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Anno XLII
RICERCHE STORICHE
Direttore
Ettore Borghi
N. 109 aprile 2010
Rivista semestrale di Istoreco
(Istituto per la storia della Resisistenza
e della Società contemporanea in
provincia di Reggio Emilia)
Direttore Responsabile
Carlo Pellacani
Coordinatore di redazione ed editing
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Alcide Cervi con la famiglia Gabrielli
(si veda il saggio di Serena Cantoni nel
presente volume).
Foto sfondo sezioni:
Castel Ibarra (Guadalajara, marzo
1937) dopo l'assalto che aveva visto
il battagliane «Garibaldi» sconfiggere
le truppe fasciste italiane che vi
erano asseragliate. (in A. Zambonelli,
Reggiani in difesa della repubblica
spagnola. 1936-1939, Tecnostampa
1974)
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ISTORECO
Istituto per la Storia della Resistenza
Registrazone presso il tribunale di Reggio Emilia
n. 220 in data 18 marzo 1967
Con il contributo della Fondazione Pietro Manodori
Indice
Ricerche
Serena Cantoni, «Concueste poche righe», due famiglie reggiane migranti tra
Castelnovo Sotto e l’Argentina, seconda parte
Luca Fantini, Dalla parte di Francisco Franco. «Volontari» reggiani nella guerra
civile spagnola
5
52
Memorie e testimonianze
Gianfranco Romani, Il timbro tedesco. Quando Cesare Campioli sfuggì alla
cattura
127
Giulio Campagnano, Una traversata sciistica. Un ebreo in fuga dai nazisti
142
Francesco Paolella (a cura di), Il «San Lazzaro» e il movimento antimanicomiale
italiano. L’esperienza reggiana. Intervista a Christian De Vito
149
Didattica
Beatrice Borghi, Rolando Dondarini, Insegnare storia con efficacia e qualità
rinnovate in tempi di crisi e di involuzione del sistema scolastico
159
Luigi Guerra, Educazione al patrimonio e alla cittadinanza nella formazione del
docente di storia
167
Lorenzo Capitani, Tiziana Fontanesi, Paola Montanari, Brunetta Partesotti,
Progetto in rete. La costituzione della cittadinanza. Liceo scientifico statale «A.
Moro», Liceo classico-scientifico «L. Ariosto-L. Spallanzani», Istituto Statale d’Arte
«G. Chierici» con il patrocinio del Comune di Reggio Emilia
174
Note e rassegne
Michele Bellelli, La X flottiglia
181
MAS.
Alcune brevi note
Carlo Pellacani, Classificare, pensare, escludere. Un importante seminario di
formazione per docenti.
– Arte e design nel mondo diviso. (A margine di una mostra al MART di Rovereto)
187
188
Recensioni
190
3
Ricerche
«Concueste poche righe»
Due famiglie reggiane migranti tra
Castelnovo Sotto e l’Argentina
seconda parte*
Serena Cantoni
3
Al maschile…
1 Questioni di genere nella scrittura
«Noi siamo nella scrittura e la scrittura è in noi»1, in accordo con gli studi
di antropologia della scrittura, le gerarchie, le differenze sociali e i ruoli di
genere si riversano anche nei testi epistolari. Parlare di «scritture sessuate»2 non
è un eufemismo, le scelte tematiche differenziano categoricamente le lettere
in: maschili e femminili. Si tratta di due «modalità di lettura del reale»3 che
attraversano le generazioni senza prevaricarsi, solo a volte, le trasformazioni
sociopolitiche possono favorirne un parziale mescolamento. In linea generale
l’armonia tra uomini e donne scriventi è basata su questo equilibrio che vieta
*
La prima parte è stata pubblicata sul n. 108/2009.
Nota alla trascrizione dei testi. Abbiamo ritenuto importante, nella trascrizione degli epistolari,
delle interviste e nelle citazioni, riportare esattamente tutte le espressioni e le forme grafiche
(accenti, apostrofi, punteggiatura, maiuscole…) impiegate dagli scriventi sia in italiano che in
spagnolo. La decisione è stata presa in base alla volontà di preservare il carattere specifico degli
scritti e delle parole dei nostri protagonisti senza appiattirli sulla norma grammaticale, anche
laddove il senso poteva risultare oscuro. I chiarimenti per le trascrizioni e le citazioni sono
stati posti nelle note a piè di pagina come anche i dati di catalogazione delle lettere. Le lacune
presenti nei testi sono state rese con i puntini di sospensione.
1
FABRE, Introduzione. Nove terreni di scrittura, cit., p. 14.
2
LAHIRE, Identità sessuali alla prova della scrittura, cit., p. 151.
3
A. CANOVI, M. FINCARDI, M. MIETTO, M. G. RUGGERINI, Memoria e parola: le «piccole Russie», «Rivista
di storia contemporanea», estratto dal n° 3, 1994-95, Loescher, Torino, pp. 385-404: 393.
5
l’approccio all’ambito tematico di cui non si ha la competenza socialmente
prestabilita, lasciando così al soggetto una possibilità di autoaffermazione
preconfezionata.
Da una parte, i temi dell’epistolografia maschile sono legati allo spazio
pubblico4, quella dimensione esterna, che per i nostri scriventi si riassume
in tre ambiti: politica, economia e società. Dall’altra, le lettere delle donne
si articolano principalmente nell’ambito domestico5, questo confine è stato
parzialmente superato, a partire dagli anni Settanta e Ottanta del Novecento,
con l’acquisizione di un ruolo pubblico femminile che ha introdotto nei suoi
carteggi l’osservazione e l’analisi dei contesti sociopolitici6.
La storia sociale è depositaria delle cause di questa distinzione di ambiti che
si riflette anche nella letteratura popolare.
1.1 Storia della scrittura «maschile»
In Europa gli uomini erano stati alfabetizzati più precocemente e in
maggior numero rispetto alle donne, per molti secoli «sapere di lettera» era
stato un attributo che aveva distinto la figura maschile da quella femminile
decretandone la superiorità, infatti, una minima alfabetizzazione dava una
parziale autonomia burocratico-amministrativa anche ai soggetti di estrazione
popolare, favorendone l’integrazione sociale. Non è un caso che i più antichi
documenti di scrittura popolare maschile (XI e XII secolo) siano quasi
esclusivamente legati a un’utilità materiale: libri di conti, ricevute ecc7.
Col passare del tempo la scrittura, attività propria della classe borghese,
si fece sempre più incisiva negli ambiti: ufficiale, professionale e pubblico8,
mentre per la società rurale si confermava un’azione rara, legata all’eventuale
espletamento di pratiche burocratiche.
A partire dal XVIII secolo il capitalismo imperante aveva indotto gli uomini
ad allontanarsi dagli spazi locali per proiettarsi sui mercati mondiali. Questo
portò, sempre in ambito borghese, alla diffusione della scolarizzazione
femminile, passata da una dimensione incentrata esclusivamente sulla lettura,
all’insegnamento della scrittura per necessità pratiche che dessero alle donne
gli strumenti per sopperire all’assenza degli uomini. Da un lato, il regno «della
scrittura maschile» si destabilizzò in seguito alle nuove modalità di relazione
pubblica, per avvicinarsi sempre di più ad una dimensione esclusivamente
orale, dall’altro, la scrittura femminile si fece sempre più forte in ambito
domestico e privato.
4
LAHIRE, Identità sessuali alla prova della scrittura, cit., p. 152.
Ibidem.
6
Vedi C. ROMEO, Narrative tra due sponde, Carocci, Roma 2005, pp. 38-40.
7
Vedi BARTOLI LANGELI, La scrittura dell’italiano, cit.
8
LAHIRE, Identità sessuali alla prova della scrittura, cit., p. 152.
5
6
Tra XIX e XX secolo, le grandi emigrazioni e le guerre mondiali, con lo
sconvolgimento del preesistente assetto socioeconomico, destabilizzarono
psichicamente i soggetti maschili che ne furono protagonisti, facendo crollare il
mito della superiorità patriarcale capitalista. Questo sconvolgimento riavvicinò
gli uomini alla scrittura, soprattutto nella sua forma epistolare.
1.2 Crisi patriarcale italiana
Nell’Italia del XIX secolo la crisi agraria fu sia l’elemento destabilizzatore
dell’identità maschile che il principale motore dei movimenti migratori. Di
questa crisi furono «vittime» tutti gli esponenti della società rurale: i contadini,
gli artigiani e i medio borghesi9.
La rottura dei vecchi ordini sociali fu acuita dalla crisi, che con l’aumento
demografico, l’inasprimento delle condizioni di vita, l’imposizione della
«tassa sul macinato» e la costruzione dei primi inurbamenti, aveva favorito
tra i lavoratori la diffusione dei gruppi sindacali bracciantili e operai. Il
maggior numero di queste associazioni si trovava in Val Padana ove «un
esteso bracciantato si era andato formando nelle aziende capitalistiche di
pianura, soprattutto nelle regioni padane, e rivendicava nuovi diritti, migliori
condizioni di lavoro, più elevati salari di fronte al vecchio padronato agrario»10.
Nell’inchiesta Jacini si riportava che uomini e donne delle regioni padane si
mostravano attivi e combattivi dal punto di vista politico, lottavano contro
l’impoverimento causato dall’allargamento dei rapporti commerciali al
mercato agricolo americano con l’importazione di grandi quantità di grano
a prezzi molto più bassi di quelli italiani11. Questo non significava che prima
dell’espansione delle rotte commerciali la società rurale fosse immobile, vi era
sempre stato un movimento di merci e lavoratori sia uomini che donne data
la stagionalità del settore.
Vista la grande produzione americana e il contesto di urgenza economica in
cui si trovava l’Italia, molti scelsero la propagandata emigrazione transoceanica
come possibilità di riscatto per se stessi e le proprie famiglie. Nonostante
gli studi etnografici attestino una doppia partecipazione, di uomini e donne,
alle ondate migratorie di massa, lo status maschile era imperante: «Tra i
movimenti migratori … che il nuovo contesto economico internazionale aveva
contribuito a sviluppare, quelli collegati all’industria delle costruzioni erano
particolarmente rilevanti. Vi prendevano parte esclusivamente gli uomini. Le
donne non emigravano; restavano a casa ad occuparsi di una terra avara, che
9
Vedi M. PALAZZI, Donne sole, storia dell’altra faccia dell’Italia tra antico regime e società
contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 362-364.
10
BEVILACQUA, Società rurale e emigrazione, in Storia dell’emigrazione Italiana, vol. I, cit., pp.
95-112: 104-105.
11
Ivi, pp. 106-107.
7
richiedeva un lavoro durissimo e dava magri frutti destinati all’autoconsumo
della famiglia»12.
Così mentre gli uomini, vittime della propaganda capitalista, erano stati
illusoriamente proiettati verso il mondo dell’imprenditorialità americana,
sentendosi ancora più rafforzati nella loro mascolinità e intraprendenza, le
donne erano state costrette a mantenere il contatto con la realtà quotidiana:
«Dover badare alla coltivazione e al raccolto, … gestire rapporti di lavoro con
terzi, … acquistare attrezzi, pagare debiti, smerciare prodotti»13 tutto questo
comportò un generale mutamento di mentalità e cultura.
Inizialmente gli uomini accettarono questo cambiamento di ruoli, in quanto
idealizzavano l’esperienza migratoria come un evento di breve durata14, legato
esclusivamente al guadagno economico. In realtà, l’avvento delle due guerre
mondiali rese, in molti casi, definitiva la scelta migratoria.
L’impossibile rientro e le difficoltà organizzative e lavorative incontrate
nelle Americhe, acuirono negli emigrati il senso di sradicamento e di nullità
già incontrato prima con la crisi economica italiana e poi durante la traversata
oceanica. In breve tempo molti di loro realizzarono l’inesistenza del mito di
forza e intraprendenza maschile fomentato dal capitalismo15.
Spinti dalla frustrazione e dall’insoddisfazione16, gli uomini ritrovarono
nella scrittura epistolare l’unico mezzo che permettesse loro di appagarsi17
riallacciando i legami affettivi rotti con la distanza, nella speranza di ricostruire
la propria identità perduta.
Essendosi riavvicinati alla «scrittura privata», ambito che, come si è visto,
era divenuto prevalentemente femminile, gli uomini si canalizzarono nella
narrazione di quegli aspetti che da sempre avevano distinto il mondo maschile.
Facendosi narratori o cercatori del senso del vivere, grazie alla scrittura
epistolare giunsero a riconoscersi, ancora una volta, autori delle proprie vite18.
1.3 Identità deboli nei carteggi castelnovesi
La dominanza di lettere maschili nei carteggi dei Bartoli e dei Gabrielli
riconferma le sopracitate cause della necessità dell’uomo di recuperare la
scrittura epistolare: il bisogno di mostrare l’integrazione nel contesto argentino
12
RAMELLA, Reti sociali, famiglie e strategie migratorie, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. I,
cit., pp. 143-160: 145.
13
Ivi, p. 111.
14
Vedi PALAZZI, Donne sole, cit., p. 374.
15
Vedi FRANZINA, Merica! Merica!, cit., e PALAZZI, Donne sole, cit., p. 378.
16
Vedi ROMEO, Narrative tra due sponde, cit., pp. 152-153.
17
Vedi S. FERRARI, Scrittura come riparazione: l’esempio di Proust, Mucchi Editore, Modena 1986, p. 8.
18
Vedi C. CAPELLO, Il Sé e l’Altro nella scrittura autobiografica, contributi per una formazione
all’ascolto: diari, epistolari, autobiografie, Bollati Boringhieri, Torino p. 73 e ROMEO, Narrative
tra due sponde, cit., p. 155.
8
e le nuove competenze acquisite, dipendevano dal desiderio di riscattare la
propria immagine indebolita dalla scelta migratoria19.
I fratelli Bartoli decisero di partire nel pieno della crisi agraria che aveva
colpito anche le campagne castelnovesi. Al motivo economico si aggiungeva
la necessità di riscatto sociale, infatti, per godere dello status maschile, agli
inizi del XX secolo, mancavano di due elementi fondamentali: la famiglia e
la terra. La loro esperienza migratoria fu una rottura positiva con il passato,
ne migliorò le condizioni economiche realizzandone le aspettative. Dopo un
breve rientro in patria, la decisione, imposta per motivi politici, di ristabilirsi
definitivamente in Argentina fu determinante per l’avvio di un rapporto
epistolare con un fratello rimasto a Cogruzzo. L’intento dei Bartoli emigrati
era quello di raccontare sia i progressi economici, dimostrando il proprio
successo come capofamiglia secondo la tradizione patriarcale emiliana, che le
evoluzioni del contesto politico sociale argentino.
Quest’attenzione per l’aspetto sociopolitico risulta ancora più evidente nelle
lettere dei fratelli Gabrielli in seguito alla loro partecipazione alla seconda
guerra mondiale. Enzo ed Eber, maggiori, si erano arruolati nell’esercito per
necessità economiche, Eugenio, essendo più giovane e di forti ideali socialisti,
ebbe un ruolo attivo nel movimento reggiano della Resistenza. Terminata la
guerra, Enzo scelse di emigrare in seguito ad una sofferenza psichica per i
traumi vissuti. Sentendosi indebolito, ripose, come tanti, nel sogno americano
la speranza di poter ricostruire la propria identità e riaffermarsi con un nuovo
ruolo sociale.
La sua produzione epistolare, tutta incentrata sui «temi da uomini» e
principalmente indirizzata a parenti ed amici maschi (nei preludi il nome delle
donne compare in seconda posizione: «Caro Eugenio e Vittoria»)20, concretizza
sia il suo desiderio di aprirsi uno spazio da fantasma kafkiano21 nella famiglia
e nel paese castelnovesi, di cui sente molta nostalgia, sia la necessità di sentirsi
un cittadino attivo e riconosciuto anche in Pergamino.
Una lettera interessante in cui Enzo scrisse una modesta autocelebrazione,
sostenuta dai duri ricordi del passato, è quella che inviò ad una studiosa da
cui era stato contattato per una ricerca storica:
nemmeno lontanamente pensavo di essere stato artefice di una cosi lunga storia
…, la mia vita e cominciata a 33 anni qui in Argentina, cominciai a lavorare che
avevo 8 anni con mio padre dato che ero il magiore dei fratelli e stato un po
troppo rigido, ma che sempre ho apresato. Cosi che fin da piccolo cominciai
acomulare esperienze a beneficio della famiglia, e dopo con tutto il resto per me
19
Ivi, p. 151.
Lettera di Enzo Gabrielli, 20 gennaio, 1984, carteggio Gabrielli.
21
Vedi FERRARI, Scrittura come riparazione: l’esempio di Proust, cit., p. 17 e anche ALESSANDRONE
PERONA, L’epistolario come forma di autobiografia: un percorso nel carteggio di Piero Gobetti in
«Dolce dono graditissimo», cit., p. 18.
20
9
non ce nulla che no si possa fare, dopo con l’aiuto di mia signora abiamo messo
a parte qul pasato cosi nel camino a seguire con il mio prefisso nel bene si e
formata la mia famiglia, e la pura verita nel tuo dire che sono cicatrici che non si
chiudono mai … e stato il mio destino e di fronte a qualsiasi cosa cè sempre la
rasegnasione, qualche cosa di me di quel teribile pasato ne ha saputo mio fratello
Eber, Eugenio no, molto poco …, in settembre ho ricevuto dal sindaco Dallaglio
di castelnovo sotto quel che fu mio 1° paese natio, il che non si dimentica, tre libri
… “castelnovo fra 2 guerre” sono stati mandati dal municipio a tutti i castelnovesi
sparsi nel mondo, è stato per me un riconoscimento generoso … il dopo guerra e
stato per me un poco triste, lasiai 25 anni di lavoro in italia, e qui cominciai con le
mani in mano, perdona il tono confidenziale …22.
Non fu una reazione immotivata. Inconsciamente Enzo sfruttò l’occasione
offertagli per enfatizzare il suo percorso argentino di rinascita e ricostruzione
identitaria, rivalutandosi nel suo ruolo di uomo, ancora una volta, artefice di
sé, della propria famiglia, del proprio successo e del proprio destino. Pare che
«lo scrivere» questa lettera fosse per lui quasi come una seduta terapeutica,
infatti individuava, tra le righe, le cause del suo disagio, legato ad uno stato
di insoddisfazione, che cercò di risolvere emigrando. Durante la narrazione
si fa sempre più consapevole della sua reazione allo spaesamento iniziale, e
quando scrive: «con le mani in mano» si riferisce a quella nuova forza interiore
che l’aveva portato a ricostruirsi da solo. L’esperienza di guerra, l’attivismo
sociale tra Italia ed Argentina e l’attenzione costante per le dinamiche del
paese natio, scriveva Enzo, gli avevano valso il riconoscimento nella storia di
Castelnovo Sotto «il che non si dimentica».
Ciò che sorge spontaneo chiedersi è se, pur in termini ridotti, non resti, in
questo flusso di coscienza, il fantasma destabilizzante della traversata atlantica.
2 La partecipazione politica
«Parlare della partecipazione politica degli immigrati può significare diverse
cose: un approccio letterale suggerirebbe un confronto sul coinvolgimento
nei sistemi politici dei paesi d’accoglienza. Un approccio … diverso … ci
porta a riflettere sulle forme della partecipazione “da lontano” alle vicende
della politica italiana»23. Su queste parole di Fernando Devoto si costruisce la
duplicità che ha connotato il coinvolgimento politico degli emigranti. Da un
lato presero parte attiva al clima politico argentino, dall’altro, come trapela dalle
lettere, trasposero questo loro attivismo alla realtà italiana in cui continuavano
a cercare di aprirsi uno spazio, anche a distanza.
22
Lettera di Enzo Gabrielli, 27 febbraio 1997, carteggio Gabrielli.
DEVOTO, La partecipazione politica in America Latina, in Storia dell’emigrazione italiana, vol.
II, cit., pp. 507-526: 507.
