Gaetano Capone
(1933-2011)
Maiori 9-28 giugno 2012
Indice
Saluto del sindaco di Maiori (Antonio Della Pietra)
5
La testa del Centauro (Angelo Canevari)
7
Un maiorese DOC (Alfonso Capone)
9
Gaetano Capone: sulle tracce di un artista eclettico (Francesca Romana Capone)
15
Catalogo delle opere
41
Catalogo a cura di Francesca Romana Capone
Fotografie:
Cristiano Bozza, Davide Lippolis, Fabrizio Massignani
Grafica e impaginazione:
Francesca Romana Capone
4
5
La testa del Centauro
Angelo Canevari
Chi era Gaetano? Un grafico geniale? Un pittore di talento?
Un provocatore nato? Un fanatico aristocratico borbonico?
Un comunista fantasioso? Potrei seguitare a lungo con questi
interrogativi, scocciando così l’universo mondo. Ma la verità
è che Gaetano era “un mio amico”: un amico, definizione
ardua che sfiora il magico, vanificando le coordinate dello
spazio e del tempo. Con Gaetano non ci eravamo conosciuti da ragazzini giocando a zecchinetta nel giardinetto
rionale o nella stagione perduta degli entusiasmi giovanili,
ma da adulti. Sicuramente però ci frequentavamo da tempi
immemorabili, in quello spazio sospeso e opalescente che
chiamerei “l’empireo della sera prima” e là in quello spazio,
puntualmente, dopo un incazzato scambio di idee, spesso discordi, ma fondamentalmente analoghe, ci eravamo
salutati con quel saluto verace e romanesco “a’ Gaetà se
vedemo”: quando? come? domani o tra dieci anni... era la
stessa cosa... Rimaneva la certezza di quel “se vedemo”.
Prima della tua morte annunciata, volevo venire a trovarti,
ma non venni... Perché? Perché detto con disperata brutalità non volevo vederti steso nel letto, magari spelacchiato,
con il volto stralunato dal male che ti stava divorando, e
certamente la mia non era viltà, non volevo vederti senza
la tua testa ellenistica, con quella barba rintorcinata: quella del Centauro tormentato da Amore, perché era la tua
testa, amico mio, con quella barba dai vortici insondabili,
che ti portava indietro di millenni e contemporaneamente
nel quotidiano della tua realtà. Una fusione di echi medi-
7
terranei, un meticciato di ferinità macedone, di tam-tam
africano, di olimpicità attica: questa era la tua incredibile
forza, con una dinamica perenne che giustificava ogni tua
impuntatura. Così si accendevano i fuochi di artificio della
tua misteriosa creatività; esplodevano luminosissimi nel cielo, “ellenico”? o “in quello di Lugano”? come avrebbe detto
De Chirico, ironico genio metafisico. Mistero. La partita era
aperta, un interminabile Finale di Partita dove la tua incosciente sapienza si riversava nell’arcobaleno dei tuoi quadri,
o nel ritmo serrato della tua grafica: era il tentativo eroico
parossistico e beckettiano di creare “l’ordine del disordine”,
di costringere l’impeto informale del metallo incandescente
nella concavità avventurosa di una forma, forse reale e definitiva. E allora sei vivo amico mio antichissimo, con quella
tua autentica testa di Centauro tormentato da Amore, con
tutte le tue curiosità paniche indomite e insaziate.
Non ti dirò arrivederci ma sicuramente ”se vedemo”... non
so dove, non so quando... ma, “Gaetà se vedemo!”... Magari verso sera, in una di quelle calette tranquille della tua
costiera dove l’onda del mare sembra trascolorare.
Ti abbraccio, Bido
Angelo “Bido” Canevari (Roma 1930) è artista poliedrico:
scultore, scenografo e illustratore immaginifico, si è formato
attraverso la frequentazione di artisti del calibro di Burri, Cagli, Mirko, Colla.
8
Angelo Canevari,
illustrazione per il Don Chisciotte
Un maiorese DOC
Alfonso Capone
Io a Maiori ero il giovane rappresentante di un ramo povero dei numerosi Capone che colà hanno sempre vantato
folta presenza. Gaetano, di qualche anno più vecchio di
me, portava lo stesso nome di mio padre che, da povero
pescatore cercava di affrancarsi dalla miseria vendendo
direttamente alle famiglie più abbienti quel poco che pescava con la “tartana”. La maestra Capone, per simpatia
e per solidarietà di “casato” è stata sempre una buona
cliente. Io che spesso lo accompagnavo in queste vendite
“a domicilio” ante litteram ricevevo sempre qualche caramella ed una carezza. In più, tutte le volte che mi capitava
d’incontrare per la strada sia Mario, il fratello più giovane,
sia lui che ti sorrideva con l’eterna aria scanzonata, venivo
appellato con il classico: “Uè Affò” o, più affettuosamente:
“Funzeniè”.
Una domenica di primavera, di quelle che a Maiori sembra
già estate, sullo slargo terroso chiamato “fora ‘o Vignariello”
adibito a campo di calcio, si svolgeva l’ennesima sfida al
veleno con “quelli, chelli ‘e Menur”. La compagine maiorese, oltre che della partecipazione del “capocannoniere”
Aitano Capone, si avvaleva del contributo di “Sasanno ‘o
furnar”, “Tatonno ‘o scarparo”, “Rafiluccio ‘o tapparotto”,
“Peppe ‘a Trainera”, “Ciccio ‘e Jacullo”, “Giuvanne’e Crisi,
crisi” e, nel ruolo di portiere “Giggino ’o malommo”. Arbitro
Andrea ‘e Macchiarola, unico in grado, con il carisma da
Italoamericano rientrato a Maiori per dichiarata nostalgia,
di tenere a bada gli intemperanti e di sedare eventuali (fre-
9
quenti) risse, dentro e a bordo campo.
Alla fine del primo tempo Maiori stava sotto di due gol a
zero. Noi “guagliuncielli” (i più numerosi) attorniavamo in religioso silenzio la squadra seduta sul muretto che divideva
la strada provinciale dall’arenile, mentre girava fra gli atleti
una “mummara” con la classica limonata fatta con i limoni
di Maiori e un pò di zucchero; che coloro che non l’hanno
mai assaggiata non sanno quello che si sono persi… La maggioranza degli sguardi si posava su Gaetano, Aitano Capone, il nostro “goleador” cercando di capire come mai oggi
non aveva ancora segnato. Ricordo che nel guadagnare
il terreno di gioco Gaetano mi strizzò l’occhio con quel suo
sorriso sornione quasi a dire “Funzì sta a vedè mo”...
Ma la giornata sembrava nata storta: Minori segnò il terzo
gol e da allora per noi, cominciò la riscossa. Iniziò con un rigore trasformato da Sasanno e poi con un gol di Gaetano e
uno di “Cuncettone” entrato nel secondo tempo. Stavamo
tre a tre, mancava poco alla fine, quando dalla parte del
Vignariello che guarda verso le montagne di Tramonti arriva
un traversone teso, quasi una palombella, di qua, verso il
mare, dove Aitano Capone in corsa, senza che il pallone
tocchi il terreno, al volo lo scaraventa in porta fra il tripudio
di quanti (mezzo paese) assistevano alla partita.
Io, caro Tanino, la gioia che mi hai regalato quel giorno,
mentre il sole tramontava dietro le montagne di Ravello,
non l’ho mai dimenticata..
***
Tempo fa scrissi questo breve ricordo di Gaetano pescando
negli anfratti della memoria di un ragazzo undicenne che
guardava a lui come a un eroe, campione assoluto nel gio-
10
Gaetano Capone nel 1958
co del pallone, forte, ineguagliabile e bello. Ora penso invece a qualcosa di diverso, poche righe adatte a stigmatizzare il profilo di un mio compagno di viaggio, più vecchio di
me di qualche anno, con il quale ho condiviso brevi periodi
della giovinezza (trascorsa, oserei dire, con la valigia sempre
pronta), che purtroppo mi ha preceduto al capolinea della
vita.
