Anno XV - Numero ??? - 19 maggio 2009
Le Interviste
Parlano il direttore Gelmetti
ed il regista Zeffirelli
A Pag.
2
Questa volta
prima dell’opera
Tre brani musicali di Mascagni
al posto di un altro atto unico
A Pag.
4
La storia di “Pagliacci”
Un fatto di vera cronaca,
ambientato nel luogo
originale: Montaldo Uffugo
A Pag.
6 e 11
L’arte del clown
Storia dell’eterno sforzo
dell’uomo per far sorridere
A Pag.
8e9
Il pagliaccio cattivo
Il lato perfido delle
maschere, da Arlecchino
ai giorni nostri
A Pag.
10 e 12
PAGLIACCI
d i R u g g e ro L e o n c a v a l l o
2
P
Pagliacci
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Parlano il direttore Gianluigi Gelmetti ed il regista Franco Zeffirelli
Un’ambientazione anni ‘60 per il capolavoro di Leoncavallo
getto della Bohème, n.d.r.) avessero critiagliacci, opera in un atto tradiziocato in modo così acceso Leoncavallo».
nalmente abbinata nelle rappresenL’allestimento è lo stesso visto e applautazioni ad un altro titolo melodito dal 14 al 19 febbraio scorso (quattro
drammatico, questa volta sarà l’unica
le recite) al Maggio Musicale Fiorentino.
opera in palcoscenico: contrariamente a
Una messa in scena rivoluzionaria per
quanto vuole la tradizione - che la vede il
uno dei padri nobili
più delle volte in acdella regìa italiana,
coppiata con Cavalleche, di solito, è semria Rusticana di Mapre molto rispettoso
scagni - l’opera sarà
delle indicazioni depreceduta da alcune
gli autori.
pagine sinfoniche del
Al posto della piazza
compositore livornedi un paesino calase: l’Inno al Sole, dalbrese di fine Ottol’opera Iris e la Sinfocento, la periferia denia da Le Maschere e
gradata di una città
l’Intermezzo da Cadel Sud, negli anni
valleria Rusticana.
‘60. E’ questa l’amSecondo Zeffirelli, in- Franco Zeffirelli e Gianluigi Gelmetti
bientazione scelta
fatti, il dittico Cavaldal Maestro Franco Zeffirelli che rifugge
leria-Pagliacci non giova alla comprenogni allestimento «oleografico» tradiziosione né dell’una né dell’altra opera, conale. La scena appare ricca, piena di come se il pubblico fosse esposto a una solori, di movimenti di masse, come nello
vrabbondanza di emozioni.
stile del maestro fiorentino. I coristi e le
«Ho sposato quest’idea di Zeffirelli - spiega
comparse non vestono i panni di contail Maestro Gianluigi Gelmetti, che torna
dinelli e massaie rurali, bensì quelli di
sul podio del “suo” teatro - e senza saperproletari e borghesi. Invece di scorci pitlo ho scelto gli stessi brani che Mascagni
toreschi e piazzette baroccheggianti, la
amava eseguire prima di Pagliacci, opera che
scenografia comprende l’officina di un
Mascagni apprezzava moltissimo, pur non
gommista, lamiere di «bandone», motoamando, anch’egli, la messa in scena conrini, biciclette, Vespe e, sullo sfondo,
temporanea con Cavalleria».
quelle grandi locandine, un po’ kitsch,
«Quando si parla di Verismo – continua
con le facce di clown, come ancor oggi se
Gelmetti - occorre usare il massimo rispetto
ne vedono in provincia.
verso questo concetto, molto spesso usato
«Solitamente evito ogni tipo di “attualizzasuperficialmente come sinonimo di eccessizione”- spiega Zeffirelli - tuttavia in quevo e troppo realistico. Il Verismo di Leoncasto caso l’opera di Leoncavallo si prestava,
vallo coincide con il momento in cui l’arte
perché lo stesso autore voleva rendere «conesprime senza più pudori i sentimenti umatemporaneo» quel mondo pittoresco. Leoncani, svelandoli per quello che sono. Ma ancovallo trasse spunto, peraltro, da una vicenda
ra con educazione. Come dichiara Tonio nel
realmente accaduta, un caso che giudicò suo
Prologo, il compositore intende proporre la
padre, magistrato a Cosenza, riguardante
verità dei sentimenti, con una musica che
una compagnia di attori girovaghi, in cui un
ricerca la suprema illusione, l’illusione del
marito geloso uccise la moglie e l’amante di
vero. Pagliacci è un lavoro straordinarialei. Mentre con Rigoletto non avrei ma potumente accurato, a livello melodico, armonito fare un’operazione del genere, con Pagliacco e dall’orchestrazione raffinata. Un’opera
ci sì: giullari gobbi nelle corti europee non ci
colta, ricca di significati, che non va diretsono più, mentre si trovano ancora compata in modo solamente duro, ma anche lieve,
gnie di teatranti che portano il loro spettacotrasparente. Non mi sono mai spiegato perlo in piccoli paesi».
ché compositori e librettisti di altissimo liA proposito di teatri, il Maestro non pervello come Catalani, Boito, Pizzetti, sopratde occasione per gettare un sasso nello
tutto Puccini (con il quale Leoncavallo
stagno: «Il teatro musicale italiano deve
ebbe degli screzi per l’esclusiva sul sogmantenersi da solo, come negli Stati Uniti, con gli sponsor
Il G iornale dei G randi Eventi
privati. Da noi bisognerebbe
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totalmente i biglietti. Lo Stato
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Prossimi appuntamenti
Stagione 2009 - Teatro Costanzi
18 - 23 Giugno
LE GRAND MACABRE
di György Lieti
Stagione estiva - Terme di Caracalla
14 Luglio - 06 Agosto
TOSCA
di Giacomo Puccini
29 Luglio - 09 Agosto
02 - 09 Ottobre
29 - 06 Novembre
CARMEN
di Georges Bizet
PELLÉAS ET MÉLISANDE
di Claude Debussy
TANNHÄUSER
di Richard Wagner
18 - 31 Dicembre
~~
LA TRAVIATA
di Giuseppe Verdi
La Locandina ~ ~
Teatro Costanzi, 19 - 27 maggio 2009
PAGLIACCI
Dramma in un prologo e due atti
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Prima rappresentazione: Milano, Teatro dal Verme, 21 maggio 1892
Maestro concertatore
e Direttore
Mestro del Coro
Regia e scene
Costumi
Nedda (S)
Gianluigi Gelmetti
Andrea Giorgi
Franco Zeffirelli
Raimonda Gaetani
Personaggi / Interpreti
Myrtò Papatanasiu (19, 21, 24, 27)
Susanna Branchini (20, 23, 26) / Mina Yamazaki (22)
(nella commedia Colombina)
Canio (T) (nella commedia Pagliaccio)
Tonio (Bar) (nella commedia Taddeo)
Peppe (T)
(nella commedia Arlecchino)
Silvio (Bar)
Stuart Neill (19, 21, 23, 24, 26)
Renzo Zulian (20, 22, 27)
Seng-Hyoun Ko (19, 21, 23, 26)
Silvio Zanon (20, 22, 24, 27)
Danilo Formaggia (19, 21, 23, 26, 27)
Cristiano Olivieri (20, 22, 24)
Domenico Balzani (19, 21, 24)
Pierluigi Dilengite (20, 23, 26) / Gianpiero Ruggeri (22, 27)
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
Coro di Voci Bianche di Roma dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
e del Teatro dell’Opera di Roma
Allestimento Opere Scenografiche S.R.L.
L’OPERA SARA’ PRECEDUTA DALL’ESECUZIONE DI TRE CELEBRI BRANI SINFONICI
DI PIETRO MASCAGNI: L’INNO DEL SOLE DA IRIS, L’OUVERTURE DA LE MASCHERE
E L’INTERMEZZO DA CAVALLERIA RUSTICANA.
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www.giornalegrandieventi.it
dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale
N
Il
Pagliacci
Giornale dei Grandi Eventi
on è solito stravolgere il dettato del libretto Franco Zeffirelli, regista di questo spettacolo, ma per una volta ha voluto attualizzare l’ambientazione portandola in una periferia degradata del Sud
Italia degli Anni Sessanta. Come al
suo solito un allestimento ricco, sontuoso, pieno di colori e di masse variopinte. Un allestimento questo,
creato proprio per l’Opera di Roma
nel 1992 e poi rivisitato per il Maggio Musicale Fiorentino dove ha de-
buttato nel febbraio scorso.
Per queste otto recite torna sul podio
del Costanzi – dove l’opera Pagliacci
è andata in scena per 9 volte – Gianluigi Gelmetti, che di questo Teatro
ne è stato direttore principale fino a 2
anni fa.
Pagliacci, che debuttò al Teatro Dal
Verme di Milano nel 1892, fu la prima opera di Leoncavallo e gli conferì
un immediato grandissimo successo.
Un successo che però attirò verso il
compositore napoletano molte invi-
die da parte di diversi colleghi.
Tale opera, piuttosto breve nonostante il prologo ed i due atti, viene di solito presentata abbinata ad un altro lavoro, il più delle volte Cavalleria rusticana di Mascagni. Questa volta, invece, a precedere l’opera saranno tre celebri brani sinfonici sempre di Mascagni: L’Inno del sole (e non “al sole” come comunemente chiamato) dall’Iris
(adottato anche come Inno Olimpico),
l’Overture da Le Maschere e l’Intermezzo di Cavalleria rusticana.
I colorati Pagliacci di Zeffirelli
La vicenda, che trae spunto da un
reale fatto di cronaca al centro di un
processo di cui fu giudice il padre di
Leoncavallo, si svolge a Montalto Uffugo in Calabria, il giorno di Mezzagosto, fra il 1865 e il 1870.
Preso dalla rabbia per il rifiuto di
Nedda, Tonio racconta il segreto della donna al marito Canio, il quale accorre per sorprenderla durante il convegno amoroso. Silvio
però riesce a fuggire e Canio, minacciando Nedda, tenta di
farle confessare il nome dell'amante. A questo punto interviene il commediante Peppe e ricorda a Canio che la recita
sta per cominciare.
Canio soffre, ma deve tenere per sé i suoi sentimenti. Questo è il destino dei pagliacci: tramutare il pianto in risate e il
dolore in smorfie.
La Trama
Prologo: il commediante Tonio annuncia la commedia che
sta per essere rappresentata ed il credo artistico dell'autore.
Spiega che si tratta di un soggetto Verista, il quale racconta
degli autentici sentimenti umani che possono nascondersi
dietro la finzione scenica.
Atto I: Nel paese calabrese, alle tre del pomeriggio. I contadini
acclamano festosi l'arrivo di un gruppo di teatranti di girovaghi. Il capo della compagnia Canio, vestito da pagliaccio,
invita tutti i contadini e le contadine allo spettacolo che si
terrà in serata.
Canio sospetta che il commediante Tonio insidi la moglie
Nedda e lo avverte che, se nella finzione la scena di una sposa sorpresa in flagrante tradimento può creare una situazione comica, nella realtà una vicenda simile potrebbe concludersi in tragedia. Il discorso è interrotto dall'arrivo degli
zampognari. Le donne si avviano verso la chiesa e gli uomini in taverna, lasciando Nedda da sola.
La donna non riesce a nascondere il proprio turbamento dopo le parole del marito e canta un'aria in cui celebra la libertà
degli uccelli nel cielo.
Nel frattempo Tonio si avvicina e le confessa il proprio amore, ma ella lo respinge deridendolo e gli dice di tenere le sue
confessioni d'amore per lo spettacolo della sera. Addolorato, il commediante giura di vendicarsi.
Entra in scena Silvio, un giovane possidente di campagna
della zona, il vero amante di Nedda. La donna gli racconta
l'accaduto e Silvio le propone di fuggire con lui la notte stessa: in questo modo potrà affrancarsi dal marito e dalla vita
girovaga che non ama. Mentre Nedda cerca di resistere a
queste proposte, Tonio ritorna non visto e ascolta le parole
di Silvio. Alle continue insistenze del giovane possidente,
Nedda si lascia convincere e promette di fuggire con lui durante la notte.
Atto II: La sera, durante la rappresentazione della commedia. I
contadini e le contadine accorrono per assistere allo spettacolo dei pagliacci, accolti da Tonio, Peppe e Nedda. Fra gli
spettatori c'è anche Silvio.