23
10
2.1 L’attivismo italiano
Già dagli anni venti del XIX secolo, i viaggi di esilio dei primi repubblicani
avevano legato l’Italia alla storia politica argentina. Gli esuli avevano scelto il
paese in quanto, essendo ancora in formazione, il rischio di persecuzione era
decisamente limitato rispetto ad altre realtà americane come gli Stati Uniti.
In questo contesto, gli italiani contribuirono da subito al progresso in tutti
gli ambiti: economico, politico e sociale, gli stessi in cui si canalizzano le
narrazioni epistolari maschili. Con il passare del tempo, forti di un ruolo sociale
riconosciuto, gli italiani costruirono un senso di appartenenza nazionale pur
essendo lontani dalla patria. Gli intellettuali del Risorgimento, tra cui Garibaldi
e Mazzini, incentivarono questo lungo percorso24.
Sempre in seguito al lavoro dei mazziniani, nel 1858 si costituirono le
prime società di mutuo soccorso che avevano incentivato la collaborazione tra
connazionali25. Gli emigranti volevano prospettare un futuro di benessere «da
italiani» per le giovani generazioni.
Nel XX secolo prevalsero i governi totalitari e il potere delle associazioni
politiche perse d’importanza sostituito dalle attività dei singoli o dei piccoli
gruppi «ma non di un’azione collettiva che abbia avuto un peso nelle tormentate
vicende sudamericane»26. Allo stesso tempo i membri delle associazioni si
resero conto che il loro obiettivo di farsi influenti in Italia era fallito in quanto
si trovavano di fronte una classe politica che non aveva fatto altro che mostrare
loro un interesse saltuario e funzionale allo sviluppo delle reti commerciali
estere.
Fu questa presa di consapevolezza che portò gli emigranti a concentrare
le proprie forze per realizzare l’integrazione sul suolo argentino con la
quale si incentivò anche la ricostruzione identitaria maschile: «L’approdo alla
nazionalità argentina appare qui quasi come una logica conseguenza del fatto
di partecipare alla vita sociale e pubblica del paese di accoglienza … fa sì che
elementi culturali originariamente estranei (lingua spagnola, … storia patria,
… feste nazionali) perdano la condizione di negatività derivante dal carattere
di imposizione iniziale»27.
Questa linea attiva fu sempre mantenuta dagli italiani nel corso dei decenni.
2.2 La sensibilità politica reggiana
I reggiani emigrati, tra cui i nostri scriventi castelnovesi, mostrarono una
24
25
26
27
DEVOTO, Storia degli italiani in Argentina, cit., pp. 40-41.
Ivi, p. 70.
DEVOTO, La partecipazione politica in America Latina, cit., p. 526.
CATTARULLA, Di proprio pugno., cit., p. 90.
11
certa attenzione per il conflittuale panorama argentino; questo atteggiamento
derivava dall’insieme di eventi storici che avevano segnato la sensibilità
emiliana per la politica.
Uno degli eventi più importanti da ricordare risale al XVIII secolo quando,
sull’onda della Rivoluzione francese, venne proclamata la Repubblica reggiana
e tra le prime adesioni dei comuni vi fu quella di Castelnovo Sotto28. Nel XIX
secolo, in piena crisi agricola, i contadini delle valli del Po non esitarono ad
organizzarsi per chiedere la soppressione della «legge sul macinato» con una
serie concatenata di insurrezioni.
Questo insieme di difficili condizioni di vita, malessere e restrizioni portò,
nella bassa, alla costruzione di una coscienza sociale tra i lavoratori, uomini e
donne, che sostennero l’affermazione del partito socialista e collaborarono per
fondare le cooperative rurali, presenti nel reggiano dal 187329.
Alle emigrazioni, dai primi anni del XX secolo, seguì un trasferimento dei
principi morali e delle ideologie politiche, prevalentemente socialiste, che
ritrovarono libero sfogo in terra argentina grazie alle società di mutuo soccorso.
Gli stessi principi socialisti comparvero in seguito, rafforzati, negli emigranti
degli anni Cinquanta: la guerra era stata un’esperienza incisiva, gli abitanti di
Castelnovo Sotto, segnati da episodi molto cruenti, avevano interiorizzato i
valori portati dalla Resistenza. Tra questi spiccavano: libertà e democrazia per
le generazioni future, ideali che gli emigranti del dopoguerra fecero propri in
qualunque paese si trovassero30.
Le lettere «al maschile» dei nostri carteggi testimoniano l’immortalità di
questi valori ripresentandoli nei testi di «padri» e «figli».
2.3 Primo tema: la politica
In una lettera del 1967, quasi vent’anni dopo la sua partenza, Enzo Gabrielli
esprimeva preoccupazione per il futuro dell’Argentina. La lettera, indirizzata a
tutta la famiglia, era stata scritta subito dopo il rientro da una visita ai parenti
oltreoceano e affrontava, con molta lucidità analitica, il grave sviluppo degli
eventi politico-economici argentini.
La spiccata sensibilità che permetteva ad Enzo di «leggere tra le righe» dei
fatti avvenuti, lo portava a temere l’instaurazione di un regime dittatoriale cui
sarebbe seguita la drastica cancellazione dei diritti democratici. Questo fatto era
28
G. BADINI, L. SERRA, Storia di Reggio, Ediarte, Reggio Emilia 1985, p. 191.
Ivi, p. 233 e per il riferimento al partito socialista vedi R. CAVANDOLI, Le origini del fascismo a
Reggio Emilia, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 31.
30
Vedi M. STORCHI, Combattere si può vincere bisogna: la scelta della violenza fra Resistenza e
dopoguerra (Reggio Emilia 1943-1946), Marsilio Editori, Venezia 1998, p. 100 e S. GUGLIELMIN,
«Scritti nomadi» spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento, Anterem edizioni,
Verona 2001, p. 45.
29
12
estremamente grave per un uomo reggiano che aveva già vissuto l’esperienza
dei totalitarismi, e che riteneva la democrazia un diritto inalienabile. Inoltre, il
pensiero di aver portato, con l’emigrazione, tutta la sua famiglia in un paese
che non garantiva più un futuro di libertà, gli procurava un enorme senso di
colpa. Questo accentuava la nostalgia per il paese natio che, da quel momento,
divenne oggetto di un’idealizzazione che passava dall’America all’Italia:
ed ora sai che stiamo proprio sotto una dittatura militare, non so se sarà per il bene, ma
proprio già comincio a perdere tutte le speranse, ora mi hanno obbligato a pagare per
la pensione è così con tutti, ed io devo cominciare a pagare fin da quel giorno che son
arrivato al paese (qui) … se sarà per il bene de tutto vado avanti come dicono … e questo
è stato anche un convegno fra il governo italiano e argentino, che se per esempio io dovessi
rimpatriare il contributo fatto in Argentina vale per riscuotere poi la pensione anche lì in
Italia … Caro Eugenio riferendomi a ciò che dici … i tuoi progetti sono buoni, ti ringrazio
per il riguardo che tieni … la situazione attuale è contro ai nostri progetti e non c’è misura
che si cambi così che tu sei libero di fare ciò che voi sensa pensare ad un nostro ritorno …31.
Nonostante il dichiarato clima repressivo, Enzo scriveva senza temere
censure. Probabilmente, all’epoca di questo testo, le lettere non erano ancora
controllate, ma non si deve dimenticare che lo scrivente stesso era un soggetto
che aveva vissuto da protagonista i tempi di guerra e non si lasciava intimorire,
anzi sentiva molto forte la necessità di scrivere ciò che vedeva e pensava
perché i fatti, per lui, non dovevano essere taciuti: il silenzio comportava
assenso. Dopo aver rassicurato i parenti dell’avvenuto arrivo in Pergamino,
definito «il paese (qui)» come per non rischiare una confusione con il suo paese
natio, Enzo passava all’analisi degli eventi accaduti, cercando di attribuire un
lato positivo all’intervento del governo italiano nella politica argentina. Pareva
trarre conforto dalla consapevolezza di non essere stato dimenticato, come
cittadino, dal suo governo ma di esserne stato addirittura tutelato. Riponeva
le speranze nel fatto che la collaborazione tra i due paesi potesse allontanare
l’ombra della dittatura. Mentre il suo inconscio combatteva costantemente per
la speranza di un ritorno in Castelnovo Sotto, si rivolgeva al fratello Eugenio,
con cui spesso trattava gli interessi economici e in nome della sua anzianità,
con un tono da capofamiglia, lo autorizzava alla direzione del negozio e
all’amministrazione delle finanze. Con il passare del tempo, dalle lettere si
legge che le condizioni di vita in Argentina peggioravano e per Enzo, forte del
senso di giustizia sociale, la causa principale della cattiva condotta economica
era il governo di cui non esitava a denunciare con rabbia il malfunzionamento:
ma qui si arriva al punto che il governo ha messo una tassa tanto grande che un quarto della
repubblica è andato al fallimento e Ninfo, che aveva un credito bancario qui è venuto a
Castelnovo ha preso un prestito lì da un amico di Silvano che regolarmente andava pagando
fin che le cose andavano di usanza qui, ma quando venne questo cambio, lui si trovò in
gravissima difficoltà …32.
31
Lettera di Enzo Gabrielli, 9 aprile 1967, carteggio Gabrielli.
13
L’assurdità della crisi economica e politica era tale per cui, non potendo dare
una giustificazione logica alle decisioni governative, gli scriventi si sentivano
perseguitati. Molti castelnovesi, come lo stesso Enzo, avevano creato doppi
conti bancari, uno argentino e uno italiano. Se all’inizio la scelta era stata
sostenuta dall’onda illusoria del sogno americano, per cui l’ingente ricchezza
avrebbe richiesto un doppio conto bancario, in seguito questa condizione
permise agli emigranti di avere in Italia una sicura base di risparmi cui attingere
in caso di necessità. Ciò che prima era un’orgogliosa ostentazione di benessere,
ora si faceva necessaria per assicurare la sopravvivenza all’emigrante.
L’aggiornamento sulla situazione sociopolitica si realizzava sempre con un
parallelo tra Italia ed Argentina, che rivelava molte similitudini:
dato che rimane tanto spazio mi alungo un poco con la situazione, l’anno scorso mi è stata
tagliata la pensione Italiana ma con i miei scritti e intervento di Rossano con Vera a fine 96
è stato rimesso con asegni …, comunque un poco aiuta, a altri che è stata tagliata stanno
al medesimo punto, si vede che anche in Italia le cose sociali vanno come qui non troppo
bene, il clima è come lì o vai molto variabile … se continua così va meglio 1 pesos 1 dollaro
pari, e più 5 anni che ce stabilità monetaria ... 33.
Da una riflessione sul particolare, ossia il taglio della sua pensione italiana,
Enzo riusciva ad astrarre l’ipotesi generale: il taglio significava che la situazione
economica italiana non doveva essere delle migliori, ma non potendo averne
notizie certe ne chiedeva conferma al fratello. La sua predisposizione verso
l’Italia lo portava a giustificare le decisioni prese dal governo. Si trattava senza
dubbio di una presa di posizione idealizzata ma basata su una motivazione:
mentre l’Italia era un paese democratico e in quanto tale non avrebbe potuto
togliere la libertà ai suoi cittadini, l’Argentina totalitaria continuava ad ostacolare
i diritti civili e le riforme sociali.
Si nota come il discorso politico epistolare fosse molto soggettivo, legato
alle esperienze e alla formazione di ogni scrivente. Mentre Enzo risulta essere
diretto e descrittivo, e dai suoi costanti riferimenti a Castelnovo Sotto o
all’Italia si evidenzia un legame affettivo mai tramontato, Camillo Bartoli, che
in seguito all’esperienza migratoria di famiglia aveva vissuto con più mobilità
tra Cogruzzo e Pergamino, risulta meno nostalgico seppur legato alla terra
reggiana. Per Camillo Bartoli la prima cosa da fare, nel descrivere a parenti ed
amici lontani la situazione argentina, era dare rassicurazioni sul proprio stato
di salute e benessere, solo in seguito passava alla denuncia del caos in cui si
era costretti a vivere:
Qui stiamo tutti bene, sempre ci troviamo con Enzo e famiglia in quanto alla situazione è
sempre la solita storia, scioperi per il caro vivere e il lavoro ... Il nostro presidente Alfonsín
ancora non è riuscito a mettersi in calma coi sindacati si sono sviluppati molti ladri sia di
32
33
14
Lettera di Enzo Gabrielli, 7 dicembre 1982, carteggio Gabrielli.
Lettera di Enzo Gabrielli, 27 febbraio 1997, carteggio Gabrielli.
notte che di giorno specialmente ai negozi rivoltelle in mano e fuori i soldi poche parole
…34.
Tutto aumenta e le tasse sempre di più di modo che non resta mai quatrini in tasca (basta
la salute). Si sono formate molte squadre di assaltanti, che rubano … non ti conto poi dei
sequestri di persona, ma questo succede solo ai gran signoroni …35.
La lieve ironia che trapela dai testi: «si configura come un formidabile
meccanismo di difesa … rientra … nella grande schiera dei metodi costruiti dalla
psiche umana per sottrarsi alle costrizioni della sofferenza»36. La repressione
dei diritti civili e l’incapacità dei governi di provvedere al bene del paese
destavano amarezza in Camillo che proveniva da una famiglia perseguitata dal
regime fascista per i forti ideali socialisti. Nonostante avesse basi ideologiche
ben definite, scelse di non riversare sulla carta la rabbia interiore ma di
elaborare una strategia di distacco difensivo «nei confronti delle offese della
realtà»37. In questo modo riusciva a rendere, in poche righe, uno spaccato della
tragica situazione argentina affievolendone i toni, per non destare eccessive
preoccupazioni nei corrispondenti oltreoceano:
Qui in quanto alla situazione Politica (molta confusione) sempre molti progetti ma non
c’è mai una soluzione favorabile ma sempre si vive sperando… (ma si muore come tutti
sanno…) Adesso speriamo nella bella primavera che con le sue belle piante fiorite rallegrano
un poco più la vita …38.
L’aspetto dialogico delle lettere di Camillo è accentuato dall’uso di modi di
dire del linguaggio popolare, ne è un esempio la citazione: «si vive sperando…
(ma si muore come tutti sanno…)».
L’uso libero delle lettere maiuscole, sempre proprio dell’italiano popolare,
era legato al desiderio di enfatizzare l’argomento più importante della
discussione, così anche «la Politica» assume una personificazione al pari degli
altri compaesani citati nel testo e del proverbiale Parmigiano Reggiano:
Enzo mi dice che per le feste è facile che venga un famigliare di Ninfo … in quanto sulla
Politica, fanno molte discussioni, ma dei fatti pochi, il lavoro nelle città è scarso, mentre
che le tasse sono sempre in aumento … ma dopotutto la vita si passa discretamente bene,
speriamo in qualche miracolo di Alfonsin per stare meglio … È arrivato Farri Aldo – caro
Eugenio e Vittoria vi ringrazio infinitamente del vostro gran regalo – per Natale saremo tutti
riuniti con Remo … con il gran prosciutto e Parmigiano …39.
Nelle nostre lettere maschili, si sente sempre la necessità di far riferimento
all’assetto politico del paese, che si rivela essere un ingrediente fondamentale
34
35
36
37
38
Lettera di Camillo Bartoli, 5 marzo 1985, carteggio Gabrielli.
Lettera di Camillo Bartoli, 31 agosto 1986, carteggio Gabrielli.
FERRARI, Scrittura come riparazione: l’esempio di Proust, cit., pp. 29-30.
Ivi, p. 31.
Lettera di Camillo Bartoli, 31 agosto 1986, carteggio Gabrielli.
15
per l’espletamento dei compiti legati alla sfera sociale dell’uomo.
Altro elemento caratterizzante della forma mentis degli emigrati
castelnovesi era l’interesse per la storia sociale. La memoria storica italiana
si arricchiva con quella argentina così da creare una duplice personalità che
si andava rafforzando tra le generazioni. Consapevoli di questa evoluzione,
per mantenere un dialogo epistolare paritario, anche gli uomini castelnovesi
rimasti in paese, volevano conoscere la storia della patria «adottiva» dei parenti
chiedendone informazioni. Così Remo Bartoli, figlio di Camillo, raccontava la
storia argentina all’amico Eugenio Gabrielli:
Non allarmarVi per noi tutti, perché Dio a messo in un paese molto ricco un mucchio
di gente: gli argentini, che ci hanno una terribile malatia, dove fanno capo l’invidia, la
superbia, calunnia, non sono solidarii, scaltri, mascalzoni, il dannaro prima che la Patria etc
etc … Questa disgrazia incomincia con l’inizio della propria storia dell’Argentina. Secondo i
documenti dal 1810 quando si formò il primo governo patrio c’erano due gruppi di gente:
uno, fu il capo il generale C. Saavedra, chi con i suoi seguaci dominarono tutto il commercio
dil cuoio, il sale e del contrabbando; e l’altro, formato da Mariano Moreno, Belgrano ed
altri, avvocati, dottorati dell’Università di Chuquixaca … cui furono allievi di professori
che venivano imbuiti dei principii della revoluzione francesa dove nacquero: la libertà ed i
diritti naturali del essere umano, etc. ¿Pensate chi vinse? ¡¡Bravi!! avete vinto ed indovinato.
Il generale …
I primi volevano un governo centrale a Buenos Aires, erano gli “unitari”, ed gli altri hanno
voluto e conseguirono formare province per un più efficace governo, questi furono e sono
i “federali” ed hanno preso come modello la Carta Magna degli Stati Uniti cui Stati sono
quasi indipendenti. Questa Carta regge l’Argentina d’oggi. Vale a dire c’è un grande sbaglio:
un paese «federale» governato da un’unica autorità in Buenos Aires (unitaria). Nel presente
continuano nel governo centrale gli unitari come Saavedrà, uniti al potere finanziario, etc,
che man mano passa il tempo manegiano il capitale, p.e. Perón, i militari, Alfonsín, Carlos
Menem, De la Rua e Dimalde adesso. E sono i milionarii. I federali sono impoveriti e dispersi
nel vasto territorio argentino … Vi spiegate perché siamo così e non possiamo, dopo 200
anni, aspettare niente da un governo unitario come oggi abbiamo ... ¡¡tre presidenti in una
settimana!! e la cittadinanza «federale» è incredula, stanca, apatica e brontola. E questo è che
le famiglie vogliono andare via, p.e., a gli Stati Uniti, Italia, Spagna, Alemagna etc …
Preghiera: che l’anima di Dante mi lasci eternamente tranquillo e senza castigo per lo scritto
in italiano di sopra40.
Il racconto esplicita le simpatie socialiste dello scrivente, accompagnate,
come per le lettere del padre, da un leggero tono ironico usato per non
allarmare troppo i conoscenti informati delle tristi cronache argentine. Partendo
da una rabbiosa accusa alla corruzione del paese, a suo parere gli argentini
erano gente avida, senza morale e con il denaro come unico interesse, la
narrazione si snodava come un flash back che illustrava le cause storiche della
situazione politica che stava vivendo. In seguito all’accusa di un malgoverno,
dal 1810, l’attenzione per i diritti civili dell’uomo pareva non essere mai stata
una prerogativa dello Stato argentino. Remo spiegava esaustivamente anche le
ragioni dell’esodo dall’Argentina di molti europei con la doppia cittadinanza
39
16
Lettera di Camillo Bartoli, 16 dicembre 1985, carteggio Gabrielli.
non nascondendo il suo affetto per l’Italia.
Come per la maggior parte delle lettere dei carteggi, anche questa avvalora
l’uomo italiano, in quanto soggetto attivo nella costruzione politica del paese
d’emigrazione e soprattutto con una morale legata ai nobili valori della
democrazia di cui l’Argentina è stata privata.
3 Secondo tema: l’economia
Spesso nella stessa lettera si passava dal piano politico a quello economico
che era un ulteriore ambito di interesse maschile, in quanto l’uomo avvalorava
se stesso, sia nel contesto argentino che in quello castelnovese, come autore
del benessere familiare41 in base al quale l’opinione pubblica decretava la
riuscita o il fallimento dell’esperienza migratoria.