Non è difficile scrivere di Aitano Capone, maiorese DOC. Se
la memoria non ti aiuta basta percepire i toni appassionati
con i quali ne parla la figlia e uniformarsi ad essi. Può bastare, talvolta, rievocare quell’atmosfera, un po’ demodé, dei
tempi della dolce gioventù, per rivederlo passeggiare lungo
le strade di Maiori con quell’aria da guascone, sorridente e
scanzonato. Allegro e pronto alla battuta come quando,
mi ricordo, mano nella mano dell’ennesima turista straniera
conquistata sulla spiaggia, si avviava, passeggiando rilassato, verso la fine del paese già invaso dalle prime ombre
della sera, dalle parti di San Francesco. Qualche amico
sfacciato e pronto alla battuta (sicuramente invidioso) gli
gridava da lontano: “Aità, arò a puorte?” (dove la porti).
Lui tranquillo, senza voltarsi, forte del fatto che la ragazza
non poteva comprendere l’idioma partenopeo, con la sorridente sfrontatezza di un ventenne bello come quel sole che
ancora non aveva illuminato i morti e i disastri dell’alluvione:
“E addò l’aggia purtà”? Dint ‘o scuro, ‘a porte”... Divertito quanto discreto Casanova conosceva a menadito tutti
gli anfratti più nascosti della spiaggia d’allora: i nascondigli
poco illuminati fra gli scogli sono stati per anni sue discrete
ed esclusive alcove fino a quando “una di Roma” non gli ha
fatto “mettere ‘a capa a posto”.
Quando c’incontrammo a Roma, Gaetano era in compagnia di Giorgia Signorelli, sua editrice, nonché datore di
11
lavoro. Lei era perfettamente consapevole che nella sua
azienda non prestava opera soltanto uno dei più bravi grafici allora in circolazione; la persona che disegnava tavole
e copertine di libri era un artista eclettico che aveva allestito mostre, aveva dipinto scorci, volti e atmosfere immortali
della sua terra d’origine e che ancora scriveva poesie che
a leggerle oggi ti strappano l’anima.
Non c’erano i computer allora; quello che avevi nell’anima
e nel cervello lo dovevi tradurre in segni e figure attraverso
la mano, con l’aiuto del talento e del cuore. E lui, attento
e vigile al presente, conquistato alle leggi della stampa e
degli inchiostri, ha lavorato, sereno fra le “sue” donne, i suoi
colori, le sue spatole e i suoi pennelli con seria professionalità senza mai scordare quel pezzo nascosto del suo grande
cuore rimasto laggiù a fluttuare fra l’incredibile azzurro di un
mare mai dimenticato.
Ed è su questa superficie incantata, che si specchia e si confonde, ancora oggi, quel magico cielo, fermo attestato a
rappresentare la linea di confine delle fantasie di tanti giovani maioresi. I sogni di molti di loro, (i più fortunati?) non
sono rimasti segregati fra la punta di Conca dei Marini e gli
scogli a mare davanti alla Torre Normanna; fuggendo da
Maiori quei sogni, in un modo o nell’altro, sono andati ad
abbellire il mondo. L’opera di Gaetano Capone ne rappresenta la più limpida testimonianza.
Una brevissima riflessione: è singolare come, nonostante
l’abissale differenza d’età, una figlia giovane organizzi una
retrospettiva per ricordare la figura e l’opera del padre nello
stesso periodo in cui un figlio prossimo alla vecchiaia scrive
un libro ispirato alla memoria della sua anziana madre, morta tanto tempo fa.
Il legame fra i due avvenimenti, forse, va cercato nell’unica
12
parola che accomuna quanti vivono la loro vita lontano da
qui: Maiori.
Alfonso Capone, Impronte,
Aracne editore
Alfonso Capone (Salerno 1936), maiorese, ha fatto mille mestieri. Nel 2012 ha pubblicato un libro dedicato alle memorie
della sua famiglia: Impronte, cronache da un vissuto (Aracne editore).
13
14
Gaetano Capone: sulle tracce di un artista eclettico
Francesca Romana Capone
Il senso della vita
è di viverne il senso
(Gaetano Capone)
Premessa a mo’ di scusa
Questa mostra è un viaggio, un viaggio di ritorno. Un percorso attraverso l’immaginario artistico di Gaetano Capone
che parte e approda nella sua terra: Maiori, la Costiera
Amalfitana, la Campania, il Sud. Luoghi che ha lasciato ma
che si è portato con sé, nel fardello lieve della memoria gioiosa dei suoi trentacinque anni vissuti da pittore e donnaiolo, comunista e scapigliato. Luoghi che, così strettamente
avvinti al passato, hanno chiuso la porta alla possibilità di
una relazione nuova. E che hanno continuato a essere vivi
nell’ambiguità delle amate origini e di un presente irriconoscibile. Sentimenti che, probabilmente, hanno accompagnato e accompagnano molti uomini e donne che, nei secoli, hanno lasciato il Mezzogiorno e la cui nuova vita altrove
non ha saputo ritrovare un comune denominatore con una
terra meravigliosa e tragicamente poco accogliente. Ma
la vicenda umana e artistica di Gaetano Capone non è
quella dell’emigrante del secolo scorso: la sua partenza è
tardiva e scelta, non imposta da necessità impellenti. Forse
per questo anche meno comprensibile, visto che la Costiera
continuerà ad abitare gli occhi del ricordo e i fogli sui quali si
accumulano paesaggi riprodotti a memoria. Un vero ritorno
15
non c’è mai stato. Ogni estate o visita nei decenni successivi
è stata ombroso rimpianto di paesaggi e persone sparite;
desiderio di ritrovarsi e certezza di un’impossibilità.
Perciò questa mostra è un viaggio di ritorno, forse l’unico
possibile, di Gaetano Capone alla sua terra. Non è tornato
per affacciarsi idealmente dalla scarpata fiorita del vecchio
cimitero: le sue ceneri sono altrove, nel luogo che ha scelto
per la sua maturità. Ma è tornato com’era prima di partire:
da pittore. Le opere esposte tracciano il lungo cammino tra
gli anni sessanta del Novecento fino al primo decennio di
questo nuovo secolo. Segnano anche il percorso di un’identità che ha avuto il coraggio di cambiarsi e di cambiare:
da pittore bohemien in un piccolo centro, a grafico pubblicitario ed editoriale a Roma; da inguaribile donnaiolo a
marito e padre, e poi nonno. Eppure questo pellegrinaggio
non gli ha fatto smarrire il filo dell’espressione: ogni tappa
ha i suoi quadri, i suoi mille disegni, le sue sperimentazioni e
i suoi ritorni anacronistici. La matita non l’ha mai fatta cadere, pur scegliendo di lasciare una sua identità. Mai più
pittore: sporadiche mostre, i lavori per lo più condivisi con i
familiari e la larga cerchia degli amici. Ma tenuti fuori dalla sua vita professionale, quasi a salvaguardare uno spazio
“altro” per la sua arte. Anche in questo senso la mostra è un
ritorno al Gaetano Capone pittore degli anni sessanta, che
esponeva e vendeva e si sposava grazie ai ricavi del suo
lavoro artistico.
Ma questa mostra è un viaggio anche per motivi più intimi
e privati. È l’occasione, per la sua famiglia, di ricordarlo a
poco più di un anno dalla scomparsa attraverso le tracce
materiali del suo passaggio: quei quadri e disegni che fanno
parte del paesaggio visivo ed emotivo di tutti i suoi parenti e
amici. In fila, ordinati contro le pareti del Palazzo Mezzaca-
16
Lo studio di Spina
Gaetano Capone nel 2009
po, quei segni hanno un doppio fondo per chi Gaetano Capone lo ha conosciuto e amato come uomo: sono le tappe
di un’esistenza, le tinte delle stagioni di una vita, i paradossi
che restano vivi e parlanti di un uomo ricco di tutto, anche
di contraddizioni.