Lo spettacolo inizia. Colombina (Nedda), in assenza del marito Pagliaccio (Canio), attende il buffo servo Taddeo (Tonio) che le deve portare la cena. Giunge Arlecchino (Peppe)
pronto a dichiararle il suo amore. Arriva quindi anche Taddeo il quale, nonostante le sarcastiche battute di Colombina,
le confessa di non riuscire a dimenticarla, ma accortosi della presenza di Arlecchino, se ne va, lasciando soli i due innamorati.
Mentre Arlecchino rinnova le sue promesse d'amore e propone a Colombina di avvelenare il marito e quindi fuggire
insieme, Taddeo ritorna ed annuncia l'imminente arrivo di
Pagliaccio. Arlecchino si dilegua, mentre Pagliaccio entrando in scena ode pronunciare da Colombina le medesime parole che ella - nella realtà - aveva detto poche ore prima a Silvio. In quello spettacolo si ripete, dunque, la stessa scena di
gelosia del pomeriggio. Pagliaccio vuole conoscere il nome
dell'amante di Colombina. A questo punto finzione e realtà
si confondono. Quando la donna risponde che l'uomo che
era con lei è Arlecchino, il marito la incalza chiedendole il
nome del suo vero amante ed accecato dalla gelosia, la colpisce con un pugnale.
Nedda cade invocando Silvio. L'amante accorre al suo fianco, ma Canio uccide anche lui. Poi, rivolgendosi al pubblico,
annuncia: «La commedia è finita!».
3
Le Repliche
Mercoledì 20 maggio, ore
Giovedì 21 maggio, ore
Venerdì 22 maggio, ore
Sabato 23 maggio, ore
Domenica 24 maggio, ore
Martedì 26 maggio, ore
Mercoledì 27 maggio, ore
20.30
20.30
20.30
18.00
17.00
20.30
20.30
L’editoriale
Aspettando
Chiarot
di Andrea Marini
Sembra ormai certa la convergenza tra Ministero dei
Beni Culturali e Comune di
Roma sul nome di Cristiano
Chiarot come nuovo Soprintendente al Teatro dell’Opera di Roma. Sembra, abbiamo detto, perché nei giorni
scorsi, al Ministero dei Beni
Culturali sull’argomento c’è
stata una riunione tra i soci
fondatori ed in particolare
tra Ministero - rappresentato dall’attivissimo ed estremamente attento ai problemi di Roma Sottosegretario
Francesco Giro - Sindaco
della Capitale Alemanno e
Presidente della Regione
Marrazzo. La decisione doveva essere annunciata ufficialmente quel giorno, ma
invece a fine giornata le
agenzie di stampa tacevano
ogni notizia. Pare che l’incontro si sia bloccato su delle resistenze del Presidente
della Regione Marrazzo che
lasciando la sala avrebbe
detto «è solo una riunione interlocutoria».
C’è da sperare, per il bene
del Teatro, che questa attesa
non duri ancora a lungo. Ci
sono da preparare le stagioni, da reimpostare – forse
anche drasticamente, cercando di salvare e valorizzare le maestranze - la vita di
un Teatro. Cristiano Chiarot
viene dal Teatro La Fenice
di Venezia, una realtà piccola ma forse tra le più vitali
del mondo lirico italiano. In
quella sede Chiarot si è occupato tra l’altro di Marketing e Comunicazione, proprio quello di cui è gravemente carente l’Opera di
Roma. Ma il Soprintendente
in pectore è anche uomo allo
stesso tempo risoluto e di
dialogo. C’è da sperare,
dunque, che sia messo nelle
condizioni di lavorare al più
presto, che non gli siano posti dinnanzi pretestuosi
ostacoli. E questo per il bene
del Teatro.
Pagliacci
4
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Prima di “Pagliacci”, tre brani del compositore livornese
«P
Mascagni sinfonico per iniziare
er me lui fu
più di un librettista o di
un amico: molto spesso fu
anche il consigliere, l’ispiratore, poiché aveva
come pochi la visione delle grandi linee sceniche;
insomma creava il dramma, non era un semplice
riduttore come tanti».
Così in vecchiaia Mascagni ricordò l’amico
e collaboratore Luigi Illica. Letterato avventuroso e geniale, Illica fu
certamente il librettista
più aperto e brillante
dell’era post-verdiana.
Con Mascagni diede
vita ad un sodalizio importante che produsse
tre titoli assai diversi
l’uno dagli altri: Iris
(1898), escursione nel
simbolismo orientaleggiante, Le maschere
(1901) riscoperta della
commedia dell’arte, e
Isabeau (1911) primo
avvicinamento mascagnano al decadentismo
che avrebbe poi portato
a Parisina con D’Annunzio.
Iris e Le maschere sono
certamente fra le opere
più interessanti di Mascagni, il tentativo
(perfettamente riuscito
nel primo caso, più discutibile nel secondo)
di esplorare nuove potenzialità espressive
della
drammaturgia
musicale. In entrambe
si ritrova una pagina
sinfonica d’ampio respiro e d’indubbio rilievo.
L’Iris e L’inno del Sole
In Iris si tratta del celeberrimo “Inno del Sole”
Pietro Mascagni
e non “Inno al sole” come in genere si dice: è,
infatti, il sole a cantare
«Son io, sion io la vita».
Mascagni costruisce
l’avvio dell’opera con
estrema eleganza. Parte dalla notte e da suoni cupi sprofondati al
grave in orchestra: sonorità soffuse quasi
impercettibili. Poi (I
primi albori) appare il
tema più convinto e
scolpito, sia pur sempre con volumi sonori
contenuti. I fiori si risvegliano, la tessitura
orchestrale sì ampia a
toccare gli acuti e poi,
finalmente,
spunta
l’aurora e in un crescendo di tensione dal
Programma
Musiche di Pietro Mascagni
Da Iris: Inno del Sole
Da Le maschere: Overture
Da Cavalleria rusticana: Intermezzo
pianissimo al fortissimo, il tema si espande,
coinvolge l’orchestra e
infine il coro che entra
appunto con l’Inno.
Pagina d’effetto che
Mascagni riprenderà
alla fine ad accompagnare la sventurata Iris
verso la morte. Questo
brano, per la sua
straordinaria
forza,
bellezza e senso evocativo, è stato adottato
anche come Inno Olimpico.
maschere) fischiata
alla prima assoluta
in contemporanea
in sei teatri differenti! Con uno
sforzo promozionale notevole, infatti, l’editore Sonzogno organizzò il
debutto di questo
lavoro contemporaneamente la stessa sera: il 17 (!)
gennaio 1901 a Genova, Milano, Roma, Torino, Venezia e Verona. In
realtà
avrebbe
dovuto esserci anche Napoli, ma al
San Carlo il debutto slittò di qualche
giorno per l’improvvisa indisposizione di un cantante.
Fu un fiasco generale tanto che Illica
inviò a Mascagni
uno spiritoso telegramma: «Sei fiaschi rasentano il successo. Consoliamoci».
Nonostante il verdetto
negativo del pubblico e
della critica Le maschere
contengono
pagine
piacevoli, rese dal musicista con mano leggera e gustosa orchestrazione. Spicca la Sinfonia di gusto cimarosiano (era l’epoca in cui si
riscopriva Il matrimonio
segreto, appunto di Cimarosa), vivace, scorrevole, deliziosa: i due
temi principali evidenziano i differenti caratteri del lavoro, il caldo
e intenso lirismo (l’amore fra i due giovani
innamorati) e il gioco
degli inganni; si pensi
ad esempio a quelle
brillanti terzine ai bassi, simili a tanti sberleffi: «Se tutto lo spartito
fosse potuto rimanere all’altezza della Sinfonia –
commentò uno dei critici dell’epoca Giorgio
Vigolo – avremmo avuto
un capolavoro di brio e
quasi il Falstaff di Mascagni».
Roberto Iovino
Le Maschere
Nell’affrontare Le maschere, Mascagni si pose l’obbiettivo di rilanciare il teatro comico
italiano.
Non ci riuscì e del resto se il compositore livornese può vantare il
primato di essere diventato un nome di richiamo internazionale
in una sola sera con il
debutto della sua prima opera (Cavalleria
rusticana), vanta purtroppo anche il più triste record di avere
avuto un’opera (Le
Caricatura di Mascagni e Le Maschere di Augusto Majani alias Nasica
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Pagliacci
Stuart Neill
Canio, Capo della
compagnia e marito geloso
P
Il tenore Stuart Mill interpreterà il ruolo di Canio, Pagliaccio tradito dalla
bella moglie Nedda.
5
Susanna Bianchini, Mina Tasca Yamazaki e
Myrtò Papatanasiu
S
Nedda, attrice e
moglie fedifraga
Il ruolo di Nedda sarà interpretato dai Soprani Susanna Branchini, Mina
er le sue esibizioni in tutto il mondo, Stuart Neill si è affermato Yamazaki e Myrtò Papatanasiu
come uno dei tenori più importanti del nostro tempo: collabora
con il Metropolitan Opera, il Teatro alla Scala, La Fenice, la
usanna Branchini si diploma al Conservatorio Morlacchi
Vienna Statsoper, il Royal Opera Covent Garden e numerose altre
(Perugia) e debutta in Carmen al Teatro Nazionale di Roma
istituzioni musicali internazionali. Ha inoltre lavorato con direttori
(2002). Si esibisce poi in Turandot e in Madama Butterfly nei
d’orchestra di notevole calibro (tra cui Zubin Mehta e Lorin Maazel) più importanti teatri italiani. Nel 2004 è Tosca e ottiene grandi suce con orchestre di grande livello. Il suo debutto è stato al Metropoli- cessi anche all’estero con La forza del destino e Alzira di Giuseppe
tan Opera di New York, dove ha interpretato Arturo ne I Puritani. E’ Verdi. E’ poi Mimì ne La Boheme, Desdemona in Otello e Nedda ne
stato poi Edgardo in Lucia di Lamermoor all’Opera
I Pagliacci, rappresentato anche in Giappone
de Paris, ha partecipato all’Oberto di Giuseppe
(2007). Molto intensa la sua attività concertistiVerdi alla Royal Covent Garden e all’Aida all’Alte
ca, sia per le celebrazioni verdiane, sia per i 140
Opera Frankfurt. Nell’attuale stagione ha interanni dalla morte di Francesco Cilea. Nel 2008 è
pretato La Tosca, Don Carlo e Requiem e dopo Caalle Terme di Caracalla, all’Arena di Verona e
nio ne I Pagliacci sarà Radames in Aida e insieme
al Teatro Massimo di Palermo. In questa staalla Rundfunk Sinfonie Orchester Berlin, interpregione dopo Nedda ne I Pagliacci a Roma sarà
terà la IX sinfonia di Beethoven.
con lo stesso ruolo a Palermo e parteciperà alRenzo Zulian si esibisce nei principali teatri del
l’Opera Festival di Savonlinna in Finlandia.
mondo e collabora con le più importanti istituzioMina Tasca Yamazaki debutta al Teatro Giglio
ni liriche italiane per le quali interpreta, tra le aldi Lucca come Ciociosan in Madama Butterfly,
tre, opere come Il Trovatore, Aida, La forza del destiruolo che riveste in seguito in Italia e all’estero
no, La Bohème, Tosca, Madama Butterfly, Manon Le(Salisburgo, Oslo, Cagliari, Roma, Helsinki,
scaut, Turandot, Cavalleria rusticana, La Traviata, RiTrieste, Venezia, Palermo, Città del Messico).
goletto e Pagliacci. Svolge inoltre attività concertiArtista dotata di una spiccata sensibilità, è parstica, in Italia e all’estero. Si esibisce in vari ruoli
ticolarmente portata per l’interpretazione di
al Festival Puccini di Torre del Lago, a Parma, a
ruoli drammatici: è stata infatti Violetta ne La
Napoli, a Trieste, a Siviglia, alla Philadelphia
Traviata, Mimì ne La Boheme, Donna Elvira nel
Opera Company e allo Staatstheater di Stuttgart.
