Gaetano Capone (1933-2011) Maiori 9-28 giugno 2012 Indice Saluto del sindaco di Maiori (Antonio Della Pietra) 5 La testa del Centauro (Angelo Canevari) 7 Un maiorese DOC (Alfonso Capone) 9 Gaetano Capone: sulle tracce di un artista eclettico (Francesca Romana Capone) 15 Catalogo delle opere 41 Catalogo a cura di Francesca Romana Capone Fotografie: Cristiano Bozza, Davide Lippolis, Fabrizio Massignani Grafica e impaginazione: Francesca Romana Capone 4 5 La testa del Centauro Angelo Canevari Chi era Gaetano? Un grafico geniale? Un pittore di talento? Un provocatore nato? Un fanatico aristocratico borbonico? Un comunista fantasioso? Potrei seguitare a lungo con questi interrogativi, scocciando così l’universo mondo. Ma la verità è che Gaetano era “un mio amico”: un amico, definizione ardua che sfiora il magico, vanificando le coordinate dello spazio e del tempo. Con Gaetano non ci eravamo conosciuti da ragazzini giocando a zecchinetta nel giardinetto rionale o nella stagione perduta degli entusiasmi giovanili, ma da adulti. Sicuramente però ci frequentavamo da tempi immemorabili, in quello spazio sospeso e opalescente che chiamerei “l’empireo della sera prima” e là in quello spazio, puntualmente, dopo un incazzato scambio di idee, spesso discordi, ma fondamentalmente analoghe, ci eravamo salutati con quel saluto verace e romanesco “a’ Gaetà se vedemo”: quando? come? domani o tra dieci anni... era la stessa cosa... Rimaneva la certezza di quel “se vedemo”. Prima della tua morte annunciata, volevo venire a trovarti, ma non venni... Perché? Perché detto con disperata brutalità non volevo vederti steso nel letto, magari spelacchiato, con il volto stralunato dal male che ti stava divorando, e certamente la mia non era viltà, non volevo vederti senza la tua testa ellenistica, con quella barba rintorcinata: quella del Centauro tormentato da Amore, perché era la tua testa, amico mio, con quella barba dai vortici insondabili, che ti portava indietro di millenni e contemporaneamente nel quotidiano della tua realtà. Una fusione di echi medi- 7 terranei, un meticciato di ferinità macedone, di tam-tam africano, di olimpicità attica: questa era la tua incredibile forza, con una dinamica perenne che giustificava ogni tua impuntatura. Così si accendevano i fuochi di artificio della tua misteriosa creatività; esplodevano luminosissimi nel cielo, “ellenico”? o “in quello di Lugano”? come avrebbe detto De Chirico, ironico genio metafisico. Mistero. La partita era aperta, un interminabile Finale di Partita dove la tua incosciente sapienza si riversava nell’arcobaleno dei tuoi quadri, o nel ritmo serrato della tua grafica: era il tentativo eroico parossistico e beckettiano di creare “l’ordine del disordine”, di costringere l’impeto informale del metallo incandescente nella concavità avventurosa di una forma, forse reale e definitiva. E allora sei vivo amico mio antichissimo, con quella tua autentica testa di Centauro tormentato da Amore, con tutte le tue curiosità paniche indomite e insaziate. Non ti dirò arrivederci ma sicuramente ”se vedemo”... non so dove, non so quando... ma, “Gaetà se vedemo!”... Magari verso sera, in una di quelle calette tranquille della tua costiera dove l’onda del mare sembra trascolorare. Ti abbraccio, Bido Angelo “Bido” Canevari (Roma 1930) è artista poliedrico: scultore, scenografo e illustratore immaginifico, si è formato attraverso la frequentazione di artisti del calibro di Burri, Cagli, Mirko, Colla. 8 Angelo Canevari, illustrazione per il Don Chisciotte Un maiorese DOC Alfonso Capone Io a Maiori ero il giovane rappresentante di un ramo povero dei numerosi Capone che colà hanno sempre vantato folta presenza. Gaetano, di qualche anno più vecchio di me, portava lo stesso nome di mio padre che, da povero pescatore cercava di affrancarsi dalla miseria vendendo direttamente alle famiglie più abbienti quel poco che pescava con la “tartana”. La maestra Capone, per simpatia e per solidarietà di “casato” è stata sempre una buona cliente. Io che spesso lo accompagnavo in queste vendite “a domicilio” ante litteram ricevevo sempre qualche caramella ed una carezza. In più, tutte le volte che mi capitava d’incontrare per la strada sia Mario, il fratello più giovane, sia lui che ti sorrideva con l’eterna aria scanzonata, venivo appellato con il classico: “Uè Affò” o, più affettuosamente: “Funzeniè”. Una domenica di primavera, di quelle che a Maiori sembra già estate, sullo slargo terroso chiamato “fora ‘o Vignariello” adibito a campo di calcio, si svolgeva l’ennesima sfida al veleno con “quelli, chelli ‘e Menur”. La compagine maiorese, oltre che della partecipazione del “capocannoniere” Aitano Capone, si avvaleva del contributo di “Sasanno ‘o furnar”, “Tatonno ‘o scarparo”, “Rafiluccio ‘o tapparotto”, “Peppe ‘a Trainera”, “Ciccio ‘e Jacullo”, “Giuvanne’e Crisi, crisi” e, nel ruolo di portiere “Giggino ’o malommo”. Arbitro Andrea ‘e Macchiarola, unico in grado, con il carisma da Italoamericano rientrato a Maiori per dichiarata nostalgia, di tenere a bada gli intemperanti e di sedare eventuali (fre- 9 quenti) risse, dentro e a bordo campo. Alla fine del primo tempo Maiori stava sotto di due gol a zero. Noi “guagliuncielli” (i più numerosi) attorniavamo in religioso silenzio la squadra seduta sul muretto che divideva la strada provinciale dall’arenile, mentre girava fra gli atleti una “mummara” con la classica limonata fatta con i limoni di Maiori e un pò di zucchero; che coloro che non l’hanno mai assaggiata non sanno quello che si sono persi… La maggioranza degli sguardi si posava su Gaetano, Aitano Capone, il nostro “goleador” cercando di capire come mai oggi non aveva ancora segnato. Ricordo che nel guadagnare il terreno di gioco Gaetano mi strizzò l’occhio con quel suo sorriso sornione quasi a dire “Funzì sta a vedè mo”... Ma la giornata sembrava nata storta: Minori segnò il terzo gol e da allora per noi, cominciò la riscossa. Iniziò con un rigore trasformato da Sasanno e poi con un gol di Gaetano e uno di “Cuncettone” entrato nel secondo tempo. Stavamo tre a tre, mancava poco alla fine, quando dalla parte del Vignariello che guarda verso le montagne di Tramonti arriva un traversone teso, quasi una palombella, di qua, verso il mare, dove Aitano Capone in corsa, senza che il pallone tocchi il terreno, al volo lo scaraventa in porta fra il tripudio di quanti (mezzo paese) assistevano alla partita. Io, caro Tanino, la gioia che mi hai regalato quel giorno, mentre il sole tramontava dietro le montagne di Ravello, non l’ho mai dimenticata.. *** Tempo fa scrissi questo breve ricordo di Gaetano pescando negli anfratti della memoria di un ragazzo undicenne che guardava a lui come a un eroe, campione assoluto nel gio- 10 Gaetano Capone nel 1958 co del pallone, forte, ineguagliabile e bello. Ora penso invece a qualcosa di diverso, poche righe adatte a stigmatizzare il profilo di un mio compagno di viaggio, più vecchio di me di qualche anno, con il quale ho condiviso brevi periodi della giovinezza (trascorsa, oserei dire, con la valigia sempre pronta), che purtroppo mi ha preceduto al capolinea della vita. Non è difficile scrivere di Aitano Capone, maiorese DOC. Se la memoria non ti aiuta basta percepire i toni appassionati con i quali ne parla la figlia e uniformarsi ad essi. Può bastare, talvolta, rievocare quell’atmosfera, un po’ demodé, dei