Per la storia dell’emigrazione si trattava di una prova molto importante
e non scontata in quanto non sempre si concretizzava il mito dell’Eldorado
americano. Le variabili erano legate ai fattori climatici e al sistema economico
del luogo di destinazione. Ne fu un esempio il Brasile, ove a causa del clima
le aree coltivabili erano poche ed erano state lottizzate come feudi, la mancata
libertà di iniziativa limitava moltissimo le possibilità di costruire un patrimonio
autonomo e questo portava a numerose delusioni.
Diversamente, «l’Argentina dotata di sterminati territori di pianura
scarsamente popolati, ricca più di bestiame che di uomini, aveva adottato una
politica di richiamo di forza lavoro dall’Europa». Si concedevano al colono,
«oltre all’abitazione, animali da lavoro e da razza, utensili e sementi fino al
primo raccolto, e per dieci anni, l’esonero da ogni imposta e contribuzione»42.
Ecco spiegato il motivo della scelta argentina, in cui furono soprattutto gli
italiani a detenere il monopolio delle attività commerciali.
I capifamiglia, nelle loro lettere, descrivevano ai parenti in Italia queste
concrete possibilità di successo, che venivano lette con scrupolosa attenzione
stuzzicando i sogni e i progetti di coloro che non avevano sufficienti entrate
per mantenersi.
Gli uomini ritenevano che la buona riuscita del viaggio migratorio
dipendesse anche dalla solidità del nucleo familiare, ritenuto un importante
«gruppo sociale produttivo».
Infatti si trattava di veri e propri centri di microeconomia con particolari
strategie organizzative: quelle famiglie che non erano in grado di mantenersi
unite e di strutturarsi erano inevitabilmente destinate al fallimento. L’uomo
emigrante cercava così di giustificare l’abbandono del paese in nome di una
40
41
42
Lettera di Remo Bartoli, 8 gennaio 2002, carteggio Gabrielli.
Vedi N. REVELLI, L’anello forte, la donna: storie di vita contadina, Einaudi, Torino 1985, p. 58.
BEVILACQUA, Società rurale e emigrazione, cit., pp. 107-108.
17
causa a favore più della famiglia che di se stesso, ottenendo solidarietà e onori:
«Coloro che emigrano per sfruttare l’opportunità di guadagnare un gruzzolo
che andrà ad ampliare i poderi di famiglia, che favorirà i riaccorpamenti e
che è finalizzato a un migliore equilibrio e a un potenziamento dell’azienda
agricola sono … investiti di un compito … a vantaggio di tutti»43.
Questa forza della famiglia trapela da una lettera di Giovanni Bartoli, inviata
ai parenti di Cogruzzo subito dopo la seconda guerra mondiale:
Caro zio Vittorio e familia la presente lettera e per dirvi che noi toviamo tutti in buona salute
e cosi esperiamo di voi tutti infamilia … sono desideroso di sentire vostre notizie e come ve
la passate ora e come va la avete passato in tempo di guerra … che esperiamo che tutto vi
sia andato bene. Caro zio e famiglia noi qui in tempo di guerra se la abiamo passato sempre
bene siamo estati sempre trangquilli non e mai mancato niente siamo estati sempre come
grandi signori incomparazione a quello que e passato lì in Italia e sempre fin ora si continua
estando bene si lavora e si va avanti meno male. Caro zio abiamo saputo que li estate molto
scarsi a certe cose da mangiare io o fatto el posibile di mandarvi un pacco che contiene cafe
e zucchero e ve lo mandato per mezzo della Croce Rossa Italiana esperando che presto lo
riceverete fatelo sapere subito …44.
La parte di famiglia emigrata in Argentina, essendosi mantenuta unita, aveva
continuato a prosperare e a lavorare, dunque la scelta migratoria era stata
efficace. L’invio delle citate derrate alimentari, che nell’Italia dell’immediato
dopoguerra erano sinonimo di benessere, sottolineava come la famiglia
oltreoceano non si fosse dimenticata di quella cogruzzese provvedendo
appena possibile ad un sostentamento. Questo risultava essere anche un
modo per sdebitarsi della lunga assenza in una situazione critica come era
stata la seconda guerra mondiale, infatti tale senso di colpa persisteva in molti
uomini emigrati, che scelsero di non tornare in patria per combattere. Così,
con il riferimento al benessere economico e l’invio degli alimenti, Giovanni
Bartoli giustificava una «non partecipazione» dovuta ad un impegno lavorativo
per il miglioramento delle condizioni familiari anche dei parenti in difficoltà.
Per gli uomini era sempre molto importante rendere noto che mai avrebbero
dimenticato né tradito il proprio ruolo di sostegno della famiglia.
La situazione si invertì quando, anni più tardi, furono le famiglie argentine a
risentire delle nefaste conseguenze della crisi economica e i parenti castelnovesi
si attivarono per aiutarle. Nonostante questo, i capofamiglia in Pergamino si
sentirono la responsabilità di contribuire al sostenimento di tutti e cercarono
di reagire ancora una volta.
Nella seguente lettera di Enzo Gabrielli si avverte questo progresso lento
ma inarrestabile:
Caro Eber … andiamo sempre con il nostro tran tran io faccio qualche cosa ma non molto
e piano piano continuo con le vendite di materiali e qualche cosa compro in comercio un
43
44
18
RAMELLA, Reti sociali, famiglie e strategie migratorie, cit., p. 159.
Lettera di Giovanni Bartoli, 1° settembre 1946, carteggio Bartoli.
poco sottinteso al margine delle tasse ed anche mi dedico alla compra di qualche auto per
rivendere lavori de pensionati che al finale rendono il suo guadagno bene come già ho
mandato a dire a Gabriella Maria Laura ha finito il suo studio ha già il titolo di professoressa
di matematica fisica e cosmetologia … Proprio oggi sono state bloccate tutte le banche e si
pensa che un cambio penseranno di fare ma certo che è una confusione dal lato economico.
Solo per darvi un’idea prima che partisse Venturi quel nostro amico che si trova lì aveva 300
vacche da vendere ed era un poco titubante, e io gli dissi che era un momento di comprare
vacche così le ha lasiate e ora se avete occasione di avvisarlo sono cresiute nel prezzo più
del doppio cosi che si è guadagnato 20 volte il viaggio. … e Paolo come va con il lavoro
immagino che si avrà preso tutto a suo carico il negozio …45.
Nonostante la grave crisi, come sottolineato dal riferimento al blocco delle
banche, il suo senso di conservazione del nucleo familiare lo rendeva sempre
più intraprendente. Con quelli che lui stesso reputava «lavoretti da pensionato»
riuscì a mandare avanti tutta la famiglia e garantirne uno status di un certo
livello indicato dal completamento degli studi della figlia. La sua lucidità sulla
situazione economica del paese era notevole e il suo ruolo di dirigente della
comunità emigrata (vicepresidente della Società italiana) lo portava a non
esitare nel fornire consigli ai compaesani, come ad esempio il signor Venturi
che, non sapendo come affrontare vari problemi, aveva deciso di rimpatriare.
Oltre ai molti impegni richiesti dall’emergenza economica in Pergamino, Enzo,
non voleva perdere il controllo sulla situazione finanziaria in Castelnovo e
per questo chiedeva come andassero gli affari della tappezzeria di cui sentiva
ancora la responsabilità, come se vivesse la colpa per averla abbandonata.
Indipendentemente dalle esperienze soggettive, l’uomo raffigurato dalle
lettere era un soggetto che doveva trasmettere, in un clima di instabilità politicoeconomica: decisione, lucidità, consapevolezza della propria situazione e
sicurezza provvedendo ai bisogni familiari. Che fosse aiutato dalla moglie e dai
figli non era contemplato negli scritti, in quanto il bisogno, pur se inconscio,
era rivalutare se stesso.
Queste considerazioni non sono proprie solo degli uomini emigrati ma si
possono ricondurre anche ai castelnovesi rimasti in paese. Infatti in una lettera
di Eugenio Gabrielli si legge:
in quanto alla nostra situazione, come certamente saprete, non è più rosea come gli anni
passati, molte ditte sono in fallimento, e i disoccupati aumentano, l’inflasione si è fermata
all’otto per cento, si dice che potrà ancora sendere; io mi sono ritirato a vita privata per
meglio curare la salute di entrambi noi, spero quest’anno di finire il restauro della casa, la
settimana prossima incominceremo a finire l’ingresso e la scala46.
In un contesto difficile e piuttosto decadente, anche in questo caso era l’uomo
a scrivere di aver preso in mano la situazione per provvedere alla salute di se stesso
e della moglie. Il senso di protezione legato alla responsabilità dell’andamento
45
46
Lettera di Enzo Gabrielli, 14 giugno 1985, carteggio Gabrielli.
Lettera di Eugenio Gabrielli, 29 gennaio 1986, carteggio Gabrielli.
19
economico e del benessere si canalizzava nel restauro della casa così da poter
offrire un riparo dignitoso e confortevole al proprio nucleo familiare.
Ancora una volta Italia e Argentina erano unite da simili destini.
4 Terzo tema: la società
Società e paese natio sono altri elementi che si ritrovano spesso nelle lettere
maschili. Da un lato, gli emigranti non riuscivano a distaccarsi dal confronto con
la terra d’origine per una questione di abitudine e di affettività innata, dall’altro i
capifamiglia volevano orientare la ricostruzione identitaria sui valori della cultura
originaria tenendo come secondo termine di paragone il contesto natio.
Per questo, come si evince dalle nostre lettere, il loro ruolo di azione
sociale si organizzò su due piani: uno che rimaneva legato alle sfere familiari
private: una rete di compaesani per l’aiuto nella gestione di problemi che
interessavano i singoli castelnovesi. L’altro si fece di portata istituzionale ed era
legato a tutti gli italiani emigrati presenti sullo stesso territorio e canalizzava
il proprio interesse nella promozione della cultura d’origine tramite le Società
italiane.
4.1 Lo spaesamento e la rete dei compaesani
Una tra le preoccupazioni maggiori per gli uomini emigrati era subire
un disorientamento in seguito alla prolungata assenza dal paese d’origine,
questo avrebbe comportato per i soggetti un indubbio indebolimento del loro
ruolo maschile nel contesto sia pubblico che privato del luogo natio. Questo
problema considerato come una «malattia» non era raro e poteva capitare
anche in seguito ad un’assidua corrispondenza epistolare.
In una lettera scritta di ritorno da una visita al fratello Eugenio in Castelnovo,
Enzo lamentava alcune situazioni piuttosto ostili vissute in paese, che lui stesso
non riusciva a comprendere:
notai nel 1984 da Genova a casa subito tu hai detto che lauto non potevo usarlo …, ricordo
che andammo a Sassuolo e passando per una località che non ricordo più il nome avrei
voluto fermarmi vedere un compagno mio della Germania e tu non hai voluto, dopo con
Rino M.: lo incontrai dove abitava a Reggio Emilia al paesino chiesi informazione mi dissero
che per parlare con lui prima dovevo parlare col suo segretario così che quando è venuto
a Castelnovo a cena lo ai messo al tuo fianco … disse che non si ricordava di me che feci
del bene in Germania … poi la storia del libretto che ai messo su una montagna di calunnie
a tuo modo verso di me … per difamarmi … che io a tutti vi ho dato l’esempio, mi trovo
un po’ mal messo certo col mio passato non ho niente da desiderare … credo nella mia
condotta che è sempre stata per il bene di tutti …47.
47
20
Lettera di Enzo Gabrielli, 27 febbraio 1997, carteggio Gabrielli.
Dai fatti elencati nella lettera si percepiscono molta tensione e altrettanto
risentimento da parte dello scrivente che riteneva di non essere stato
sufficientemente rispettato dalla famiglia e dagli amici nonostante la sua storica
propensione al bene comune, senza nascondere un eccesso di tragicità.
Nella lettera scriveva di essere stato vittima di sfiducia e restrizioni da parte
del fratello, nonché di aver incontrato un vecchio amico di guerra che pareva
non ricordarsi di lui. Enzo, ferito nell’animo, sfogava sul foglio di carta molta
rabbia, accusando sempre il fratello di averlo tradito con una serie di infamie
che screditavano la sua immagine con l’intento di sostituirlo nel suo ruolo
d’anzianità familiare.
Tutti questi disagi risultano alquanto forzati e ciò che si percepisce, con
un’attenta analisi, è la mancanza di comunicazione tra Enzo, la realtà del suo
paese e i compaesani. Il problema di disagio pare dipendere principalmente
da un cambiamento percettivo del soggetto emigrato ormai abituato ad altri
codici comunicativi. Se ne trova una conferma nella lettera di risposta del
fratello Eugenio:
Caro Enzo, rispondo alla tua del 27-2 ricevuta il 14-3 … prima risposta: nel venire a casa da
Genova, alla tua domanda del portapacchi sull’auto … non si parlò di un tuo eventuale uso …
Seconda risposta: due settimane prima andammo dal direttore del banco S. Giminiano …
noi due soli … con i medesimi dati risultò tutto esatto … anche lì non sapevi cosa dire …
Raineri … mi fece capire che è molto facile che a un uomo, dopo esser stato vittima di
una lunga guerra, con 2 anni di prigionia, essendo per forza del momento partito anche
volontario e, alla fine, dover emigrare sono tendenti a incolpare tutto e tutti, della loro
cattiva sorte … rispondo anche in merito a quel sig.re di R.E. che era con te in Germania
quel giorno … andammo a Baiso non a Sassuolo per trovare Venturi che non cera … poi
nel ritorno vicino a R.E. avevi questo nome e nientaltro, cercare a R.E., di domenica … quasi
deserta è come un ago in un pagliaio. Rimediasti poi con Montanari e quando venne da noi,
tu a capotavola, come sempre e noi 2 ai lati, come tutti quelli che sono venuti a trovarti …48.
Ecco che improvvisamente la realtà appare completamente diversa da
quella che Enzo aveva percepito, Eugenio chiariva confusioni geografiche,
scambi di persona ed erronee interpretazioni delle modalità relazionali di cui
Enzo era stato partecipe. Tutto questo sconcertava Eugenio che tendeva a
giustificare il fatto come una conseguenza alla rabbia di aver dovuto scegliere
l’emigrazione per risolvere i disagi psichici dovuti alle esperienze di guerra.
La lunga permanenza in terra argentina aveva fatto di Enzo un uomo diverso
che faticava a destreggiarsi nella sua realtà d’origine, pur impegnandosi a farlo
con tutte le forze.
Eugenio non esitava a sottolineare, ancora una volta, l’assoluto rispetto per
il fratello più anziano, ad esempio, il posto a capotavola rimaneva il suo e ciò
delineava, per la tradizione emiliana, il ruolo più importante della famiglia.
Questa vicenda capitata ai Gabrielli era in realtà molto comune tra gli
48
Lettera di Eugenio Gabrielli, 24 marzo 1997, carteggio Gabrielli.
21
emigranti che, proprio per questo, cercavano di mantenersi aggiornati con
il paese d’origine lottando per ricevere degli incarichi, per rendersi utili
ai compaesani oltreoceano facendosi contemporaneamente artefici della
realizzazione di qualcosa che li costringesse a non dimenticare il loro luogo
natio e a non perdervi il proprio ruolo.
Così, lettere come questa erano all’ordine del giorno nei carteggi degli
uomini:
mi dirai nella prossima lettera ciò che passa con Rino Montanari perché con Iole Bartoli
stanno in raporto per telefono e lui aveva promesso di venire ma sembra che abia prestato
una forte somma di denaro a uno di li che non li restituise e sembra che sia in litigio
tramite avocato e invita a Iole a venire li in Italia e lei sta indecisa perché apunto anche la
indecisione di Rino da a pensare Iole mi incarica di questo però che rimanga fra noi49.
Erano sempre gli uomini ad assumersi il ruolo di «ponte» tra Castelnovo Sotto
e quella che ritenevano essere la colonia da loro stessi fondata: Pergamino.
Questa comunicazione tra Italia ed Argentina comprendeva varie mansioni tra
cui anche il farsi referenti di ogni problema, per la comunità emigrante, così
che molto spesso i compaesani erano costretti a rinunciare alla privacy per
chiedere un aiuto.
A parte alcune situazioni più intime che potevano creare imbarazzi, la rete
dei compaesani era uno dei mezzi più importanti ed efficaci per la ricostruzione
dell’identità nel paese d’emigrazione, connotando la personalità dell’uomo
emigrante della duplice influenza sia in ambito pubblico che privato. Infatti,
oltre a farsi referente di questioni personali l’uomo si occupava anche dei
servizi di anagrafe gestendo, ad esempio, le richieste dei compaesani che
avevano necessità dei documenti per fare i passaporti italiani: «ho ricevuto
la tua cartolina ed informato a mio figlio tutto quello che tu mi dici. Adesso
aspettiamo che cosa succede nel consolato d’Italia a La Plata. Vi ringraziamo
per tutta questa incomodità …»50, e ancora:
Carissimi, … certo che nelle notizie del paese come dici Eber la magior parte sono sempre
brutte, pero al saperle sempre ci portano un conforto, quando ricevetti la tua lettera ricevetti
pure una lettera da Carla Ferrarini che nella cuale mi ringrasia tanto per i documenti che le
mandai come mi dice mi aveva risposto alla prima che le mandai già da Gennaio, ma io non
lò ricevuta, così che tramite i miei amici che sono venuti a casa di Eugenio le mandai pure
la fotocopia di quei documenti …51.
La prima parte di questa lettera, scritta da Enzo, sottolineava come fosse di
conforto, per gli emigranti, ricevere gli aggiornamenti sui fatti di Castelnovo
che, pur tristi, supplivano una celata nostalgia. Poi si specificava che l’efficacia
49
50
51
22
Lettera di Enzo Gabrielli, 20 gennaio 1984, carteggio Gabrielli.
Lettera di Remo Bartoli e moglie, 12 giugno 2001, carteggio Gabrielli.
Lettera di Enzo Gabrielli, 12 agosto 1985, carteggio Gabrielli.
del proprio ruolo coordinante all’interno della comunità dipendeva dalla
solerzia delle risposte epistolari, cosa di cui Enzo non esitava a raccomandarsi
con i parenti in Italia:
Eugenio e Vittoria sono già tre lettere che le scrivo e le domando l’indirizzo di Achille di
Scandiano ma si vede che si dimenticano … spero che alle prossime di uno di voi ricevere
questo indirizzo di Achille con il cognome … così pure le altre che scrissi io non pretendo
risposte ma sapere da te Eber = C. Cafarro, Volfango, Aldo T., R. V. Sacani, M. Rino, … Loris
Cervi bene Loris mi ha risposto …52.
Questa precisione era accresciuta in importanza dal fatto che i compaesani,
organizzati come un microcosmo, facevano maggior affidamento sui conterranei
che sulle istituzioni per quanto riguardava le decisioni da prendere o il recapito
di informazioni e denaro. Gli uomini, in quanto ritenuti più consapevoli e più
pratici in ambito finanziario, erano garanti di queste delicate operazioni e non
potevano permettersi di mancarne l’effettiva risoluzione:
Caro Eugenio, come vedi ti do le ultime notizie, ieri sera mi parlò Ledo B. al cuale le ha
scritto Ninfo domandando per suo fratello Silvano un prestito di £ 1.500.000 circa un milione
e mezzo, siccome che di qui Bartoli L. non può mandare per banco ha chiesto a me di poter
fare il cambio, comunque io lo lasio a tuo criterio, se vuoi possiamo fare meta cada uno,
così quando vieni già algo ormai qui se … le darai dei miei facendole fare una ricevuta che
tu le ai prestato a nome mio … che lui poi mi pagherà qui “Silvano credo che le domandò
a Ninfo ma Ninfo non dispone e così viene la cosa” …53.