Don Giovanni, Liù nella Tirandot. Ha inoltre
Ospite più volte dell’Opera di Vancouver, tra le
partecipato a diverse manifestazioni artistiche,
sue più recenti interpretazioni vi sono l’Adriana
tra cui il Festival Verano di Madrid, il Festival
Lecouvreur a Catania, Andrea Chénier a Trieste, I vePuccini di Torre del Lago il Festivalles di Sanspri siciliani all’Opéra di Toulon. Ha inoltre preso Myrtò Papatanasiu e Stuart Neill
tander.
parte alla produzione dei Vespri siciliani in occaMyrtò Papatanasiu, diplomata al Conservatosione delle Celebrazioni Verdiane e poi pubblicata in DVD. Diverse le rio di Salonicco e musicologa, vince numerosi concorsi e si perfesue tournée in tutto il mondo, che lo vedono cantare anche a Santia- ziona prima al Megaron di Atene e poi all’Opera di Milano. Dego del Cile e in Corea del Sud. Recentemente si è esibito a Torino e a butta all’Opera di Salonicco con Il Combattimento di Tancredi e CloNapoli in Cavalleria rusticana e a Vancouver con Tosca. Tra i suoi pros- rinda ed in seguito interpreta il Fidelio, il Medium e Il matrimonio sesimi impegni, la Norma alla Palm Beach Lyric Opera e Il Trovatore al- greto, che vanno in scena anche all’estero. E’ poi anche Donna Anl’Opera di Atlanta.
na nel Don Giovanni, la Missa Solemnis, Petite Messe Solennelle, e partecipa a numerose lavori andati in scena in tutto il mondo. Nel
2007 è Violetta ne La traviata a Roma e nel 2008 è Tosca. Ha poi anSeng – Hyoun Ko e Silvio Zanon
che inciso arie e duetti di Rossini, il Turco in Italia e Don Giovanni
con l`Opera di Amsterdam e la IX Sinfonia di Beethoven con la Sydney Symphony Orchestra.
Tonio, gobbo factotum
e vendicativo
S
Ad alternarsi nel ruolo di Tonio - che nella Commedia interpreta il pagliaccio Taddeo - saranno i baritoni Seng – Hyoun Ko e Silvio Zanon.
eng – Hyoun Ko si diploma all’Accademia di Musica di Seoul
(1985), prosegue gli studi all’Accademia della Scala e vince
numerosi concorsi, per poi debuttare con Le nozze di Figaro a
Seoul (1982), dove in seguito si esibirà spesso con un repertorio di
opere verdiane e veriste. Dal 1990 il
baritono canta spesso in Italia (Festival di Torre del Lago, Festival
Verdi di Parma, Teatro Verdi di Padova, Teatro del Maggio musicale
Fiorentino) in Europa (Spagna,
Francia, Germania, Belgio, Grecia e
Svizzera), in Giappone, negli Stati
Uniti e in Israele. Vincitore del Festival di Orange nel 2006 e nel 2007,
l’artista è attualmente in tournee
con I Pagliacci.
Seng – Hyoun Ko
Silvio Zanon inizia a studiare canto nel 1996. Dotato di una voce
dal timbro drammatico e incisivo, molto adatta ai ruoli verdiani e
veristi, nel 2000 vince il concorso “Primo Palcoscenico”. Si esibisce poi in numerose città italiane (tra esse la natia Venezia, dove
interpreta in prima mondiale il S. Francesco d’Assisi) e su prestigiosi palcoscenici internazionali (Germania, Spagna, Giappone,
Slovenia e Grecia). Nel 2002 vince i premi
“Ettore Bastianini” e “L.Dordoni”. Molto
attento alla cura del personaggio e alla
qualità scenica, Zanon si dimostra anche
un artista assai duttile, specializzandosi in
regia e drammaturgia presso il teatro stabile del Veneto (2006). Reduce dall’interpretazione del Rigoletto a Vicenza, dopo
Tonio ne I Pagliacci sarà Scarpia in Tosca a
Torre del Lago (luglio – agosto 2009) e in
Norvegia (novembre 2009).
Pagina a cura C. Di G. - Foto Corrado M. Falsini
6
«V
Pagliacci
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La Storia dell’Opera
Quel Prologo, quasi un manifesto verista
oi non potete
neppure lontanamente avere
un’idea di quel che successe
nella sala del Costanzi in
quella serata indimenticabile. Dopo la Siciliana il pubblico applaudì, dopo la Preghiera acclamò con entusiasmo, dopo il duetto tra Santuzza e Turiddu diede in
manifestazioni di gioia delirante. Alla fine dell’opera gli
spettatori parevano letteralmente impazziti». Scriveva
così il grande soprano
Gemma Bellincioni, prima Santuzza, ricordando
il trionfo di Cavalleria rusticana al suo debutto nel
maggio 1890. Lo stesso
Mascagni aveva scritto al
padre due giorno dopo:
«Mai mi sarei immaginato
un entusiasmo simile».
La clamorosa affermazione dell’opera mascagnana ebbe ripercussioni notevoli sull’intero mondo
teatrale italiano. Non solo
cambiò la vita di Mascagni che si trasformò in
una sola sera da un semplice maestruncolo di
provincia al compositore
più famoso delle nuove
generazioni. Indicò la
strada anche ai suoi compagni di lavoro, quei musicisti della cosiddetta
“Giovine Scuola Italiana”
che stavano faticosamente cercando un difficile
equilibrio fra tradizione e
innovazione. Il primo a
capire la portata dell’invenzione mascagnana fu
Leoncavallo: «Dopo il successo di Cavalleria – scrisse anni dopo - mi chiusi in
casa disperato ma risoluto a
Enrico Caruso
tentare l’ultima
battaglia e in
cinque
mesi
scrissi il poema e
la musica di quest’opera...».
Il compositore
scelse - lo dichiarò egli stesso - una vicenda reale alla
quale aveva assistito, un fatto
di sangue avvenuto
nel
1865 a Montalto di Calabria e
giudicato da
suo padre, un Il baritono Victor Maurel, primo Tonio
magistrato di
idee liberali. In realtà di per dirvi come pria: “Le laquel tragico episodio solo grime che noi versiam son
alcuni particolari sono false! Degli spasimi e dei noconfluiti nel libretto. Lo stri martir non allarmatespunto arrivò dalla coltel- vi!” No. L’autore ha cercato
lata con la quale un gio- invece pingervi uno squarvane del paese aveva uc- cio di vita. Egli ha per masciso per gelosia il dome- sima sol che l’artista è un
stico di casa Leoncavallo. uomo e che per gli uomini
La cornice festosa gli fu scrivere ei deve. E al vero
invece suggerita dalla ispiravasi... Dunque vedrete
particolare solennità del amar sì come s’amano gli esferragosto di Montalto seri umani; vedrete de l’odio
dedicato alla Madonna i tristi frutti. Del dolor gli
della Serra. Fonti lettera- spasimi, urli di rabbia udrerie furono invece La fem- te e risa ciniche».
me de Tabarin di Catulle Opera di grande effetto
Pagliacci
Mendés e Un drama nuevo drammatico,
di Estebanez. L’opera, ri- contiene alcune pagine di
fiutata da Ricordi, venne grande popolarità. Si
acquistata da Sonzogno. pensi naturalmente a “RiUn ottimo affare: Pagliacci di pagliaccio” che, in un
e Cavalleria da allora for- procedere melodico teso,
mano un dittico perfetto, su uno strumentale scuro,
spesso riproposto conte- riassume l’essenza stessa
del dramma: il contrasto
stualmente.
fra l’apparenza doverosamente gaia dell’attore e il
Il Prologo
suo animo scosso dalla
Pagliacci nella sua prima gelosia e dal dolore. L’elestesura era definita nel li- mento di maggior novità
bretto “Opera in un atto”. sta nella costruzione
Durante le prove, però, drammaturgica dell’opeLeoncavallo pensò (forse ra, una sorta di teatro nel
su suggerimento di Mau- teatro, formula assai cara
rel) di introdurre il Prolo- al Novecento. Ed è progo, suddividere il lavoro prio questa trovata a renin due parti e inserire l’In- dere la trama avvincente:
termezzo orchestrale (e dalla finzione si passa alanche in questo caso si la realtà (anch’essa finziovede l’analogia con Caval- ne!) in un gioco che, come
leria). Il Prologo acquistò nella vita, mescola comun’importanza
fonda- media e tragedia. Il coro
mentale perchè divenne che in scena assiste alla
una sorta di manifesto del rappresentazione delle
verismo: «Io sono il Prolo- maschere è protagonista e
go. Poiché in scena ancor le pubblico insieme e quella
antiche maschere mette l’au- rappresentazione passa
tore, in parte ei vuol ripren- dal divertimento alla effedere le vecchie usanze e a voi ratezza di un omicidio
di nuovo inviami. Ma non senza soluzione di conti-
nuità, in un gioco macabro governato da Leoncavallo con indubbia efficacia musicale.
Il debutto e la critica
Il debutto avvenne il 22
maggio 1892 al Dal Verme di Milano con la direzione di Arturo Toscanini
e la interpretazione, nei
panni di Tonio, di Victor
Maurel che era stato il
primo Jago verdiano.
Fu un successo sincero di
pubblico con qualche riserva da parte della critica e della “intellighentia”
di allora. Nel giudicare le
opere di quel periodo non
c’erano mezze misure. O
le si amava o le si odiava
con passione. Achille Tedeschi sul Corriere della sera profetizzò, sbagliando
clamorosamente: «Successo immediato quanto effimero». Rimski-Korsakov definì il lavoro leoncavalliano “musica illusionista” e
Camille Bellaigue affermò di aver provato orrore durante l’ascolto.
I
Renè Leibowitz, tuttavia,
uno degli apostoli della
dodecafonia, nella sua Histoire de l’Opera considerò
il lavoro degno «di occupare un posto privilegiato
tra i capolavori dell’arte lirica».
I giudizi della critica non
interessavano affatto l’editore cui stavano a cuore
solo gli esiti commerciali.
E il 2 giugno Sonzogno
scriveva con soddisfazione a Guido Menasci, uno
dei due librettisti di Cavalleria rusticana: «...Pagliacci sono un vero successo e Leoncavallo, alla dovuta
lunga distanza da Pietro
[Mascagni] è un compositore facile e che ha il colpo
d’occhio teatrale sicuro. Ormai l’omnibus musicale della Scuola Mascagni è al
completo...Coi compositori
che ho già e coi concorsi
triennali io faccio già più di
quello che si può fare per determinare il risveglio dell’arte musicale italiana e farle riprendere il primato nel
mondo...».
Roberto Iovino
La polemica
con Mendès
l tema della gelosia che scatena la tragedia non era insolito al tempo di Leoncavallo. Si pensi a Carmen,
Otello, Cavalleria rusticana.
Ma l’opera che doveva portare il compositore napoletano
alla ribalta somigliava in maniera impressionante a La
Femme du tabarin del francese Catulle Mendès (1841-1909),
che di recente era stata pubblicata a Parigi. Era questa una
novella in dialogo (che l’autore aveva redatto in forma di
pièce teatrale in un atto) in cui un delitto d’onore veniva
consumato sulle tavole del palcoscenico, tra l’incredulità
degli spettatori. La concordanza tra il libretto di Leoncavallo e il testo di Mendès dimostra che il musicista aveva
avuto certamente modo di conoscere la pièce.
Mendès, venuto a conoscenza del libretto di Leoncavallo, protestò vigorosamente contro il presunto plagio e
con una lettera sul “Figaro” del 9 giugno 1899 rivendicò
la paternità del soggetto e intentò addirittura una causa.
La causa fu poi ritirata (giacché anche La Femme du Tabarin aveva dei precedenti letterari!), ma Leoncavallo volle
lo stesso ribattere alle accuse. Rivelò allora di aver tratto
ispirazione da un fatto realmente accaduto, un delitto
d’onore a cui egli aveva assistito in prima persona durante l’infanzia trascorsa in Calabria.
Per rafforzare la sua difesa, il compositore citò come
testimone proprio quel D’Alessandro (nell’opera Canio), che aveva commesso il delitto e che, uscito di prigione, era stato assunto a servizio dal barone Sprovieri in Calabria.
E. Ca.
Il
Pagliacci
Giornale dei Grandi Eventi
7
Guida musicale
Preludio e Prologo,
immagini dell’opera
L’
spesso con varie trasformazioni melodiche nell’opera.
Ad esso segue, quasi simbolicamente, quello della
gelosia di Canio, serpeggiante, accennato dai violoncelli.