tempi della dolce gioventù, per rivederlo passeggiare lungo le strade di Maiori con quell’aria da guascone, sorridente e scanzonato. Allegro e pronto alla battuta come quando, mi ricordo, mano nella mano dell’ennesima turista straniera conquistata sulla spiaggia, si avviava, passeggiando rilassato, verso la fine del paese già invaso dalle prime ombre della sera, dalle parti di San Francesco. Qualche amico sfacciato e pronto alla battuta (sicuramente invidioso) gli gridava da lontano: “Aità, arò a puorte?” (dove la porti). Lui tranquillo, senza voltarsi, forte del fatto che la ragazza non poteva comprendere l’idioma partenopeo, con la sorridente sfrontatezza di un ventenne bello come quel sole che ancora non aveva illuminato i morti e i disastri dell’alluvione: “E addò l’aggia purtà”? Dint ‘o scuro, ‘a porte”... Divertito quanto discreto Casanova conosceva a menadito tutti gli anfratti più nascosti della spiaggia d’allora: i nascondigli poco illuminati fra gli scogli sono stati per anni sue discrete ed esclusive alcove fino a quando “una di Roma” non gli ha fatto “mettere ‘a capa a posto”. Quando c’incontrammo a Roma, Gaetano era in compagnia di Giorgia Signorelli, sua editrice, nonché datore di 11 lavoro. Lei era perfettamente consapevole che nella sua azienda non prestava opera soltanto uno dei più bravi grafici allora in circolazione; la persona che disegnava tavole e copertine di libri era un artista eclettico che aveva allestito mostre, aveva dipinto scorci, volti e atmosfere immortali della sua terra d’origine e che ancora scriveva poesie che a leggerle oggi ti strappano l’anima. Non c’erano i computer allora; quello che avevi nell’anima e nel cervello lo dovevi tradurre in segni e figure attraverso la mano, con l’aiuto del talento e del cuore. E lui, attento e vigile al presente, conquistato alle leggi della stampa e degli inchiostri, ha lavorato, sereno fra le “sue” donne, i suoi colori, le sue spatole e i suoi pennelli con seria professionalità senza mai scordare quel pezzo nascosto del suo grande cuore rimasto laggiù a fluttuare fra l’incredibile azzurro di un mare mai dimenticato. Ed è su questa superficie incantata, che si specchia e si confonde, ancora oggi, quel magico cielo, fermo attestato a rappresentare la linea di confine delle fantasie di tanti giovani maioresi. I sogni di molti di loro, (i più fortunati?) non sono rimasti segregati fra la punta di Conca dei Marini e gli scogli a mare davanti alla Torre Normanna; fuggendo da Maiori quei sogni, in un modo o nell’altro, sono andati ad abbellire il mondo. L’opera di Gaetano Capone ne rappresenta la più limpida testimonianza. Una brevissima riflessione: è singolare come, nonostante l’abissale differenza d’età, una figlia giovane organizzi una retrospettiva per ricordare la figura e l’opera del padre nello stesso periodo in cui un figlio prossimo alla vecchiaia scrive un libro ispirato alla memoria della sua anziana madre, morta tanto tempo fa. Il legame fra i due avvenimenti, forse, va cercato nell’unica 12 parola che accomuna quanti vivono la loro vita lontano da qui: Maiori. Alfonso Capone, Impronte, Aracne editore Alfonso Capone (Salerno 1936), maiorese, ha fatto mille mestieri. Nel 2012 ha pubblicato un libro dedicato alle memorie della sua famiglia: Impronte, cronache da un vissuto (Aracne editore). 13 14 Gaetano Capone: sulle tracce di un artista eclettico Francesca Romana Capone Il senso della vita è di viverne il senso (Gaetano Capone) Premessa a mo’ di scusa Questa mostra è un viaggio, un viaggio di ritorno. Un percorso attraverso l’immaginario artistico di Gaetano Capone che parte e approda nella sua terra: Maiori, la Costiera Amalfitana, la Campania, il Sud. Luoghi che ha lasciato ma che si è portato con sé, nel fardello lieve della memoria gioiosa dei suoi trentacinque anni vissuti da pittore e donnaiolo, comunista e scapigliato. Luoghi che, così strettamente avvinti al passato, hanno chiuso la porta alla possibilità di una relazione nuova. E che hanno continuato a essere vivi nell’ambiguità delle amate origini e di un presente irriconoscibile. Sentimenti che, probabilmente, hanno accompagnato e accompagnano molti uomini e donne che, nei secoli, hanno lasciato il Mezzogiorno e la cui nuova vita altrove non ha saputo ritrovare un comune denominatore con una terra meravigliosa e tragicamente poco accogliente. Ma la vicenda umana e artistica di Gaetano Capone non è quella dell’emigrante del secolo scorso: la sua partenza è tardiva e scelta, non imposta da necessità impellenti. Forse per questo anche meno comprensibile, visto che la Costiera continuerà ad abitare gli occhi del ricordo e i fogli sui quali si accumulano paesaggi riprodotti a memoria. Un vero ritorno 15 non c’è mai stato. Ogni estate o visita nei decenni successivi è stata ombroso rimpianto di paesaggi e persone sparite; desiderio di ritrovarsi e certezza di un’impossibilità. Perciò questa mostra è un viaggio di ritorno, forse l’unico possibile, di Gaetano Capone alla sua terra. Non è tornato per affacciarsi idealmente dalla scarpata fiorita del vecchio cimitero: le sue ceneri sono altrove, nel luogo che ha scelto per la sua maturità. Ma è tornato com’era prima di partire: da pittore. Le opere esposte tracciano il lungo cammino tra gli anni sessanta del Novecento fino al primo decennio di questo nuovo secolo. Segnano anche il percorso di un’identità che ha avuto il coraggio di cambiarsi e di cambiare: da pittore bohemien in un piccolo centro, a grafico pubblicitario ed editoriale a Roma; da inguaribile donnaiolo a marito e padre, e poi nonno. Eppure questo pellegrinaggio non gli ha fatto smarrire il filo dell’espressione: ogni tappa ha i suoi quadri, i suoi mille disegni, le sue sperimentazioni e i suoi ritorni anacronistici. La matita non l’ha mai fatta cadere, pur scegliendo di lasciare una sua identità. Mai più pittore: sporadiche mostre, i lavori per lo più condivisi con i familiari e la larga cerchia degli amici. Ma tenuti fuori dalla sua vita professionale, quasi a salvaguardare uno spazio “altro” per la sua arte. Anche in questo senso la mostra è un ritorno al Gaetano Capone pittore degli anni sessanta, che esponeva e vendeva e si sposava grazie ai ricavi del suo lavoro artistico. Ma questa mostra è un viaggio anche per motivi più intimi e privati. È l’occasione, per la sua famiglia, di ricordarlo a poco più di un anno dalla scomparsa attraverso le tracce materiali del suo passaggio: quei quadri e disegni che fanno parte del paesaggio visivo ed emotivo di tutti i suoi parenti e amici. In fila, ordinati contro le pareti del Palazzo Mezzaca- 16 Lo studio di Spina Gaetano Capone nel 2009 po, quei segni hanno un doppio fondo per chi Gaetano Capone lo ha conosciuto e amato come uomo: sono le tappe di un’esistenza, le tinte delle stagioni di una vita, i paradossi che restano vivi e parlanti di un uomo ricco di tutto, anche di contraddizioni. Gaetano Capone, mio padre. Curare una mostra antologica dei suoi lavori è per me un privilegio e una trappola. Un privilegio, nel dialogo serrato che mi consente di intrattenere con lui, nella possibilità di conoscerlo meglio e meglio capirlo, nell’idea di contribuire a mantenere vivo il suo ricordo, nella gioia di offrirgli l’omaggio delle mie parole e delle mie conoscenze per fornire una chiave di lettura della sua opera. Una trappola per la difficoltà