Gli «affari da uomini» si snodavano con un’assoluta precisione nella rete
che loro stessi si erano costruiti tra Castelnovo e Pergamino. Non sempre
però la collaborazione tra compaesani era realizzata con onestà, gli episodi
di speculazione sulle spalle dei conterranei erano una verità che rompeva
l’immagine idilliaca di una comunità senza malizie. Anche se questa mancanza
di rispetto offendeva chi aveva creduto nell’unione fraterna tra compaesani
come Enzo, molti uomini che si sentivano accresciuti da una posizione di
potere ed imprenditoria, raggiunta grazie alle libertà economiche argentine,
non esitavano ad esercitare la nuova autorità per imporsi su coloro che erano
in difficoltà:
Caro Eugenio e Vittoria, è già due o tre volte che ti scrivo che proprio non saprà cosa
dire ma non voglio tacere ciò che bene ho saputo nei 10 giorni che sono stato a Rio Tersero
con Eledo … vi ho dato ad intendere di come era il carattere di L.B. e nell’afare che è stato
fatto fra te e Silvano dei 2 milioni … lui che se ne avantava e non voleva interessi è risultato
tutto al contrario Ninfo che si è fatto carico di pagare qui la somma ha dovuto pagare più
di tre volte ciò che Ledo ha messo fuori in pesos, … ed è una somma che qui è molto alta
che Ninfo già ha pagato, anche se le sue condizioni sono un poco precarie, … quando sei
52
53
Lettera di Enzo Gabrielli, 14 giugno 1985, carteggio Gabrielli.
Lettera di Enzo Gabrielli, 28 agosto 1981, carteggio Gabrielli.
23
stato tu da Ninfo non ti disse nulla ma … si trovava sull’orlo del fallimento … io faccio per
dirti che Ledo non dovrebbe essere stato tanto esigente perché lui ha messo fuori a quel
tempo pesos non lire …54.
Le critiche che si muovevano non volevano essere drastiche accuse ai
comportamenti tenuti dai conoscenti ma tradivano una certa delusione per la
constatazione di atteggiamenti che non si condividevano e che non avrebbero
dovuto realizzarsi tra castelnovesi. Nell’ideale degli emigranti erano gli argentini
ad avere «il dannaro prima che la Patria»55, non i compaesani.
4.2 Italclubs
Per accrescere l’importanza delle proprie comunità di emigranti, depositarie
dell’identità italiana oltreoceano, e per acquisire una rilevanza da un punto di
vista istituzionale, gli italiani manifestavano tutti lo stesso tratto comune: «quello
di aggregarsi, almeno inizialmente, in uno spazio geografico sufficientemente
concentrato da consentire pratiche quotidiane di collaborazione, solidarietà,
massimizzazione delle risorse»56.
Questo comportò dal XIX secolo, l’ufficiale formazione delle Società
italiane su suolo argentino. Maria Susanna Garroni aggiunge, nel suo studio
comparativo delle Little Italies, che le comunità argentine si erano sviluppate
in quasi tutti i centri abitati maggiori e avevano coltivato un terreno di fervente
acculturazione politica che si preservò attiva anche con le dittature.
In generale, appartenere alla Società italiana era un modo per rafforzare la
propria identità in quanto spazio in cui veniva «rappresentata e vissuta quella
emozionalità, … quella forza dei sentimenti sanguigni, profondi, di lealtà alle
ragioni del sangue che ancora albergano in tutti …»57 nonché luogo in cui
l’interazione e il dialogo favorivano i processi di contatto e integrazione con
la realtà estera.
Per questo gli uomini che vi prendevano parte identificavano subito
l’ambiente come la propria seconda famiglia e ciò forniva un aiuto oggettivo
e concreto alla ricostruzione di sé. Enzo Gabrielli che ne fu vicepresidente per
anni, quando, in una sua lettera, nominò la Società italiana ne parlò al plurale:
«Poco piu di un anno che mi sono ritirato come Vice Presidente della Società
italiana di tanto in tanto vado come vecchio in maggio festegeremo i 125 anni
di esistensa …»58, pur avendo cessato il suo incarico la commemorava, perché
averne fatto parte accresceva il suo lustro in quanto personalità pubblica.
54
55
56
57
58
24
Lettera di Enzo Gabrielli, 7 dicembre 1982, carteggio Gabrielli.
Lettera di Remo Bartoli, 8 gennaio 2002, carteggio Gabrielli.
GARRONI, Little Italies, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. II, cit., pp. 207-233 [:208].
Ivi, p. 233.
Lettera di Enzo Gabrielli, 27 febbraio 1997, carteggio Gabrielli.
Tra gli scopi più importanti delle Società c’era la promozione della cultura
italiana con iniziative pubbliche nei paesi d’immigrazione, tale lavoro verteva
a riscattare l’immagine stereotipata che aveva emarginato molti italiani come
portatori di degrado. Il dialogo culturale era certamente la prima via per
l’integrazione anche se in Argentina la situazione fu generalmente favorevole:
«la città era ancora in formazione … e … i nostri connazionali – favoriti anche
dalle affinità, di lingua e religione, con le élites locali di origine spagnola
– ebbero a disposizione abbondanti opportunità di inserimento in attività
qualificate …»59.
All’interno di questo panorama, la Società italiana di Pergamino aveva
lavorato molto per valorizzare i propri emigranti.
Nel carteggio Gabrielli sono conservati alcuni articoli del giornale della
Società italiana di Pergamino in cui Enzo era stato intervistato, si è scelto di
farvi riferimento in quanto utili a mostrare come i nostri scriventi avessero
rafforzato la propria identità grazie alla Società italiana. Una delle interviste
riguardava il suo passato di guerra, una tappa storica che pochissimi uomini
argentini avevano vissuto. L’altra aveva ricostruito il quadro familiare dei
Gabrielli oltreoceano mostrandolo come un successo d’integrazione, che
motivava la nomina di Enzo a vicepresidente della Società italiana.
Nelle interviste Enzo ebbe la libertà di sottolineare più volte il suo senso di
appartenenza:
Ambos nacieron en el mismo pueblo, Castell Nuovo Sotto, provincia de Reggio Emilia, “la
ciudad donde fue fundada la bandera Italiana, que este año cumple 200 años”, comenta con
gran satisfación don Enzo ... 60;
e di rappresentarsi come desiderava:
Los Italianos estaban muy desunidos, no había colectividad ... los había separado la guerra
... . Luché mucho para cambiar eso ... estoy contento porque hoy no existe esa adversidad
... . Este italiano nato que no abandonó sus raíces, ya radicado en nuestra ciudad se integró
en seguida a la Sociedad Italiana, en la cual trabajó durante 40 años, ... . Para Don Gabrielli
su trabajo fue orgullo y también un ejemplo ...61.
Si autoritraeva come un uomo deciso e coraggioso che grazie al suo senso
razionale ed imprenditoriale aveva creato un vero e proprio modello di
famiglia immigrata, i cui membri avevano avuto qualcosa da insegnare nella
realtà argentina:
Trabajé mucho, pero también vine a enseñar y sembrar cultura; me siento parte de esto, he
59
Ibidem.
Enzo Gabrielli, Lidia Mori, intervista sul giornale della Sociedad Italiana de soccorros mutuos,
archivio Gabrielli.
61
Ibidem.
60
25
hecho una experiencia de vida que muy pocos la hicieron. Estoy muy orgulloso de las dos
chicas que tengo ... ellas también enseñan y estoy muy contento por eso62.
Mentre Enzo veniva così rinfrancato delle umiliazioni del passato con la
possibilità di rafforzare la sua storia e il suo senso di appartenenza di italiano
in Argentina, un altro uomo castelnovese importante per la comunità di
Pergamino era Camillo Bartoli. Come gli altri fratelli, Camillo aveva vissuto fin
da piccolo un continuo spostamento tra Argentina ed Italia, iniziando la sua
formazione artistica a Parma63.
Per Camillo l’arte pittorica divenne oltre ad una passione un mezzo di
comunicazione transoceanico, un modo figurativo di esprimere se stesso e
interagire con le comunità tra scorci di Emilia e d’Argentina.
Negli anni Settanta Eugenio Gabrielli, forte della valorizzazione dei
compaesani all’estero, chiese al Comune di Castelnovo Sotto di accettare
per un concorso di pittura le opere di Camillo Bartoli, che fu premiato e
menzionato anche sui giornali locali: «Camilo Bartoli el reconocimiento a su
calidad plastica»64.
Nella lettera di ringraziamento Camillo scriveva ad Eugenio:
Carissimo Eugenio ... non so in che forma ringraziarti per tutto quello che per me ai fatto,
relascionarmi con il gruppo pittori di Castelnovo, con Autorità Comunali che mi inviano
a mezzo geom. Marco Mattioli … un atestato di Benemerenzia con una bella medaglia
d’argento …, siete proprio bravi e generosi anche per gli amici lontani sono proppio rimasto
contento con immensa soddisfazione anche per merito dei pittori castelnovesi … per la Città
tutti si congratulavano e mi facevano onori, in casa tutti sempre suonava il telefono, perfino
mi mandarono fiori, dunque un vero successo, e ancora non è finita i pittori di Pergamino
mi vogliono riunire in una cena … Infine i turisti vi diranno il resto ed io mi alungherò in
un’altra mia ho pure scritto al Sindaco e gruppo pittori … (il sig. Mattioli ha il resto delle
lettere)65.
Vincere un concorso di pittura nel paese italiano aveva avuto, per lui, un valore
inestimabile sia per completare il suo inserimento in Pergamino che recuperare la
sicurezza di sé. Come si nota dalla lettera il riconoscimento per le opere pittoriche,
significava che il suo codice espressivo continuava, nonostante la lontananza, a
comunicare con quel mondo in cui lui stesso si riconosceva e che non aveva mai
voluto abbandonare.
Le vite di Enzo Gabrielli e Camillo Bartoli, rivalutate dalla Società italiana,
rappresentano anche i percorsi di altri uomini emigrati che, poco per volta avevano
avuto la possibilità di ricostruire la propria identità grazie alla scrittura epistolare
che ne agevolò l’interazione sia con il paese natio che con quello d’emigrazione.
62
63
64
65
26
Ibidem.
Vedi l’autobiografia di Camillo Bartoli conservata nel carteggio Gabrielli.
Articolo del quotidiano «La Opinion», 7 gennaio 1976, conservato nel carteggio Gabrielli.
Lettera di Camillo Bartoli, gennaio 1976, carteggio Gabrielli.
4
…al femminile…
1 La scrittura delle donne
Come abbiamo più volte ricordato, per molto tempo le donne erano state
escluse dall’istruzione, era opinione comune che per svolgere le mansioni
domestiche non fosse necessario sapere di lettera, inoltre lo «scrivere» era
legato all’ambito delle funzioni pubbliche e del potere maschile che non
voleva condividere i propri privilegi. In periodo medievale, eccezion fatta
per alcuni casi di donne nobili, erano le monache le uniche figure femminili
ad avere accesso alla scrittura. Timorate e costrette all’estraniamento sociale,
risultavano inoffensive ed era concessa loro una valvola di sfogo psichico.
A partire dal Cinquecento, come si è visto, l’istruzione si diffuse anche nelle
campagne tra i ceti popolari, mantenendo una chiara distinzione negli ambiti
del sapere per cui l’educazione delle donne verteva solo sulla vita domestica,
discriminazione che proseguì fino all’epoca contemporanea.
Dal XIX secolo, infatti, mentre gli uomini del ceto borghese si allontanavano
sempre più dalla dimensione familiare richiamati dall’espansione dei mercati
capitalisti, le donne furono istruite per gestire l’amministrazione domestica e
inevitabilmente impararono a scrivere: «la produzione di carte da parte delle
donne diviene più consistente, le redigono in contesti differenti, … scrivono,
raccolte nei loro studioli, camere, angoli domestici … La lettera diviene, in
seguito ai progressi del sistema postale che ne favoriscono la diffusione,
mezzo privilegiato di comunicazione, le cui regole, … vengono trasmesse con
impegno e precisione fin dall’infanzia»66.
Con le evoluzioni del XX secolo, soprattutto in seguito al movimento
migratorio, anche le donne della società rurale furono costrette a scrivere per
impellenti necessità comunicative, così da «gesto interdetto, considerato una
sovversione all’ordine tradizionale, la scrittura si conferma come una pratica
diffusa e l’individualità femminile, fino ad allora almeno in parte celata … trova …
differenti modalità di espressione e lascia tracce sempre più consistenti del
suo percorso»67.
Era avvenuta una rivoluzione nei ruoli di genere.
Sia in patria che oltreoceano, l’approccio femminile alla scrittura non ebbe
solo fini utilitari ma anche psicologici, non solo compensava lo spaesamento
indotto dall’esperienza migratoria, ma aiutava a cercare un equilibrio in un
insieme di sentimenti contraddittori che connotava lo status di «capofamiglia»
di secondo grado, privato delle libertà e dei diritti maschili.
66
P. GABRIELLI, Andare per archivi, in P. GABRIELLI (a cura di), Vivere da protagoniste, donne tra
politica, cultura e controllo sociale, Carocci, Roma 2001, pp. 9-52: 13.
67
Ivi, p. 14.
27
Scrivere si fece sempre più una scelta consapevole, un gesto di coraggio,
orientato al consolidamento della propria identità.
A differenza degli uomini le donne accettarono la mutevolezza degli eventi,
lasciando che i cambiamenti esterni interagissero con la loro personalità in
continua evoluzione. Si concentrarono sulle proprie emozioni, sulla forza
interiore che le aveva rese capaci di sopportare soprusi e repressioni. Per
questo le forme espressive che meglio le rappresentarono furono autobiografie,
memorie, diari e carteggi. Le donne della classe popolare, predilessero la
scrittura epistolare per il suo legame con l’oralità e riuscirono a dar voce ad un
mondo cognitivo diverso da quello maschile, che risultò vincente in quanto
rispondeva meglio agli eventi storico-politici in cui andava formandosi.
La donna per troppo tempo relegata ad un’esistenza materiale come Altro
rispetto all’uomo, con la pratica della scrittura «divenne» nel senso hegeliano
del termine68, ossia si trasformò con una presa di autoconsapevolezza entrando
in contatto con il suo inconscio, scoprì di essere lei stessa autrice della sua
identità e di avere un pensiero che poteva esprimere nelle lettere.
La diversa sensibilità percettiva tra uomo e donna è molto visibile nelle
scelte tematiche dei nostri carteggi. Mentre quelli maschili erano incentrati
sulla sfera pubblica, quelli femminili si ponevano nel privato, con una pluralità
di temi che andava dalla famiglia alla salute, alla nostalgia, ma anche dalla
cucina alla politica. Le lettere femminili si diversificarono, tra le generazioni,
influenzate dai contesti sociali e facendosi sempre più dirompenti.
Per un miglior approfondimento del tema culinario, si è scelto di integrare
le lettere con citazioni tratte da una pubblicazione curata dalle discendenti
delle emigrate castelnovesi in Pergamino. Questi materiali sono risultati utili
nel delineare le mappe del pensiero femminile troppo spesso costretto dalla
razionalità dei canoni maschili.
2 Aspetti di emigrazione femminile
Nella società rurale l’inserimento di uomini e donne nel mondo della
scrittura epistolare avvenne nello stesso periodo e per le stesse ragioni, vissute,
come si è visto, da angolature opposte.
Come precisato nei capitoli precedenti, la «crisi agraria» delle campagne
italiane si era fatta «detonatore» del movimento migratorio che continuò in
seguito all’avvento delle guerre mondiali. Il sistema economico capitalista
aveva favorito l’occupazione maschile oltreoceano, questo non implicava che
le donne vivessero in una condizione di immobilità.
68
Al verbo «essere» andrebbe sostituito il senso dinamico hegeliano di «essere» nel senso di
«essere divenuto», vedi M. DE CHIARA, Teoria e critica letteraria, in P. DI CORI, D. BARAZZETTI (a
cura di), Gli studi delle donne in Italia, una guida critica, Carocci, Roma 2001, pp. 153-170: 159.
28
Lo spostamento regionale in cerca di terra coltivabile era un fenomeno
principalmente femminile e coinvolgeva in particolar modo le giovani che
necessitavano di un lavoro autonomo. Le mondariso, uno degli esempi più
imponenti di migrazione interna, passavano stagioni intere lontano da casa,
organizzate in comunità esclusivamente femminili. Queste esperienze lontano
dalle famiglie patriarcali accrescevano nelle donne la consapevolezza della
propria autonomia e le portavano a rielaborare le sofferenze psicologiche
cui erano sempre sottoposte. Le migrazioni femminili non erano legate solo
alle attività agricole ma vertevano anche sulla città. Nel XX secolo, alcune
donne sostituirono la manodopera maschile, assente per motivi bellici, nelle
fabbriche, altre trovarono impiego come domestiche nelle case signorili69.
Certo queste strategie non si rivelarono risolutrici per una situazione di grave
emergenza economica e, in breve tempo, anche le donne furono coinvolte
nelle traversate oceaniche.
Ancora una volta, il fenomeno migratorio non si presentava come una scelta
spontanea ma bensì imposta da un sistema economico in cui la classe popolare
non aveva alternative. A differenza degli uomini, le donne si misero in viaggio
con gradualità, all’inizio si crearono due gruppi: quello maggioritario era delle
madri di famiglia, che restavano a casa mentre mariti e padri partivano in
avanscoperta alla volta dell’America, l’altro gruppo era quello delle donne
giovani che, in quanto nubili, non erano ancora state vincolate ai ruoli
imposti dalla società e si erano lasciate illudere dalle promesse di ricchezza ed
emancipazione oltreoceano:
qualunque grande occasione di lavoro salariato costituiva l’esca che metteva in moto flussi
di emigrazione anche a grande distanza, mettendo in fermento perfino le società più stabili
e tranquille … così, accanto all’emigrazione maschile si avviò un consistente flusso di
emigrazione femminile, formato da giovani donne che di fronte alle prospettive di un …
guadagno violavano apertamente le rigide regole della morale del tempo …70.
2.1 Donne che restano
Per le donne che restavano al paese natio si apriva una nuova vita, oltre
alla gestione della famiglia dovevano occuparsi della terra e il lavoro agricolo
non portava a «vedere alcuna differenza d’occupazione secondo l’età e il
sesso»71. Queste donne non furono mai particolarmente propense al viaggio
transoceanico, non avevano vissuto l’idealizzazione dell’America per il fatto
che la nuova condizione sociale, al contrario della parte maschile, le aveva
69
Vedi BIANCHI, Lavoro ed emigrazione femminile, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, cit.,
pp. 257-274: 260-261.
70
BEVILACQUA, Società rurale e emigrazione, cit., pp. 100-101.
71
BIANCHI, Lavoro ed emigrazione femminile, cit., p. 257.
29
accresciute nelle loro responsabilità con un nuovo ruolo dirigente: «iniziarono
così a frequentare l’ufficio postale e lo studio notarile … Spettava infatti a
chi era rimasto investire le rimesse, ricorrere a piccoli prestiti, soddisfare i
creditori; una condizione di autonomia che se non intaccava l’autorità maschile
si sostituiva ad essa nelle decisioni di ogni giorno …»72.
Dover gestire gli affari di famiglia aveva potenziato la loro razionalità
rendendole meno permeabili al sogno della propaganda.
Questa condizione di autonomia era stata tollerata dagli uomini solo come
temporanea: nel caso in cui il rientro risultava impossibile o sconsigliato
dagli interessi economici, subito si richiedeva il ricongiungimento del nucleo
familiare all’estero, per la gestione domestica. Così mentre gli uomini trovavano
conforto nelle cure delle donne, che incarnavano il focolare del paese natio,
queste vivevano il trasferimento con molta sofferenza. Non avevano tempo
da dedicare a loro stesse e si trovavano troppo lontane dal conforto della rete
conterranea di amicizie femminili73.
Per questo le donne emigravano solo dopo aver stabilito che si trattava
della scelta migliore per il bene della famiglia appellandosi a sopportazione,
pazienza e spirito d’adattamento, «valori» che facevano parte dell’educazione
prematrimoniale. Con il tempo riuscirono a creare nuove reti di compaesane
che favorirono anche l’occupazione nelle Americhe.
I contesti sociali influirono molto sull’approccio femminile all’emigrazione.