Dopo la ripresa del tema
iniziale, il Preludio si lega
direttamente al Prologo, introduzione classica del melodramma secentesco che
viene volutamente ripreso
da Leoncavallo: è un momento di estrema difficoltà
vocale che spinge la voce
del baritono ad acuti impegnativi, come il la bemolle e
il sol naturale. La vocalità
verista, infatti, è tutta sfogata tra il registro centrale
una valenza fondamentale
per quanto riguarda l’enunciazione di alcuni importanti
aspetti della poetica verista
dell’autore.
Tonio, lo scemo, si presenta
al pubblico secondo la tradizione della Commedia
dell’Arte e, come un allegoria della coscienza dell’artista, spiega le intenzioni del
compositore che, ispiratosi
a un fatto realmente accaduto, ha cercato di dipingere uno squarcio di vita:
“egli ha per massima sol che
l’artista è un uom e che per gli
uomini scrivere ei deve!”.
Con tale affermazione
Leoncavallo esprime, anche
se in maniera non del tutto
ma nel
q u a l e
ognuno
può ritrovare un
po’ di se
stesso.
Dopo un
magniloquente
“Incominciate!” di
Tonio, si
apre il siRuggero Leoncavallo
pario…
Dopo il
folgorante successo della
prima recita al Teatro Dal
Verme di Milano, l’opera fu
replicata immediatamente
nei grandi teatri lirici stra-
e quello acuto con grandi
salti di sesta e quarta; è
prorompente, fortemente
espressiva e sovente all’unisono con l’orchestra.
Il Prologo si
deve al celebre baritono
francese Victor Maurel: famoso più per
le sue eccezionali qualità di
interprete che
per la bellezza
della sua voce,
suggerì
a
Leoncavallo
di aggiungere
questa famosa
pagina musicale che, oltre
ad essere un
importante
spazio solistico per il baritono, assume
La prima edizione dello spartito Pagliacci
ancora cosciente, un cambiamento storico nel rapporto compositore-pubblico, ovvero lo spostamento
dell’asse della comunicazione artistica verso l’interlocutore, la rinuncia allo
statuto demiurgico dell’artista-creatore, a cui si sostituisce l’assecondamento
del gusto dell’ascoltatore.
Come scrissero i musicisti
della Giovane Scuola verista: “Il miglior giudice di musica è infatti il nostro cuore
commosso”.
Nella seconda parte del
Prologo, che ha la forma tradizionale dell’aria, si manifesta l’aspetto fondamentale dei sentimenti, esposti in
tutta la loro umanità, seppure spinti all’estremo.
Mentre il musicista compone, le lagrime scendono sul
suo viso ed egli è intimamente partecipe del dram-
nieri di Vienna, Varsavia,
Berlino, ottenendo strepitosi e reiterati successi.
All’ammirazione entusiastica del pubblico, per lungo tempo non corrispose,
comunque, una benevola
considerazione da parte
della critica: la stampa specializzata tedesca cercò di
ridimensionare la novità
rappresentata da Pagliacci
sottolineando una presunta diretta filiazione dalla
musica del “campione” locale Wagner. Si scrisse che
senza Tristano e Isotta o
senza i Maestri cantori di
Norimberga una simile opera non sarebbe mai stata
concepita. Effettivamente,
considerando che Leoncavallo era stato il librettista
di se stesso e che nell’opera
ricorrono ben quattro leitmotive, si può immaginare
come il wagnerismo avesse
immagine di tutto
quello che è la musica dei Pagliacci è racchiusa nel Preludio, perfetto
scenario che anticipa i colori accesi del resto dell’opera. Una musica vivace, quasi elettrizzata, sottolinea
l’atmosfera gioiosa e rustica di festa paesana, pur
senza giocare la carta scontata della melodia popolare. La strumentazione ricca
e onnipresente svolge un
discorso a immagine di tutta l’opera, accenna tre dei
quattro leitmotiv organizzati dall’autore e oppone violentemente la piena orchestra alle risposte acute e
trillanti dei flauti e dell’ottavino. La struttura ritmica
è impiantata su una tradizionale misura ternaria di
3/8 da cui si discosta per
accennare in 2/4 al corno,
piano e dolorosamente, lo
straziante tema della risata
dolorosa del pagliaccio. È il
motivo conduttore più fortunato dell’opera, ma
Leoncavallo sceglie di non
abusarne facendolo ricomparire solo al termine del
primo atto, nel celebre arioso “Vesti la giubba”, e alla
fine dell’opera dove, con
un’esplosione orchestrale
in fortissimo (fff), accompagna la frase finale di Tonio
“…la commedia è finita!”.
Il secondo leitmotiv compare subito dopo: è quello
dell’amore adulterino tra
Nedda e Silvio, che ricorre
lasciato tracce profonde
anche in Italia. Il giovane
compositore, appena uscito dal Conservatorio di Napoli, si professava un seguace dell’idea wagneriana, pur senza abbandonare
le caratteristiche e le antiche tradizioni della musica
italiana che ritroviamo ben
presenti in tutta la sua produzione. Tuttavia la sua
era una musica nuova, che
sfuggiva a quel predeterminato controllo dall’alto
che il modello wagneriano
richiedeva: essa puntava
alla sollecitazione dell’emotività immediata del
pubblico.
Anche la critica francese
ebbe parole sprezzanti per
questa musica “tumultuosa
e vistosa” di cui null’altro
sapeva dire se non che i facili effetti drammatici e un
lirismo grossolano la destinavano al pubblico piccolo
borghese delle grandi città
italiane. Tale atteggiamento di sufficienza era
nient’altro che un tentativo
di arginare la novità proveniente dall’Italia e perdurò
fino all’intervento del
grande critico e musicista
René Leibowitz, il quale
per primo prese le difese
del Verismo musicale.
L’opera italiana stava infatti rialzando la testa dopo
l’esaurimento del filone romantico e questo non poteva che preoccupare fortemente i francesi, legati alla
produzione naturalistica di
autori come Alfred Bruneau e Gustave Charpentier, e i tedeschi, fedeli al
genio di Bayreuth.
An. Ci.
Pagliacci
8
Il
Giornale dei Grandi Eventi
L’arte del pagliaccio
Da “uomo del villaggio”
a beniamino
di bambini ed adulti
C
lown, termine inglese, significa uomo
del villaggio. È una
deformazione di clod, e deriva dal latino colonus: abitatore di colonia, colono,
contadino. Per estensione,
equivale a villano, impacciato, goffo.
È difficile stabilire la sua
prima apparizione nel
mondo dello spettacolo.
Esso non è, infatti, che il
grottesco nello spettacolo e
pertanto nasce con lo spettacolo.
rimprovero: “Procurate che
quelli che fan le parti dei
buffoni non dican più di
quanto è scritto per loro; perché ce n’è di quelli che ridono
essi stessi, per indurre una
certa quantità di stupidi spettatori a ridere pure, benché
frattanto debba prestarsi attenzione a qualche battuta essenziale del dramma”.
Come il campo di Enrico V
ha il suo soldato “spaccone”; come un carattere eminentemente tragico, quale il
Don Giovanni, è affiancato
“Concerto in maschera” di Richard Geiger. (Collezione Privata)
È una reincarnazione del
mimo e del sannio, del personaggio comico della
commedia e del giullare. È
il diavolo e il vizio della sacra rappresentazione e del
mistero. È il prosecutore
delle tradizioni delle maschere della commedia dell’arte: zanni (da sannio) e
arlecchini. Ma soprattutto
rappresenta un elemento
naturale, spontaneo, eterno, dello spettacolo. È il
servo sciocco spagnolo (el
gracioso). È il giullare (jester
o fool) del teatro elisabettiano e si confonderà più tardi con Pierrot e Pulcinella.
È il comico - già preesistente allo Shakespeare - cui
Amleto rivolgerà qualche
da Sganarello, nuovo Sancho per nuovo Don Chisciotte; come
perfino negli
oratori appaiono, talvolta, sulla scena di una
cattedrale, le
maschere comiche (ricordo il
Guglielmo d’Aquitania del Pergolesi), così non
v’è forma di
spettacolo che,
rovesciando l’azione tragica e
la
tensione
drammatica al
grottesco, non
esiga la presenza del clown. Il Il clown Rhum
quale è, più che un personaggio rituale, la materializzazione stessa di una
sfaccettatura, di una esigenza naturale e spontanea
dell’animo umano: l’elemento che commenta, che
irride, che giuoca e che alleggerisce, anche dal di
dentro, il dramma.
Nelle giostre e tauromachie di Corea, cui accennano anche i sonetti del Belli,
intervengono i nani per
una parodia della corrida,
documentata in stampe
“taurine” anche dal Pinelli.
Nelle corse dei bàrberi, come quelle del Palio di Siena, appare di tanto in tanto, a sollazzo della folla, il
fantino gobbo, o esotico, o
lillipuziano, dal nomignolo
burlesco, che assume nello
spettacolo il ruolo di clown.
Nel rodeo troveremo sempre, accanto ai più abili cavalieri, il montatore - impiastrato di fuliggine d’un asino o d’un bufalo
che finisce per essere gettato comicamente a terra, dopo aver resistito a una serie
di tentativi sempre più violenti per essere disarcionato. Nelle riviste su ghiaccio
o acquatiche non aspetteremo molto a vedere apparire il pattinatore o il tuffatore comico, vestiti in maniera ridicola: il tuffatore, poniamo, in un vecchio costume a strisce del principio
del secolo. E in tutti questi
personaggi, e in molti altri,
L'Orchestre du Cirque in una illustrazione di Paris Illustrè del 1883
dove più, dove meno, per
quanto differenti siano le
sfumature con cui si presentano, è in germe il personaggio del clown.
Ma nel circo il clown raggiunge il suo vero posto e
si realizza più compiutamente. Staccandosi dalla
tragedia e dalla commedia,
in cui interviene come una
coloritura d’ambiente, come una diversità, diventa
autonomo. Non è più il villano importuno delle ecloghe cinquecentesche dei
“Rozzi” che interrompe i
teneri colloqui delle Ninfe
e dei Pastori e ne viene cacciato con insulti e bastonate, né è l’incauto buffone
che Amleto tiene a bada. È
- finalmente - il meneur du
jeu; e soltanto qui l’attributo di clown, uomo rustico,
uomo della colonia, diventa soggetto. Non più rincalzo, né condimento; assume, infine, il ruolo di protagonista.
Quali sono le caratteristiche del clown? Quali gli
elementi della sua arte?
Ascoltiamo che cosa richiede Francesco Fratellini, che
fra i clowns è stato tra i più
grandi, da un vero clown. E
ne ricostruiremo le caratteristiche e virtù che si avvicinano, come è facile accorgersi, al tipo stesso del comico dell’arte: “Un pagliaccio non deve solo saper far l’idiota per divertire la gente;
deve essere acrobata, danzatore, prestigiatore e cavallerizzo, ciarlatano e un pochino
musicista. Il pagliaccio deve
conoscere tutte le arti insieme.
Ecco che cosa occorre per diventare un clown sul serio,
un clown in grande. E questo
è niente se l’artista non trova
in sé l’ispirazione e quella, caro mio, non c’è nessuno che la
possa insegnare”.
Confrontiamo il clown
“ideale”, ora, con un famoso comico dell’arte, Tiberio
Fiorilli detto Scaramuccia, e
vediamo in che cosa consiste il suo spettacolo: è saltatore, acrobata, ammaestratore di bestie - si presenta
sempre col suo fedele pappagallo - cantante, musicista, versificatore, danzatore, imitatore. Nell’ “entrata” del “Minuetto dell’Asinello” dà fuoco a tutte le
polveri del suo repertorio:
“L’Asinello innamorato / canta e raglia a tutte l’ore / pare
Il Trio Louis Ronx, Geo, Foottit, Madame F
Foottit
Il
Pagliacci
Giornale dei Grandi Eventi
9
I Clown che hanno fatto storia
L’eterno comico contrasto
tra il “Magnifico” e lo “Zanni”
A
un musico affannato / quando
narra il suo valore / e cantando d’amor va - ut re mi fa sol
la” (ragli).