di districare sentimenti e dati di fatto, emozioni e segni, ricostruzione oggettiva e memoria personale. Ma, anche, per gli inciampi nel tono della scrittura, nella concatenazione delle parole, nell’oscillazione tra una lingua distaccata e critica e una lingua dell’amore. Scelgo di non scegliere. Gaetano Capone l’artista e Gaetano Capone mio padre sono la stessa persona. Per quanto possibile, i testi che seguono non indulgono all’aneddoto o al ricordo: vogliono essere una lettura stilistica e critica della sua opera. Ma la mia è anche la posizione di chi con lui ha spesso discusso di pittura e arte in genere, e di questo privilegio mi servirò quando sia utile alla comprensione. L’ambiguità esiste: la denuncio qui per non doverla altrove rimarcare. Una vita La Maiori in cui nasce Gaetano Capone nel 1933 è un altro paese rispetto a quello di oggi. L’alluvione dell’ottobre 1954 17 ha cancellato gli scorci dipinti nell’Ottocento dai pittori costaioli, ha abbattuto palazzi e cambiato la topografia del luogo. Ha segnato la memoria di tutti coloro che l’hanno vissuto come una ferita. Gaetano aveva 21 anni e ne mantenne vivido il ricordo per tutta la vita, anche perché l’alluvione distrusse la casa di famiglia. L’alluvione è, in qualche modo, uno spartiacque tra l’infanzia e la giovinezza. Dei primi anni, resta la guerra, lo sbarco sulla spiaggia degli americani, il cinema di Rossellini (che a Maiori gira diverse pellicole tra cui Paisà nel 1946, usando come comparse i ragazzini del posto). La Maiori del dopo alluvione è invece parte della Costiera che, negli anni sessanta, torna ad attirare intellettuali e artisti di tutto il mondo. Nel 1953 l’americana Edna Lewis fonda a Positano l’Art Workshop: una scuola di pittura aperta a giovani di tutto il mondo nella quale chiama a insegnare artisti come Dorazio o Perilli. Nel giro di pochi anni, l’Art Workshop diventa centro di attrazione per artisti internazionali che, già negli anni venti e trenta, avevano popolato Positano esuli dal Nord Europa. È in questo singolare ambiente periferico e cosmopolita insieme che si forma Gaetano Capone, al di fuori di qualunque percorso formale: lascia, infatti, gli studi al quarto anno di liceo scientifico. Seguirà poi un corso a cavallo tra il 1962 e il ’63, quando trascorre circa un anno a Londra studiando incisione presso il Royal College of Arts. Negli stessi anni frequenterà a Parigi la libera scuola del nudo. Si forma, insomma, una sua personale ed eclettica cultura: legge moltissimo, ha interessi e curiosità eterogenei, ama l’arte e, fin da ragazzino, si diletta con matite e pennelli; d’altro canto, come si dirà poi, la sua è una famiglia nella quale l’arte e, soprattutto, la pittura è di casa. Affianca all’attività 18 Maiori dopo l’alluvione del 1954 Capone nel suo studio, 1958 Copertine di cataloghi pittorica la passione per la poesia: per tutta la vita leggerà e scriverà versi, anche se solo raramente li condividerà. Nei primi anni sessanta abita e tiene il suo studio nella casa delle “zie”: cinque signorine con vari gradi di parentela (due zie e tre prozie), piuttosto stagionate, che lo amano e vezzeggiano moltissimo. È una casa particolare, quella delle zie: vecchia e fatiscente, conserva tracce di decorazioni pittoriche e di maioliche antiche. L’eclettico e affollato arredo comprende statuette di santi sotto campane di vetro e soprammobili di ogni specie. C’è poi un ambiente, passato nella memoria familiare con il nome di “Valle di Josafatte”, una sorta di ripostiglio che contiene oggetti multiformi. “Nella casa delle tue vecchie zie – scriveva Dario Spera nel catalogo di una mostra – la porta della Valle di Josafatte è sempre misteriosamente serrata sul buio di mondi accavallati e confusi in quella immensa stanza. Eppure basta uno sprazzo di luce ed uno sguardo per fare turbinare giorni e vicende e segreti da quegli allucinanti mucchi di passato”1. Le anziane zie, poi, si rivelano incredibilmente aperte e accoglienti verso gli amici e gli stranieri che Capone ospita in casa. Sono gli anni scapigliati, delle infatuazioni stagionali per le ragazze straniere in vacanza, delle scorribande in Costiera. Ma anche quelli dei primi impegni politici nella sezione comunista di Maiori e nella federazione comunista di Salerno. D’altro canto anche l’apprendistato politico di Capone è stato precoce: ricorderà sempre di aver ascoltato Togliatti quando visitò la Costiera nel 1944 (al maturarsi della “svolta di Salerno”) e negli anni successivi. Non a caso, restano di questo periodo nudi voluttuosi accanto a ritratti crudamen1 Dario Spera, Alla libreria Signorelli il Sud di Gaetano in 25 mono- tipi, catalogo della mostra, febbraio-marzo 1970. 19 te realistici, di denuncia sociale. Ogni estate realizza una mostra individuale a Maiori e partecipa ad alcune collettive. Una sua personale e una collettiva si svolgono anche presso l’Art Workshop di Positano. Nel 1968 si trasferisce a Roma per seguire la fidanzata e futura moglie. Realizza alcune copertine per la casa editrice della sinistra antagonista Samonà e Savelli e, nel 1969, allestisce la prima mostra nella capitale presso la libreria Quattro Fontane. Grazie ai guadagni derivati dalla vendita delle opere, Gaetano si sposa nello stesso anno. Dal ’69 fino ai primi anni settanta lavora in alcune agenzie pubblicitarie costruendosi un “mestiere”. Intorno al 1972 viene assunto dalla casa editrice Angelo Signorelli come unico grafico responsabile di tutta la produzione. Resterà in Signorelli fino alla pensione (1993) e, ancora per qualche anno, come consulente. Tra gli anni settanta e ottanta, partecipa in più occasioni alla Biennale del manifesto di Varsavia. Con altri due soci fonda una piccola società che, a partire dal 1974 fino agli anni ottanta, cura, tra l’altro, le promozioni della ESSO e i calendari dell’azienda. Tra gli anni ottanta e novanta crea la grafica delle iniziative promosse dall’Archivio Disarmo, tra cui l’evento annuale delle Colombe d’oro per la pace ed elabora le copertine del mensile di economia e diritto comunitario Europaforum. Anche dopo la pensione, continua a lavorare come libero professionista fino al 1999. Nel 1998 si trasferisce in Umbria, vicino al piccolo centro di Spina (PG). Non sono numerose le mostre che allestisce negli anni romani (oltre a quella del 1969, ne ricordiamo alcune presso la libreria Signorelli nei primi anni settanta e una di sola pro- 20 Lavori per la Esso Una copertina per la Signorelli Manifesto per l’Archivio Disarmo duzione grafica del 1976 presso il Centro Morandi) e smette praticamente del tutto di esporre negli anni ottanta. Tuttavia a questa stagione corrisponde un’abbondante produzione pittorica e, soprattutto, disegnativa. L’attività come grafico, lungi dall’inaridire la vena creativa, funziona da stimolo per il continuo aggiornamento e contamina le opere di questi anni. Probabilmente proprio alla dimensione “artigianale” che il mestiere di grafico ha in epoca pre-computer si deve anche il gusto sperimentale che non lascia più il suo lavoro fino alla fine. Nel suo studio si accumulano negli anni strumenti e supporti di ogni genere: pennarelli, ecoline, pastelli, sanguigne, china, spatole, calami, fogli di linoleum, carte e cartoni di ogni genere e colore. “Magari il miracolo succede che nemmeno te ne accorgi. Quello che importa è cercare. Tecniche nuove, materiali nuovi: tutto sta essere sinceri”2. La fine dell’attività professionale non corrisponde a un aumento della produzione artistica, quasi a testimoniare quel fertile scambio che – pur mantenendo i due ambiti distinti – li ha caratterizzati. Tuttavia Capone continua a lavorare, riprendendo e approfondendo soggetti e tecniche delle opere precedenti e trovando nuove cifre stilistiche che, come si vedrà, si radicano anche nella precedente attività di grafico. Realizza piccole esposizioni in centri umbri, tra le quali ricordiamo Le città del sogno a Corciano nel 2000 (sono qui esposti una serie di paesaggi realizzati con diverse tecniche ma con una matrice stilistica unitaria). Gli ultimi suoi disegni risalgono al gennaio del 2010, al ritorno da un viaggio in Tunisia, e sono volti di donne di questa terra che richiamano certe vecchie contadine ritratte negli anni Parole attribuite a Gaetano Capone in Dario Spera, Gaetano Capone, catalogo della mostra dell’aprile 1972. 