Cultura 31
Corriere della Sera Domenica 23 Gennaio 2011
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Gli incontri
Non so esattamente ciò che sto cercando, qualcosa che non è stato ancora suonato. Non
so che cos’è. So che lo sentirò nel momento in cui me ne impossesserò (John Coltrane)
Rosso e blu
A casa di
GIANLUCA
PETRELLA
A sinistra: Gianluca Petrella
suona dal balcone della casa
che si affaccia su Torino.
Qui sotto e in basso: due scorci
della casa che ha dipinto di blu
e rosso per i figli gemelli
con gli strumenti musicali
e i cd, un suo ritratto
e il manifesto dell’amato film
«Il cielo sopra Berlino»
di Wim Wenders
(Servizio fotografico
di Fabio Ferrari / LaPresse)
Aria da rapper e anima
blues: a 35 anni è un talento
eletto per due volte di seguito
miglior trombonista
emergente nel mondo
Iljazzèmusicainfuga,ioloinseguo
G
ianluca aveva 11 anni quando cominciò a suonare il
trombone nelle processioni di paese. «Il capobanda
faceva il palo sul portone,
le donne strillavano, si
strappavano i capelli e
quando usciva il morto ci
mettevamo a suonare;
Rassegnazione, Angoscia,
Quante lacrime erano tra le più gettonate ma la
marcia che andava più forte in assoluto era Jone
di Errico Petrella, compositore siciliano dell’Ottocento».
Quel Sud barocco e assolato è da qualche parte
lontano nell’appartamento battuto dal vento all’ottavo piano di un palazzone di mattoni a Torino
Nord, con le Alpi e la collina di Superga che nelle
giornate limpide irrompono dalle finestre. C’è il
silenzio delle vette e il mormorio della città nella
casa di questo 35enne con l’aria da rapper e l’anima blues, riconosciuto come uno dei talenti più
duttili e potenti del jazz italiano, incoronato nel
2006 e nel 2007 dal Critics Poll della rivista americana «DownBeat» miglior trombonista emergente del mondo. Barese, ultimo di tre fratelli musicisti, Gianluca Petrella (con Errico nessuna parentela) ha vissuto in Germania, in Francia, tornato in
Italia ha trascorso un periodo a Bologna e infine
ha scelto Torino, la città industriale e magica «senza strettoie né zigzag, dov’è passato Nostradamus
ed è impazzito Nietzsche, un posto di simboli e
misteri».
Lo stereo sputa un pezzo degli anni Venti, Dark Was the Night di Blind Willie Johnson. Le
pareti rosse e azzurre, «le ho
colorate per i miei figli», Amanda e Moreno gemellini di quattro anni, «non hanno ancora
deciso cosa suoneranno da
grandi» e fanno capolino dal
MacBook Pro sempre acceso.
«Da piccolo non avevo molti interessi, neanche il trombone
mi entusiasmava, lo suonava
mio padre e non capivo la "missione", a dieci anni
è più naturale avvicinarsi al pianoforte o al violino, al flauto traverso, magari al canto. Dopo la terza media andai al conservatorio dove l’impostazione era molto seria, dovevo stare attento alla postura, alla tecnica; per fortuna avevo un gruppo di
amici che la sera si riuniva per suonare e questo
per un ragazzino è importante, sottrae all’obbligo,
apre un mondo parallelo. Finito il conservatorio,
cominciai a studiare soffermandomi sulle cose, a
lasciarmi catturare». Incontri e illuminazioni, gli
azzardi che hanno fatto il jazz — John Coltrane
che si sblocca dopo l’ingresso nella band di Thelonius Monk, il trombettista Howard McGhee che
ripesca Charlie Parker ridotto a vivere in un’autorimessa e lo aiuta a suonare Lover Man in un’incisione drammatica destinata a diventare leggenda,
Fats Waller che ripaga Fletcher Henderson di nove hamburger con altrettanti pezzi compresi Hot
Mustard e Henderson Stomp... «Fu come un risveglio, i consigli degli amici e le storie di grandi musicisti, dal trombonista J.J. Johnson al sassofonista
Ascolto hip hop e Debussy. Ma non il pop, perché compiace e appiattisce i gusti
Un brano può nascere anche dal suono di una matita, che si trasforma in melodia
di MARIA SERENA NATALE
Allori
Classe 1975, studi al
Conservatorio
di Bari, Gianluca
Petrella vince nel
2001 il referendum
Top Jazz della rivista
«Musica Jazz» come
miglior nuovo talento
nazionale; nel 2006
e nel 2007, primo
italiano nella storia,
vince il «Critics Poll»
dell’americana
«DownBeat» nella
categoria artisti
emergenti. Collabora
tra gli altri con
Roberto Ottaviano,
Enrico Rava, Roberto
Gatto, Paolo Fresu,
Carla Bley, Pat
Metheny, la Sun Ra
Arkestra. Suona in
più formazioni: Indigo
4, Domino Quartet,
il duo con Antonello
Salis, la Brass Bang!
di soli fiati, Tubolibre
e la Cosmic Band
che nel 2009 trionfa
ancora nel Top Jazz
come migliore
formazione
dell’anno. Sopra,
Gianluca con Ornette
Coleman (foto
Andrea Boccalini)
Ornette Coleman, film come Il cielo sopra Berlino,
una città, una parola, un libro, improvvisamente
ogni esperienza mi dava energia, le idee si inanellavano e nascevano progetti».