Dalla osservazione comica,
dalla caduta, dal frizzo, dal
lazzo, dalla capriola, il
clown, come nel “Minuetto
dell’Asinello”, è passato all’
“intermezzo”, all’ “entrata”,
al “numero”. Prima ha intrattenuto il pubblico tra un
esercizio e l’altro del volteggiatore o dell’acrobata, poi
ha eseguito lui stesso qualche virtuosità musicale, infine è arrivato a compiere,
dapprima da solo, poi accompagnato da altri pagliacci, il suo numero o entrata comica: commedia sintetica, sketch, mimodramma
comico.
Mario Verdone
ffermatosi in Inghilterra, il primo
clown è di origine
italiana. Si chiama Joe Grimaldi, è vissuto dal 18 dicembre 1779 al 31 maggio
1837. Charles Dickens è il
suo biografo.
Nipote del saltatore Giovan Battista Nicolini Grimaldi, detto Gamba di Ferro, debuttò come attore nel
1800 in una arlecchinata
mostrando un eccezionale
estro comico, degno della
commedia dell’arte. Era
saltatore, danzatore, comico, cantante, parodista ed
era famoso anche per le
sue “invenzioni”: con frutta e verdura eseguiva un
ritratto, con quattro formaggi, una culla e un parafuoco, costruiva una carrozza. Fu considerato di
valore pari a quello di
Kean.
Jean Baptiste Auriol
Un posto di primo piano
nella storia del clown occupa Jean Baptiste Auriol
(1806-1881), ammirato da
Théophile Gautier: clownacrobata, entrava in pista
su trampoli di quattro metri, ne perdeva uno e continuava a stare in equilibrio,
saltellava con l’altro. Saltava su una colonna di sedie
rovesciate e vi restava in
cima, senza cadere; si appoggiava in equilibrio su
una piramide di bottiglie;
si fingeva scimmia; saltava
soldati con baionetta in
spalla, facendo tutta una
serie di giuochi, ora audaci,
ora lepidi. Era giocoliere,
cavallerizzo, funambolo,
attore, ercole.
Dopo Joe Grimaldi e Auriol, troviamo tra i clown
più celebri: James Clement
Boswell, parodiatore di
Shakespeare, (1826-1859); i
Price che crearono il “violino saltatore”, suonato anche nel salto mortale; i mimi acrobati Hanlon Lees, le
cui memorie ebbero la prefazione di Théodore de Branville; Billy Hayden, Tony
Grice, Medrano detto
Boum Boum, la coppia
Foottit e Chocolat, e Dario e
Bario, Antonet (Umberto
Guillaume di Brescia),
Beby (Frediani), Rhum, gli
Zavatta, Little Walter, i russi Karandash e Popov, i Rivels, Joe Jackson inventore
di acrobazie ciclistiche comiche.
“I Saltimbanchi” di Pablo Picasso
Il “Magnifico” e lo “Zanni”
Nella coppia di clowns troviamo il clown bianco e il
toni, dai francesi chiamato
auguste. Il primo è elegante, infarinato, col berrettino a pan di zucchero, il vestito di un pezzo, pieno di
lustrini e di stelle. Il secondo è impacciato, malvestito, senza grazia, con la vo-
che tanta fortuna ebbe in
Russia, il trio Cavallini e,
prima d’essi, i Fratellini:
Francesco elegante clown
bianco, Paolo, dal frack
scomposto, e Alberto, dalle
immense scarpe, l’enorme
trucco sugli occhi, le lampadine che si accendono
sui calli: un Auguste. Beniamini degli scrittori, dei
pittori, degli intellettuali di
tutto il mondo, ebbero un
bibliotecario di eccezione:
Tristan Bernard. Raymond
Radiguet ha descritto il loro camerino nel Ballo del
conte d’Orgel, in una sequenza che si svolge, nel
febbraio 1920, al Circo
Medrano. Un altro grande
clown è lo svizzero Grock
(Adrien Wettach; 18801959), figlio di un orologiaio cultore di atletismo e
acrobazia. Maestro in ogni
specialità della pista, ebbe
anche grandi qualità musicali. Fece coppia per sei
anni, dal 1907, con Antonet; più tardi ebbe per
partner, prima Max van
Emden, poi Alfred Schatz.
Ma il numero perfezionato con l’andare degli anni
e personalissimo, in una
esibizione che durava
complessivamente più di
mezz’ora, era quello mu-
ce stonata. Sono il Magnifico e lo Zanni della commedia dell’arte, il parlatore e il
compare distratto, quello
che picchia con la paletta di
gomma, cioè lo schiaffo-bastone, e quello che prende
gli schiaffi. Il nome auguste
viene da un garzone sciocco, tanto mal vestito da divertire il pubblico, come lo
Charlot del film Il Circo che
entra nella pista con una pila di piatti e la tiene a lungo
in equilibrio finche non finisce per farla cadere. Coppia classica di Magnifico e
Zanni possiamo vedere nei
due clowns divenuti
celebri col cinema:
Olivier Hardy e Stan
LaureI.
“Augusto di serata” è
il clown che è presente
in pista per l’intero
spettacolo, riempie
gli intervalli, è sempre attivo creando inconvenienti, parlando al direttore di pista, fingendo di aiutare gli uomini della
barriera e in realtà infastidisce, ricevendo
colpi e spinte. “Clown Il celebre clown Grock
musicale” è quello che
sicale, al piano, con la fiesegue numeri musicali ansarmonica, col minuscolo
che con bicchieri, campaviolino estratto da una
nelli e campanacci, come
valigia, con la sedia che
nei numeri di Ferdinand
gli dava il modo di fare
Guillaume (Polidor).
salti e cadute bizzarre di
grande comicità. Grock ha
Clown italiani
scritto anche alcuni libri
di ricordi.
Come Antonet Guillaume,
Mario Verdone
sono italiani Giacomino,
Pagliacci
10
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La deformità come fenomeno da baraccone
Ridi Tonio, pagliaccio cattivo,
anzi … sogghigna!
L
o spettatore ha mai riflettuto sul motivo per cui i
clown vengono rappresentati con grottesche deformazioni
somatiche, come mani o piedi
enormi, grandi bocche disegnate, nasoni e orecchie spropositate? La risposta è piuttosto semplice: essi riproducono quelle
che erano le autentiche deformità di cui erano affetti gli infelici “fenomeni da baraccone”
che, fino ai primi anni del XX se-
colo, popolavano i circhi ambulanti e che, successivamente,
con l’affermarsi di un maggiore
rispetto per i diritti e per la dignità umana, ne furono esclusi,
proprio come oggi sta accadendo agli animali, ritenuti umiliati dalla costrizione ad effettuare
esercizi assurdi ed innaturali.
Pensando alla “Sindrome di Stoccolma”, l’ambigua e paradossale
attrazione esercitata dal carnefice sulla sua vittima, si può capire anche la cosiddetta “Sindrome
di Barnum”, cioè l’altrettanto
ambigua attrazione che noi tutti, chi più chi meno, e soprattutto i soggetti in età molto giovane, proviamo nei confronti di
soggetti con caratteristiche somatiche estreme che possono
essere di segno negativo (il nano, la donna barbuta, i gemelli
siamesi, i soggetti deformi) ma
anche di segno positivo (forzuti,
giocolieri, acrobati e domatori)
in soggetti, cioè, dotati di “poteri” particolari. Il circo è, appunto, la più antica istituzione capace di mettere insieme questi
estremi opposti, lo spettacolo
che punta direttamente a smascherare il nostro inconscio,
mettendo in evidenza ciò che
vorremmo essere, allo scopo di
suscitare ammirazione ed invidia, ma nello stesso tempo, ciò
da cui vogliamo prendere le distanze, suscitando, al contrario,
curiosità, stupore e disgusto: il
circo, in altre parole, punta ad
evocare emozioni di segno opposto e per questo si adatta bene alla disincantata ingenuità
dei bambini. Alcune figure affini al pagliaccio sono state reclutate dalla Commedia dell’Arte
sotto forma di Maschere, allo
scopo
di
creare personaggi con
tratti psicologici specifici, sottolineati dall’esasperazione di talune
deformità
somatiche o
dalle caratteristiche
dei costumi
che indossano: la doppiezza infida è espressa, così, dalla tuta multicolore di Arlecchino, la presunzione saccente dalla pancia di un Balanzone “pieno di sé”; Dalla Commedia dell’arte al melodramma di fine
‘800, forse il più efficace epigono teatrale del pagliaccio caratterizzato somaticamente è rappresentato dal Tonio-Taddeo di
Leoncavallo. La sua gobba, infatti (o la deformità generica,
nelle edizioni più recenti dell’opera), si presta alle buffonerie
della maschera di Taddeo, ma
anche alla dinamica drammaturgica dell’opera. In altre parole, Tonio recita nella parte dello
sciocco Taddeo perché brutto,
ma per lo stesso motivo diventa cattivo quando Nedda lo respinge.
Caratteristiche somatiche comuni,
rassicurante elemento
dell’aspetto esteriore
I pagliacci, in genere, attraggono particolarmente i bambini e,
infatti, non a caso , il divertimento del pubblico (anche melomane!) è legato alla sua capacità di regredire parzialmente
sul piano psicologico, in modo
da apprezzare non solo il trucco
che rende ridicoli questi perso-
naggi, ma, paradossalmente,
anche la paura fittizia indotta dai lazzi e dagli scherzi
pesanti che si scambiano tra
loro; in altre parole, essi simulano, apparendo deformi
ed aggressivi, una diversità
estrema sia fisica che psicologica e, dunque, mettono
alla prova, soprattutto nei
soggetti più giovani, la capacità di attingere ai propri livelli emozionali primari e di
confrontarsi con essi. Per
questo, molti bambini piangono
nel vedere i pagliacci e, per lo
stesso motivo, le reazioni del
pubblico nei confronti del Tonio
di Leoncavallo sono quelle tipicamente riservate al “cattivo” di
turno. Questo rimanda al problema del nostro rapporto problematico con il “diverso”, quale che sia la natura di questa diversità: nella notte dei tempi, le
difformità somatiche erano certamente fonte di curiosità, ma
anche di paura, poiché l’appartenenza ad un gruppo sociale,
con tutti i vantaggi che ne derivavano, dipendeva dal fatto di
poter essere accettati dal gruppo stesso sulla base di una relativa uniformità dell’aspetto
esteriore. Per questo motivo, si
sono formati gruppi diversi,
spesso contrapposti, e per lo
stesso motivo, probabilmente, si
sono venute strutturando, nel
corso dei secoli quelle “razze”
umane che nulla hanno a che
vedere con differenziazioni di
tipo evolutivo. Ciò non ha impedito a soggetti con caratteristiche somatiche estreme, di rimanere nell’immaginario come
oggetti di sentimenti altrettanto
estremi : il loro frequente confinamento nei circhi non ha impedito ad alcuni di essi di condurre una vita relativamente dignitosa e, a qualcuno, neppure di
diventare famoso come accadde
all’Uomo Elefante, John Merrick.
Per tornare al pagliaccio, possiamo dire che esso rappresenta la
sintesi estrema del processo di
simbolizzazione che ha permesso di salvaguardare il significato del personaggio, conferendogli una dignità artistica (vedi
l’“IT” di Stephen King) che ne
ha saputo sfruttare le contraddizioni, aggiungendo ai vecchi binomi allegria-tristezza e pauraattrazione, quello più recente
bontà-cattiveria molto attinente
alla figura del pagliaccio Tonio.
Egli, infatti, interpretando il
personaggio di Taddeo, ne incarna le inclinazioni buffonesche, ma nello stesso tempo, attraverso il suo aspetto deforme,
anche quelle subdolamente
malvagie espresse contro la bella Nedda che, inorridita dal suo
aspetto, lo respinge. E siccome,
le deformità sono comunque segno di malattia, esse rappresentano anche il tentativo estremo
di giustificare i suoi comportamenti vendicativi: l’ambivalenza del personaggio, infatti, va di
pari passo con quella del pubblico che è in grado di accettare
la figura di Tonio, solo se indotto ad impietosirsi per lui e per il
suo triste destino. Malattia,
bruttezza e malvagità si confermano così come i tre pilastri su
cui è imperniato lo spirito romantico che ha appassionato
generazioni di melomani.