2 21 sessanta. Si ammala nell’aprile dello stesso anno e si spegne il 27 febbraio 2011. Una famiglia di artisti La vocazione all’arte è comune nella famiglia Capone, e il nome di Gaetano è quasi un destino. È suo omonimo, infatti, quel Gaetano Capone (1845-1924) che, sul finire dell’Ottocento, ha rappresentato forse il massimo esponente dei cosiddetti pittori “costaioli”. Omonimo e parente, anche se non è facile ricostruire un’esatta genealogia3. Quella dei costaioli o “pittori di Maiori” non è una vera e propria scuola, quanto il termine sotto il quale si accomunano alcune generazioni di pittori, quasi tutti maioresi, che si dedicano al paesaggio e alle scene di genere. Sono opere destinate al fiorente mercato alimentato dal turismo degli stranieri nel corso dell’Ottocento e, più tardi, del Novecento. Tra gli altri artisti riconducibili alla scuola, si ricordano Antonio Ferrigno (1863-1940), Pietro Scoppetta (1863-1920), Manfredi Nicoletti (1891-1978). La pittura dei costaioli è fortemente legata al paesaggio locale e alle tradizionali e stereotipate scenette di popolani, pescatori, raccoglitori di limoni. Il linguaggio artistico, pur molto differente nelle singole personalità, è certamente influenzato dalla grande pittura di paesaggio del primo Ottocento: impressionisti e macchiaioli sono senz’altro un riferimento per questi pittori più giovani e periferici, ma ancor di più devono esserlo stati i pittori della Le notizie relative al Gaetano Capone costaiolo si devono soprattutto al volume Gaetano Capone – la pittura come racconto del quotidiano, a cura di Massimo Bignardi, Edizioni de Luca, Salerno, 2000. Si tratta del catalogo della mostra dedicata al pittore che si è tenuta, sotto il patrocinio della provincia, a Salerno dal 21 dicembre 2000 al 21 gennaio 2001. 3 22 Gaetano Capone, Viv’o re, 1884 Ciccio Capone, Barche, (anni ‘30 del Novecento) Gaetano Capone Jr, Ritratto di Maddalena Capone, 1895 circa Luigi Capone, La torre normanna, (anni ‘50 del Novecento) scuola di Posillipo, fiorita nella vicina Napoli negli anni trenta dell’Ottocento. Gaetano Capone è considerato il capostipite del gruppo, il maestro al quale gli altri hanno guardato e carpito tecniche e soggetti. Ma anche lui è figlio d’arte: il padre Luigi (18091896) è pittore e figlio, a sua volta, del pittore e decoratore Gaetano (1772-1859), nonché nipote di Gioacchino (17311812), anche lui pittore. E molti altri sono gli artisti che figurano nei rami collaterali della famiglia. L’esatto legame familiare tra il Gaetano Capone costaiolo e l’omonimo novecentesco, come si diceva, non è facile da ricostruire: il primo non lasciò figli. Resta il fatto che la caratteristica alternanza dei Luigi e dei Gaetano è rispettata anche nel caso che qui ci interessa: il padre del nostro Gaetano si chiamava Luigi. Non era un pittore di professione ma si dilettava in piccoli acquerelli, dei quali alcuni ancora in possesso della famiglia. È grazie alle sue scatole di colori che il figlio si è avvicinato alla pittura. Artisti erano anche gli zii di Luigi, i fratelli Francesco “Ciccio”, di cui si conservano delicate marine e barche dai colori pastello, e Raffaele Capone, scultore e intagliatore. Un altro Gaetano Capone, gemello di Francesco il padre di Luigi, ed emigrato in America nei primi del Novecento, era un fine ritrattista. La pittura, insomma, “scende per li rami”. Gaetano, nella sua infanzia e giovinezza, vive in un contesto fortemente connotato dall’attività artistica legata ai paesaggi della Costiera, alle marine, ma anche ai temi sociali di un popolino umile e dignitoso. Questi soggetti, pur sottoposti ai traumi del più crudo Novecento, sopravvivono nell’arte di Gaetano Capone. La costiera con le sue cupole di maiolica, le case bianche, le barche tirate in secco diventa quasi una terra onirica, lon- 23 tana nello spazio ma anche nel tempo: è una costiera che non esiste più quella che Capone dipinge dal suo volontario esilio. Restano, anche, le figure degli emarginati, dei sofferenti. Cambiano i connotati: non più poveri pescatori o vecchie nere di paese ma disoccupati, madri sofferenti, vittime di guerra. Ma dai pittori della famiglia, Gaetano eredita anche l’amore del mestiere, il confronto con gli altri artisti, la dimensione quasi artigianale e, soprattutto, la gioia creativa che sembra alimentata dal sole e dal cielo chiaro della costiera. Arte figurativa tra anacronismo e sperimentazione Va forse fatto risalire al precoce apprendistato visivo costruito sulle opere dei famigliari e antenati il peculiare legame al realismo che caratterizza Gaetano Capone. La sua pittura non mollerà mai l’ancora figurativa, che si tratti di paesaggi o di nudi, di nature morte o di ritratti. La ricerca di nuovi valori pittorici non si muove tanto nell’ambito del linguaggio astratto, quanto piuttosto nell’uso di tecniche e supporti sempre nuovi, con i quali si misura una gamma tutto sommato esigua di soggetti. Questo mantenersi ostinatamente figurativo negli anni dell’informale internazionale e dell’astrattismo italiano di artisti molto amati quali Burri, Fontana, Capogrossi non può essere spiegato solo da un presunto “provincialismo”. Gaetano Capone, pur nel suo percorso informale, è comunque autore colto: conosce l’arte contemporanea e l’ammira; segue l’evoluzione della scena internazionale e medita le opere dei grandi. Un primo, parziale, motivo può allora essere ricercato nella sua biografia e, in particolare, nel suo giovanile impegno 24 Donna e bambini, 1981 Natura morta, 1967 politico nel PCI. Il pittore che ha incarnato più di tutti le aspirazioni del partito, divenendone anche esponente politico nazionale, è indubbiamente Renato Guttuso. Anch’egli uomo del Sud, nelle sue opere il violento espressionismo non arriva mai a dissolvere la figura. Viene spontaneo pensare che Guttuso abbia potuto rappresentare per il giovane Gaetano Capone un punto di riferimento, una via che tenta di conciliare l’immediatezza della comprensione con l’espressione della modernità. Non è difficile rintracciare questo rimando nei ritratti di umili personaggi che Capone dipinge: profondi solchi neri separano campiture piatte di colore a olio o vuoti dai quali emerge il bianco abbagliante della carta. Ogni tratto dei visi è inciso come il letto di un fiume che erode un paesaggio: rughe, occhi neri e profondi, lineamenti grossolani parlano della difficoltà di vivere, del lavoro duro, dell’esistenza sacrificata. Ma c’è un altro riferimento, insieme più alto e più intimo, che spiega la scelta di continuare a dipingere il reale. “Di nuovo al mondo non c’è nulla o pochissimo, l’importante è la posizione diversa o nuova in cui un artista si trova a considerare ed a vedere le cose della cosiddetta natura e le opere che lo hanno preceduto e interessato”4: così si esprimeva Giorgio Morandi nel 1926, e niente meglio delle sue parole è in grado di spiegare la sua isolata dedizione a nature morte (che spesso ritraggono anche gli stessi oggetti) e pochi paesaggi quasi monocromi. La frase citata chiarisce infatti non solo l’esiguità dei soggetti ritratti, ma anche il continuo confronto con i maestri del passato: entrambe dimensioni care a Gaetano Capone che, per tutta la vita, ha guardato a Morandi come un insuperato maestro di paradossale 4 Citato in L. Vitali, Morandi, ed. Milione, Milano, 1965, p. 73. 