Mentre, tra XIX e XX secolo, molte donne subirono il trasferimento per
adempiere agli obblighi matrimoniali, come nel caso della famiglia Bartoli,
dalla prima metà del XX secolo si accentuarono le migrazioni di coppia «che
vedono entrambi i coniugi trasferirsi all’estero, o partendo insieme o, … a
breve distanza l’una dall’altro»74, «sono spesso coppie di giovani artigiani o
operai … nuclei familiari ancora senza carico di figli che non dispongono di
alcuna base di terra …»75, esattamente come i coniugi Gabrielli.
3 Peculiarità delle lettere al femminile
Nei nostri carteggi, le lettere delle donne ci riconducono, per la maggior
parte, ai vincoli della scrittura al femminile76. Questo limite ebbe un effetto
positivo perché le scriventi iniziarono a «prestare attenzione alla propria
interiorità, per far emergere a livello di consapevolezza e quindi di narrazione
72
Ivi, p. 259.
Vedi N. FILIPPI, Una storia che si ripete. Donne emigranti e donne immigrate nel Veneto, in F.
CAMBI, G. CAMPANI, S. ULIVIERI (a cura di), Donne migranti, verso nuovi percorsi formativi, Edizioni
ETS, Pisa 2003, pp. 185-221: 187.
74
RAMELLA, Reti sociali, famiglie e strategie migratorie, cit., pp. 152-153.
75
Ibidem.
76
Vedi G.R. CARDONA, Antropologia della scrittura, Loescher editore, Torino 1981, pp. 95-96.
73
30
dinamiche e conflitti interiori»77, la sfera intima e della memoria familiare
divenne un modo diverso di percepire il mondo: ufficioso, domestico,
invisibile e privato78 completamente opposto a quello maschile. Le donne
interiorizzarono questo modo di pensare la realtà «beneficiando per prime
del processo di autocostruzione del proprio Sé narrante/conoscente»79. Esse
intendevano affidare alla carta la ricostruzione e la narrazione dei nuovi sviluppi
delle proprie storie di vita. Certo se da una parte erano incoraggiate e richieste
come depositarie delle emozioni, che gli uomini per cultura reprimevano80,
dall’altra questa pratica si rivelò emancipatoria, perché con l’autoriflessione le
scriventi presero atto delle proprie capacità intellettive e acquisirono maggior
fiducia in se stesse e si rivitalizzarono81.
3.1 Da madre a figlia
Trovandosi così lontane da casa e soffrendo della solitudine che ne derivava,
le madri reagirono dedicandosi alle lettere di famiglia e trasmettendone la
passione ai figli. La madre insegnava sia la lingua d’origine, con cui scrivere
ai parenti oltreoceano, che il senso di responsabilità di mantenere viva la
memoria raccontando le proprie esperienze di vita.
«L’elemento orale rappresenta una componente centrale della scrittura
migratoria … quale debito riconosciuto dagli autori verso i ricordi tramandati
in famiglia … la narrativa migratoria comincia a connotarsi al femminile,
perché memoria, aneddoto, racconto sono quasi sempre un fardello che le
donne hanno conservato/elargito ai posteri»82.
Questi riferimenti alla figura materna si ritrovano, nel carteggio Gabrielli,
nelle epistole redatte da Graziella e Maria Laura. La madre avviò le figlie allo
scambio epistolare facendosi lettrice e correttrice dei loro scritti, instaurando
una complicità per cui lei riconosceva in loro ciò che era stata, mentre le figlie
si identificavano nei suoi comportamenti83.
Molto spesso nelle lettere delle ragazze, soprattutto in quelle di Maria
Laura, vengono aggiunte, prima della conclusione, le scuse per una probabile
77
S. ULVIERI, Donne migranti e memoria di sé, genere, etnia e formazione: una ricerca nell’area
napoletana, in Donne migranti, cit., pp. 241-275: 245.
78
LAHIRE, Identità sessuali alla prova della scrittura, cit., p. 152 e FABRE, Introduzione. Nove
terreni di scrittura, cit., p. 24.
79
CAPELLO, Il Sé e l’Altro nella scrittura autobiografica, cit., p. 151.
80
Vedi ROMEO, Narrative tra due sponde, cit., p. 50.
81
Vedi F.M. SIRIGNANO, Donne e storie di vita: la memoria autobiografica come ricerca
interculturale, in Donne migranti, cit., pp. 399-413: 401-402.
82
C. CATTARULLA, I. MAGNANI, L’azzardo e la pazienza, donne emigrate nella narrativa argentina,
Città Aperta Edizioni, Enna 2004, pp. 13-14.
83
Vedi LAHIRE, Identità sessuali alla prova della scrittura, cit., p. 155.
31
scorrettezza grammaticale: «Vi chiedo scuse questa volta perché non so come
ho scritto, senza la mamma vicino non so scrivere bene, solo aspetto che mi
capiscono qualcosa di tutto lo scritto …»84.
La presenza della madre è sinonimo di sicurezza, limita l’orizzonte dei figli
dando loro la possibilità di sentirsi accasati, vicini a lei e protetti85.
Infatti, questa nota si ripete per quasi tutte le lettere:
Bene adesso penso di finire con il mio “testamento”, forse non capite qualche parole, so che
non scrivo tanto bene ma non cé la mamma vicino per chiedere aiuto86.
E un po tarde e non cé la mamma vicino per dirmi come devo scrivere …87.
Questa relazione particolare che si stabilisce tra madre, figlia e lettera
porta a privilegiare la figura femminile su quella del padre anche per quanto
riguarda gli «affari di famiglia»:
Di questa lettera papà e mamma non sanno nulla, ma forze a mamma se lo dirò perché lei
si sentiva molto male per quello che è passato fra di voi, lei non a altre che parole buone e
ricordi belli di voi e so che vi vuol tanto bene88.
Dalla lettera di Maria Laura si evince come, in caso di malumori tra parenti,
fossero le donne a dover riportare l’armonia. Lo facevano con spontaneità in
quanto l’unione della famiglia era un valore fondamentale, soprattutto per chi
emigrando aveva perso la rete di contatti del paese natio; la corrispondenza
con i parenti oltreoceano era uno dei momenti più importanti e il pensiero di
perderla destava una evidente preoccupazione.
3.2 Da donna a donna
Pur mantenendo atteggiamenti pazienti e rispettosi nei confronti degli
uomini di famiglia, le nostre scriventi avevano sviluppato una rete comunicativa
autonoma in cui davano rilevanza prima di tutto alle destinatarie. Nelle sue
lettere Lidia impostava il preludio avviando la conversazione sempre al
femminile, non solo con i cognati: «Carissimi Vittoria e Eugenio»89, «Carissima
Vittoria e Eugenio»90, ma con tutti i parenti: «Carissima Lisa Eber e tutta la
famiglia»91. Non mancano simili attenzioni anche nel carteggio Bartoli,
Anita inviò dall’Argentina un biglietto augurale alla cugina cogruzzese Diva
84
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 23 marzo 1988, carteggio Gabrielli.
Vedi JANKOWSKI, Ascoltare la madre, cit., p. 13.
86
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 21 giugno 1987, carteggio Gabrielli.
87
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 10 novembre (senza anno), carteggio Gabrielli.
88
Ibidem.
89
Lettera di Maria Laura, Graziella e Lidia Gabrielli, 18 luglio 1985, carteggio Gabrielli.
85
32
rendendola sua referente privilegiata: «Cara Diva con cuesto invio i più cari
auguri a tè e tutta la familia»92. Ciò dimostra come questa complicità si fosse
diffusa con la lettura collettiva dei carteggi e fosse stata poi interiorizzata come
pratica ad ampio raggio.
Nelle lettere delle donne più giovani tali attenzioni sono meno ricorrenti
in seguito ad un’educazione che dava per scontata la parità di ruoli e diritti.
Nelle lettere di Maria Laura i nomi dei destinatari erano spesso alternati:
«Carissimi zii Vittoria e Eugenio»93 ma anche «Carissimi zii Eugenio e Vittoria»94,
la stessa situazione si incontra nel carteggio Bartoli nei testi di Liliana Giurlani:
«Queridos Vittorio, Enrica e Guido»95 ma anche «Carissimi Enrica e Vittorio»96. La
progressiva perdita di questo preludio al femminile da un lato, era positiva in
quanto presupponeva un’evoluzione del contesto sociale, dall’altro, negativa,
perché causa del progressivo indebolimento di quella silenziosa alleanza
transoceanica che le donne avevano costruito con «l’azzardo» per aver sfidato
le regole patriarcali e «la pazienza» con cui avevano affrontato il duro cammino
dell’emancipazione.
4 Lettere alla famiglia
Scritte in ambito domestico, uno dei principali argomenti delle lettere
femminili erano le vicende di famiglia che includevano lo stato di salute dei
parenti e tutti gli eventi che quotidianamente segnavano l’esistenza sia delle
persone che abitavano la stessa casa che dei compaesani con cui si avevano
strette relazioni. Spinte dall’istinto materno e favorite dalla forma dialogica della
lettera, le scriventi non volevano solo raccontare ma anche essere informate
del benessere dei parenti oltreoceano, così «la lettera, veicolo di notizie di tutti
i generi, diventò un’esigenza, un dovere familiare e sociale …»97.
Nel carteggio Gabrielli le lettere di Lidia e delle figlie Maria Laura e Graziella
cercavano continuamente il contatto con i parenti castelnovesi:
Dopo tanto tempo vi scrivo solo due righe per mandarvi i nostri più cari saluti (la mamma vi ha scritto
tante volte, ma non ha riuscito a mandare neanche una lettera) per dirvi che sempre vi ricordiamo
tanto con tanto affetto … mi fa male non avere tue notizie in forma diretta. La mamma sempre mi dice
che chi sa cosa pensa la zia Vittoria perché io non l’ho scritto più … per questo io … vi scrivo …98.
90
Lettera di Maria Laura, Graziella e Lidia Gabrielli, 21 giugno 1987, carteggio Gabrielli.
Lettera di Lidia e Enzo Gabrielli, 12 agosto 1985, carteggio Gabrielli.
92
Lettera di Anita Bartoli, senza data, carteggio Bartoli.
93
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 23 marzo 1988, carteggio Gabrielli.
94
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 24 gennaio 1989, carteggio Gabrielli.
95
Lettera di Liliana Giurlani, 15 gennaio 1993, carteggio Bartoli, «Queridos» è il termine spagnolo
per «cari».
96
Lettera di Liliana Giurlani, 17 giugno 1993, carteggio Bartoli.
97
BETRI, MALDINI CHIARITO, Introduzione, in «Dolce dono graditissimo», cit., pp. 7-17 [:8].
91
33
Come si legge in questa lettera di Maria Laura, le ragazze si appassionavano
alla pratica epistolare tanto da trovare sempre un po’ di tempo per scrivere
sapendo che spesso, non ricevere notizie poteva essere causa di preoccupazioni
e malessere per le donne lontane.
L’epistola seguente è un esempio canonico di lettera familiare nel carteggio
femminile. Il testo si suddivide in tre parti, in cui le donne di famiglia raccontano
episodi personali o semplicemente riportano un saluto:
Con tanto piacere abiamo ricevuto il pachetto con le due camicie e la cartolina che hanno
portato Olga e Enzo Venturi, cosi pure le vostre notizie. Bene, questa volta incomincio io
la lettera per ringraziarti quello che mi hanno mandato e per dirvi che ho gia finito il mio
studio; e gia sono inscritta in tutti le scuole medie di Pergamino dove posso lavorare, spero
di trovare presto un posto così sarò di meno peso a papa. In quanto a la mamma sono gia
20 giorni che è stata operata ad una gamba, e andata tutto bene, adesso dovrà andare per
4 o 5 mesi con la fasia elastica e poi dopo starà tutto a posto. Si è sentita un poco molesta
per l’anestesia che l’hanno dato, ma l’ha superato abbastanza bene. Papa sempre fa qualche
cosa ma piu che altro si dedica alla vendita dei materiali ed anche compra e vende delle
machine insieme a Amadeo. Graziella, si tutto marcia bene, diventerà mamma in Gennaio,
dopo tanto tempo di aspettare adesso e realtà. Qui siamo tutti tanto felice, io solo spero che
tutto vada bene, Olga mi ha detto che mi aspettavano la, ti ringrazio tanto l’invito e spero di
poter andare un giorno non tanto lontano Papa mi disse che aspettava l’indirizzo di Achille
con il cognome ma anche questa volta vi siete dimenticati. Senz’altro, vi manda un forte
abbraccio e un bacione, vostra nipote Maria Laura99.
La prima parte è scritta da Maria Laura, che ha voluto precedere la madre,
solita ad iniziare, mossa dal felice obbligo di ringraziare gli zii per il regalo
ricevuto. L’entusiasmo che trapela dal testo è visibilmente sincero, inoltre, data
la quantità numerica di lettere presenti nel carteggio, si deduce che Maria Laura
amava realmente scrivere ai parenti oltreoceano per aggiornarli dei fatti perché,
come lei stessa specificava, erano la sua famiglia e dovevano essere resi partecipi
delle buone come delle brutte notizie. Il corpo di testo passa dalla descrizione
della propria vita, il termine degli studi e il prossimo lavoro da insegnante, al
buon esito dell’intervento operatorio subito dalla madre. Il campo di narrazione
si allarga a tutti i membri di famiglia dallo stato di gravidanza della sorella
Graziella alle attività lavorative del padre e del cognato.
Nelle ultime tre righe Maria Laura interrompe la sua conversazione per
trascrivere un messaggio del padre Enzo rivolto ad Eugenio, si tratta di uno degli
«affari da uomini» di cui lei non è al corrente. Questo non è un fatto casuale,
spesso gli uomini esercitavano la loro autorità sulle scriventi, imponendo
la formalità della propria presenza nella lettera con la pretesa che la donna
sospendesse la propria narrazione per citarli verso la conclusione e nei saluti.
Non scrivevano in prima persona in quanto si trattava di argomenti al femminile.
98
99
34
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 24 gennaio 1989, carteggio Gabrielli.
Lettera di Lidia, Maria Laura e Graziella Gabrielli, 18 luglio 1985, carteggio Gabrielli.
La lettera prosegue con il breve intervento di Graziella: «Carissimi … vi
ringrazio tanto perche sempre con qualcosa vi ricordate di noi. Io sto bene un
bacione grande Graziella e Amadeo»100.
A differenza del padre e del marito che non scrivono, Graziella si sente a
sua volta in dovere di rispondere all’affetto dimostrato dagli zii con il regalo.
Nelle tre righe, si preoccupa implicitamente di inserire anche il saluto del
marito Amadeo allo stesso modo in cui sua sorella aveva citato il padre.
Carissimi … spero la presente incontrarvi in buona salute, come già Maria Laura vi dice sono
stata operata e vado abbastanza bene la verità ora già sta, ma se sapevo quello che era non
mi sarei operata continuavo come stavo, bé già sta e speriamo sia per il bene. Vi dirò che mi
ricordo tanto e già ò tanta voglia di vedervi tutti, cara Vittoria quante sere sono qui guardo
la televisione e mi ricordo di noi che guardando pure tele e mangiando le caramelline verdi
i nostri giri in bicicletta che già non verranno più. Auguro che possiate terminare la casa
presto Olga mi disse che state bene, loro sono venuti il 9 Luglio … grazie tanto delle camicie
sono molto belle ma perché sempre disturbarvi? Spero che Lisa Eber Paolo e tutta la fam
stiano bene fatele i nostri più cari saluti, saluti cari e un forte abbraccio per tutti sempre vi
ricordo tanto Lidia La sorella di Lisa come sta? Quando ho nostalgia ascolto la casetta con
vostre voci e faccio una piangitina101.
La terza parte dell’epistola è scritta da Lidia che si preoccupa, con la
domanda retorica sullo stato di salute, di recuperare il preludio trascurato
dall’enfasi di Maria Laura. In seguito ripete in poche righe la sua condizione
post intervento, questa brevità palesa come le donne amassero molto incentrarsi
sugli interlocutori. Così Lidia si mette da parte velocemente per passare ad un
dialogo a due con Vittoria, raccontando la propria nostalgia di casa e delle
belle esperienze passate insieme dalle serate davanti alla televisione ai giri in
bicicletta. Tempi, che come scrive, non torneranno più.
Subito dopo Lidia cerca di riemergere dai meandri dei ricordi recuperando
il suo ruolo archetipico di donna di casa, informandosi sullo stato di salute
degli altri Gabrielli castelnovesi ma non riesce a reggere all’emozione e tracolla
confessando che nei momenti più tristi si sfoga piangendo e ascoltando le voci
registrate dei parenti.
Non mancano anche nel carteggio Bartoli lettere di famiglia al femminile.
Una missiva modello, di cui si riportano solo alcune parti in quanto molto
lunga, era stata scritta da Ioles ai cugini cogruzzesi, Vittorio ed Enrica, subito
dopo una conversazione telefonica:
La tua chiamata (da due ore fa) è stata proprio come se una finestra si aprisse nel tuo paese!
Io ero a letto che leggeva (e ore 16) del pomeriggio ho un po di raffreddore già che siamo
in autunno … io sto bene … altri parenti tutti bene … .
100
101
Ibidem.
Ibidem, «fam» forma abbreviata per famiglia, in originale nel testo.
35
Il bisogno di scrivere che segue al dialogo probabilmente sottolinea come
le donne si sentissero più a loro agio e libere di raccontare sul foglio di carta.
Infatti, dalla lettera di Ioles pare che, nonostante la telefonata di poche ore
prima, si avessero ancora moltissime informazioni da comunicare:
In quanto alla zia Adela, molto commossa per la disgrazia del Iofre, che era giovane ancora
… pativa di una constante depressione, come risultato di altri fattori (come penso io), la sua
ditta … non va tanto bene … è tutto fermo … Iofre si richiudeva in casa sua non vedeva
nessuno, aveva paura in forma patologica … è morto per un sincope cardiaco, credo che
alle 3 del mattino … ti dirò che incomincio a sentire nostalgia di vedersi a tutti i conoscenti
e le loro … città …102.
Anche in questo caso il ruolo della donna è farsi depositaria degli affari di
famiglia da raccontare ai parenti per renderli pienamente partecipi della vita
di comunità. Oltre ad essere a conoscenza di quasi tutte le vicende familiari
le donne tendevano anche a spiegare i fatti accaduti facendo appello al loro
«sesto senso». La nostalgia resta un topos immancabile.
5 «Con tanta voglia di vedervi»
La nostalgia era uno dei sentimenti più ricorrenti nelle lettere al femminile.
La sua presenza costante risaliva ai tempi della scelta del viaggio migratorio
compiuta, molto spesso, dal marito e sopportata dalla donna che, nonostante
il coraggio e la determinazione d’animo, continuava a soffrire per tutta la vita
la lontananza dal paese e la solitudine per la perdita degli affetti femminili:
Non sempre e non necessariamente le mogli erano felici di partire … L’emigrazione
comportava l’interruzione dei rapporti con i parenti e amiche in patria, che avrebbero
potuto essere mantenuti solo in absentia. Quando non vi era la prospettiva di sostituirli
con altri all’estero, il trasferimento esponeva le donne al rischio di ritrovarsi sole, senza
relazioni proprie … l’inesistenza di reti femminili nelle quali inserirsi … non le incoraggiava
a emigrare … Non era scontato che la solitudine fosse la prospettiva che attendeva le mogli
con il trasferimento all’estero. Quando l’emigrazione avveniva nel quadro di quella di altre
famiglie con le cui donne vi erano rapporti di parentela e di amicizia non era così103.
Ciò spiega perché le mogli dei primi Bartoli emigrati avessero convinto i
mariti a sposare sorelle o vicine di casa, in modo tale da avere una rete con cui
aiutarsi reciprocamente. Invece Lidia era emigrata sola con il marito lasciando
tutti i parenti e gli amici in Castelnovo Sotto e nonostante la presenza dei
compaesani in Pergamino, con cui si erano costruiti dei rapporti di amicizia,
non si trattava della stessa condivisione di affetti e confidenze che aveva vissuto
nel paese d’origine. Manifestava la sua nostalgia in molte lettere anche solo
102
103
36
Lettera di Ioles Bartoli, 7 aprile 1991, carteggio Bartoli.