Giuseppe Magnarapa
Neuropsichiatra e scrittore
Il
Pagliacci
Giornale dei Grandi Eventi
11
L’ambientazione del libretto di “Pagliacci”
Da un ricordo d’infanzia
la chiave della storia
D
Consilina, Eboli, Napoli,
Potenza, Arezzo, Cava dei
Tirreni e Montalto Uffugo,
dove Ruggero giunse con
la famiglia nel 1862, all’età
di soli cinque anni, e dove
rimase fino al 1868. Domiciliato al primo piano di
un’antica casa di proprietà
degli Alimena, ai piedi della torre del campanone, al
rione Castello, visse qui gli
anni più belli della sua fanciullezza. Nella piccola cittadina calabra, che all’epoca contava poco più di
5.000 anime, Ruggero frequentò col fratello maggiore Leone la Scuola Pia di
grammatica, sotto la direzione del sacerdote Giuseppe Rossi. Fu un soggiorno breve quello del piccolo
Ruggero a Montalto, ma essenziale per la sua futura
attività di compositore e librettista. L’esperienza di
vita a Montalto, paese della
sua infanzia, dell’allegria,
della spensieratezza, dei
primi studi musicali, e l’importanza che anni più tardi
avrà per Leoncavallo, è ampiamente descritta dallo
stesso compositore nella
sua pseudo-autobiografia,
dal titolo Appunti vari delle
autobiografici [sic] di R.
Leoncavallo, conservata nel
Fondo Ruggero Leoncavallo presso la Biblioteca Cantonale di Locarno:
“I miei ricordi cominciano ad
avere invece un nesso, in rapporto di continuità da quando
mio padre fu traslocato a
Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza. […]
Montalto è però il paese della mia infanzia,
delle mie birichinate e
dei primi studi. Si è visto come io nascessi in
un ambiente in cui
l’arte era una parte essenziale della mia vita.
Mio padre stesso era
appassionato di musica
e più d’una volta la sua
voce squillante sonora
echeggiò sotto le volte
della piccola chiesa calabrese in occasione
della festa della Madonna di Mezz’agosto,
La famiglia Leoncavallo: il padre Vincendurante la messa da un
zo, la madre Virginia D’Auria ed i primi
palco costruito apposta
due figli: Leone e Ruggero
ue sono essenzialmente i motivi per
cui il compositore
napoletano Ruggero Leoncavallo, illustre esponente
della Giovane Scuola italiana con Puccini, Mascagni e
Giordano, che professò
ideali di rinnovamento dell’opera lirica in senso verista, sin dall’età di cinque
anni e fino alla fine dei suoi
giorni rimarrà legato a
doppio filo a Montalto Uffugo, cittadina calabrese in
provincia di Cosenza, ricca
di storia e tradizioni e patria di personaggi insigni
nell’ambito della cultura,
che deriva il suo nome da
mons altus, per l’ubicazione
elevata da cui domina la
valle del fiume Crati. Innanzitutto a Montalto
Leoncavallo ha vissuto dal
1862 al 1868 i momenti più
belli della sua infanzia; in
secondo luogo, pur essendo trascorsi molti anni dal
suo soggiorno in Calabria,
il compositore recuperò da
quei ricordi ormai lontani
una vicenda di sangue realmente accaduta nel paesino calabrese, che farà da
canovaccio alla trama del
libretto di Pagliacci, il suo
massimo capolavoro.
La famiglia Leoncavallo - la
moglie Virginia d’Auria ed
i figli Leone, Ruggero e Gastone - seguì per lungo
tempo il padre Vincenzo,
magistrato di origine pugliese nei trasferimenti di
lavoro in diverse sedi del
centro-sud dell’Italia: Sala
pei cantori […] La nostra vita
a Montalto scorreva lieta e facile, tra balli, mascherate, ricevimenti in casa delle migliori
famiglie del luogo […], le
scampagnate o le gite ai bagni
di mare a Paola, che erano un
vero viaggio di parecchie ore, e
le gite a Cosenza, il capoluogo,
che la prima volta mi stordì
quasi fosse un’immensa popolosa città”.
Molti anni più tardi Leoncavallo volle che Pagliacci
venisse rappresentata anche all’Opéra di Parigi, perché riteneva importante
proporre sul rinomato palcoscenico francese la ricostruzione della sua diletta
Montalto, ispirandosi e attenendosi il più possibile
agli splendidi e indelebili
ricordi di quand’era fan-
“I
Montalto Uffugo. Chiesa della Madonna della Serra
ciullo, a quelle impressioni,
a quel mondo fatto di sogni
e di speranze che ormai era
trascorso, ma che lui desiderava tanto recuperare. Il
17 dicembre 1902 il successo fu clamoroso, tanto che
l’11 gennaio 1903 il Consiglio Comunale di Montalto
gli conferì la cittadinanza
onoraria.
Fu poi particolarmente vicino a Montalto quando nel
1905 un terremoto portò
nel paese distruzione e
morte e, sempre per amore
della ‘sua’ terra, nel 1913
pensò addirittura di candidarsi come deputato alle
elezioni politiche nel collegio di Cosenza.
Montalto ricambiò sempre
tanto attaccamento, dedicandogli una via, un bar,
una filarmonica, una sala
cinematografica e, nel corso degli anni, diverse manifestazioni per commemorare l’illustre cittadino.
Paola Palermo
Montalto Uffugo nell’Opera
sinistro, e l’altro nel ventre da’ fratelli Luigi e
l teatro e la vita non son la stessa coGiovanni D’Alessandro fu Domenico suoi
sa”, recita Canio nel primo atto dei
compaesani che quivi eransi postati. La si disanguinosi Pagliacci, ma sarà proceva che i d’Alessandro si erano determinati a
prio Leoncavallo, autore del libretto e
ciò per questioni precedentemente avuto collo
della musica di questo capolavoro veriScavello a causa di gelosie donnesche. Per le
sta, che si ispirerà proprio a quel suggequali ferite la sera del sei suddetto mese a cirstivo “nido di memorie” della sua gioca le ore due della notte lo Scavello finiva di
ventù, quando con la famiglia risiedeva a
vivere”.
Montalto Uffugo, trasponendo nella finzione scenica un fatto di sangue realmenLa grandezza dell’opera Pagliacci sta prote accaduto a Montalto il 5
prio nella capacità di aver
Marzo 1865. Il processo petrasposto sul palcoscenico
nale che seguì al fattaccio
con efficacia situazioni e
di cronaca nera fu presiepersonaggi di quell’episoduto dal padre di Leoncadio reale così cruento, favallo, Vincenzo, all’epoca
cendo nel contempo rivimagistrato presso la Giudivere la Montalto nel clima
catura Mandamentale di
della festa di ferragosto,
Montalto, e fu a carico dei
che si svolge tra l’1 e il 15
fratelli Giovanni e Luigi
agosto per onorare la VerD’Alessandro, accusati di
gine Santissima della Seromicidio premeditato e agra, patrona del paese.
guato ai danni di Gaetano
Nel libretto, infatti, sono riScavello, domestico di casa
presi elementi del paese e
Leoncavallo. Come si legge
della festa patronale, quali
dagli atti processuali coni costumi locali “con le vanUffugo. L’atrio dove avservati nell’Archivio di Sta- Montalto
tere, i tummarini e i caratterivenne il delitto, demolito nel 1962
to di Cosenza, il movente
stici cappelli a cirvuni”, la fedi tale assassinio fu dovuto a “gelosie donde del popolo che in abito da festa si reca
nel Tempio della Serra, le danze zingarenesche riguardanti una donna che non merische, gli spettacoli dei saltimbanchi, gli
tava riguardi”:
strumenti musicali tipici di quelle terre
“La sera del 5 spirante mese a circa le ore 4
come la zampogna, l’uso di terminologie
della notte il nominato Gaetano Scavello di
frequenti nel gergo dialettale quali ‘comaCarmine di questo Comune, mentre usciva da
re’ e ‘compare’, oltre che la messa a fuoco
questo Teatro, che è sito nel fondo dell’atrio di
di sentimenti e affetti propri della gente
questo locale di S. Domenico, per giungere nel
del Sud, come la gelosia, la focosità, la
quale debbonsi percorrere due lati dell’atrio
passionalità, la virilità e l’onore.
medesimo, e giunto a piè della detta scala interna ricevé due colpi di stili uno nel braccio
P. Pal.
12
Pagliacci
«I
La maschera portata nella commedia di “Pagliacci” da Peppe
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Arlecchino, demone o simpatica canaglia?
l tenero fido arlecchin», così Leoncavallo descrive
il carattere della maschera indossata dal commediante Peppe (secondo
tenore), forse l’unico dei
commedianti dall’indole
mite e buona, in qualche
modo sovrapponibile al
ruolo ricoperto sul palchetto del teatro itinerante. Peppe è, infatti, il personaggio che, all’interno
della vicenda di sangue,
cerca di far rinsavire il capocomico Canio dal vibrare il colpo sull’amante, prima che lo «spettacolo nello spettacolo» abbia
inizio.
Sulle origini della maschera di Arlecchino, conosciuta in tutto il mondo, si è molto disquisito;
com’è noto essa è frutto
dell’innesto dello Zanni
bergamasco con personaggi diabolici farseschi
della tradizione popolare
francese.
La sua carriera teatrale
nasce nel ‘500, impersonato dall’attore Alberto
Naselli, conosciuto anche
come Zan Ganassa; successivamente è il mantovano Tristano Martinelli
che modifica il personaggio, adattandolo ai gusti
del pubblico parigino e
donandogli una nuova
parlata: una sorta di miscuglio tra veneto, emiliano e lombardo, con parole straniere imparate lungo la strada.
L’origine più antica del
personaggio è legata alla
ritualità agricola; nel XII
secolo questo personaggio era una figura affine a
quella di un demone ctonio (divinità sotterranea
legata alle attività vulcaniche e sismiche della terra). Nella sua Historia Ecclesiastica, Orderico Vitale
racconta dell’apparizione
di una familia Herlechini,
un corteo di anime
morte guidato da un demone/gigante. Ritroviamo la figura di Hellequin
nel charivari, un antico rituale di pubblica condanna e derisione delle seconde nozze dei vedovi
nel corso del XVI secolo.
Questo era caratterizzato
da grida, gesti osceni, frastuono e travestimenti ed
era praticato soprattutto
nell’Europa Centrale e in
Inghilterra, nel Medioevo.
Si trattava probabilmente
di un modo per esorcizzare la paura del soprannaturale; l’avvento del
Cristianesimo non
era riuscito a sradicare queste manifestazioni di carattere pagano, che, soprattutto
nelle
campagne, esercitavano ancora fascino e timore. Nella tradizione popolare francese del
Due-Trecento troviamo un diavolo
chiassoso e scurrile, gran inventore
di beffe e truffe: è
l’Alichino dantesco
(21° canto, 118) il
quale, con altri
chiassosi diavoli, fa parte
della scorta, non richiesta,
che viene assegnata ai
due poeti pellegrini nell’Inferno, nel passaggio
per la bolgia dei barattieri.
Nel corso del Seicento, la
maschera assume i connotati di una scimmia antropomorfica dal ghigno
malefico, con sopracciglia
vistose e un gran bernoccolo sulla fronte, mentre,
nel libro Composition de
Réthorique, di Tristano
Martinelli, si trova un incisione che rappresenta
forse il primo Arlecchino
o il primo attore che impose una forte presenza
Pablo Picasso - Arlecchino seduto
scenica al personaggio,
indossa la tunica larga e
bianca, con alcune pezze
colorate sparse.
A partire dalle incisioni
della Raccolta Fossard, precedenti a Martinelli, Arlecchino appare invece
con una specie di calzamaglia; da questo alcuni
deducono che discenda
direttamente dai giocolieri di strada che, notoriamente, avevano un costume attillato.
Tristano Martinelli e gli
altri grandi Arlecchini
Come detto, Tristano
Martinelli fu uno dei primissimi attori a vestire i
panni di Arlecchino; avuta l’occasione di girare
per l’Europa con la Compagnia degli Accesi, riuscì
presto ad imporsi grazie
alle sue capacità mimiche
e fu particolarmente apprezzato alla Corte di
Francia, dove ricevette il
plauso della coppia reale
e dei cortigiani.
Re Enrico III era letteralmente innamorato di
questo Arlecchino e invitava spesso a corte il Martinelli per goderne le gesta, coprendolo di doni.
Di tale simpatia approfittava l’attore, che si permetteva di attaccare con
sfottò satirici piuttosto
pesanti uomini politici,
aristocratici e
prelati, sicuro
di passare immancabilmente
impunito.