25 modernità. È allora quella “posizione diversa o nuova” che Capone cerca nello scandagliare la sua realtà. E la trova nel mutarsi degli strumenti, delle tecniche e dei supporti. I segni sono affidati di volta in volta alla spatola greve o alla lieve acquerellatura, alla china sporcata dalla spugna o al pennarello dal tratto preciso, alla grassa sanguigna o al secco pennino. Segni che si depositano su carte preziose e vergate a mano come sulle tovagliette della pizzeria, che si imprimono sulla carta assorbente nei monotipi o nelle linoleografie. Carta, cartoncino, stoffa e poi argilla e coppi di terracotta: qualunque supporto può essere adatto e può rispondere alla sua curiosità creativa. Studia, sperimenta, sbaglia. La sua non è una produzione pulita e lineare, piuttosto si addensa in grumi di tempo nei quali un’idea che ha già preso forma nella mente cerca la strada per farsi concreta, per mostrarsi. Riempie fogli e interi blocchi di schizzi e prove, riguarda ciò che fa, passa a dimensioni maggiori e, nel giro di pochi giorni, produce magari tre, quattro disegni di grande formato. Poi il tempo torna a dilatarsi e distendersi e la genesi dell’idea figurativa riparte in embrione nella testa, in attesa del momento di farsi finalmente forma. Lavora rapidamente, condensa in pochi tratti o in larghe campiture di colore la sua visione. La realizza con sicurezza apparente, ma dietro c’è sempre un travaglio faticoso: quel divario tra l’immagine mentale e la concretezza fisica che ogni artista conosce. A Gaetano Capone non serve un repertorio infinito di soggetti o un linguaggio artistico supinamente moderno per dare valore al suo lavoro. È buon critico di se stesso, sa valutare la forza espressiva della sua opera, così come la perizia tecnica e il senso del suo fare. 26 Paesaggio umbro con natura morta, 2001 Notturno, 19?? E non manca mai, nel tempo, di confrontarsi con i grandi maestri dell’arte del passato. Volendo costruire una linea genealogica dei suoi amori, li si troverà accomunati dalla forza sintetica del disegno e dal coraggio sperimentale. Così Giotto, Masaccio, Piero della Francesca convivono nel suo pantheon ideale con Cézanne e Picasso o, rivolgendo indietro la freccia del tempo, con la grande statuaria greca i cui marmi torniti sono tanto perfetti quanto forti nell’imporsi agli osservatori. Ma il dialogo con il passato non si fa mai imitazione. Capone è consapevole della sua collocazione nel tempo e nel mondo, né vuole stupire nessuno: come si è detto, dagli anni ottanta smette di esporre e la sua produzione si dissemina solo nelle tante case di amici e parenti. La fruizione dell’arte, la meditazione sulle opere del passato è una specie di palestra. Allena gli occhi alla bellezza (anche alla bellezza del brutto e grottesco), costruisce un ricco immaginario, suggerisce di misurarsi coi propri limiti, incoraggia a continuare. È allora in questo senso che, pur essendo semplice dividere la produzione di Capone in pochi, grandi, filoni tematici, la declinazione che essi assumono nel tempo li concretizza in opere a volte lontanissime per atmosfera emotiva e per realizzazione tecnica. Ma d’altra parte un nudo di donna è un nudo di donna, così come un paesaggio resta tale se inondato dalla chiarità mediterranea o affogato nei fumi industriali. Dovendo scegliere quale via seguire nel presentare i lavori esposti nella mostra, si è dunque aperto il bivio tra un approccio tematico o sul più classico andamento cronologico. L’intreccio possibile è affascinante in entrambi i casi: qual è la relazione tra quella maternità proletaria e questa barca tirata in secca? Tra il monotipo brillante e la sintesi grafica del disegno? E come si trasforma la pittura di pae- 27 saggio mentre intorno a Gaetano Capone cambia il paesaggio stesso della vita? Sono tutte domande legittime e ognuna consente un’esplorazione diversa attraverso i lavori qui presentati. Perciò si è scelto di riprodurli in catalogo nell’ordine cronologico secondo il quale vengono esposti, ma di indagare nel testo gli sviluppi interni ai soggetti che Capone ha tenuto al centro del suo lavoro per oltre cinquant’anni. Pittura sociale “Penso che un pittore con la sua opera si inserisca senza volerlo in un fatto politico, ma non in un fatto politico spicciolo, un fatto politico che va dai dieci ai quaranta-cinquant’anni. È politico cioè in un senso inverso, per la socialità della sua opera, e della sua vita, non solo per una scelta ideologica”5. Sono parole del 1968 di Giulio Turcato: un intervento tra i tanti di artisti contemporanei volto a sostenere la necessità di una partecipazione al presente di chi fa arte. Anche Gaetano Capone, pur nella sua posizione eccentrica rispetto alle lotte di quegli anni – lontana geograficamente ma anche per biografia: nel ’68 Capone ha già 35 anni – sente le contraddizioni del suo tempo e, a suo modo, le rappresenta. Risalgono infatti alla fine degli anni sessanta e all’inizio del decennio successivo una serie di lavori che hanno per protagonisti figure umili e provate dalla vita. Una galleria di personaggi che si ripetono con insistenza, come le donne velate di nero – presenti in mostra attraverso due litografie – che sembrano quasi un emblema della rinuncia del Sud Citate in Tempo moderno, a cura di G. Celant, Skira, Milano, 2006, p.434. (Catalogo della mostra organizzata in occasione del centenario della CGIL a Palazzo Ducale di Genova). 