RAMELLA, Reti sociali, famiglie e strategie migratorie, cit., pp. 154-155.
con una frase: «Tu continui ancora con la barberia? Le notizie del paese buone
e brutte sempre fanno piacere. Vi ricordo sempre tanto tutti un abbraccio per
tutti»104.
Altre volte sentiva ancora più forte il bisogno di manifestare il proprio
affetto ai parenti, spesso questa pressione emotiva era legata ai rientri da
vacanze trascorse al paese, distacchi da una realtà cui non ci si voleva separare
e rientri in un’altra realtà cui non era mai semplice adattarsi:
Vi ricordo sempre tanto e non dimenticherò mai l’atenzione ricevuta nella mia permanenza
lì con voi la verità verità vi voglio tanto bene e tu cara Vittoria sei stata così buona con me
credimi che ti ricordo con tanto affetto sono sincera105.
Sempre le manifestazioni di affetto e nostalgia sono le chiavi che ci portano
a riconoscere l’autenticità degli scritti femminili. Luce Irigaray sostiene che, con
questi codici emozionali, le donne insegnassero come «abitare il linguaggio
… un modo di legare linguaggio a realtà … senza raddoppiare il mondo a
parole …»106 che, al contrario, era prerogativa indispensabile della psicologia
maschile.
Qualora l’aura emotiva delle lettere perdesse la propria vivacità sarebbe
indizio di una forzatura, di una pressione proveniente dall’esterno non certo
dall’animo della scrivente.
5.1 «Il dittatore e la dettatura»107
Una simile impressione si è incontrata in una delle lettere di Lidia, la sua
scoperta ha svelato un elemento frequente nell’epistolografia femminile e che
si ricongiunge ad aspetti precedentemente trattati:
Mi auguro che al ritorno Bartoli e signora incontrarvi bene, peccato che sono rimasti solo
15 giorni per un viaggio tanto lungo credo non vale la pena, grazie per le cose che avete
mandato tutto molto bello e gradito … La foto dell’entrata molto bella proprio allo stile che
Enzo immaginava … in questo modo qui continua la propaganda che a casa del fratello
di Enzo ci si incontra molto bene … ma che mai cerchiamo di mandarvi degli amici nostri
non è affatto vero … Ora pure vedrete che arriveranno Rossinelli e Signora per circa un
mese, solo per roscuotere l’eredità di una casa … ed anche questi vengono di sua spontanea
iniziativa dato che si sono fatti amici con voi. Di tanto in tanto sentiamo le novità del paese
per tramite Eber le belle a volte sono brutte ma col passare del tempo gl’anni sono sempre
più … cose in bene non si possono aspettare. Dal nostro ultimo viaggio le relazioni fra di
noi si sono cambiate lasiamole perdere e dire solo che il destino le a volute cosi, non è un
104
Lettera di Enzo e Lidia Gabrielli, 12 agosto 1985, carteggio Gabrielli.
Lettera di Lidia Mori, 26 gennaio 1987, carteggio Gabrielli.
106
ZAMBONI, Le riflessioni di Arendt, Irigaray, Kristeva e Cixous sulla lingua materna, in All’inizio
di tutto la lingua madre, cit., pp. 137-150 [:143].
107
Vedi LAHIRE, Identità sessuali alla prova della scrittura, cit., p. 156.
105
37
bene io capisco ma andare incontro a ragioni che proprio Enzo non ne a affatto nessuna
colpa. Ci avete mandato pure delle fotografie da dare a Venturi e Olga ma loro si trovano
in Italia su a Baiso lui non si trovava bene di salute a deciso in fretta vendere tutto e venire
a radicarsi lì nel suo paese, dopo di questo noi non abbiamo più saputo nulla … Abbiamo
visto le filmine che ha mandato R … sono chiare e non nascondo che al vederle ho sentito
molta nostalgia e un nodo alla gola, con tanta voglia di vedervi tutti un forte abbraccio vi
voglio tanto bene108.
Dopo un periodo di silenzio dovuto a dissapori familiari, Lidia riapre la
conversazione per recuperare i rapporti. Nel discorso che articola con molta
formalità, non nasconde il suo disagio per una condizione che avrebbe sempre
voluto evitare, rassicura i parenti del suo affetto ma si intuisce anche un’aura
di freddezza nelle parole, anomala per le sue lettere. Tale senso di estraneità si
acuisce nel punto in cui, con tono retorico, Lidia chiede ai parenti di sollevare
Enzo dalle colpe del litigio. La frase risulta molto strana, non è motivata e pare
quasi «imposta». Il discorso prosegue e si dilunga sulle vicende dei compaesani
Venturi, un altro esempio di famiglia in cui, ancora una volta, l’uomo, dopo
anni passati in Argentina, preoccupato per le proprie instabili condizioni di
salute, opta per un repentino rientro in patria senza prestare ascolto ai desideri
della moglie, conoscente di Lidia. La nostra scrivente non esprime giudizi su
questi atteggiamenti maschili che ha imparato, come le altre donne del suo
tempo, a rielaborare, si limita a narrarli con tono informativo. Il suo sentimento
sostenuto tracolla alla fine della lettera, tornando ad una ormai insperata
vivacità emotiva che esprime la nostalgia per il paese e i parenti.
Uno scritto di qualche tempo dopo conferma le impressioni suscitate dal
testo di Lidia:
Conosco bene le due versioni su quel incidente da anni fa e la ultima lettera che hanno
mandato in quella che dice che scrive la mia mamma; bene lei non si ricorda di cosa ha scritto
perché non ha fatto altra cosa che copiare una lettera scritta per mio papa perché lui le a
detto di copiarla, ma lei non voleva. Non so cosa pensate voi, ma io posso parlare per lo que
vedo in casa, mio papà non sta bene. In questi ultimi anni ha invecchiatto tanto; si è venito
tanto abbasso che non è la stessa persona che voi avete visto neanche che io conosceva. Ha
avuto molti “achagui” … lui non si vede bene ha perso tutta la sua securità …109.
Ecco che si spiega la freddezza parsa così insolita per le sue lettere, non
si trattava di un testo autografo ma della trascrizione di una comunicazione
dettata dal marito! Se Lidia non ha il coraggio di denunciare questo atto
di forza subito, lo fa Maria Laura che, forte di un’educazione, quella degli
anni Ottanta, in cui le donne avevano già ottenuto la parità dei ruoli non
teme l’autorità del padre. Maria Laura difende la madre ma allo stesso tempo
giustifica la reazione del padre che, a suo parere, aveva fatto ricorso ad un
108
Lettera di Lidia Mori, 28 gennaio 1987, carteggio Gabrielli.
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 21 giugno 1987, carteggio Gabrielli, «achagui» significa
acciacchi.
109
38
gesto arrogante per nascondere le sue difficoltà a scrivere dovute alla vecchiaia.
Inoltre l’uomo, fortemente indebolito, cercava un modo per imporsi ma aveva
perso la sua sicurezza ed era tracollato esprimendo la propria disperazione
negli autoritarismi domestici. Nella storia della scrittura femminile queste
prevaricazioni erano comuni e diffuse in ambito familiare: «Molto spesso,
quando il marito acconsente a partecipare alla redazione di lettere … detta
a sua moglie così come fa … alla … segretaria» questa azione trova la sua
spiegazione nell’etimologia della parola «Dicto, significa tanto dettare un
discorso … quanto dettare nel senso di prescrivere, ordinare, raccomandare,
consigliare»110.
6 Sapori e parole
Nelle lettere di migrazione si parlava spesso di cibo perché il mito
americano era legato all’abbondanza alimentare, simbolo di benessere e
ricchezza per la società rurale. Questo non porta a sostenere stereotipi come
l’assenza di un’offerta diversificata di prodotti alimentari nelle campagne o
l’inesistenza di una cultura culinaria. Già nel XIX secolo l’inchiesta Jacini e
il ricettario del celebre Pellegrino Artusi documentarono la presenza, nelle
campagne italiane, di regimi alimentari che erano prevalentemente vegetariani
in quanto il resto delle risorse animali, dovevano essere cedute dai braccianti
ai proprietari terrieri. Quindi si trattava più di un esproprio alimentare che
di una mancanza e la creatività nella realizzazione di piatti semplici non era
estinta111. I membri della società rurale avevano talmente tanto interiorizzato
le abitudini vegetariane che, una volta compiuto il viaggio d’emigrazione,
tendevano a mantenere i propri costumi alimentari consumando prodotti già
noti che, molto spesso, venivano trapiantati in nome di un vero e proprio
conservatorismo.
Come per la lingua, gli emigranti vollero mantenere inalterata anche la
cucina perché era l’espressione più tangibile delle loro origini e realizzava
quell’identità che non era ancora pronta per il processo di decostruzione.
Ancora una volta le donne, protettrici del focolare, dovevano provvedere
ai fabbisogni nutritivi, che erano sempre stati di loro competenza, ma
anche incarnare la madrepatria cucinando esclusivamente piatti nazionali, o
ancora meglio, regionali. Il substrato di cultura materiale si fece base della
cultura femminile e oggetto dei dialoghi tra compaesane oltreoceano, passo
fondamentale verso la destrutturazione e ricomposizione dell’identità112.
110
111
112
LAHIRE, Identità sessuali alla prova della scrittura, cit., pp. 157-158.
Vedi TETI, Emigrazione, alimentazione, culture popolari, cit., pp. 575-597 [:577].
Vedi ROMEO, Narrative tra due sponde, cit., p. 116.
39
6.1 «a mangiare cappelletti» in casa Gabrielli
Nei primi tempi da emigrati, uomini e donne sopraffatti dalla nostalgia del
paese e dall’ansia di dover reagire allo spaesamento subito nel nuovo contesto,
rafforzavano la propria identità associando all’atto del «mangiare» un’aura di
sacralità. «Mangiare insieme», come avveniva nel paese d’origine, diveniva una
via possibile per riconoscersi e riconoscere «l’altro … la convivialità … avvicina
le persone, annulla le distanze, allontana la paura …»113.
Questa convivialità connotava anche i nostri scriventi castelnovesi. Le lettere
raccontano che erano le donne, le organizzatrici di piacevoli ritrovi gastronomici
tra compaesani, parenti ed amici e, se invitate, erano sempre loro a prestare
attenzione al cibo preparato che traducevano, per istinto materno, in uno
scambio di affetto.
A differenza degli uomini che tendevano al conservatorismo del piatto
tradizionale vedendo nell’autoisolamento l’unica difesa culturale, le donne
dialogavano di cucina e cibo nelle loro lettere, confrontavano e scrivevano delle
proprie diversità per comprenderle, accettarle e rielaborarle114. La precisione
che le portava a ricordare nei dettagli i cibi consumati insieme alle persone
care era un’ottica non convenzionale che metteva in discussione la stessa
cultura americana, avversa al dedicare tempo al pasto, celebrando una mentalità
esclusivamente italoamericana115.
In una lettera Lidia scriveva alla cognata: «guardando pure tele e mangiando
le caramelline verdi …»116, risulta quasi incredibile come, a distanza di tempo,
specifichi il colore delle caramelle. In questo modo voleva comunicare a Vittoria
che la memoria di lei sarebbe sempre stata distinta dagli altri ricordi, in quanto
resa speciale dalla peculiarità delle caramelle verdi, per niente comuni. Sempre
nella stessa lettera Lidia aggiungeva: «Olga mi disse che state bene, loro sono
venuti il 9 Luglio a pranzo con noi e abbiamo parlato tanto di voi tutti …»117. Ecco
realizzata la convivialità, il cibo che favorisce la comunicazione e il recupero
della memoria familiare, un altro attributo molto importante per il processo di
ricostruzione della soggettività dell’emigrante. Allo stesso tempo questi messaggi
femminili davano anche informazioni sul benessere della famiglia perché
l’abbondanza di cibo che si poteva offrire agli invitati, era sinonimo di un’ottima
situazione economica.
Oggi è venuto Camillo Bartoli e sembra proprio che venga con la famiglia a fare un giro,
vi dirò che con noi è molto buono e pure Enzo mi disse che … si è portato tanto bene con
113
Vedi TETI, Emigrazione, alimentazione, culture popolari, cit., p. 590.
Vedi BAROLINI, Riproponendo The Dream Book, an anthology of writings by Italian American
women, cit., p. 219.
115
Vedi ROMEO, Narrative tra due sponde, cit., p. 144.
116
Lettera di Lidia Mori, 18 luglio 1985, carteggio Gabrielli.
117
Ibidem.
114
40
lui, come pure sua moglie e figlia veramente sono i paisani che più spesso vengono da noi
e che pure invitano sempre a pranzo …118.
L’amicizia con i compaesani, necessaria per costruire legami d’affetto con
cui motivare la propria vita oltreoceano, era spesso rafforzata dalla tavola.
In questa lettera, i molti inviti a pranzo sono per Lidia un segno di altissima
considerazione da parte della famiglia Bartoli, l’offerta del cibo, per altro
risorsa preziosa per chi aveva vissuto momenti di difficoltà, era un dono non
comune, proprio delle situazioni speciali. Lidia si ritiene onorata di essere così
di frequente un’occasione speciale per i Bartoli, inoltre, ancora una volta, è
una donna a scrivere con ammirazione di queste occasioni ritenute grandi
espressioni di gentilezza.
Il fatto che fossero soprattutto le donne a rivalutare l’offerta gastronomica era
dovuto alla loro consapevolezza dell’impegno richiesto per la preparazione del
cibo, sia che si trattasse di ricette tradizionali, che di piatti di nuova creazione.
Per essere invitante il cibo necessitava di cure e, nel caso di piatti emiliani,
i procedimenti si ricordavano a memoria. La tecnica infallibile che le donne
mettevano in pratica per non dimenticare nulla era la diretta associazione di un
ingrediente a un evento familiare, così le ricette potevano essere ricordate più
agevolmente anche dalle giovani generazioni che ingigantivano questi episodi
di vita quotidiana in eventi epici di un mondo passato quasi mitologico.
Sempre nel carteggio Gabrielli si trovano altri riferimenti all’atto conviviale:
Giorni fa siamo stati a visitare (e a mangiare cappelletti) a casa di suo fratello la lagnanza
è reciproca per le estremamente rare comunicazioni epistolari!! Qui tutti stanno bene; la
signora Lidia è stata operata della vena e con qualche riguardo si muove bene …119.
A scrivere in questo caso sono i coniugi Venturi che, dopo essere stati
ospiti di Eugenio Gabrielli, erano tenuti ad espletare il ruolo di ambasciatori di
famiglia. La signora Olga aveva costruito una relazione d’amicizia con Lidia e si
preoccupava di rendere note le condizioni di salute dell’amica ai suoi parenti
castelnovesi. La specificazione: «e a mangiare cappelletti …» lascia dedurre
che gli emigranti, in occasioni speciali quali visite tra conoscenti, usavano
preparare piatti emiliani e la felicità di poterli mangiare era accresciuta se ci si
trovava in terra argentina, perché provava come si potesse ricreare un breve
contatto con il paese natio. In questo caso, per attutire la nostalgia del rientro
e allo stesso tempo per festeggiare la ventata castelnovese che tornava in casa
Gabrielli, personificata dai due paesani, si era deciso di cucinare un piatto
che rappresentasse tutti questi emigranti e li facesse sentire uniti almeno per
alcune ore.
118
119
Lettera di Lidia Mori, 9 aprile 1967, carteggio Gabrielli.
Lettera di Olga e Enzo Venturi, 14 luglio 1985, carteggio Gabrielli.
41
La tavola acquisiva importanza anche come luogo di riunione familiare,
sia nei momenti di festa, che in quelli seri, legati a decisioni da prendere o
questioni da risolvere: «Con tutto l’altro pacco che mi avevi consegnato ci
siamo seduti tutti insieme a tavola e l’abbiamo letto con attenzione … papa ha
detto che per lui è tutto dimenticato …»120.
Sempre una donna, in questo caso Maria Laura, invita la famiglia intorno al
tavolo per leggere con attenzione le carte che le sono state inviate per posta
dallo zio Eugenio Gabrielli. La presenza di tutti, presuppone un atteggiamento
di massima attenzione per i documenti da discutere, su cui sarebbe stato
richiesto il parere di ogni membro della famiglia. In questo caso, nonostante
l’approccio democratico al problema proposto dalla figlia, il padre esercita
il suo ruolo autoritario chiudendo subito la discussione con la decisione di
dimenticare tutto. Certo la tavola era risolutrice dei malumori familiari che si
risolvevano a volte, con la discussione e l’allegria, altre volte con l’imposizione
del silenzio e il persistere di un rammarico irrisolto.
6.2 «della grande varietà di mangiare» dei Bartoli
Nel carteggio Bartoli i riferimenti alla cucina e al cibo non sono scritti
direttamente dalle donne ma da loro raccontati e poi trascritti per mano
maschile. Questo parrebbe contraddire tutto ciò che è stato teorizzato finora
sulle lettere degli uomini, in realtà è il contesto in cui si redige la lettera a
favorire questo passaggio. Camillo Bartoli scrive al cugino cogruzzese Guido
per ringraziarlo dell’ospitalità e dell’accoglienza dimostrate al figlio Remo, in
uno dei suoi primi viaggi oltreoceano. Riporta nel testo le osservazioni di
Remo e della moglie ed è proprio la donna a confermare la sensibilità per
l’argomento gastronomico:
con il ritorno di Remo siamo stati di festa al raccontarci tutta la sua gita a casa vostra anche
mia nuora e rimasta tanto contenta, ci raccontano che le avete fatto una grande accoglienza
e della grande varietà di mangiare fattagli, noi vi ringraziamo di tutto cuore …121.
L’abbondanza e la varietà della cucina, colpiscono la donna che ne apprezza
la creatività. Oltre ad essere segno di grandissima gentilezza dimostrata dai
parenti, si rivela una vera e propria scoperta per quei discendenti che non
erano nati in Emilia, rivelazioni che forse avevano contribuito a costruire il
sentimento di italianità espresso da Remo nelle lettere analizzate nel capitolo
precedente.
120
121
42
Lettera di Maria Laura Gabrielli, giugno 1995, carteggio Gabrielli.
Ibidem.
6.3 Cucina creativa per una nuova identità femminile
In seguito ai vari esempi riportati si vede come il legame tra alimentazione e
convivialità, cibo e lingua, era segnato dal vincolo materno. Come era la donna
a garantire la diffusione della lingua d’origine con cui si conversava a tavola,
era sempre lei a garantire la sopravvivenza e il futuro alla famiglia per mezzo
del cibo122. Alimentazione e linguaggio erano i due elementi fondamentali per
il recupero dell’identità individuale.
Le donne, forti di questa ricchezza, si appropriavano più velocemente della
propria soggettività ed erano incentivate ad aprirsi al dialogo interculturale
con le tradizioni del luogo d’emigrazione. Il senso pratico le portò a tradurre
il processo di integrazione con la creazione di nuove ricette che univano la
tradizione reggiana ai prodotti reperibili in terra argentina.
Questo processo non fu solo delle donne castelnovesi ma si trattava di
un gesto istintivo, proprio del pensiero femminile, realizzato da quasi tutte
le emigrate. In Argentina, trovando un contesto più aperto al confronto
transculturale, l’influsso italiano si fece preponderante in campo culinario con
l’introduzione dei vegetali, uso comune nella società rurale. A sua volta la
cucina vegetariana si integrò di prodotti animali dando una certezza tangibile
di benessere123.
La mediazione e la promozione di occasioni di incontro sul tema per opera
delle Società italiane aveva contribuito ad agevolare il contatto e lo scambio
culinario tra le culture del territorio.
Così, la cucina delle donne, che ne esprimeva la creatività, si qualificava
come luogo di costruzione etnica, uno strumento che rendeva più immediata,
con il linguaggio del cibo, la percezione di sé nel nuovo mondo124.