Gaetano Capone, mio padre.
Curare una mostra antologica dei suoi lavori è per me un
privilegio e una trappola. Un privilegio, nel dialogo serrato
che mi consente di intrattenere con lui, nella possibilità di
conoscerlo meglio e meglio capirlo, nell’idea di contribuire
a mantenere vivo il suo ricordo, nella gioia di offrirgli l’omaggio delle mie parole e delle mie conoscenze per fornire una
chiave di lettura della sua opera. Una trappola per la difficoltà di districare sentimenti e dati di fatto, emozioni e segni,
ricostruzione oggettiva e memoria personale. Ma, anche,
per gli inciampi nel tono della scrittura, nella concatenazione delle parole, nell’oscillazione tra una lingua distaccata e
critica e una lingua dell’amore.
Scelgo di non scegliere. Gaetano Capone l’artista e Gaetano Capone mio padre sono la stessa persona. Per quanto
possibile, i testi che seguono non indulgono all’aneddoto o
al ricordo: vogliono essere una lettura stilistica e critica della
sua opera. Ma la mia è anche la posizione di chi con lui ha
spesso discusso di pittura e arte in genere, e di questo privilegio mi servirò quando sia utile alla comprensione.
L’ambiguità esiste: la denuncio qui per non doverla altrove
rimarcare.
Una vita
La Maiori in cui nasce Gaetano Capone nel 1933 è un altro
paese rispetto a quello di oggi. L’alluvione dell’ottobre 1954
17
ha cancellato gli scorci dipinti nell’Ottocento dai pittori costaioli, ha abbattuto palazzi e cambiato la topografia del
luogo. Ha segnato la memoria di tutti coloro che l’hanno
vissuto come una ferita. Gaetano aveva 21 anni e ne mantenne vivido il ricordo per tutta la vita, anche perché l’alluvione distrusse la casa di famiglia.
L’alluvione è, in qualche modo, uno spartiacque tra l’infanzia e la giovinezza. Dei primi anni, resta la guerra, lo sbarco
sulla spiaggia degli americani, il cinema di Rossellini (che a
Maiori gira diverse pellicole tra cui Paisà nel 1946, usando
come comparse i ragazzini del posto).
La Maiori del dopo alluvione è invece parte della Costiera
che, negli anni sessanta, torna ad attirare intellettuali e artisti
di tutto il mondo. Nel 1953 l’americana Edna Lewis fonda a
Positano l’Art Workshop: una scuola di pittura aperta a giovani di tutto il mondo nella quale chiama a insegnare artisti
come Dorazio o Perilli. Nel giro di pochi anni, l’Art Workshop
diventa centro di attrazione per artisti internazionali che, già
negli anni venti e trenta, avevano popolato Positano esuli
dal Nord Europa.
È in questo singolare ambiente periferico e cosmopolita insieme che si forma Gaetano Capone, al di fuori di qualunque percorso formale: lascia, infatti, gli studi al quarto anno
di liceo scientifico. Seguirà poi un corso a cavallo tra il 1962
e il ’63, quando trascorre circa un anno a Londra studiando
incisione presso il Royal College of Arts. Negli stessi anni frequenterà a Parigi la libera scuola del nudo.
Si forma, insomma, una sua personale ed eclettica cultura:
legge moltissimo, ha interessi e curiosità eterogenei, ama
l’arte e, fin da ragazzino, si diletta con matite e pennelli; d’altro canto, come si dirà poi, la sua è una famiglia nella quale
l’arte e, soprattutto, la pittura è di casa. Affianca all’attività
18
Maiori dopo l’alluvione del 1954
Capone nel suo studio, 1958
Copertine di cataloghi
pittorica la passione per la poesia: per tutta la vita leggerà e
scriverà versi, anche se solo raramente li condividerà.
Nei primi anni sessanta abita e tiene il suo studio nella casa
delle “zie”: cinque signorine con vari gradi di parentela (due
zie e tre prozie), piuttosto stagionate, che lo amano e vezzeggiano moltissimo. È una casa particolare, quella delle
zie: vecchia e fatiscente, conserva tracce di decorazioni
pittoriche e di maioliche antiche. L’eclettico e affollato arredo comprende statuette di santi sotto campane di vetro
e soprammobili di ogni specie. C’è poi un ambiente, passato nella memoria familiare con il nome di “Valle di Josafatte”, una sorta di ripostiglio che contiene oggetti multiformi.
“Nella casa delle tue vecchie zie – scriveva Dario Spera nel
catalogo di una mostra – la porta della Valle di Josafatte è
sempre misteriosamente serrata sul buio di mondi accavallati e confusi in quella immensa stanza. Eppure basta uno
sprazzo di luce ed uno sguardo per fare turbinare giorni e
vicende e segreti da quegli allucinanti mucchi di passato”1.
Le anziane zie, poi, si rivelano incredibilmente aperte e accoglienti verso gli amici e gli stranieri che Capone ospita in
casa.
Sono gli anni scapigliati, delle infatuazioni stagionali per le
ragazze straniere in vacanza, delle scorribande in Costiera.
Ma anche quelli dei primi impegni politici nella sezione comunista di Maiori e nella federazione comunista di Salerno.
D’altro canto anche l’apprendistato politico di Capone è
stato precoce: ricorderà sempre di aver ascoltato Togliatti
quando visitò la Costiera nel 1944 (al maturarsi della “svolta
di Salerno”) e negli anni successivi. Non a caso, restano di
questo periodo nudi voluttuosi accanto a ritratti crudamen1 Dario Spera, Alla libreria Signorelli il Sud di Gaetano in 25 mono-
tipi, catalogo della mostra, febbraio-marzo 1970.
19
te realistici, di denuncia sociale. Ogni estate realizza una
mostra individuale a Maiori e partecipa ad alcune collettive. Una sua personale e una collettiva si svolgono anche
presso l’Art Workshop di Positano.
Nel 1968 si trasferisce a Roma per seguire la fidanzata e futura moglie. Realizza alcune copertine per la casa editrice
della sinistra antagonista Samonà e Savelli e, nel 1969, allestisce la prima mostra nella capitale presso la libreria Quattro Fontane. Grazie ai guadagni derivati dalla vendita delle
opere, Gaetano si sposa nello stesso anno.
Dal ’69 fino ai primi anni settanta lavora in alcune agenzie
pubblicitarie costruendosi un “mestiere”. Intorno al 1972 viene assunto dalla casa editrice Angelo Signorelli come unico
grafico responsabile di tutta la produzione. Resterà in Signorelli fino alla pensione (1993) e, ancora per qualche anno,
come consulente.
Tra gli anni settanta e ottanta, partecipa in più occasioni
alla Biennale del manifesto di Varsavia.
Con altri due soci fonda una piccola società che, a partire
dal 1974 fino agli anni ottanta, cura, tra l’altro, le promozioni
della ESSO e i calendari dell’azienda. Tra gli anni ottanta e
novanta crea la grafica delle iniziative promosse dall’Archivio Disarmo, tra cui l’evento annuale delle Colombe d’oro
per la pace ed elabora le copertine del mensile di economia e diritto comunitario Europaforum. Anche dopo la pensione, continua a lavorare come libero professionista fino al
1999.
Nel 1998 si trasferisce in Umbria, vicino al piccolo centro di
Spina (PG).
Non sono numerose le mostre che allestisce negli anni romani (oltre a quella del 1969, ne ricordiamo alcune presso
la libreria Signorelli nei primi anni settanta e una di sola pro-
20
Lavori per la Esso
Una copertina per la Signorelli
Manifesto per l’Archivio Disarmo
duzione grafica del 1976 presso il Centro Morandi) e smette
praticamente del tutto di esporre negli anni ottanta. Tuttavia
a questa stagione corrisponde un’abbondante produzione
pittorica e, soprattutto, disegnativa. L’attività come grafico,
lungi dall’inaridire la vena creativa, funziona da stimolo per
il continuo aggiornamento e contamina le opere di questi
anni.