5 28 Donna velata, 1972 alla modernità. Non sono ritratti: Capone non ha mai avuto interesse a questo genere. Ma non sono nemmeno figurette stereotipate e di genere. Piuttosto l’artista ricerca in pochi tratti la verità di un destino di miseria e umiliazione, empaticamente sentito e trasmesso. C’è qualcosa di statuario nelle sue figure, ma nulla di levigato e prezioso: ricordano, invece, certe opere lignee grossolanamente sbozzate da certa arte popolare. Denunciano, insomma, la loro appartenenza a quell’area espressiva che, a partire dai piedi sporchi dei santi caravaggeschi, attraversa tutta la storia dell’arte nel tentativo di creare un’epica degli umili. Così la “maternità contadina” esposta in mostra e risalente al 1971 si carica di un’etica che è per metà religiosa e per metà sociale; così il “disoccupato” coevo, chiuso nella sua disperazione (“un barlume di faccia reclinata su gambe di pietra pesanti e su un’attesa che non finisce mai”6) o il pescatore con il suo sguardo stanco eppure dignitoso, costruiscono un’iconografia dell’eroismo della povertà. Le profonde ombre nere dalle quali emergono a fatica le sagome umane delle linoleografie hanno un equivalente nell’uso dell’olio a piatte campiture materiche, sporcate di lividure e sottolineate dai potenti tratti neri. Sono opere aggressive e, per certi versi, sgradevoli queste, senza alcuna indulgenza verso una facile ricerca di grazia e bellezza. Non è un caso che i lavori legati all’impegno sociale si vadano diradando negli anni successivi, quando Capone lascia la politica attiva e diluisce il suo interesse verso il presente in un disagio fatto di estraneità. Ciò nonostante, personaggi e temi che possono rientrare in questo ambito si affacciano, a intervalli, nella sua opera. Sono figure genericamente sofferenti, come nel caso dei due uomini del 1985, oppure 6 Dario Spera in Gaetano Capone, cit. 29 immagini legate a eventi precisi. Negli anni novanta, ad esempio, dipinge alcune “donne di Sarajevo”. Aggredito, come tutti, da una guerra vicinissima nello spazio e propinata a dosi massicce dalla televisione, esprime il suo disagio in questi cartoni insieme simili e diversi dai lavori di trent’anni prima. Simili nella composizione che fa eco all’iconografia religiosa delle madonne e delle martiri e analoghe nell’uso dell’ombra che non appartiene ai corpi ma li incide e tormenta. Diversi nella gamma cromatica che si schiarisce – complice anche la tecnica pittorica e l’uso delle ecoline – ma che, paradossalmente, perdendo la natura terrosa degli oli sopra citati, accentua i contrasti in un urto che sembra acceso da un’esplosione vicina. Il colore, raccolto in gore o dissolto in velature, sembra cedere al calore di un fuoco interno che lo mangia. L’ultima opera che presentiamo in mostra è anche il suo ultimo lavoro. Nel gennaio del 2010, di ritorno da un viaggio in Tunisia, disegna alcune teste di donne maghrebine. Sono, queste, strette parenti delle meridionali velate tante volte disegnate e dipinte negli anni passati. Non è il fascino esotico a colpire Capone: la bellezza di questi visi è, ancora una volta, nella loro forza espressiva, negli occhi smisurati con in quali ingoiano il mondo, nell’antichità dei tratti che ne fa quasi un archetipo. La carta bruna, la sanguigna scura: tutto è nella gamma della terra arida e calda. E questa “donna tunisina” si affianca alle popolari madonne nere, che proliferano in certe chiesette della nostra campagna, cui l’oriente presta i colori e l’occidente il linguaggio visivo. In un viaggio circolare, Capone torna nell’ultima fase del suo lavoro al filone tematico che ne ha contraddistinto la prima. Ma questi ritorni, come vedremo, possono attestarsi nell’arco di tutta la sua attività artistica e non sono mai ri- 30 Donna di Sarajevo, 1996 petizioni pedisseque, quanto ripensamenti affrontati con un nuovo bagaglio di esperienze e vita. Le cose: nature morte e barche Natura morta, 1969 Alla produzione di ispirazione sociale possono accostarsi le opere che immortalano nature morte. Vi è, in esse, una poetica degli oggetti semplici e quotidiani che ha un immediato riscontro anche stilistico nei lavori coevi di cui si è parlato sopra. Ma la natura morta è anche un soggetto che si presta allo studio formale e alla ricerca di un linguaggio pittorico, come insegna la singolare parabola pittorica di Morandi. La prima tela presentata in mostra risale al 1962 ed è un ideale inventario di un tavolo di cucina. Due bottiglie, una fiaschetta impagliata, un bicchiere e una caffettiera napoletana. La plasticità degli oggetti è affidata non tanto al disegno o alla prospettiva, quanto alla materialità del colore, deposto con la spatola o attraverso pennellate grasse di pigmento. Un trattamento della pellicola pittorica che ritroviamo nella tela probabilmente coeva con le barche tirate in secco sulla battigia. Il cromatismo di questi lavori è nebbioso e pastoso: manca la luce meridiana di tanta pittura del Sud. Di più: luce e ombra non hanno una fonte individuabile, sono interne agli oggetti rappresentati ed emergono a tratti sotto forma di scudisciate di bianco o sottolineature di nero puro. Non c’è sfumato, nessun trapasso lieve: Capone non teme la violenza del bianco e del nero, così raramente usati in purezza nella pittura. “La natura – diceva Cézanne – non è in superficie, è in profondità. I colori sono l’espressione, su questa superficie, di quella profondità. Essi salgono dalle radici del 31 mondo. Ne sono la vita, la vita delle idee”7. Gaetano Capone è anche attento alla forma delle cose che ritrae. Considera la sagoma di una barca come uno dei volumi più belli per l’occhio, costruito con lo stesso sinuoso e pulito andamento dell’uovo (altra forma classica di bellezza, immortalata nella Pala Brera di Piero della Francesca). Gli oggetti che sceglie di ritrarre, siano essi bottiglie o barche, hanno profili definiti e sagome piene: non ci sono fiori o stoffe, nessun contorno che si sfaldi in fluttuazioni aeree. Sono cose solide, quotidiane, spesso segnate dall’uso. Nella resa pittorica degli oggetti, Capone trova lo spazio per mettere alla prova una tecnica che userà spesso anche nei paesaggi: il monotipo. A mezza strada tra la pittura e l’incisione, il monotipo, nell’interpretazione che ne dà l’artista, consente una peculiare tessitura materica. Il colore a olio viene infatti abbondantemente steso su di una lastra con le spatole; la carta assorbente sulla quale si imprime la pittura mostrerà un caratteristico aspetto frammentario – è quasi impossibile che il colore aderisca in ogni punto – con addensamenti più o meno rilevati. L’effetto fisico è quello dei muri sui quali l’intonaco è raggrumato in minuscole onde appuntite, rafforzato qui dal contrasto dei colori la cui stesura acquista una propria autonomia dalla forma e dalla luce. Risultati, questi, evidenti sia nel quadretto con limone e arancia del 1969, sia nella barca del 1970 presenti nella mostra. Mentre la produzione nel solco dei temi sociali resta legata, nei decenni successivi, a quella cupezza e asprezza espressiva che abbiamo sottolineato, la pittura di oggetti se ne svincola per acquisire nuovi valori pittorici. Lo dimostrano le In M.Doran, Cézanne, documenti e interpretazioni, Roma, Donzelli, 1998, p.125. 