6.3.1 La cocina della nonna125
Con l’intento di stabilire una comunicazione culturale tra Pergamino ed Emilia
Romagna, un gruppo di donne italoargentine ha curato una pubblicazione in
cui si raccolgono ricette tradizionali emiliane e le corrispettive realizzate con
ingredienti argentini. Quest’opera di traduzione ha reso i cibi più comprensibili
e più apprezzati perché integrati agli aspetti culturali del paese in cui sono
122
I. MAGNANI, Il desco e la lingua, in I. MAGNANI (a cura di), Il ricordo e l’immagine, vecchia e
nuova identità italiana in Argentina, edizioni Spartaco, Cesena 2007, pp. 87-101: 93-94.
123
Ivi, pp. 90-91.
124
Vedi TETI, Emigrazione, alimentazione, culture popolari, cit., p. 593.
125
Vedi A. BARRERA, La cocina della nonna, recetas de la Emilia-Romagna, Artes graficas Buschi,
Buenos Aires 2006.
43
preparati e consumati, rivelandosi anche di fondamentale importanza per la
diffusione della memoria emiliana tra i discendenti degli emigrati.
Le ricette sono state proposte in nome dell’imperitura «maniera di essere
delle donne»126 forte e radicata nella duplicità italoargentina, come testimoniato
dalla doppia versione linguistica del libro, italiana e spagnola. La maggior
parte delle ricette è associata al nome di chi ne ha fornito sia l’originale che
l’arrangiamento, questo per sottolineare la soggettività di ciascun autore e
renderlo, ancora una volta, consapevole della propria integrazione realizzata
nel piatto.
In nome della tradizione mnemonica femminile ma anche per agevolare la
comprensione della ricetta con uno sguardo al contesto reggiano, ogni piatto
è accompagnato da un proverbio o dalla narrazione di una storia della bassa
che contribuisce ad esaltare di ricordi il sapore del cibo.
Il capitolo dedicato ai tortelli è quello in cui meglio si realizza il parallelo
culturale. Dopo averne specificato la provenienza reggiana e le tipologie del
ripieno: erbette o zucca, si passa alle indicazioni pratiche per la realizzazione.
Nel caso si vogliano preparare quelli di zucca è necessario aggiungere una
batata 127 alla zucca argentina che è più acquosa di quella reggiana.
Esistono due ricette per i ripieni, la prima: «1 zucca di quelle che si chiamano
«pucherito», mostarda a piacere, amaretti a piacere, Parmigiano-Reggiano a
piacere (se non avete dei parenti che possono inviarvi il vero, si può usare
un buon reggianito argentino, però il migliore)…» la seconda: «Zucca, batata,
amaretti, noce moscata, mostarda, sale e pepe, Parmigiano-Reggiano …» ... «Si
possono mangiare con qualche salsa, però a noi piace con burro, formaggio
e gratinati al forno»128.
La batata è fondamentale per rendere la consistenza del ripieno simile a
quella originale, il formaggio può essere sostituito da una variante che ben si
sposa con gli altri ingredienti. Non è dunque necessario il prodotto emiliano
se non lo si può reperire facilmente, non è necessario cercare in esclusiva
i prodotti di una terra ormai troppo lontana per avere un buon risultato,
l’importante è saper proporre la propria ricchezza culturale servendosi dei
mezzi disponibili sul nuovo territorio. I metodi di cottura che seguono lasciano
libertà d’interpretazione anche se la specificazione di «a noi piace con …» dà
adito a due pensieri, da una parte, delinea un gusto proprio dei reggiani, un
piccolo limite cui potrebbe seguire un adeguamento in nome di un recupero
completo dell’appartenenza, dall’altra, può essere una specificazione solo
informativa per rendere noto come li si consuma abitualmente in Castelnovo.
La ricetta dei tortelli verdi, legata alle vicende di due Bartoli, pone subito
a confronto i «tortelli verdi – Castelnovesi» e i «tortelli verdi pergaminensi»129,
126
127
128
44
Ivi, p. 12.
Patata dolce.
Ivi, pp. 44-45.
gli ingredienti dei primi sono quelli tradizionali reggiani: «Bietola o spinaci,
cipolla, lardo, sedano, pane grattugiato. Parmigiano-Reggiano e asparagi»130, la
variante argentina sostituisce alcuni prodotti che non sono di facile reperibilità:
«Bietola o spinaci, cipolla, peperone, aglio, salsiccia e Parmigiano-Reggiano»131,
ecco che aglio, peperone e salsiccia arricchiscono il piatto con un tocco
sudamericano apprezzato dalle generazioni italoargentine, acuendo il piacere
di gustare e scoprire i cibi e le storie degli antenati.
Altri contributi delle donne Bartoli sono le ricette dei cappelletti e poche
pagine dopo ci si imbatte in un ripieno per lasagne «Lidia», purtroppo non ci
sono specificazioni ma dato il contesto, in cui la maggior parte delle donne
collaboranti è membro del gruppo degli emigranti e discendenti castelnovesi,
non risulterebbe insensato collegare il nome a quello di Lidia Mori in Gabrielli.
Il ricettario è completo di tutti i cibi della tradizione reggiana: risotti, insalate,
tagliatelle, bruschette, polenta, cannelloni, spongata, tortellini dolci, insomma
rende possibile trasportare l’Emilia nella propria casa argentina.
7 Donne e politica
«Anche se il termine politica deriva dall’aggettivo greco politikos (da polis)
significante tutto ciò che si riferisce alla città e quindi cittadino, civile, pubblico
– senza distinzione di genere –, la politica come arte e scienza del governo
è stata intesa per lungo tempo come prerogativa dell’uomo-cittadino. Le
trasgressioni in questo campo venivano a disturbare … non si esitava a definire
«mostruoso regime delle donne» …»132 quei governi che avevano a capo figure
femminili. Come nel campo culturale, anche in quello politico le donne erano
state escluse per evitare che una loro presa di consapevolezza rompesse la
subordinazione imposta dalla società maschile. Nello stato moderno del XVI
secolo, la donna di ceto medio era considerata una cittadina ma raramente
veniva coinvolta nelle assemblee elettive o consultive del suo territorio. Per altri
due secoli la politica rimase un «affare da uomini». Sempre a livello europeo,
nel XVIII secolo con l’affermazione dei partiti e la crescente alfabetizzazione,
una minoranza di donne colte iniziò ad orientarsi e a partecipare attivamente e
coerentemente alla vita politica prendendo consapevolezza del proprio status
di cittadine senza cittadinanza.
La determinazione a farsi riconoscere il proprio ruolo determinante in
ambito pubblico indusse le donne a lavorare con molta pazienza per diffondere
queste consapevolezze anche tra gli strati sociali popolari. In Italia, a partire
129
Ivi, pp. 46-47.
Ibidem.
131
Ivi, pp. 46-48.
132
F. TAROZZI, Donne e politica, in G. ZARRI (a cura di), La memoria di lei, storia delle donne,
storia di genere, Società editrice internazionale (SEI), Torino 1996, pp. 105-121: 105.
130
45
dal XIX secolo, i cambiamenti socioeconomici che si manifestarono portarono
a diverse dinamiche di relazione tra i sessi con la responsabilizzazione delle
donne, della società rurale, in quei settori lavorativi e amministrativi da cui
erano sempre state allontanate. Facilitato dall’ormai diffusa istruzione, il
richiamo delle donne in questi ruoli organizzativi si era rivelato indispensabile
in seguito all’esodo maschile migratorio e bellico, ciò aveva comportato per
le lavoratrici il riconoscimento, almeno formale, di alcuni diritti sul lavoro
e in famiglia. Le donne acquisirono lentamente la gestione delle eredità e,
con l’impiego nel settore industriale, partecipavano della vita di fabbrica
interessandosi gradualmente al corporativismo come ai movimenti dei
lavoratori133. Nello stesso periodo le suffragiste lottarono duramente per il
raggiungimento dell’indipendenza giuridica ed economica della donna, per
l’affermazione di un’identità femminile che permettesse un’autonomia di
gestione dei salari guadagnati col lavoro. Nel corso del Novecento furono
numerose le commissioni istituite per aprire il dibattito sul riconoscimento dei
diritti femminili in quanto le donne erano sempre più protagoniste attive del
loro tempo. La fuoriuscita dalla cerchia domestica le aveva rese consapevoli
delle dinamiche esterne che potevano vivere di persona, si ricorda che, nel
reggiano una maggioranza femminile sostenne l’affermazione del partito
socialista134. Dopo la seconda guerra mondiale, la partecipazione delle donne
alla Resistenza impose finalmente di dover considerare le figure femminili
come soggetti con piena cittadinanza e diritti civili, un decreto del 1945 che
precedeva la riunione della Costituente, garantì questo riconoscimento135.
Non si hanno molti dati riguardo la partecipazione femminile alla vita
sociopolitica argentina, certo è che, a scavalco tra XIX e XX secolo, nel
paese gli italiani iniziarono ad essere protagonisti attivi in questo campo. Il
territorio argentino non si mostrava particolarmente ostile, motivo per cui
gli italiani avevano organizzato dei movimenti operai piuttosto influenti cui
probabilmente parteciparono anche le donne lavoratrici136. Infatti, da alcuni
studi, risulta che nei primi decenni del XX secolo in America si estese il diritto
di voto al pubblico femminile, anche se la strada dell’emancipazione non
fu affatto priva di ostacoli soprattutto nel realizzare concretamente la parità
dei diritti. Per molto tempo ancora l’accettazione pubblica restava legata alla
vecchia distinzione che prevedeva per gli uomini l’esercizio del governo e per
le donne l’assistenza sociale137. Sempre dal 1945 si aprì un contatto tra Italia e
Argentina per cui si chiedeva una rappresentanza politica oltreoceano che si
133
Vedi PALAZZI, Donne sole, cit., pp. 48-241.
Vedi CAVANDOLI, Le origini del fascismo, cit.
135
Vedi TAROZZI, Donne e politica, cit., p. 110.
136
Vedi BRETAGNA, L’associazionismo in America Latina, in Storia dell’emigrazione italiana, vol.
II, cit., pp. 579-595: 588-589.
137
Vedi TAROZZI, Donne e politica, cit., p. 110.
134
46
realizzò, dopo un lungo dibattito, con l’estensione del diritto di voto per gli
emigrati con cittadinanza italiana138, così anche le donne ebbero la possibilità
di interagire con le questioni politico-sociali del paese di provenienza. In
realtà non esercitarono quasi mai questo interesse, come dimostrano le lettere
delle nostre scriventi, per una questione di educazione e di sottomissione al
capofamiglia.
Furono i movimenti femministi degli anni Settanta ed Ottanta, diffusi in
tutto il mondo, a conquistare una dimensione paritaria completa permettendo
alle donne di acculturarsi e crescere in un contesto equilibrato tra gli aspetti
dell’educazione materna e la consapevolezza del contesto sociopolitico e degli
ambiti che erano stati competenza dei loro padri. Nei nostri carteggi gli scritti
di Maria Laura Gabrielli e Ioles Bartoli introducono riflessioni e constatazioni
politiche ed economiche che figurano come vere e proprie novità, inesistenti
nelle lettere al femminile delle altre scriventi.
7.1 Due donne che non ballano il tango
Maria Laura e Ioles erano di generazioni diverse ma entrambe avevano
ricevuto un’istruzione prevalentemente, se non esclusivamente, argentina.
Nelle loro lettere le difficoltà di resa espressiva dei concetti sociopolitici
dipendono più dal blocco linguistico rispetto ad un uso disinvolto e pieno
dell’italiano, che da una limitata consapevolezza sull’argomento.
Maria Laura vive il problema socioeconomico del suo paese in età
universitaria, quando si trova incentivata a terminare gli studi per poter ottenere
un posto di lavoro e mantenersi senza gravare sulle spalle della famiglia. Si
tratta di un momento di passaggio che la introduce nella vera dimensione
sociale, l’impatto che ne deriva è duro, l’Argentina degli anni Ottanta è in
piena crisi economica causata dal continuo susseguirsi di governi instabili ma
questo non impedisce a Maria Laura di sviluppare una capacità di reazione
determinata dalla volontà di riscatto personale. Nelle lettere che scrive a
Castelnovo, agli zii Vittoria ed Eugenio Gabrielli, rende nota questa situazione:
che in l’argentina le cose non vanno tanto bene, per noi i giovani è tutto difficile; molte volte
ho pensato di andare via, di fare qualcosa in altro paese pero mi manca l’ultima decisione,
bene abbiamo una speranza di riuscire bene di tutto questo casino …139.
Io adesso sto lavorando molto grazie a Dio, perché in questo paese non c’è altro que
disoccupazione; non so dove si andrà a finire140.
138
Vedi COLUCCI, Il voto degli italiani all’estero, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. II, pp.
597-609: 604-609.
139
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 23 marzo 1988, carteggio Gabrielli.
140
Lettera di Maria Laura Gabrielli, giugno 1995, carteggio Gabrielli.
47
La certezza di un futuro precario diviene per lei un’abitudine, entra a far
parte della sua forma mentis, spesso lo scrivere ai parenti italiani si rivela una
valvola di sfogo che aiuta a rielaborare lo sconforto quotidiano, acquisendo
nuove forze di reazione. Il fatto che nelle lettere non compaia mai la richiesta
di un aiuto né economico né burocratico legato all’espatrio, testimonia come
lo scrivere le serva esclusivamente per confrontarsi e ricevere consigli da
persone fidate.
Dagli estratti analizzati pare che la sua consapevolezza sia ridotta
esclusivamente al contesto giovanile. Forse non è così, il fatto stesso di
sostenere che l’espatrio non sarebbe la strada giusta per uscire dal «casino»
potrebbe tradire un’idea generica delle cause economico politiche che hanno
contribuito al crack. La concisione del testo risulta un po’ eccessiva ma si deve
anche comprendere la difficoltà di elaborare un’argomentazione, con termini
specifici, in lingua italiana.
In questa lettera scritta anni più tardi, la situazione di vita pare non essere
molto diversa dalla precedente:
Carissimi zii Eugenio e Vittoria, vi ringraziamo tanto che sempre avete un pensiero per noi
e nostri figli che crescono bene grazie a Dio. Nostro paese in crisi ma noi stiamo abbastanza
bene. Vi ricordiamo sempre con tanto affetto141.
Divenute adulte le sorelle Gabrielli hanno confermato la loro determinazione
a costruirsi una vita normale con la realizzazione della famiglia nonostante le
difficoltà economiche del paese. In una semplice lettera di saluto ai parenti,
con una sola frase in cui rassicurano del loro benessere, dimostrano una
costante consapevolezza della situazione politica ed economica in cui vivono
che si integra al senso di protezione familiare del loro ruolo di madri.
Ioles Bartoli era più vecchia di Maria Laura, ma essendo cresciuta in
Argentina aveva goduto di un’educazione più poliedrica rispetto a quella delle
coetanee italiane, curando un certo interesse per l’ambito politico del suo
paese.
Da questo punto di vista le sue lettere sono le più incisive e descrittive tra
quelle delle nostre scriventi:
È da molto tempo che volevo scrivervi però i giorni passano in fretta, … sempre vi abbiamo
in mente, parecchie volte viene Enzo in bicicletta … facciamo due chiacchiere e intrattiene
mio padre. Qui la situazione non è tanto facile c’è tanta gente che non arriva al 10 del
mese e allora rubano. Il presidente attuale è una brava persona … però … situazione di
incertezza. Ieri sono stata con una mia amica che va imparare l’italiano e le sue compagne
quasi tutte figlie di italiani, stanno facendo il passaporto italiano per qualunque eventualità;
in questi giorni ho pensato di farlo anch’io e mi manca solamente l’atto di nascita della
mamma; mi rivolgo a voi se mi fa il piacere di andare all’ufficio del Comune di Castelnovo
141
48
Lettera di Maria Laura e Graziella Gabrielli, 24 gennaio 2002, carteggio Gabrielli.
Sotto per avere il documento. I dati sono: Fieni Rina nata il 16 luglio 1902 a Villa Cogruzzo,
padre Fieni Carlo mamma Cocconi Adele … vi facciamo tanti auguri Buone Feste142.
Adesso c’è una grande inflazione e il governo di Alfonsin dice che per Settembre sarà tutto
diverso (una politica di shoc) … e dicono che se non fanno cosi l’anno prossimo nessuno
voterà questo partito, per le elezione presidenziale …143.
Ioles non tralascia nulla dei classici ambiti dell’epistolografia al femminile,
infatti inizia a scrivere agli amici castelnovesi (sempre Eugenio e Vittoria
Gabrielli) per aggiornarli delle dinamiche familiari. Poi, cosa inaspettata nelle
lettere di una donna, aggiunge con disinvoltura le proprie osservazioni politiche,
non nascondendo simpatie governative. Questo significa che Ioles conosceva
i programmi di governo e compiuta una scelta personale avrebbe voluto
discuterne e renderla nota anche oltreoceano. Inoltre ripone fiducia e spera
in un miglioramento futuro anche se la situazione di povertà estrema non è di
semplice risoluzione. Come molti altri figli di emigranti, pensa all’eventualità
del ritorno in patria e chiede agli amici castelnovesi di inviarle i dati anagrafici
dei propri antenati per avviare le procedure del passaporto. Nonostante la
lucidità razionale che esprime nei suoi scritti, in quanto donna non teme di
rivelare il proprio sconforto per l’ovvia mancanza di prospettive, così che il
recupero dei dati anagrafici è un appiglio che le dà una speranza futura, ossia
la libertà di poter eventualmente uscire dalla disperazione dilagante nel paese.
Tutto questo resta solo un sostegno psicologico perché, in realtà, sia Ioles
che Maria Laura, non vogliono lasciare il territorio, riconoscono nell’Argentina
una delle loro due patrie, l’altra è l’Italia, cui si appellano tramite i fantasmi
degli antenati, per avere un supporto morale.
Adesso passiamo ad un altro discorso, in quanto alla situazione economica è molto difficile,
però adesso sembra che il governo sia sulla strada corretta, (di libero mercato) si incomincia
una nuova Argentina, tra due mesi più o meno si dovrebbe capire il miglioramento in caso
contrario si svolgerà una fatale iper inflazione che ci coinvolge e a tutti … Adesso c’è una
battaglia contro la corruzione questo fa molto bene … Il matrimonio che oggi domenica
parte per l’Italia è la figlia della … sorella del Bartoli … La sua zia di Alicia e Berta (cognata
della Bianca Magnani) così non so dove andranno … ¡¡Coraggio!! venite un’altra volta vi
aspettiamo144.
Le speranze riposte nel governo sembrano trovare finalmente una risposta
e le buone notizie di una ripresa sono accompagnate da un’aura ottimista che
si propaga per tutta la lettera. Ioles dimostra di avere, oltre alle competenze
politiche anche quelle economiche, perché specifica che la linea intrapresa
dal governo è quella del libero mercato, una consapevolezza non comune
142
143
144
Lettera di Ioles Bartoli, 16 dicembre 1985, carteggio Gabrielli.
Lettera di Ioles Bartoli, 25 luglio 1988, carteggio Gabrielli.
Lettera di Ioles Bartoli, 7 aprile 1991, carteggio Bartoli.
49
per le donne della sua generazione. Come sempre le osservazioni politico
economiche si mescolano con quelle familiari e risulta interessante il parallelo,
involuto, tra la ripresa argentina e la notizia del matrimonio dei conoscenti (o
forse lontani parenti) castelnovesi che, in nome delle proprie origini, decidono
di svolgere la cerimonia in Italia. A una notizia tanto insperata si associa un
evento importante che richiede un grande festeggiamento. La lettera si chiude
con un affettuoso invito ai parenti cogruzzesi a recarsi ancora in Argentina,
come si nota, la nostalgia è sempre latente.
La presenza di riflessioni politiche ed economiche nelle nostre lettere
femminili conferma il loro «essere poliedrico» citato all’inizio del capitolo. Si
è scelto di darvi spazio per illustrare compiutamente come i carteggi delle
donne esprimevano compiutamente le preoccupazioni, le passioni e «il sentire»
che caratterizzavano l’esperienza umana dei nostri emigranti sconfessando in
pieno quel ruolo di «limbo di bontà e nobili sentimenti» che aveva cercato di
relegare la razionalità femminile «ai margini della vita reale, esattamente come
avviene nel tango»145.