In un angolo del soggiorno giocattoli e scarpine, il trombone, un libretto sul futurismo e il catalogo di una mostra dedicata a Majakovskij, un vago senso di rottura nella cucina con le stoviglie e i
piatti da lavare. Mette su Cypress Grove di Skip James «che nel ’31 registrò una session lunghissima
per pochi dollari alla Paramount, se ne tornò a casa
e non fece altro finché nel 1961 lo chiamarono al Festival di Newport». Petrella ha ripreso quella voce
nel suo ultimo lavoro, Slaves (Schiavi), «uno dei pochi dischi ben mirati su qualcosa di preciso, il
blues», che esita metallico e dilaga disperato tra le
smagliature della melodia, negli spazi vuoti della casa; intorno pochi oggetti, «ho bisogno di respiro;
al contrario, nel mio studio all’Hiroshima Mon
Amour, il club poco lontano da qui che ospita la
mitica Radio Flash, c’è di tutto, campionatori, multieffetti, computer, strumenti recuperati nei mercatini o ipersofisticati, quello che faccio ha un’elaborazione molto lunga e complicata». Nasce da
contaminazioni continue, dalla manipolazione ossessiva dello sperimentatore che spezza strutture
e disarticola frasi musicali, un po’ come i futuristi
facevano esplodere forma e logica per inseguire
l’essenza dinamica del Novecento in fuga.
«Prendere ispirazione significa attualizzare il passato attraverso i suoni che mi circondano e cercare
qualcosa di completamente nuovo», quell’istante
della vita che diventa poesia e che, nel regno dell’improvvisazione dove ideazione e realizzazione si fondono, è tutto. «Il jazz ha bisogno di evolvere, sempre, non lo puoi fermare. Da ascoltatore, mi piace
recuperare le vecchie registrazioni dal suono sporco
per capire cosa faceva Parker quando la notte nei
club trasformava i pezzi delle orchestre da ballo aggiungendo assoli e innervosendo i ritmi, da musicista però non ho motivo di riproporre cose già pensate con la qualità sonora di oggi, sarebbe falso, roba
da sala ricevimenti. Nella composizione un’idea può
nascere dal semplice suono della matita sul pentagramma che si trasforma in una linea melodica da
seguire e sviluppare. Tutto diventa musica. Improvvisare, per uno che non ha proprio un’occupazione
fissa, è ancora di più, un modo di respirare, il tuo
modo di stare al mondo e sopravvivere».
Si esibisce nei grandi club come il Birdland e il
Blue Note di New York, il Sunset e il Sunside a Parigi
«ma il mio preferito è il Bimhuis di Amsterdam, costruito come un anfiteatro romano sul Grand Canal
con le gradinate e in basso l’orchestra sovrastata da
una vetrata gigantesca. La cosa più bella in uno spettacolo è il contatto con il pubblico che ti carica, anche se non dormo da giorni in quei momenti trovo
sempre la concentrazione». Suona in più formazio-
ni, come il quartetto Tubolibre di Slaves e la Cosmic
Band a dieci elementi nella quale ha trovato il suo
mix di rock, free ed elettronica e che non a caso ha
per nume tutelare quel pazzo di Sun Ra, il santone
dell’avanguardia nera che si proclamava figlio delle
stelle e concepiva la musica come un viaggio cosmico tra futuro remoto e ritmo ancestrale. Anarchico
per vocazione, è affascinato dalla rivoluzione libertaria degli anni Sessanta e Settanta «quando c’era quel
filo tra musica e politica...», dal free jazz di Dolphy e
Coleman «il dio che in un’epoca dominata dal be
bop stravolse un’idea di jazz molto compatta e definita» ma anche dal jazz rock di Weather Report e
Soft Machine o «dal Miles Davis che dall’album Bitches Brew osò la svolta elettronica spostandosi nei
territori dove si muovevano i grandi alla Hendrix e
scandalizzò i puristi nostalgici degli anni Cinquanta,
spinto dalla fame di successo» che non è una colpa,
quando poggia sulla benedizione del talento.
Gianluca ascolta hip hop e Debussy, detesta «il
pop che non sfida ma compiace e appiattisce i gusti
dei giovani», è scettico su «certi meccanismi da star
system che stanno prendendo piede anche nel mondo della musica alternativa». Legge Dostoevskij, Bulgakov, Tolstoj («grande la fiaba Ivan lo scemo»), storie di infelicità raggelata come Bambino 44 ambientato da Tom Rob Smith nell’Urss del 1953; ama ancora di più gli americani, l’Eddie Bunker di Educazione
di una canaglia e Cane mangia cane, il Cormack McCarthy di Non è un paese per vecchi («il romanzo
molto meglio del film, i fratelli Coen sono troppo
precisini»). Di McCarthy soprattutto, stropicciato su
una mensola nel tinello, La strada, «The Road —
carica il titolo in inglese — l’ho divorato in due giorni». Un dolore feroce e senza anestesia che fa pensare all’origine, ai lamenti e al grido dei calls e cries
dai quali più di cent’anni fa è nato il jazz, storie di
seminterrati e violenza, prigionia tra pareti scrostate e ancora catene. «Tutto sta nell’avvio — dice prima di rimettersi a suonare — lo strumento è una
macchina, basta anche poco fiato ma devi fare attenzione al colpo di partenza, poi sostieni».
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Cominciai a suonare a 11
anni nelle processioni di
paese: le donne strillavano
e si strappavano i capelli
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Leggo Dostoevskij,
amo Eddie Bunker e
«La strada» di McCarthy:
più il romanzo del film
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più il romanzo del film