7 32 Barche, 1963 due affollate nature morte del 1981, così diverse da quelle degli anni 60 soprattutto per i toni cromatici e la stesura del colore. Gli oggetti amati sono i medesimi: bottiglie, damigiane, frutta; simile anche l’uso del massimo e minimo cromatico, del bianco della luce e del nero dell’ombra. Ma i colori che trovano posto entro questa forbice sono più chiari e luminosi, meno sporchi. Anche la pennellata denuncia una nuova levigatezza che, seppure non cede mai a una resa realistica, dimostra una nuova serenità e, forse, una maggior consapevolezza e sicurezza del gesto. Il corpo delle donne Nudo, 1979 Nella vita e nell’arte di Gaetano Capone le donne hanno sempre avuto un ruolo da protagoniste. Dalle anziane zie, pozzo di storie e di attenzioni, alle molte amanti nordiche; dalla moglie, alle due figlie, fino alla prima nipote: Capone vive con le donne. Spesso le ama teneramente o con passione, ancor più spesso le subisce. Complice un carattere poco decisionista, finisce per farsi guidare dalle “sue” donne. Per questo, anche, accoglierà con una gioia particolare il nipote maschio arrivato solo nel 2004. Questo rapporto ambivalente con le donne, segnato dalle tappe dell’esistenza, si riflette nelle opere che a loro sono dedicate. E, soprattutto, nei numerosissimi nudi che Capone dipingerà e disegnerà per tutta la vita. Se, infatti, donne sono pure le vecchie tristi e le madonne contadine, è nel confronto con la fisicità svelata che l’autore racconta una fascinazione vissuta e sognata e, in seguito, una nuova distanza. Il corpo femminile è soprattutto spazio di piacere. Capone ama le forme opulente e voluttuose, che ripercorre con il 33 carboncino e la sanguigna, con una carnalità che non vuole mascherare. Nel suo studio campeggia per decenni una fotografia della Venere Callipigia, opportunamente immortalata da dietro, a ricordare la parte del corpo femminile che il pittore ama di più. Diceva Renoir, i cui nudi Capone apprezzava moltissimo sia per generosità delle forme, sia per onestà dello sguardo erotico: “Per me, un dipinto deve essere una cosa amabile, allegra e bella, sì, bella. Ci sono già abbastanza cose noiose nella vita senza che ci si metta a fabbricarne altre. So bene che è difficile far ammettere che un dipinto possa appartenere alla grandissima pittura pur rimanendo allegro. La gente che ride non viene mai presa sul serio”8. I nudi di Capone, specialmente quelli più apertamente sensuali, sono belli e allegri. Sono curve sinuose che, evidentemente, conosce bene, perché gli consentono di giungere a una sintesi del segno che raramente raggiunge in altri ambiti. Sono in genere opere monocrome, realizzate con tecniche che tendono alla massima concentrazione espressiva. Il nudo del 1967, come quello di trent’anni dopo, è realizzato tracciando con sicurezza i contorni con un contagocce pieno di inchiostro di china e ammorbidendone il segno con ombre provocanti a colpi di spugna. La sanguigna del 1984 sfuma l’essenzialità della linea direttamente con il polpastrello. Il nudo del 2003 è quasi un riassunto dei corpi visti, immaginati o toccati: un segno sicuro come di chi tracci una strada ben nota. Ma in questa sintesi sempre più accentuata, si insinua la malinconia di un desiderio ormai spento. Gaetano Capone non è arrivato ad accettare la senilità. Non sono riuscita a rintracciare la fonte originale della citazione, comunque riportata in numerosi siti web e di sicura attribuzione al pittore impressionista. 8 34 Nudo, 19?? Maternità, 2004 Forse a causa del netto contrasto con la gioventù libera respirata in costiera, ha vissuto il declino fisico con sofferenza e depressione, lo sfumare della virilità come una perdita non compensata. I nudi degli ultimi anni oscillano tra la sintesi quasi astratta del tratto di pennarello e una sessualità smaccatamente esibita, senza il velo tenero dell’erotismo maturo. Il rapporto col corpo femminile come luogo del piacere resta non risolto. Ma c’è un altro filone creativo nel quale compare la nudità delle donne, e proprio a partire dal 2003: la morbidezza della gravidanza, dove il ventre accoglie in altra forma la vita, come esistenza che nasce. Esistono decine di variazioni su questo tema, presentate in mostra nelle cartelle di disegni. Difficilmente diventano lavori di grande formato, mantenendosi, anche nelle dimensioni, più vicine al dialogo intimo e familiare che l’artista intrattiene con loro. Queste madri non hanno volto, ma compaiono significativamente pochi mesi prima della nascita del nipote. E il corpo come casa, come abbraccio protettivo, vive negli ultimi anni nelle gravide e nelle madri che stringono al seno i loro bambini. Le forme erotiche di queste donne non sono più importanti: non hanno viso e non hanno nemmeno un vero corpo. Sono gesto e sentimento. È questa la riconciliazione possibile che, in vecchiaia, Capone trova col corpo femminile. Paesaggi interiori ed esteriori Il paesaggio, soggetto classico della pittura di ogni luogo e tempo, è per un artista un difficile banco di prova: ritrarre un ambiente naturale o antropizzato significa restituirne l’anima, l’atmosfera. Ma significa anche proiettare su di esso il proprio paesaggio interiore, il respiro vitale che solo lo spirito 35 dell’artista può infondere a vedute altrimenti prive di ogni originalità rispetto a una fotografia o cartolina. Proprio per questo, l’evoluzione della pittura di paesaggio in Gaetano Capone ci consente di seguire il filo della sua ricerca artistica e del suo percorso umano: le molte opere presentate in mostra testimoniano del suo andare tra orizzonti reali e orizzonti intimi in cinquant’anni di attività pittorica. Non stupisce che nei quadri di paesaggio degli anni 60 si ritrovino i panorami della sua costiera che, nel dialogo tra interiorità ed esteriorità, ben rappresentano una stagione felice e luminosa della vita. Troviamo infatti tecniche già viste nelle nature morte o nei nudi – il monotipo, l’inchiostro – ma con una gamma cromatica più chiara e luminosa, più pura. Le case che si arrampicano sulle scogliere hanno muri bianchi di calce sottolineati dalle ombre nette che il sole alto vi disegna; le cupole verdi e i tetti rossi, nel loro incontro complementare, sono esplosioni di colore; il cielo è azzurro crudo e il sole, se compare, è una solida arancia infuocata; il mare non si vede, ma se ne intuisce la presenza nel vento che rende limpida e tagliente la visione. Anche le opere monocrome – le linoleografie, i disegni – sono percorse da un fremito di luce come una lastra fotografica sovraesposta, come si guarda alle cose quando il sole è abbacinante e scolora gli oggetti in un unico contrasto di bianco e di nero. A questo gruppo di opere fa da contraltare il paesaggio industriale del 1966, diverso per soggetto e, anche, per trattamento artistico. È un notturno cupo, sporco, domintato dall’imponente gru e dagli scheletri degli alti palazzi. I bagliori giallo livido delle finestre acuiscono la cupezza della scena. Forte, si sente la denuncia del territorio stuprato, incenerito dalla speculazione. A ben vedere, quest’opera si può accostare a quelle contemporanee che hanno per protagonisti i 36 Paesaggio, 19?? Paesaggio umbro, 2003 perdenti: disoccupati, vecchi, lavoratori. Non resterà isolata: come vedremo più avanti, i paesaggi industriali torneranno nella pittura di Capone nei decenni successivi. Anche la costiera non sparisce quando Capone la lascia. Come testimoniano i lavori presentati in mostra e risalenti agli anni ottanta e novanta, le case bianche stagliate sui cieli puri compaiono a tratti. Sono diventati, però, paesaggi della memoria e del rimpianto: nella semplificazione estrema degli elementi stilistici si percepisce la stereotipia del ricordo. “Alla distanza – ha scritto Spera – la vita di allora si è come sostanziata di prorompente tenerezza, di un amore colorato e forte e addolorato”9. Ma negli anni novanta si fa strada negli occhi e nel pensiero di Capone un’altra forma: il paesaggio urbano, la città. Che, spesso e volentieri, non ha colore. Risalgono a questo periodo, infatti, i numerosi disegni a tratteggio costruiti su una sovrapposizione di piani che sfuma all’orizzonte. Nelle linee che si intrecciano ad angoli precisi, nello spazio che non si lascia mai ridurre al bianco puro, è presente una costrizione, una compattezza da muri di prigione. Non è solo questione di orizzonte esteriore: non è tanto Roma, la città in cui Capone vive. È piuttosto il suo paesaggio interiore che cambia: la maturità e la senilità sono, come già detto, una condizione di intima sofferenza. E infatti questa nuova cifra stilistica si mantiene intatta anche dopo il trasferimento in Umbria, in un paesaggio agreste che potrebbe meritare altre dolcezze. È vero, torna il colore, spesso in gamme brune di terra o accese di cromatismi non naturalistici. I tratteggi diventano campiture piatte che riempiono sagome riconoscibili: pievi, colline, cipressi. Anche qui la luce non ha un suo spazio. Tutto è pieno, senza spiragli. 