Probabilmente proprio alla dimensione “artigianale” che il
mestiere di grafico ha in epoca pre-computer si deve anche il gusto sperimentale che non lascia più il suo lavoro fino
alla fine. Nel suo studio si accumulano negli anni strumenti e
supporti di ogni genere: pennarelli, ecoline, pastelli, sanguigne, china, spatole, calami, fogli di linoleum, carte e cartoni
di ogni genere e colore. “Magari il miracolo succede che
nemmeno te ne accorgi. Quello che importa è cercare.
Tecniche nuove, materiali nuovi: tutto sta essere sinceri”2.
La fine dell’attività professionale non corrisponde a un aumento della produzione artistica, quasi a testimoniare quel
fertile scambio che – pur mantenendo i due ambiti distinti
– li ha caratterizzati. Tuttavia Capone continua a lavorare,
riprendendo e approfondendo soggetti e tecniche delle opere precedenti e trovando nuove cifre stilistiche che,
come si vedrà, si radicano anche nella precedente attività di grafico. Realizza piccole esposizioni in centri umbri, tra
le quali ricordiamo Le città del sogno a Corciano nel 2000
(sono qui esposti una serie di paesaggi realizzati con diverse
tecniche ma con una matrice stilistica unitaria).
Gli ultimi suoi disegni risalgono al gennaio del 2010, al ritorno
da un viaggio in Tunisia, e sono volti di donne di questa terra
che richiamano certe vecchie contadine ritratte negli anni
Parole attribuite a Gaetano Capone in Dario Spera, Gaetano
Capone, catalogo della mostra dell’aprile 1972.
2
21
sessanta. Si ammala nell’aprile dello stesso anno e si spegne
il 27 febbraio 2011.
Una famiglia di artisti
La vocazione all’arte è comune nella famiglia Capone, e il
nome di Gaetano è quasi un destino. È suo omonimo, infatti, quel Gaetano Capone (1845-1924) che, sul finire dell’Ottocento, ha rappresentato forse il massimo esponente dei
cosiddetti pittori “costaioli”. Omonimo e parente, anche se
non è facile ricostruire un’esatta genealogia3.
Quella dei costaioli o “pittori di Maiori” non è una vera e
propria scuola, quanto il termine sotto il quale si accomunano alcune generazioni di pittori, quasi tutti maioresi, che si
dedicano al paesaggio e alle scene di genere. Sono opere
destinate al fiorente mercato alimentato dal turismo degli
stranieri nel corso dell’Ottocento e, più tardi, del Novecento.
Tra gli altri artisti riconducibili alla scuola, si ricordano Antonio
Ferrigno (1863-1940), Pietro Scoppetta (1863-1920), Manfredi Nicoletti (1891-1978). La pittura dei costaioli è fortemente
legata al paesaggio locale e alle tradizionali e stereotipate scenette di popolani, pescatori, raccoglitori di limoni. Il
linguaggio artistico, pur molto differente nelle singole personalità, è certamente influenzato dalla grande pittura di
paesaggio del primo Ottocento: impressionisti e macchiaioli
sono senz’altro un riferimento per questi pittori più giovani e
periferici, ma ancor di più devono esserlo stati i pittori della
Le notizie relative al Gaetano Capone costaiolo si devono soprattutto al volume Gaetano Capone – la pittura come racconto
del quotidiano, a cura di Massimo Bignardi, Edizioni de Luca, Salerno, 2000. Si tratta del catalogo della mostra dedicata al pittore
che si è tenuta, sotto il patrocinio della provincia, a Salerno dal 21
dicembre 2000 al 21 gennaio 2001.
3
22
Gaetano Capone, Viv’o re, 1884
Ciccio Capone, Barche,
(anni ‘30 del Novecento)
Gaetano Capone Jr,
Ritratto di Maddalena Capone,
1895 circa
Luigi Capone,
La torre normanna,
(anni ‘50 del Novecento)
scuola di Posillipo, fiorita nella vicina Napoli negli anni trenta
dell’Ottocento.
Gaetano Capone è considerato il capostipite del gruppo, il
maestro al quale gli altri hanno guardato e carpito tecniche
e soggetti. Ma anche lui è figlio d’arte: il padre Luigi (18091896) è pittore e figlio, a sua volta, del pittore e decoratore
Gaetano (1772-1859), nonché nipote di Gioacchino (17311812), anche lui pittore. E molti altri sono gli artisti che figurano nei rami collaterali della famiglia.
L’esatto legame familiare tra il Gaetano Capone costaiolo
e l’omonimo novecentesco, come si diceva, non è facile
da ricostruire: il primo non lasciò figli. Resta il fatto che la
caratteristica alternanza dei Luigi e dei Gaetano è rispettata anche nel caso che qui ci interessa: il padre del nostro
Gaetano si chiamava Luigi. Non era un pittore di professione
ma si dilettava in piccoli acquerelli, dei quali alcuni ancora
in possesso della famiglia. È grazie alle sue scatole di colori
che il figlio si è avvicinato alla pittura. Artisti erano anche gli
zii di Luigi, i fratelli Francesco “Ciccio”, di cui si conservano
delicate marine e barche dai colori pastello, e Raffaele Capone, scultore e intagliatore. Un altro Gaetano Capone, gemello di Francesco il padre di Luigi, ed emigrato in America
nei primi del Novecento, era un fine ritrattista.
La pittura, insomma, “scende per li rami”. Gaetano, nella sua
infanzia e giovinezza, vive in un contesto fortemente connotato dall’attività artistica legata ai paesaggi della Costiera,
alle marine, ma anche ai temi sociali di un popolino umile e
dignitoso.
Questi soggetti, pur sottoposti ai traumi del più crudo Novecento, sopravvivono nell’arte di Gaetano Capone. La
costiera con le sue cupole di maiolica, le case bianche, le
barche tirate in secco diventa quasi una terra onirica, lon-
23
tana nello spazio ma anche nel tempo: è una costiera che
non esiste più quella che Capone dipinge dal suo volontario esilio. Restano, anche, le figure degli emarginati, dei
sofferenti. Cambiano i connotati: non più poveri pescatori
o vecchie nere di paese ma disoccupati, madri sofferenti,
vittime di guerra.
Ma dai pittori della famiglia, Gaetano eredita anche l’amore del mestiere, il confronto con gli altri artisti, la dimensione
quasi artigianale e, soprattutto, la gioia creativa che sembra alimentata dal sole e dal cielo chiaro della costiera.
Arte figurativa tra anacronismo
e sperimentazione
Va forse fatto risalire al precoce apprendistato visivo costruito sulle opere dei famigliari e antenati il peculiare legame al
realismo che caratterizza Gaetano Capone. La sua pittura
non mollerà mai l’ancora figurativa, che si tratti di paesaggi o di nudi, di nature morte o di ritratti. La ricerca di nuovi
valori pittorici non si muove tanto nell’ambito del linguaggio astratto, quanto piuttosto nell’uso di tecniche e supporti
sempre nuovi, con i quali si misura una gamma tutto sommato esigua di soggetti.
Questo mantenersi ostinatamente figurativo negli anni
dell’informale internazionale e dell’astrattismo italiano di
artisti molto amati quali Burri, Fontana, Capogrossi non può
essere spiegato solo da un presunto “provincialismo”. Gaetano Capone, pur nel suo percorso informale, è comunque
autore colto: conosce l’arte contemporanea e l’ammira;
segue l’evoluzione della scena internazionale e medita le
opere dei grandi.
Un primo, parziale, motivo può allora essere ricercato nella sua biografia e, in particolare, nel suo giovanile impegno
24
Donna e bambini, 1981
Natura morta, 1967
politico nel PCI. Il pittore che ha incarnato più di tutti le aspirazioni del partito, divenendone anche esponente politico
nazionale, è indubbiamente Renato Guttuso. Anch’egli
uomo del Sud, nelle sue opere il violento espressionismo non
arriva mai a dissolvere la figura. Viene spontaneo pensare
che Guttuso abbia potuto rappresentare per il giovane Gaetano Capone un punto di riferimento, una via che tenta di
conciliare l’immediatezza della comprensione con l’espressione della modernità.