Essendo
un
servo, il personaggio di Arlecchino aveva
il pregio di poter essere liberamente interpretato rispetto
ad altri ruoli;
sebbene la mimica fosse più
importante della parola, non
mancava un canovaccio, composto da battute improvvise,
imbrogli e burle a spese dei
padroni avidi e
taccagni.
Quando non sa come cavarsi d’impaccio o liberarsi da un guaio, Arlecchino diventa un abile
maestro nel far funzionare le gambe: fa capriole,
piroette e salti acrobatici.
Il Duca di Mantova, protettore della Compagnia
degli accesi nominò presto
nuovo capocomico il
buon Martinelli, che interpretò Arlecchino fino
alla morte, avvenuta nel
1630.
Altri Arlecchini famosi
calcarono le scene nel corso dei secoli, artisti come
Dominique Biancolelli,
con la troupe della Comé-
Ferruccio Soleri, ultimo Arlecchino
die italienne, riscosse grande successo in Francia,
ammirato per le doti
acrobatiche che lo contraddistinguevano.
Biancolelli fu il favorito di
Luigi XIV, fino alla morte,
avvenuta nel 1688.
Carlo Goldoni, considerato uno dei padri della
commedia italiana, diede
lustro alla maschera scrivendo tanti capolavori
per il suo personaggio,
interpretato spesso dall’attore Antonio Sacco.
Una di esse è Arlecchino Servitore di due padroni, e
presenta un Arlecchino
birichino e grazioso, spogliato completamente dei
suoi significati originari e
popolari. Goldoni lo
privò di tutto quello che
definiva volgarità, indecenza, inverosimiglianza
della commedia all’improvviso, ma che originariamente ed in essenza
rappresentava l’atteggiamento popolare. La riforma goldoniana produsse
il lento declino delle maschere in scena fino alla
loro pressoché totale
scomparsa.
La maschera si è tramandata fino ai nostri giorni,
grazie agli attori Marcello
Moretti (1919-1961) e Ferruccio Soleri, (1929), il
quale, per oltre 25 anni ha
interpretato un apprezzato ed ineguagliabile Arlecchino.
Livio Magnarapa
Il
Pagliacci
Giornale dei Grandi Eventi
13
I lavori di Leoncavallo
La “maledizione” di Pagliacci,
opera di troppo successo
S
trano destino, quello
di Ruggero Leoncavallo. Musicista di solido mestiere, letterato formatosi alla scuola di Carducci, artista sensibile e patriota fervente che non
esitò a stracciare le lettere
del Kaiser e restituire le
onorificenze ricevute nelle
sue tournée in Germania
quando scoppiò la prima
guerra mondiale. Eppure il
giudizio dei suoi contem-
poranei, dai critici agli stessi colleghi fu sempre severo nei suoi confronti. Con
punte di sarcasmo e di acidità persino eccessive.
Per Puccini e Mascagni,
Leoncavallo era “bisbestia”:
«Bestia il primero, Leon, bestia il secondo, cavallo, bestia
l’intero, Leoncavallo».
E alla sua morte, nell’agosto 1919, D’Annunzio che
sapeva essere pungente e
velenoso quanto sensuale e
aulico commentò: «E’ un
eccellente finale di quel copioso fabbro di melodrammi e di
operette che aveva congiunti
nel suo nome i nomi di due bestie nobili e morì soffocato dall’adipe melodico».
Eppure Leoncavallo ricoprì un ruolo non indifferente nella cultura musicale del suo tempo, contribuendo non solo alla fortu-
na del teatro musicale “serio”, ma anche al rilancio
dell’operetta che da noi era
sempre stata trattata con
sufficienza, quasi fosse
avanspettacolo, forse per la
presenza di una solida tradizione di opera comica.
E Pagliacci non fu opera casuale ma, al di là dei gusti
personali, rappresenta uno
dei lavori più rilevanti in
campo teatrale del repertorio di fine Ottocento.
Formatosi al
Conservatorio di Napoli,
Leoncavallo
frequentò anche la facoltà
di lettere a
Bologna, attratto dalla figura di Carducci. Non
completò il
corso di laurea, ma conobbe Pascoli
e si avvicinò
al teatro wagneriano che
aveva in Bologna il suo
centro italiano di propulsione. Tramontato il sogno di mettere in scena un
proprio spettacolo, Leoncavallo lasciò Bologna e
iniziò una vita errabonda
che lo portò dal Cairo a Parigi in cerca di fortuna. Pagliacci non fu - come nel caso di Mascagni - la prima
opera effettivamente scritta: altre giacevano chiuse
nel cassetto in attesa di una
rappresentazione.
Schiacciato dal successo
di Pagliacci
Il trionfo dei Pagliacci
spianò però la strada ad altri titoli. Ma, come Cavalleria rusticana per Mascagni,
costituì una sorta di maledizione. Anche per Leoncavallo bissare il primo
trionfo fu impresa impossibile. Non solo. L’etichetta
di “compositore verista” se la
trovò cucita addosso senza
neanche rendersene conto.
Lui che con Chatterton e
con I Medici sembrava più
orientato verso il ripristino
tardoromantico del dramma lirico a sfondo storico.
I Medici, prima parte di una
trilogia italiana mai completata, nel 1893 sortirono
un clamoroso fiasco. Né
meglio le cose andarono
quando il povero Leoncavallo si trovò costretto a
competere con Puccini.
Tutti e due, si scoprì, stavano musicando Bohéme da
Murger. Puccini la mise in
scena nel 1896, Leoncavallo qualche mese dopo e,
naturalmente, perse nel
confronto. Tuttavia, lasciando da parte la deliziosa opera pucciniana, la
Bohéme di Leoncavallo contiene pagine di estrema
gradevolezza e coglie forse
più che la partitura del
concorrente, lo spirito autentico dell’originale romanzo francese.
Nel 1900 le quotazioni di
Leoncavallo tornarono a
salire grazie al successo di
Zazà, rappresentata al teatro Lirico di Milano. L’opera è una rivisitazione di
quel mondo del cafè-chantant che Leoncavallo aveva
frequentato nel suo soggiorno parigino. Interpretata da grandi artiste, Zazà
fu conosciuta in breve tempo in tutto il mondo. Leoncavallo usò mano leggera,
abbozzò efficaci scene
d’ambiente, trovò alcune
melodie felici.
Nel 1904 Leoncavallo si
trasferì a Brissago sulla
sponda svizzera del Lago
Maggiore. Lì avrebbe in seguito registrato con Enrico
Caruso la celebre romanza
Mattinata (“L’aurora di
bianco vestita”) che è tuttora fra le sue melodie più
popolari.
Mattinata ci introduce nel
repertorio più “leggero”
trattato da Leoncavallo.
Non solo le liriche da camera ma anche l’operetta
che in Italia era sempre stata a un livello alquanto
basso (se la si confronta
con i capolavori francesi di
Offenbach o viennesi di
Strauss e Lehár) e che proprio i musicisti della Giovi-
ne Scuola cercarono di risollevare. Leoncavallo
profuse particolare impegno, ottenendo un buon
successo con La reginetta
delle rose (1912, su testo
di Forzano).
Allo scoppio della guerra, Leoncavallo fu fra i
più appassionati sostenitori dell’interventismo.
L’8 giugno 1915 scrisse
ad Illica una bella lettera
in cui gli esprimeva la
sua ammirazione per la
decisione di partire volontario per il fronte a 58 anni:
«Lascia che ti abbracci e che ti
esprima la mia invidia per
non poter fare altrettanto».
Nel 1916 al Carlo Felice di
Genova Leoncavallo propose Goffredo Mameli. Di
questo lavoro, che ebbe
scarsissima fortuna, è testimonianza una recensione
firmata Vittorio Guerriero
ma scritta dal giovanissimo Eugenio Montale. Lo
stesso poeta ha ricordato,
anni dopo, quell’episodio:
«...incontrai una sera Vittorio
Guerriero che, poi, dopo, fu
noto come autore di romanzi... era critico musicale di un
giornale; mi diceva: «io non
mi intendo affatto di opere,
non so perchè mi abbiano fatto critico musicale. Tu devi
scrivere un articolo su quest’opera». «Ma io non l’ho
mai sentita...». Insomma,
scrissi l’articolo senza aver
mai sentito questo Mameli;
l’articolo fu pubblicato e poi
dopo conobbi Leoncavallo il
quale dichiarò che mai, nessun critico, lo aveva compreso
così profondamente...».
Alla sua morte, sul tavolo
di lavoro c’era un Edipo Re
su libretto in un atto di Forzano che portato a termine
da Giovanni Pennacchio
con preesistenti musiche
leoncavalliane, andò in scena postumo nel 1920 a Chicago.
Roberto Iovino
Pagliacci
14
Q
I commenti della stampa dopo il debutto
del febbraio scorso a Firenze
«Un allestimento di Zeffirelli che
colpisce ed affascina»
uesto allestimento scenografico de
I Pagliacci firmato da Franco Zeffirelli, ha debuttato al Teatro del
Maggio Musicale Fiorentino dal 14 al 19
febbraio scorso, rivelandosi per spettatori
e critici una gradita sorpresa. La scena, in
precedenza ambientata nella piazza di un
paesino calabrese dell’Ottocento, è ora trasportata in un cantiere degli anni Cinquanta e Sessanta, tra operai, biciclette,
lambrette e discariche a cielo aperto.
Le opinioni su questa nuova interpretazione del lavoro di Leoncavallo, basato su
un fatto di cronaca vera, sono state per lo
più positive. Se, infatti, La Repubblica
(15/02/2009) descrive l’allestimento come
«sfarzoso e traboccante di personaggi», senza
spazi vuoti sulla scena, il Corriere fiorentino parla di uno spettacolo «di grande impatto visivo, ricco, sontuoso e coloratissimo,
con grande cura nella definizione dello spazio
scenico» e con una «vistosa caratterizzazione
dei personaggi» (17/02/2009). Anche Libero (18/02/2009) ha parole di apprezzamento per il lavoro di Zeffirelli,
D
affermando che «muovere le masse è una
delle cose più difficili da realizzare sul palcoscenico» e «nel movimento incessante c’è la
firma del grande regista».
Anche la recensione del sito teatro.org
(17/02/2009) è essenzialmente favorevole: nell’articolo pubblicato, che sottolinea
il buon successo di pubblico, si legge, infatti, che lo spettacolo è «molto curato nell’aspetto esteriore e con un sicuro dominio del
movimento scenico dei singoli e delle masse,
con una scena talmente bella che il verismo diventa kolossal», anche se «dando tanto rilievo
alla cornice compromette la violenza della scena finale che perde in pregnanza drammatica».
Meno entusiasti le valutazioni espresse
da L’Unità (18/02/2009) e da Il Nuovo
Corriere (16/02/2009), che parlano rispettivamente di «successo buono ma non
esaltante» e di «opera barocca ma
apprezzata», con un allestimento che «in
un’opera ridondante come Pagliacci appesantisce la scena già di per sé sovraccarica di passioni e tragedia».
Cristina Di Giorgi
Pagliacci all'Opera di Roma
Costanzi - Caracalla 9 a 9
opo quasi due anni dall'esordio milanese, Pagliacci giunse al Teatro Costanzi il 18 gennaio 1894. Direttore fu
Gaetano Cimini. Fra gli interpreti Carlo
Lanfredi (Canio), Lina Pasini Vitale (Nedda)
e Vittorio Brombara (Tonio).
Pochi anni dopo (il 19 ottobre 1914) una speciale serata fu organizzata per i rimpatriati
dalle terre occupate. Per l'occasione giunsero a Roma Arturo Toscanini e cantanti d'eccezione come Enrico Caruso (uno dei massimi interpreti del ruolo di Canio), Lucrezia
Bori e Giuseppe De Luca.
L'edizione successiva fu nel maggio 1922 con
le scene di Cesare Ferri e Ettore Polidori. Sul
podio Giulio Falconi per dirigere Fortunato
De Angelis, Hina Spani e Benvenuto Franci.
Dovettero passare quindi vent'anni e fu la
volta di Tullio Serafin che il 4 aprile del 1942
guidò Iris Adami Corradetti, Tito Gobbi ed
il tenore Beniamino Gigli al suo esordio nel
ruolo di Canio. La regia era di Marcello Govoni e le scene di Camillo Parravicini, il quale tornò a Roma anche il 16 gennaio del 1958
per uno spettacolo diretto da Oliviero De
Fabritiis, con la regia di Carlo Acli Azzolini
e le voci di Mario Del Monaco, Nora De Rosa e di nuovo Tito Gobbi.