9 Dario Spera, Alla libreria Signorelli il Sud di Gaetano Capone, cit. 37 Sembra quasi di sentire i versi dell’amatissimo Montale: Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi case colli per l’inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto10. È il vuoto dietro, il vuoto dentro che Capone sembra ritrarre in questi paesaggi di campi e, anche, negli squarci urbani e cittadini che realizza negli stessi anni. E ai quali, comunque, riconosce un valore elevato poiché nel 2000 realizza una delle pochissime esposizioni dopo gli anni settanta con questi lavori, intitolandola Le città del sogno. E, ancor più significativamente, usa i piccoli disegni in bianco e nero per illustrare un volumetto di poesie che regalerà agli amici in occasione dei 70 anni. Si tratta di componimenti secchi e brevi, soffusi di cupezza: se sogni il tuo vissuto allora è tardi Sogno o incubo, questi paesaggi rappresentano meglio di qualunque altro lavoro l’ultima stagione umana di Capone e il suo difficile rapporto con l’interiorità che si riflette nella chiusura ermetica dell’esteriorità. Copertina del libretto per i 70 anni, 2003 10 E. Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1998, p.42. 38 Contaminazioni Mare, 1999 La scelta di affrontare l’opera di Capone seguendo un approccio tematico, pur con i suoi indubbi vantaggi, ha il difetto di lasciare in margine tutti quei lavori che, più episodici, non hanno trovato qui una collocazione precisa. In altri termini, accanto ai filoni creativi che abbiamo individuato ed esaminato, convive una ricerca che, pur non arrivando ad avere una propria autonomia in lavori di grandi dimensioni, si materializza in innumerevoli schizzi e disegni e prove, che abbiamo comunque voluto rendere fruibili nella mostra. Di questa produzione collaterale vogliamo qui dare qualche accenno. Una premessa importante riguarda la relazione tra il lavoro creativo e quello professionale, di grafico. L’esercizio del mestiere ha infatti portato una fertile contaminazione nella produzione artistica coeva, consentendo a Capone di sperimentare tecniche e supporti nuovi, ma anche di trovare una nuova sintesi e pulizia del segno e della composizione. Eppure, il grosso dei disegni che qui presentiamo risale agli anni novanta e all’inizio del nuovo secolo, quindi a un momento successivo alla pensione: periodo di grande creatività che sembra convogliare in sé le energie prima impegnate nell’attività professionale. Agli anni novanta risalgono i “bestiari”: fogli che si compongono di uno o più animali fantastici disegnati da sottili tratti concentrici a china. È questa una produzione giocosa e felice, che si declina in più forme: dalle tavole di un presunto bestiario medievale, con tanto di “nome scientifico” e descrizione degli animali, ai disegni color oro e argento su carta colorata. Prevale, quasi subito, una vasta fauna marina di pesci, crostacei, molluschi. Una fauna che prolifera per anni 39 riducendosi a volte a puro segno decorativo ma rimanendo più spesso ancorata a forme biologiche e vitali. Il segno dunque si libera dal suo immediato significato e si carica di valori nuovi, come succede anche nella curiosa serie di “alfabeti” dello stesso periodo. Il grafico editoriale che per anni ha selezionato caratteri e composto le pagine, torna alle lettere come puro segno grafico e le compone in colorati alfabeti. Non c’è nessuna volontà di significare ma, quasi, una dichiarazione d’amore: le lettere sono belle, armoniose in sé, anche quando non hanno voglia di parlare. Questa maggior serenità che si respira negli schizzi e abbozzi è propria anche della serie delle “danze”, quasi tutta realizzata nel 2005, dove per la prima volta compaiono anche nudi maschili. Siamo in quella fase in cui il corpo si è liberato dal suo carico erotico e vive solo come sagoma in movimento. A queste forme tracciate a sanguigna si sovrappone spesso un testo scritto con la sottile e criptica calligrafia di Capone: anche in questo caso, il testo non è significativo per il suo senso verbale, ma è utilizzato come mero elemento grafico e come contrappunto cromatico e stilistico alla morbidezza del segno danzante. Capone sembra dirci, attraverso questi lavori più leggeri e disincantati, che le parole, che pure ha amato tanto, possono e devono lasciare spazio a volte al non senso, al gioco, alla musica. E chissà, forse pure al silenzio. Alfabeto, 1999 Danza, 2005 40 Catalogo delle opere Barche, olio, 1960 circa 42 Natura morta olio, 1962 43 Paesaggio, acquarello, 1965 circa 44 Paesaggio industriale, inchiostro e acquarello, 1966 45 Cunegonda, inchiostro di china, 1967 46 Atrani, linoleografia, 1968 Furore, linoleografia, 1968 47 (dall’alto a sinistra) Uomo, Donna, Donne del Sud, linoleografie,1968 48 Positano, monotipo, 1968 Chiesa mediterranea, monotipo, 1969 49 Natura morta, monotipo, 1969 50 Barca, monotipo, 1970 51 Il disoccupato, olio,1970 (nella pagina a fianco) Maternità contadina olio, 1971 52 53 Paesaggio, pennarello, 1977 54 Ieri..., monotipo, 1979 55 (da sinistra) Paesaggio, olio, 1979 Paesaggio, inchiostro di china,1979 56 Natura morta, olio, 1981 Natura morta, olio, 1981 57 Nudo, sanguigna, 1984 58 Due uomini, sanguigna, 1985 Tetti, pennarello, 1985 circa 59 Nudo, inchiostro di china, 1988 60 Notturno, olio, 1991 61 Donna di Sarajevo, inchiostro ed ecoline, 1995 Nudo, inchiostro di china, 1997 62 Paesaggio industriale, tempera, 1996 63 Maiori, olio, 1997 64 Pieve umbra, tempera, 2001 Nudo, pennarello, 2003 65 La tunisina, sanguigne, 2010 66 Gaetano Capone (1933-2011) Gaetano Capone nasce a Maiori in una famiglia di artisti: tra i suoi avi si annovera l’omonimo Gaetano Capone, caposcuola dei pittori “costaioli” che, nella seconda metà dell’800, costruirono un’identità artistica peculiare per la pittura di paesaggio e di genere, molto ricercata dagli intellettuali europei. Il percorso di Gaetano Capone affonda quindi le radici in una famiglia e in un territorio che, nonostante l’apparente decentramento, mantengono una viva tradizione artistica. La Costiera Amalfitana è infatti negli anni sessanta meta di numerosi artisti e intellettuali di tutto il mondo. Nel 1968 il pittore si trasferisce a Roma dove inizia una carriera da grafico pubblicitario prima ed editoriale poi. Espone i suoi lavori e continua a portare avanti una personale ricerca artistica nella quale restano sempre presenti le radici territoriali nella Costiera Amalfitana. Dal 1998 si sposta in Umbria dove maturerà nuovi linguaggi visivi. La mostra è stata realizzata con il patrocinio del Comune di Maiori Assessorato alla Cultura e del Centro di Cultura e Storia Amalfitana e in collaborazione con l’Associazione culturale La Feluca Palazzo MezzaCapo, Maiori ASSOCIAZIONE CULTURALE “LA FELUCA”