Non è difficile rintracciare questo rimando nei ritratti di umili
personaggi che Capone dipinge: profondi solchi neri separano campiture piatte di colore a olio o vuoti dai quali emerge il bianco abbagliante della carta. Ogni tratto dei visi è
inciso come il letto di un fiume che erode un paesaggio:
rughe, occhi neri e profondi, lineamenti grossolani parlano
della difficoltà di vivere, del lavoro duro, dell’esistenza sacrificata.
Ma c’è un altro riferimento, insieme più alto e più intimo, che
spiega la scelta di continuare a dipingere il reale. “Di nuovo
al mondo non c’è nulla o pochissimo, l’importante è la posizione diversa o nuova in cui un artista si trova a considerare ed a vedere le cose della cosiddetta natura e le opere
che lo hanno preceduto e interessato”4: così si esprimeva
Giorgio Morandi nel 1926, e niente meglio delle sue parole
è in grado di spiegare la sua isolata dedizione a nature morte (che spesso ritraggono anche gli stessi oggetti) e pochi
paesaggi quasi monocromi. La frase citata chiarisce infatti
non solo l’esiguità dei soggetti ritratti, ma anche il continuo
confronto con i maestri del passato: entrambe dimensioni
care a Gaetano Capone che, per tutta la vita, ha guardato a Morandi come un insuperato maestro di paradossale
4
Citato in L. Vitali, Morandi, ed. Milione, Milano, 1965, p. 73.
25
modernità.
È allora quella “posizione diversa o nuova” che Capone cerca nello scandagliare la sua realtà. E la trova nel mutarsi
degli strumenti, delle tecniche e dei supporti. I segni sono
affidati di volta in volta alla spatola greve o alla lieve acquerellatura, alla china sporcata dalla spugna o al pennarello
dal tratto preciso, alla grassa sanguigna o al secco pennino.
Segni che si depositano su carte preziose e vergate a mano
come sulle tovagliette della pizzeria, che si imprimono sulla
carta assorbente nei monotipi o nelle linoleografie. Carta,
cartoncino, stoffa e poi argilla e coppi di terracotta: qualunque supporto può essere adatto e può rispondere alla sua
curiosità creativa. Studia, sperimenta, sbaglia. La sua non
è una produzione pulita e lineare, piuttosto si addensa in
grumi di tempo nei quali un’idea che ha già preso forma
nella mente cerca la strada per farsi concreta, per mostrarsi. Riempie fogli e interi blocchi di schizzi e prove, riguarda
ciò che fa, passa a dimensioni maggiori e, nel giro di pochi
giorni, produce magari tre, quattro disegni di grande formato. Poi il tempo torna a dilatarsi e distendersi e la genesi
dell’idea figurativa riparte in embrione nella testa, in attesa
del momento di farsi finalmente forma.
Lavora rapidamente, condensa in pochi tratti o in larghe
campiture di colore la sua visione. La realizza con sicurezza
apparente, ma dietro c’è sempre un travaglio faticoso: quel
divario tra l’immagine mentale e la concretezza fisica che
ogni artista conosce.
A Gaetano Capone non serve un repertorio infinito di soggetti o un linguaggio artistico supinamente moderno per
dare valore al suo lavoro. È buon critico di se stesso, sa valutare la forza espressiva della sua opera, così come la perizia
tecnica e il senso del suo fare.
26
Paesaggio umbro con
natura morta, 2001
Notturno, 19??
E non manca mai, nel tempo, di confrontarsi con i grandi
maestri dell’arte del passato. Volendo costruire una linea
genealogica dei suoi amori, li si troverà accomunati dalla
forza sintetica del disegno e dal coraggio sperimentale.
Così Giotto, Masaccio, Piero della Francesca convivono nel
suo pantheon ideale con Cézanne e Picasso o, rivolgendo
indietro la freccia del tempo, con la grande statuaria greca
i cui marmi torniti sono tanto perfetti quanto forti nell’imporsi
agli osservatori.
Ma il dialogo con il passato non si fa mai imitazione. Capone
è consapevole della sua collocazione nel tempo e nel mondo, né vuole stupire nessuno: come si è detto, dagli anni
ottanta smette di esporre e la sua produzione si dissemina
solo nelle tante case di amici e parenti. La fruizione dell’arte,
la meditazione sulle opere del passato è una specie di palestra. Allena gli occhi alla bellezza (anche alla bellezza del
brutto e grottesco), costruisce un ricco immaginario, suggerisce di misurarsi coi propri limiti, incoraggia a continuare.
È allora in questo senso che, pur essendo semplice dividere la produzione di Capone in pochi, grandi, filoni tematici,
la declinazione che essi assumono nel tempo li concretizza
in opere a volte lontanissime per atmosfera emotiva e per
realizzazione tecnica. Ma d’altra parte un nudo di donna
è un nudo di donna, così come un paesaggio resta tale se
inondato dalla chiarità mediterranea o affogato nei fumi industriali. Dovendo scegliere quale via seguire nel presentare
i lavori esposti nella mostra, si è dunque aperto il bivio tra un
approccio tematico o sul più classico andamento cronologico. L’intreccio possibile è affascinante in entrambi i casi:
qual è la relazione tra quella maternità proletaria e questa
barca tirata in secca? Tra il monotipo brillante e la sintesi
grafica del disegno? E come si trasforma la pittura di pae-
27
saggio mentre intorno a Gaetano Capone cambia il paesaggio stesso della vita?
Sono tutte domande legittime e ognuna consente un’esplorazione diversa attraverso i lavori qui presentati. Perciò si è
scelto di riprodurli in catalogo nell’ordine cronologico secondo il quale vengono esposti, ma di indagare nel testo gli
sviluppi interni ai soggetti che Capone ha tenuto al centro
del suo lavoro per oltre cinquant’anni.
Pittura sociale
“Penso che un pittore con la sua opera si inserisca senza volerlo in un fatto politico, ma non in un fatto politico spicciolo,
un fatto politico che va dai dieci ai quaranta-cinquant’anni.
È politico cioè in un senso inverso, per la socialità della sua
opera, e della sua vita, non solo per una scelta ideologica”5.
Sono parole del 1968 di Giulio Turcato: un intervento tra i tanti
di artisti contemporanei volto a sostenere la necessità di una
partecipazione al presente di chi fa arte. Anche Gaetano
Capone, pur nella sua posizione eccentrica rispetto alle lotte di quegli anni – lontana geograficamente ma anche per
biografia: nel ’68 Capone ha già 35 anni – sente le contraddizioni del suo tempo e, a suo modo, le rappresenta.
Risalgono infatti alla fine degli anni sessanta e all’inizio del
decennio successivo una serie di lavori che hanno per protagonisti figure umili e provate dalla vita. Una galleria di
personaggi che si ripetono con insistenza, come le donne
velate di nero – presenti in mostra attraverso due litografie
– che sembrano quasi un emblema della rinuncia del Sud
Citate in Tempo moderno, a cura di G. Celant, Skira, Milano,
2006, p.434. (Catalogo della mostra organizzata in occasione del
centenario della CGIL a Palazzo Ducale di Genova).
5
28
Donna velata, 1972
alla modernità. Non sono ritratti: Capone non ha mai avuto
interesse a questo genere. Ma non sono nemmeno figurette
stereotipate e di genere. Piuttosto l’artista ricerca in pochi
tratti la verità di un destino di miseria e umiliazione, empaticamente sentito e trasmesso.