Mentre alle Terme di Caracalla le rappresentazioni estive di Pagliacci continuavano
con sorprendente regolarità (si contano ben
7 edizioni fra il 1945 ed il 1960, più una nel
1939), per riascoltare l'opera al Costanzi bisognò aspettare quasi 35 anni, fino al Centenario della prima rappresentazione. Il 2
maggio 1992 i Pagliacci tornano con la dire-
zione di Daniel Oren, la regia ed il famoso
allestimento ambientato a Napoli firmato da
Franco Zeffirelli. Fra i protagonisti c'erano
Leo Nucci, oltre a Giuseppe Giacomini, Cecilia Gasdia e Lorenzo Saccomani.
Ancora Zeffirelli regista nel giugno del 1994.
Direttore Angelo Campori. Interpreti Giuseppe Giacomini e Nicola Martinucci (Canio), Cecilia Gasdia e Carmela Apollonio
(Nedda), Paolo Gavanelli (Tonio), Claudio
Otelli (Peppe) e Orfeo Zanetti (Silvio).
L'ultima rappresentazione all'Opera di Roma, in un Costanzi appena dotato di un sistema di aria condizionata, per la stagione
estiva 2002. Dal 24 luglio al 3 agosto in scena l’allestimento del Teatro Comunale di
Bologna e del Teatro Massimo Bellini di Catania con la regia di Liliana Cavani ripresa
da Giovanna Maresta ambientato nella periferia romana degli anni ’50. Direttore Pier
Giorgio Morandi. Interpreti Svetla Vassileva, Angeles Blancas Gulin, Simona Baldolini (Nedda), Nicola Martinucci, Alberto Cupido e Josè Cura (Canio), Luo Nucci e Alberto Mastromarino (Tonio).
L’ultima rappresentazione di Pagliacci è stata nel 2007 alle Terme di Caracalla (dall’8 al
14 agosto con 5 recite), abbinata al balletto
Romeo e Giulietta di Sergej Prokof’ev.
La sobria regia di entrambe i titoli fu curata
da Beppe Menegatti. A dirigere, l’allora
39enne giapponese Hirofumi Yoshida. Nei
ruoli principali la bella Maria Carola (Nedda), Vincenzo la Scola (Canio), Carlo Guelfi
(Tonio), Francesco Piccoli (Peppe).
Mic. Mar.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Il compositore e librettista
L
Ruggero
Leoncavallo
a professione paterna di
magistrato portava la famiglia Leoncavallo a spostarsi di frequente. Così Ruggero nacque a Napoli nel 1857.
Qualche anno dopo, il padre
Vincenzo fu trasferito in Calabria e nel 1865 a Montalto Uffugo (attuale provincia di Cosenza) giudicò quel fatto di sangue
ispirato dalla gelosia che a quasi trent’anni di distanza si
trasformò nel soggetto dell’opera più celebre di Ruggero
Leoncavallo: Pagliacci.
Tornato a Napoli nel 1866 Ruggero, seguendo una passione che era anche dei genitori, entrò al Conservatorio di
San Pietro a Majella, dove si diplomò nel 1874. Contemporaneamente s’iscrisse all’Università di Bologna, dove
seguì le lezioni di Giosuè Carducci. Negli stessi anni
portò a compimento la partitura dell’opera storica Chatterton, d’ispirazione wagneriana, che però fu rappresentata solo nel 1896 (al Nazionale di Roma), quando Leoncavallo si era già guadagnato la notorietà.
Finiti gli studi, il compositore trascorse un breve periodo in
Egitto su invito di uno zio e tentò la fortuna come pianista e
direttore di banda, ma fu costretto alla fuga nel 1882 quando il governo inglese, preoccupato per le sorti della gestione del Canale di Suez, intervenne militarmente in Egitto. Si
trasferì allora a Parigi, dove inizialmente condusse una vita
bohémienne suonando nei Café-concert, fra cui l’Eldorado. In
breve tempo, grazie ad un rapido successo e all’amicizia col
baritono Victor Maurel, entrò in contatto con gli ambienti
d’opera e con l’editore italiano Ricordi.
Nel 1888 i rapporti italo-francesi s’inasprirono per il
rafforzamento della Triplice Alleanza voluta da Crispi e
Leoncavallo dovette rimpatriare. Stabilitosi a Milano, iniziò un’intensa collaborazione con Casa Ricordi come traduttore e librettista e lavorò alla composizione di una trilogia, il Crepusculum, che nelle sue intenzioni doveva comprendere “I Medici”, “Savonarola” e “Cesare Borgia”, ma
di cui riuscì effettivamente a comporre solo I Medici, che
andò in scena solo nel 1893 senza troppo successo.
Nel frattempo il compositore iniziò la stesura di un nuovo lavoro, Pagliacci, messo a punto in soli cinque mesi. Ricordi rifiutò l’opera che venne offerta all’editore Sonzogno, già titolare dei diritti su Cavalleria rusticana di Mascagni. La “prima” al Teatro Dal Verme di Milano, il 21
maggio 1892, fu un successo e il nome del compositore si
diffuse anche all’estero.
Nacque in quegli stessi anni anche la famosa disputa tra
Leoncavallo e Puccini per la proprietà morale del soggetto “Scènes de la vie Bohème” di Henry Murger a cui entrambi stavano lavorando.
Nel 1900 il compositore ritrovò il consenso del pubblico
presentando al Teatro Lirico di Milano Zazà sempre su
proprio libretto. Fu un momento attivo e ricco di progetti.
Dopo la composizione di Majà, che andò in scena per la
prima volta al Teatro Costanzi a Roma nel 1910, Leoncavallo dimostrò un crescente interesse per l’operetta. Ne
produsse ben sette tra il 1910 e il 1919, senza però abbandonare l’opera a cui tornò nel 1916 con Goffredo Mameli,
lavoro patriottico a sostegno dell’interventismo nella Prima Guerra Mondiale. Gli ultimi due anni della sua vita li
passò dedicandosi ad opere di minore rilievo o addirittura mai rappresentate. Morì il 9 agosto 1919 a Montecatini
Terme, mentre lavorava al libretto di Tormenta, ispirato
ad un fatto di cronaca nera sarda.
Ludovica Sanfelice
Il
Pagliacci
Giornale dei Grandi Eventi
A
15
Dedicato ad uno dei compositori protagonisti del ‘900
Inaugurato a Roma l’Archivio Scelsi
poco più di vent’anni
dalla morte di Giacinto
Scelsi,
compositore,
poeta e artista che ha vissuto
appieno le temperie artistiche
del XX secolo, la Fondazione
Isabella Scelsi – che porta il nome della amata sorella di Giacinto - ha aperto al pubblico
dopo anni di riordino e catalogazione, il suo Archivio Storico. Preziosa raccolta di oltre
16.000 documenti di natura cartacea e sonora in gran parte
inediti, l’Archivio ha sede presso la Fondazione in via S. Teodoro 8, nel cuore di Roma al
Palatino, dove Scelsi visse gli
ultimi anni della sua vita, e costituisce il principale strumento per l’effettiva conoscenza
della musica e della vita di uno
dei grandi protagonisti del Novecento musicale: si potranno
così sfogliare le partiture di
Scelsi, ascoltare le numerose registrazioni originali, leggere la
corrispondenza che ebbe con
grandi personalità del mondo
musicale e artistico, i suoi scritti sulla musica e le arti, nonché
la sua produzione poetica, che
ha seguito di pari passo l’attività compositiva.
Scelsi fu personaggio per lunga
parte della sua
vita avvolto
dal mistero e
dalla riservatezza: nato a La
Spezia nel 1905
si trasferì poco
dopo con la
sua famiglia a
Roma città che
lasciò solo per i
suoi
viaggi,
molti dei quali
in Oriente, e
nel
periodo
della seconda
guerra mondiale quando
abitò in Svizzera. Fu un caso a
sé, in qualche
modo ancora
un enigma: rifiutava le interviste, non voleva
essere fotografato, non concedeva autografi se non l’ormai
noto simbolo del cerchio sottolineato dalla linea retta. Ma nella sua sincera riservatezza fu
capace di trasmettere attraverso
la sua musica un mondo sonoro
che ha influenzato intere generazioni, legandosi fra l’altro ad
artisti come Jean Cocteau, Virginia Woolf, Walter Klein e
grandi interpreti quali Nikita
Magaloff e Pierre Monteux.
Fortemente influenzato dal
pensiero orientale, Scelsi si soffermò molto sulla centralità del
suono, lo spiritualismo, il rapporto con le tematiche dell’esoterismo, il superamento della
scrittura musicale tradizionale,
la virtualità, il rapporto con lo
spazio: le sue musiche furono
da subito amate soprattutto dal
pubblico francese e tedesco,
che accolse diverse sue prime
esecuzioni assolute, mentre in
Italia ancora oggi il nome di
Scelsi risulta un mondo da scoprire ed esplorare; ci auguriamo che l’apertura dell’archivio
sia un’ottima occasione per entrare in questa affascinante
realtà sonora.
Mi. Ma.
Novità in libreria
Note alternative: la musica di Destra
riscoperta in un saggio
I
n un momento di pacificazione nazionale, un saggio, Note alternative,
squarcia il velo su un mondo musicale - quello in qualche modo riconducibile ai valori di destra - rimasto per
circa 40 anni al di fuori di ogni circuito
commerciale.
Edito dalla piccola - ma agguerrita - casa editrice Trecento, è stato presentato
all’ultima edizione di Atreju, la festa di
Azione Giovani; il libro di Cristina Di
Giorgi racconta l’evoluzione della musica della giovane destra.
Musica “alternativa”, sia per i testi, decisamente non assimilabili alla musica
leggera comunemente intesa, sia per i
metodi di divulgazione, che in un mondo dell’editoria musicale decisamente
ostile, hanno dovuto battere le piste del
passaparola e dell’editing casalingo.
Dalle prime forme cantautoriali per voce e chitarra dei primi anni ‘70, ad oggi,
la musica militante di destra si è tenuta
costantemente aggiornata per quanto
riguarda le forme. Gruppi dai nomi
evocativi come Compagnia dell’Anello,
Ezra Sound, Delenda Carthago, Amici
del Vento, Innato Senso di Allergìa,
DDT e Decima Balder, hanno esplorato
vari generi, che vanno dal rock, al rap,
al combat folk, spingendosi fino alla ricerca sulle musiche tradizionali europee.
Tra i cantautori di riferimento, spicca
Massimo Morsello, cui si deve quanto
di più poetico e originale sia stato scritto dai cantautori militanti.
Le canzoni dei giovani di destra celebrano l’amicizia, il cameratismo, il sì alla vita e anche l’accettazione della morte, intesa come sacrificio di se stessi in
nome delle proprie idee. Ideali di vita
che affondano le proprie radici nella
tradizione più antica.
Da qui il continuo richiamo agli episodi
della storia scritta dai “vinti”, (che da
poco accenna a riemergere in ambito
accademico e politico), con canzoni come La Vandeana, e Jean, sui volontari caduti nella difesa di Berlino.
No all’aborto, no alla droga, no alla
massificazione dell’individuo, sì alla
Patria, alla Famiglia ed ai valori tradizionali. C’è posto anche per l’amore, visto quasi sempre sotto il lume di un
ideale che trascende la coppia. Una musica dai contenuti forti, da scoprire, certamente non adatta – si direbbe oggi per “bamboccioni”.
L. Di. D.
Festival Internazionale della Filatelia ITALIA 2009.
Tutti i francobolli del mondo
in un solo spazio. A Roma.
Con Italia 2009, Roma diventa la capitale
mondiale del francobollo. La grande esposizione
internazionale sbarca nella città eterna per
cinque intensi giorni dedicati alla filatelia.
Protagoniste le migliori collezioni d’Europa,
dei Paesi del bacino del Mediterraneo, nonché
di Canada, Stati Uniti d’America, Argentina,
Sudafrica e Australia. Non perdete
l’appuntamento con la storia del francobollo.
www.italia2009.it
Roma - Palazzo dei Congressi
21-25 ottobre 2009
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