pianoforte in lingua inglese INGRESSO LIBERO CON PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA 11 luglio 2013, ore 18.30 Flauto e arpa: mito, classicismo e modernità Lezione-concerto a cura di GIANFRANCO SCAFIDI con ROSANGELA BONARDI, arpa, ed EMANUELA MEDEA, flauto Musiche di Bach, Donizetti, Mendelssohn-Bartholdy, Rota INGRESSO LIBERO CON PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA 12 settembre 2013, ore 18.30 Maddalena, Azucena, Violetta: figure di donne colpevoli nella “Trilogia popolare” di Verdi Conversazione multimediale di CARLO VITALI in “trialogo” con VALERIA PALUMBO e GIOVANNI GAVAZZENI INGRESSO LIBERO 26 settembre 2013, ore 18.30 Eloquenza lirica e vigore gestuale: il violino dal XIV secolo a oggi Lezione-concerto con FULVIO LUCIANI, violino Musiche di Zago, Tartini, Sivori, Dowland, Paganini, Ysaÿe INGRESSO LIBERO CON PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA 3 ottobre 2013, ore 18.30 «O dolce mio martire / cagion del mio gioire!» Amore, croce e delizia nei madrigali di Carlo Gesualdo Conferenza in occasione dei 400 anni della morte di Carlo Gesualdo da Venosa a cura di FRANCESCO SAGGIO, Università di Pavia Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali INGRESSO LIBERO 10 ottobre 2013, ore 18.30 La reggia e i luoghi di potere nelle opere di Verdi. Paesaggi visivi, sonori, abitati Conferenza a cura di SONIA ARIENTA Letture dai libretti d’opera a cura di VALERIA FERRARIO INGRESSO LIBERO Tutti gli appuntamenti si terranno presso la Sala Conferenze di Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento Main partner In collaborazione con Media partner Media partner web Con il contributo di AMICI DI PALAZZO MORANDO E DI PALAZZO MORIGGIA Partner tecnici INFO E PRENOTAZIONI Comune di Milano | Cultura Polo Civiche Raccolte Storiche e Case Museo | Ufficio Comunicazione Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23 tel. + 39 02 884 62330 (lun.-ven. 10-13 e 14-18) [email protected] www.civicheraccoltestoriche.mi.it Immagine di Peter Bottazzi | Grafica di Francesca Tamanini ASSOCIAZIONE MILANO CULTURA PATRIMONIO ARTE ED EDUCAZIONE PER IL SOSTEGNO DELLE CIVICHE RACCOLTE STORICHE