C’è qualcosa di statuario nelle sue figure, ma nulla di levigato e prezioso: ricordano, invece, certe opere lignee grossolanamente sbozzate da certa arte popolare. Denunciano, insomma, la loro appartenenza a quell’area espressiva che, a
partire dai piedi sporchi dei santi caravaggeschi, attraversa
tutta la storia dell’arte nel tentativo di creare un’epica degli
umili. Così la “maternità contadina” esposta in mostra e risalente al 1971 si carica di un’etica che è per metà religiosa e
per metà sociale; così il “disoccupato” coevo, chiuso nella
sua disperazione (“un barlume di faccia reclinata su gambe
di pietra pesanti e su un’attesa che non finisce mai”6) o il
pescatore con il suo sguardo stanco eppure dignitoso, costruiscono un’iconografia dell’eroismo della povertà.
Le profonde ombre nere dalle quali emergono a fatica le
sagome umane delle linoleografie hanno un equivalente
nell’uso dell’olio a piatte campiture materiche, sporcate di
lividure e sottolineate dai potenti tratti neri. Sono opere aggressive e, per certi versi, sgradevoli queste, senza alcuna
indulgenza verso una facile ricerca di grazia e bellezza.
Non è un caso che i lavori legati all’impegno sociale si vadano diradando negli anni successivi, quando Capone lascia
la politica attiva e diluisce il suo interesse verso il presente in
un disagio fatto di estraneità. Ciò nonostante, personaggi
e temi che possono rientrare in questo ambito si affacciano, a intervalli, nella sua opera. Sono figure genericamente
sofferenti, come nel caso dei due uomini del 1985, oppure
6
Dario Spera in Gaetano Capone, cit.
29
immagini legate a eventi precisi.
Negli anni novanta, ad esempio, dipinge alcune “donne di
Sarajevo”. Aggredito, come tutti, da una guerra vicinissima
nello spazio e propinata a dosi massicce dalla televisione,
esprime il suo disagio in questi cartoni insieme simili e diversi
dai lavori di trent’anni prima. Simili nella composizione che
fa eco all’iconografia religiosa delle madonne e delle martiri e analoghe nell’uso dell’ombra che non appartiene ai
corpi ma li incide e tormenta. Diversi nella gamma cromatica che si schiarisce – complice anche la tecnica pittorica
e l’uso delle ecoline – ma che, paradossalmente, perdendo
la natura terrosa degli oli sopra citati, accentua i contrasti in
un urto che sembra acceso da un’esplosione vicina. Il colore, raccolto in gore o dissolto in velature, sembra cedere al
calore di un fuoco interno che lo mangia.
L’ultima opera che presentiamo in mostra è anche il suo ultimo lavoro. Nel gennaio del 2010, di ritorno da un viaggio
in Tunisia, disegna alcune teste di donne maghrebine. Sono,
queste, strette parenti delle meridionali velate tante volte
disegnate e dipinte negli anni passati. Non è il fascino esotico a colpire Capone: la bellezza di questi visi è, ancora
una volta, nella loro forza espressiva, negli occhi smisurati
con in quali ingoiano il mondo, nell’antichità dei tratti che
ne fa quasi un archetipo. La carta bruna, la sanguigna scura: tutto è nella gamma della terra arida e calda. E questa
“donna tunisina” si affianca alle popolari madonne nere,
che proliferano in certe chiesette della nostra campagna,
cui l’oriente presta i colori e l’occidente il linguaggio visivo.
In un viaggio circolare, Capone torna nell’ultima fase del
suo lavoro al filone tematico che ne ha contraddistinto la
prima. Ma questi ritorni, come vedremo, possono attestarsi
nell’arco di tutta la sua attività artistica e non sono mai ri-
30
Donna di Sarajevo, 1996
petizioni pedisseque, quanto ripensamenti affrontati con un
nuovo bagaglio di esperienze e vita.
Le cose: nature morte e barche
Natura morta, 1969
Alla produzione di ispirazione sociale possono accostarsi le
opere che immortalano nature morte. Vi è, in esse, una poetica degli oggetti semplici e quotidiani che ha un immediato
riscontro anche stilistico nei lavori coevi di cui si è parlato sopra. Ma la natura morta è anche un soggetto che si presta
allo studio formale e alla ricerca di un linguaggio pittorico,
come insegna la singolare parabola pittorica di Morandi.
La prima tela presentata in mostra risale al 1962 ed è un
ideale inventario di un tavolo di cucina. Due bottiglie, una
fiaschetta impagliata, un bicchiere e una caffettiera napoletana. La plasticità degli oggetti è affidata non tanto al disegno o alla prospettiva, quanto alla materialità del colore,
deposto con la spatola o attraverso pennellate grasse di
pigmento. Un trattamento della pellicola pittorica che ritroviamo nella tela probabilmente coeva con le barche tirate
in secco sulla battigia.
Il cromatismo di questi lavori è nebbioso e pastoso: manca la luce meridiana di tanta pittura del Sud. Di più: luce e
ombra non hanno una fonte individuabile, sono interne agli
oggetti rappresentati ed emergono a tratti sotto forma di
scudisciate di bianco o sottolineature di nero puro. Non c’è
sfumato, nessun trapasso lieve: Capone non teme la violenza del bianco e del nero, così raramente usati in purezza
nella pittura. “La natura – diceva Cézanne – non è in superficie, è in profondità. I colori sono l’espressione, su questa
superficie, di quella profondità. Essi salgono dalle radici del
31
mondo. Ne sono la vita, la vita delle idee”7.
Gaetano Capone è anche attento alla forma delle cose
che ritrae. Considera la sagoma di una barca come uno dei
volumi più belli per l’occhio, costruito con lo stesso sinuoso e
pulito andamento dell’uovo (altra forma classica di bellezza, immortalata nella Pala Brera di Piero della Francesca).
Gli oggetti che sceglie di ritrarre, siano essi bottiglie o barche, hanno profili definiti e sagome piene: non ci sono fiori
o stoffe, nessun contorno che si sfaldi in fluttuazioni aeree.
Sono cose solide, quotidiane, spesso segnate dall’uso.
Nella resa pittorica degli oggetti, Capone trova lo spazio per
mettere alla prova una tecnica che userà spesso anche nei
paesaggi: il monotipo. A mezza strada tra la pittura e l’incisione, il monotipo, nell’interpretazione che ne dà l’artista,
consente una peculiare tessitura materica. Il colore a olio
viene infatti abbondantemente steso su di una lastra con le
spatole; la carta assorbente sulla quale si imprime la pittura
mostrerà un caratteristico aspetto frammentario – è quasi
impossibile che il colore aderisca in ogni punto – con addensamenti più o meno rilevati. L’effetto fisico è quello dei
muri sui quali l’intonaco è raggrumato in minuscole onde
appuntite, rafforzato qui dal contrasto dei colori la cui stesura acquista una propria autonomia dalla forma e dalla
luce. Risultati, questi, evidenti sia nel quadretto con limone
e arancia del 1969, sia nella barca del 1970 presenti nella
mostra.
Mentre la produzione nel solco dei temi sociali resta legata,
nei decenni successivi, a quella cupezza e asprezza espressiva che abbiamo sottolineato, la pittura di oggetti se ne
svincola per acquisire nuovi valori pittorici. Lo dimostrano le
In M.Doran, Cézanne, documenti e interpretazioni, Roma, Donzelli, 1998, p.125.
7
32
Barche, 1963
due affollate nature morte del 1981, così diverse da quelle
degli anni 60 soprattutto per i toni cromatici e la stesura del
colore. Gli oggetti amati sono i medesimi: bottiglie, damigiane, frutta; simile anche l’uso del massimo e minimo cromatico, del bianco della luce e del nero dell’ombra. Ma i colori
che trovano posto entro questa forbice sono più chiari e luminosi, meno sporchi. Anche la pennellata denuncia una
nuova levigatezza che, seppure non cede mai a una resa
realistica, dimostra una nuova serenità e, forse, una maggior consapevolezza e sicurezza del gesto.
Il corpo delle donne
Nudo, 1979
Nella vita e nell’arte di Gaetano Capone le donne hanno
sempre avuto un ruolo da protagoniste. Dalle anziane zie,
pozzo di storie e di attenzioni, alle molte amanti nordiche;
dalla moglie, alle due figlie, fino alla prima nipote: Capone
vive con le donne. Spesso le ama teneramente o con passione, ancor più spesso le subisce. Complice un carattere
poco decisionista, finisce per farsi guidare dalle “sue” donne. Per questo, anche, accoglierà con una gioia particolare
il nipote maschio arrivato solo nel 2004.
Questo rapporto ambivalente con le donne, segnato dalle
tappe dell’esistenza, si riflette nelle opere che a loro sono
dedicate. E, soprattutto, nei numerosissimi nudi che Capone dipingerà e disegnerà per tutta la vita. Se, infatti, donne
sono pure le vecchie tristi e le madonne contadine, è nel
confronto con la fisicità svelata che l’autore racconta una
fascinazione vissuta e sognata e, in seguito, una nuova distanza.
Il corpo femminile è soprattutto spazio di piacere. Capone
ama le forme opulente e voluttuose, che ripercorre con il
33
carboncino e la sanguigna, con una carnalità che non vuole mascherare. Nel suo studio campeggia per decenni una
fotografia della Venere Callipigia, opportunamente immortalata da dietro, a ricordare la parte del corpo femminile
che il pittore ama di più. Diceva Renoir, i cui nudi Capone
apprezzava moltissimo sia per generosità delle forme, sia
per onestà dello sguardo erotico: “Per me, un dipinto deve
essere una cosa amabile, allegra e bella, sì, bella. Ci sono
già abbastanza cose noiose nella vita senza che ci si metta
a fabbricarne altre. So bene che è difficile far ammettere
che un dipinto possa appartenere alla grandissima pittura
pur rimanendo allegro. La gente che ride non viene mai
presa sul serio”8. I nudi di Capone, specialmente quelli più
apertamente sensuali, sono belli e allegri.
Sono curve sinuose che, evidentemente, conosce bene,
perché gli consentono di giungere a una sintesi del segno
che raramente raggiunge in altri ambiti. Sono in genere
opere monocrome, realizzate con tecniche che tendono
alla massima concentrazione espressiva. Il nudo del 1967,
come quello di trent’anni dopo, è realizzato tracciando con
sicurezza i contorni con un contagocce pieno di inchiostro
di china e ammorbidendone il segno con ombre provocanti
a colpi di spugna. La sanguigna del 1984 sfuma l’essenzialità
della linea direttamente con il polpastrello. Il nudo del 2003
è quasi un riassunto dei corpi visti, immaginati o toccati: un
segno sicuro come di chi tracci una strada ben nota. Ma in
questa sintesi sempre più accentuata, si insinua la malinconia di un desiderio ormai spento.
Gaetano Capone non è arrivato ad accettare la senilità.
Non sono riuscita a rintracciare la fonte originale della citazione,
comunque riportata in numerosi siti web e di sicura attribuzione al
pittore impressionista.
8
34
Nudo, 19??
Maternità, 2004
Forse a causa del netto contrasto con la gioventù libera respirata in costiera, ha vissuto il declino fisico con sofferenza
e depressione, lo sfumare della virilità come una perdita non
compensata. I nudi degli ultimi anni oscillano tra la sintesi
quasi astratta del tratto di pennarello e una sessualità smaccatamente esibita, senza il velo tenero dell’erotismo maturo. Il rapporto col corpo femminile come luogo del piacere
resta non risolto.
Ma c’è un altro filone creativo nel quale compare la nudità delle donne, e proprio a partire dal 2003: la morbidezza
della gravidanza, dove il ventre accoglie in altra forma la
vita, come esistenza che nasce. Esistono decine di variazioni su questo tema, presentate in mostra nelle cartelle di
disegni. Difficilmente diventano lavori di grande formato,
mantenendosi, anche nelle dimensioni, più vicine al dialogo
intimo e familiare che l’artista intrattiene con loro. Queste
madri non hanno volto, ma compaiono significativamente
pochi mesi prima della nascita del nipote. E il corpo come
casa, come abbraccio protettivo, vive negli ultimi anni nelle
gravide e nelle madri che stringono al seno i loro bambini.
Le forme erotiche di queste donne non sono più importanti:
non hanno viso e non hanno nemmeno un vero corpo. Sono
gesto e sentimento. È questa la riconciliazione possibile che,
in vecchiaia, Capone trova col corpo femminile.
Paesaggi interiori ed esteriori
Il paesaggio, soggetto classico della pittura di ogni luogo e
tempo, è per un artista un difficile banco di prova: ritrarre un
ambiente naturale o antropizzato significa restituirne l’anima, l’atmosfera. Ma significa anche proiettare su di esso il
proprio paesaggio interiore, il respiro vitale che solo lo spirito
35
dell’artista può infondere a vedute altrimenti prive di ogni
originalità rispetto a una fotografia o cartolina. Proprio per
questo, l’evoluzione della pittura di paesaggio in Gaetano
Capone ci consente di seguire il filo della sua ricerca artistica e del suo percorso umano: le molte opere presentate in
mostra testimoniano del suo andare tra orizzonti reali e orizzonti intimi in cinquant’anni di attività pittorica.
Non stupisce che nei quadri di paesaggio degli anni 60 si
ritrovino i panorami della sua costiera che, nel dialogo tra interiorità ed esteriorità, ben rappresentano una stagione felice e luminosa della vita. Troviamo infatti tecniche già viste
nelle nature morte o nei nudi – il monotipo, l’inchiostro – ma
con una gamma cromatica più chiara e luminosa, più pura.
Le case che si arrampicano sulle scogliere hanno muri bianchi di calce sottolineati dalle ombre nette che il sole alto vi
disegna; le cupole verdi e i tetti rossi, nel loro incontro complementare, sono esplosioni di colore; il cielo è azzurro crudo
e il sole, se compare, è una solida arancia infuocata; il mare
non si vede, ma se ne intuisce la presenza nel vento che rende limpida e tagliente la visione. Anche le opere monocrome – le linoleografie, i disegni – sono percorse da un fremito
di luce come una lastra fotografica sovraesposta, come si
guarda alle cose quando il sole è abbacinante e scolora gli
oggetti in un unico contrasto di bianco e di nero.
A questo gruppo di opere fa da contraltare il paesaggio industriale del 1966, diverso per soggetto e, anche, per trattamento artistico. È un notturno cupo, sporco, domintato
dall’imponente gru e dagli scheletri degli alti palazzi. I bagliori
giallo livido delle finestre acuiscono la cupezza della scena.
Forte, si sente la denuncia del territorio stuprato, incenerito
dalla speculazione. A ben vedere, quest’opera si può accostare a quelle contemporanee che hanno per protagonisti i
36
Paesaggio, 19??
Paesaggio umbro, 2003
perdenti: disoccupati, vecchi, lavoratori. Non resterà isolata:
come vedremo più avanti, i paesaggi industriali torneranno
nella pittura di Capone nei decenni successivi.
Anche la costiera non sparisce quando Capone la lascia.
Come testimoniano i lavori presentati in mostra e risalenti
agli anni ottanta e novanta, le case bianche stagliate sui
cieli puri compaiono a tratti. Sono diventati, però, paesaggi
della memoria e del rimpianto: nella semplificazione estrema degli elementi stilistici si percepisce la stereotipia del ricordo. “Alla distanza – ha scritto Spera – la vita di allora si è
come sostanziata di prorompente tenerezza, di un amore
colorato e forte e addolorato”9.
Ma negli anni novanta si fa strada negli occhi e nel pensiero di Capone un’altra forma: il paesaggio urbano, la città.
Che, spesso e volentieri, non ha colore. Risalgono a questo
periodo, infatti, i numerosi disegni a tratteggio costruiti su
una sovrapposizione di piani che sfuma all’orizzonte. Nelle
linee che si intrecciano ad angoli precisi, nello spazio che
non si lascia mai ridurre al bianco puro, è presente una costrizione, una compattezza da muri di prigione. Non è solo
questione di orizzonte esteriore: non è tanto Roma, la città
in cui Capone vive. È piuttosto il suo paesaggio interiore che
cambia: la maturità e la senilità sono, come già detto, una
condizione di intima sofferenza.
E infatti questa nuova cifra stilistica si mantiene intatta anche dopo il trasferimento in Umbria, in un paesaggio agreste
che potrebbe meritare altre dolcezze. È vero, torna il colore,
spesso in gamme brune di terra o accese di cromatismi non
naturalistici. I tratteggi diventano campiture piatte che riempiono sagome riconoscibili: pievi, colline, cipressi. Anche qui
la luce non ha un suo spazio. Tutto è pieno, senza spiragli.
9
Dario Spera, Alla libreria Signorelli il Sud di Gaetano Capone, cit.
37
Sembra quasi di sentire i versi dell’amatissimo Montale:
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto10.
È il vuoto dietro, il vuoto dentro che Capone sembra ritrarre
in questi paesaggi di campi e, anche, negli squarci urbani
e cittadini che realizza negli stessi anni. E ai quali, comunque, riconosce un valore elevato poiché nel 2000 realizza
una delle pochissime esposizioni dopo gli anni settanta con
questi lavori, intitolandola Le città del sogno. E, ancor più
significativamente, usa i piccoli disegni in bianco e nero per
illustrare un volumetto di poesie che regalerà agli amici in
occasione dei 70 anni. Si tratta di componimenti secchi e
brevi, soffusi di cupezza:
se sogni il tuo vissuto
allora è tardi
Sogno o incubo, questi paesaggi rappresentano meglio di
qualunque altro lavoro l’ultima stagione umana di Capone
e il suo difficile rapporto con l’interiorità che si riflette nella
chiusura ermetica dell’esteriorità.
Copertina del libretto
per i 70 anni, 2003
10
E. Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1998, p.42.
38
Contaminazioni
Mare, 1999
La scelta di affrontare l’opera di Capone seguendo un approccio tematico, pur con i suoi indubbi vantaggi, ha il difetto di lasciare in margine tutti quei lavori che, più episodici,
non hanno trovato qui una collocazione precisa. In altri termini, accanto ai filoni creativi che abbiamo individuato ed
esaminato, convive una ricerca che, pur non arrivando ad
avere una propria autonomia in lavori di grandi dimensioni,
si materializza in innumerevoli schizzi e disegni e prove, che
abbiamo comunque voluto rendere fruibili nella mostra. Di
questa produzione collaterale vogliamo qui dare qualche
accenno.
Una premessa importante riguarda la relazione tra il lavoro creativo e quello professionale, di grafico. L’esercizio del
mestiere ha infatti portato una fertile contaminazione nella
produzione artistica coeva, consentendo a Capone di sperimentare tecniche e supporti nuovi, ma anche di trovare
una nuova sintesi e pulizia del segno e della composizione.
Eppure, il grosso dei disegni che qui presentiamo risale agli
anni novanta e all’inizio del nuovo secolo, quindi a un momento successivo alla pensione: periodo di grande creatività che sembra convogliare in sé le energie prima impegnate nell’attività professionale.
Agli anni novanta risalgono i “bestiari”: fogli che si compongono di uno o più animali fantastici disegnati da sottili tratti
concentrici a china. È questa una produzione giocosa e felice, che si declina in più forme: dalle tavole di un presunto
bestiario medievale, con tanto di “nome scientifico” e descrizione degli animali, ai disegni color oro e argento su carta colorata. Prevale, quasi subito, una vasta fauna marina di
pesci, crostacei, molluschi. Una fauna che prolifera per anni
39
riducendosi a volte a puro segno decorativo ma rimanendo
più spesso ancorata a forme biologiche e vitali.
Il segno dunque si libera dal suo immediato significato e si
carica di valori nuovi, come succede anche nella curiosa
serie di “alfabeti” dello stesso periodo. Il grafico editoriale
che per anni ha selezionato caratteri e composto le pagine,
torna alle lettere come puro segno grafico e le compone in
colorati alfabeti. Non c’è nessuna volontà di significare ma,
quasi, una dichiarazione d’amore: le lettere sono belle, armoniose in sé, anche quando non hanno voglia di parlare.
Questa maggior serenità che si respira negli schizzi e abbozzi
è propria anche della serie delle “danze”, quasi tutta realizzata nel 2005, dove per la prima volta compaiono anche
nudi maschili. Siamo in quella fase in cui il corpo si è liberato
dal suo carico erotico e vive solo come sagoma in movimento. A queste forme tracciate a sanguigna si sovrappone spesso un testo scritto con la sottile e criptica calligrafia
di Capone: anche in questo caso, il testo non è significativo
per il suo senso verbale, ma è utilizzato come mero elemento grafico e come contrappunto cromatico e stilistico alla
morbidezza del segno danzante.
Capone sembra dirci, attraverso questi lavori più leggeri e
disincantati, che le parole, che pure ha amato tanto, possono e devono lasciare spazio a volte al non senso, al gioco,
alla musica.
E chissà, forse pure al silenzio.
Alfabeto, 1999
Danza, 2005
40
Catalogo delle opere
Barche,
olio, 1960 circa
42
Natura morta
olio, 1962
43
Paesaggio, acquarello, 1965 circa
44
Paesaggio industriale,
inchiostro e acquarello, 1966
45
Cunegonda,
inchiostro di china, 1967
46
Atrani, linoleografia, 1968
Furore, linoleografia, 1968
47
(dall’alto a sinistra)
Uomo, Donna,
Donne del Sud,
linoleografie,1968
48
Positano, monotipo, 1968
Chiesa mediterranea,
monotipo, 1969
49
Natura morta,
monotipo, 1969
50
Barca, monotipo, 1970
51
Il disoccupato, olio,1970
(nella pagina a fianco)
Maternità contadina
olio, 1971
52
53
Paesaggio,
pennarello, 1977
54
Ieri..., monotipo, 1979
55
(da sinistra) Paesaggio, olio, 1979
Paesaggio, inchiostro di china,1979
56
Natura morta,
olio, 1981
Natura morta, olio, 1981
57
Nudo, sanguigna, 1984
58
Due uomini, sanguigna, 1985
Tetti, pennarello, 1985 circa
59
Nudo,
inchiostro di china, 1988
60
Notturno, olio, 1991
61
Donna di Sarajevo,
inchiostro ed ecoline, 1995
Nudo, inchiostro di china, 1997
62
Paesaggio industriale, tempera, 1996
63
Maiori, olio, 1997
64
Pieve umbra, tempera, 2001
Nudo, pennarello, 2003
65
La tunisina,
sanguigne, 2010
66
Gaetano Capone (1933-2011)
Gaetano Capone nasce a Maiori in una famiglia di artisti:
tra i suoi avi si annovera l’omonimo Gaetano Capone, caposcuola dei pittori “costaioli” che, nella seconda metà
dell’800, costruirono un’identità artistica peculiare per la
pittura di paesaggio e di genere, molto ricercata dagli intellettuali europei. Il percorso di Gaetano Capone affonda
quindi le radici in una famiglia e in un territorio che, nonostante l’apparente decentramento, mantengono una viva
tradizione artistica. La Costiera Amalfitana è infatti negli anni
sessanta meta di numerosi artisti e intellettuali di tutto il mondo. Nel 1968 il pittore si trasferisce a Roma dove inizia una
carriera da grafico pubblicitario prima ed editoriale poi.
Espone i suoi lavori e continua a portare avanti una personale ricerca artistica nella quale restano sempre presenti le
radici territoriali nella Costiera Amalfitana. Dal 1998 si sposta
in Umbria dove maturerà nuovi linguaggi visivi.
La mostra è stata realizzata
con il patrocinio del Comune di Maiori Assessorato alla Cultura
e del Centro di Cultura e Storia Amalfitana
e in collaborazione con
l’Associazione culturale La Feluca
Palazzo MezzaCapo, Maiori
ASSOCIAZIONE CULTURALE
“LA FELUCA”
Scarica

scarica il pdf