Esistiamo perché ci raccontiamo
Il 25 settembre 2004, poco dopo la morte di Enzo Gabrielli, Lidia scrive
una lettera a Eugenio e Vittoria, si è pensato di proporla in conclusione come
metafora della ciclicità dell’esistenza dei nostri scriventi.
Dopo molti anni, Lidia, si ritrova a vivere in un contesto completamente
trasformato in cui ritrova elementi che la riportano al suo passato. Non è
spaventata dal cambiamento, lo vive come un’evoluzione naturale della vita cui
lei stessa si adeguerà dopo aver compiuto un’altra visita ai parenti oltreoceano:
auguro al ricevere la presente trovarvi in buona salute. Qui tutti bene grazie Iddio il piccolo
Enzo crese bene e sano come pure Emilia … Io … cerco di curarmi perché voglio venire
a vedervi tutti che tanto ricordo con affetto. Dopo la morte del caro Enzo non sono stata
bene … In quanto all’ Italclub con Enzo era molto non andavamo perché Enzo già ammalato
non si muoveva da casa. Graziella dove va alle reunione che fanno sono le reunione degli
Emiliani che Analia è la presidenta …146.
Ciò che realmente ci interessa di questa lettera è la continuità che lega tutti
gli elementi citati, molti aspetti di quel mondo familiare, in cui fiora ci si era
proiettati con la lettura dei carteggi, sono mutati e questo non implica l’approdo
ad un’assenza di riferimenti ma anzi, una proiezione nel futuro. Il ricordo
dei defunti vive nei discendenti, l’essenza del vecchio Enzo, recentemente
145
146
50
Vedi CATTARULLA, MAGNANI, L’azzardo e la pazienza, cit., p. 15.
Lettera di Lidia Mori, 25 settembre 2004, carteggio Gabrielli.
scomparso, si ritrova nel piccolo Enzo che, come scrive Lidia, cresce bene.
La nipote Emilia si fa personificazione del «ponte» che collega Pergamino con
Castelnovo, terra delle origini, assicurando, con la sua giovane età, un futuro
alla memoria di famiglia. Graziella partecipa alle riunioni dell’Italclub al posto
del padre, coltiva e conserva il senso d’appartenenza che le era stato trasmesso
e lo stesso club da centro prevalentemente maschile oggi ha una presidentessa
che ne promuove le attività. Ottima credenziale vista la citata creatività delle
donne nella costruzione di legami transculturali.
La lettera prosegue: «abbiamo gia fatto il pasaporto italiano tutte e 3, la
mamma, Lucia e io per venire in Italia e abbracciarvi forte …»147.
Ecco che torna la ciclicità, la traversata oceanica che unisce al paese natio,
se per Lidia pare essere l’ultimo viaggio, per la nipote Lucia è di una delle
prime visite agli zii italiani.
Ci pare possibile individuare in queste continue alternanze: nascita e morte,
inizio e fine, Emilia ed Argentina, femminile e maschile, le simbologie del
duro percorso di ricostruzione di sé che, dai primi anni del XX secolo, gli
emigranti castelnovesi, donne e uomini, «padri» e «figli» avevano intrapreso in
terra argentina.
I carteggi delle nostre famiglie, confermando il loro valore di fonti storiche,
ci hanno permesso di entrare negli eventi vissuti esplorando e condividendo
con i protagonisti le tappe di queste articolate storie di vita. Le emozioni, le
esperienze, le parole scambiate tra parenti e amici hanno evidenziato come
ogni soggetto scrivente sia stato autore della propria esistenza, all’interno di
contesti storico sociali che determinavano linee generali di azione e pensiero.
Inoltre, lettere e fotografie hanno svolto il loro ruolo di prolungamento
della personalità dei soggetti tenendo vivo un processo di rinascita iniziato
molti anni fa, che è giunto oggi alla realizzazione di un’identità pluriculturale.
147
Ibidem.
51
Dalla parte di Francisco Franco
«Volontari» reggiani nella guerra
civile spagnola
Alcune interviste
Luca Fantini
Quel che resta dell’antifascismo reggiano, nella seconda metà degli anni
Trenta del Novecento – circa mille aderenti al PCI a Reggio Emilia, tra carcerati,
confinati e liberi – si mobilita clandestinamente in favore della legittima
Repubblica spagnola, aggredita dalla rivolta del generale Francisco Franco.
Il regime fascista di Mussolini, all’indomani della ribellione, invia un
contingente armato di «volontari» a sostegno del golpista, che ha come alleato
anche la Germania hitleriana.
L’anno scorso, ricordiamo, si sono conclusi i settantesimi della guerra civile
spagnola, iniziata nel luglio del 1936 e terminata nel marzo 1939, con l’entrata
a Madrid delle truppe di Franco. Abbiamo, perciò, ritenuto interessante
recuperare la tesi di laurea di Luca Fantini, Dalla parte di Franco. Opinione
pubblica e «volontari» reggiani nella guerra civile spagnola, discussa con
Luciano Casali, nell’anno accademico 1988-89.
Le interviste che qui pubblichiamo sono solo alcune delle tredici raccolte
da Fantini. Ne abbiamo scelto quattro, rilasciate da appartenenti alla Milizia
volontaria sicurezza nazionale (MVSN) e da soldati e ufficiali, appartenenti al
regio esercito italiano. A conclusione della breve antologia proponiamo quella
dell’avvocato Alcide Spaggiari, allora giovane dirigente del GUF reggiano, da
cui esce un interessante profilo dell’intellighenzia reggiana di quegli anni.
L’interesse delle testimonianze, soprattutto, risiede nel fatto che documenti
di questo genere non hanno avuto nel tempo un’adeguata diffusione e
riflessione storica, a differenza della partecipazione degli antifascisti reggiani.
Ricordiamo, per tutti, il lavoro di Antonio Zambonelli, Reggiani in difesa della
repubblica spagnola (1974).
«Il reclutamento per la Spagna – ci fa notare Fantini – avveniva in modo
discreto e senza molta pubblicità, utilizzando diversi canali. Uno di questi
consisteva nel fare compilare un modulo di domanda intestato alla milizia,
dove il riferimento esplicito per l’arruolamento era costituito dalla campagna
d’Africa, a cui seguiva la dicitura “e per qualunque altra destinazione”. Forse
questo è il motivo che spiega come dice ad esempio Buffagni di essere stato
“chiamato”, o dell’arrivo “di una lettera di partire per Cadice”. Firmando quella
52
domanda, attratti dal miraggio di benessere che rappresentava in quel momento
l’Africa, si ritrovarono soldati di Franco». Infatti nel 1937 il «problema principale
per alcune fasce della popolazione – prosegue Fantini – era rappresentato
dalla ricerca del lavoro, tanto è vero che la maggioranza dei futuri “volontari”
spagnoli avevano presentato domanda per l’Africa orientale... [...]».
Dai dati ricavati dall’indagine di Fantini sarebbero 292 i reggiani impegnati
nelle operazioni militari contro la Repubblica spagnola, mentre diciassette
furono i caduti.
Qui di seguito, riportiamo alcuni passaggi della tesi di Fantini per facilitare
la lettura delle interviste, fornendo un minimo di contestualizzazione in cui
inserire i fatti raccontati dagli intervistati.
Fantini ha raccolto i dati consultando:
• lo schedario dei gerarchi fascisti (conservato oggi presso il Polo archivistico
del comune di Reggio Emilia) suddiviso per Fasci di combattimento, in
cui, tra le altre informazioni, è segnalata la partecipazione alle campagne
di guerra, nel nostro caso alla guerra civile spagnola: la sigla OMS (Oltre
mare Spagna) nel gergo burocratico militare serviva a coprire l’aiuto
fascista a Franco;
• i documenti depositati all’Archivio di Stato di Reggio Emilia, ossia «gli
elenchi dei volontari OMS appartenenti alla MVSN (Milizia volontaria
sicurezza nazionale) e al regio esercito, che i comuni di tutta la provincia
compilarono in risposta alla circolare prefettizia n. 832 del 5.08.1937».
La presenza dei legionari reggiani in Spagna diviene pubblica solo a partire
dalla metà del 1937, attraverso la pubblicazione sul «Solco Fascista» delle
interviste e delle lettere di «volontari» «che insieme alle biografie dei caduti
– scrive Fantini – contribuiscono alla composizione di un indice della forza
reggiana impiegata». Allo scoppio della guerra, infatti, le «pagine locali del “Solco
Fascista” ignorarono totalmente gli avvenimenti spagnoli, così come fecero
ufficialmente le varie associazioni fasciste della città, anche se nel dicembre del
1936 alcuni reggiani erano già presenti nella penisola iberica».
Nel corso del 1937 l’atteggiamento del regime mutò: il «Solco Fascista»,
infatti, pubblicò oltre duecento articoli riguardanti il fronte spagnolo, «che
con un linguaggio eroico-spirituale presentavano i fatti come una crociata di
liberazione». Il 27 febbraio 1937, era stato pubblicato nella terza pagina del
«Solco Fascista» l’ordine del giorno della Milizia in cui si affermava: «In data 15
gennaio 1937 le sottonotate CC.NN. vengono passate nella forza indisponibile
perché mobilitate per esigenze speciali e avviate al centro di reclutamento della
67esima legione».
«Le “esigenze speciali” – annota Fantini – altro non erano che la copertura
che ancora si dava all’appoggio italiano a Franco [...]. Anche la Chiesa reggiana,
53
che fece la sua scelta di campo molto presto e in maniera decisiva, pubblicò
nel luglio del 1936 sul “Bollettino Diocesano” le Preghiere per la Spagna,
mobilitando una vastissima campagna propagandistica all’interno dell’Azione
cattolica, organizzò conferenze come quella del 6 gennaio 1937 al Cenacolo
Francescano con padre Antonio da Barcellona, dedicata a svelare le Verità
sconosciute sulla Spagna martire».
Anche i Gruppi universitari fascisti (GUF) – si veda a questo proposito
l’intervista a Alcide Spaggiari anche se ha ricordi differenti – intervennero a più
riprese nel corso del 1937, pubblicando nella pagina che periodicamente aveva
a disposizione sul «Solco Fascista» cinque articoli.
Fu dopo la pubblicazione dell’articolo di Mussolini, Guadalajara, uscito sul
«Popolo d’Italia» il 7 giugno 1937, e ripreso dal «Solco Fascista» nell’edizione del
18 giugno, che l’intervento italiano in Spagna non venne più tenuto nascosto.
«Il 26 giugno – afferma Fantini – il fascismo reggiano fornì la versione
ufficiale degli avvenimenti organizzando una cerimonia presso la caserma della
Milizia, dove, alla presenza del comandante della Legione 10, seniore cavaliere
Pallotta, il seniore Fulloni lesse e commentò l’articolo di Mussolini e ricordò la
morte del generale Alberto Liuzzi, che era rimasto ucciso proprio nella battaglia
di Guadalajara. [...]
I festeggiamenti del 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma avvenuta
nel 1922, furono l’occasione per ricordare i caduti di Spagna, che vennero
accomunati nel rito fascista dell’appello, a quelli di tutte le guerre e ai martiri
della rivoluzione fascista. Le disposizioni per le celebrazioni del 31 ottobre –
che ricordavano, tra l’altro, la sfilata delle camicie nere dinanzi al re avvenuta
all’indomani della marcia su Roma – furono pubblicate su un’intera pagina. Gran
parte del programma, che comprendeva una funzione religiosa in omaggio ai
caduti e l’inaugurazione delle opere pubbliche eseguite nell’anno XV dell’era
fascista, venne riservata alla memoria dei legionari, infatti, dopo un corteo che
si snodò per le vie del centro, la manifestazione si concluse con lo scoprimento
dei nomi dei morti presso il Sacrario della federazione. Adunate si verificarono
in tutte le Ville e in provincia.
Venne officiato, inoltre, un rito religioso in duomo e nel cortile della casa
del fascio si schierarono autorità, gerarchi, insieme a rappresentanti delle
forze armate, degli squadristi, dei reduci dell’Africa orientale e dei reduci della
Spagna. [...] Le donne fasciste, invece, organizzarono il “Natale dei legionari”
dedicandosi alla preparazione di pacchi contenenti: “tutte quelle soavissime
cosucce alle quali solo una madre sa pensare; le calze di lana ... La carta da
lettere ... e calendari”, da inviare in Spagna, così come pacchi furono inviati in
Africa».
Il 19 ottobre 1938 il «Solco Fascista» – citiamo sempre il lavoro di Fantini
– diede alle stampe un comunicato che annunciava lo sbarco a Napoli di
cento legionari reggiani reduci dalla Spagna e che l’onorevole Rabotti, che nel
frattempo era diventato direttore del giornale, si recava ad accoglierli.
54
Il programma della manifestazione di accoglienza ai legionari di ritorno dalla
Spagna (pubblicato dal «Solco Fascista» del 22 ottobre 1938) comprendeva:
«Il saluto ai legionari all’interno della stazione da parte della fanfara del
comando federale della GIL e un servizio d’onore composto da una compagnia
della MVSN, da una compagnia dell’esercito, da un reparto di reduci dall’AOI e da
un reparto di squadristi. La manifestazione sarebbe proseguita con un corteo
che dal piazzale della stazione si sarebbe snodato fino alla piazza Vittorio
Emanuele e quindi al Palazzo Comunale; lungo tutto il tragitto del corteo si
sarebbero schierate le forze fasciste. Furono emanate inoltre delle disposizioni
generali che riguardavano lavoratori, infatti, la federazione prese accordi
che permettessero in caso di arrivo durante le ore lavorative di consentire
egualmente la partecipazione degli operai. L’arrivo dei legionari sarebbe stato
annunciato dalla sirena dello stabilimento delle Reggiane e successivamente da
tutte le altre sirene e dalla campana civica, i pubblici edifici e le case private
dovevano essere imbanderiati e alla sera illuminati. Il giorno successivo seguì
il testo del messaggio di saluto del segretario federale e l’ordine di adunata alle
associazioni; si curò la preparazione della manifestazione nei minimi dettagli».
La cronaca del giorno pubblicata sul «Solco Fascista» così racconta la
giornata: «Si parlò di “Trionfali accoglienze” e di “Entusiasmo di popolo”. I
legionari dopo il corteo vennero ricevuti nella Sala del Tricolore dal podestà
e da tutte le massime autorità, e presenziarono nella cattedrale alla messa in
suffragio ai caduti della rivoluzione dove il vescovo prima di salire all’altare,
rievocò il radioso sacrificio di quanti rimasero per sempre “nella martirizzata
terra spagnola, caduti in nome di un ideale di fede, giustizia e libertà”».
La caduta di Barcellona, avvenuta il 26 gennaio 1939, venne annunciata
dal fascismo con l’esposizione delle bandiere tricolori su tutti i balconi della
città. «Il giorno successivo – scrive Fantini – fu la volta della manifestazione
ufficiale, la cui cronaca occupò quasi completamente una pagina del “Solco
Fascista”. Le celebrazioni per “la splendida vittoria di Barcellona”, così fu
definita, iniziarono molto presto, quando al mattino gli studenti in corteo si
recarono “dove tutti vanno quando hanno alcunché nel cuore”. Arrivati alla
casa del fascio vennero accolti dal segretario del GUF, che improvvisò un
discorso, interrotto frequentemente, così riportarono le cronache, da “alti e
ardenti alalà provenienti da tutte le parti”. In quel clima, che veniva definito
“lietamente festoso”, si attese la sera, quando in piazza della Vittoria si riversò
una folla immensa che, cantando e sventolando bandiere, si riunì per ascoltare
il discorso del federale, il quale, assunti i toni trionfalistici dei vincitori [...] La
manifestazione, che si concluse con l’omaggio ai caduti e all’esercito, venne
ripetuta presso le case del fascio di tutta la provincia, e in modo particolare
a Guastalla, dove si riunirono oltre duemila persone. Ancora le bandiere “ali
tricolori della nostra gioia”, comunicarono la vittoria di Madrid [28 marzo]».
L’ultimo contingente di legionari reggiani fece il suo rientro il 14 giugno
1939. (g.b.)
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Testimonianze
Walter Cigarini
Nato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1913.
6a elementare, impiegato daziario, disoccupato. Ha prestato servizio militare
come soldato nel 2° genio minatori. Iscritto al PNF dal 24 maggio 1935; iscritto
alla MVSN dall’1° dicembre 1936 CNS, plotone esploratori. Iscritto all’Associazione
volontari di guerra e al Sindacato industria.
Volontario Oltre Mare Spagna (OMS). Ingaggiato per la Spagna il 28 dicembre
1936, è sbarcato a Cadice l’11 gennaio 1937.
Ha partecipato alle battaglie di Malaga, Guadalajara, alla campagna
della Catalogna, rimanendo nella penisola iberica fino al giugno 1939. Qui si
guadagna diverse onorificenze: croce di guerra ordinaria nel 1937, distintivo
commemorativo campagna di Spagna, medaglia di volontario di guerra,
nastrino seconda croce di guerra al merito e nastrino cruz roja.
Dal 19 settembre 1939 è capo-nucleo del Fascio di combattimento di San
Pellegrino (RE). Le note informative del 1939 esprimono un giudizio «buono».
Nel 1940 è in Africa, nel 1943 viene fatto prigioniero dall’esercito francese.
Fonti: Schedario dei gerarchi fascisti, ora in Polo archivistico Comune di
Reggio Emilia-Istoreco.
L’intervista si è svolta il 15 luglio 1987 a Reggio Emilia.
[…] Come le ho detto io, per esempio, per quello che riguardava la partecipazione
alla Spagna, io come… come venivo da… da militare e facevo parte del genio minatori,
un reparto di specialisti. Questo per quanto riguarda la faccenda della Spagna, che poi,
quella lì è stato l’ingaggio. Io facevo parte del Gruppo rionale qui di San Pellegrino…
Del partito?
Del partito, era come... praticamente non ero neanche iscritto, però siccome quelli
che erano addetti al partito, uno... il segretario era stato mio direttore, perché ho
lavorato sotto allo spaccio dell’Ente autonomo consumi…
Allo spaccio dell’Ente autonomo consumi?
Ente autonomo consumi, generi alimentari... in città c’erano parecchi spacci, anche
fuori di città. Facevo capo a questo... che aveva poi gli uffici, la direzione, tra l’angolo
fra via Fontanelli e via San Martino, sopra; sotto c’era il magazzino, dove c’è la cosa,
come si chiama… quella degli artigiani, la CAAM, tutta la casa della CAAM era occupata
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dalla cosa, dall’Ente autonomo, e direttore era Vittorio Rossi; lui era segretario del
Fascio qui di San Pellegrino. Allora io siccome dopo ero rimasto a casa... disoccupato,
e avevo bisogno di lavorare, perché a casa purtroppo filava, filava molto, allora per
vedere se potevo intrufolarmi da qualche parte, così facevo un po’ il galoppino per
la sede quando avevano bisogno di portare via qualche missiva, qualche cosa lì. Io
ci andavo volentieri, un po’ per far piacere, anche perché li conoscevo e anche per
vedere se riuscivo a trovar qualche cosa.
Finché una giornata andai là e mi hanno chiesto, anzi mi diedero, un appuntamento
una sera alle undici...
Così tardi?
Frequentavo questo bar qua della rotonda, c’era un caffé lì, c’è ancora... e m’hanno
chiamato alle undici e quando sono là, c’era lui, il segretario, il rappresentante dei
combattenti, il capo manipolo della milizia, c’era il fiduciario, che era un mio amico
anche lui (sono amico anche con suo fratello che è ancora al mondo) e mi ha chiesto
se volevo andare a combattere, i’ho dìt: «Dove?» e lui dice: «Prima devi dire se ci vai,
dopo ti dico dove». Dico: «Tanto lo so già», c’era solamente quella lì, non si trattava
mica tanto di scegliere. Dico: «Facciamo un patto; è lo stesso se vi dico, se vi do la
risposta domani sera?». Dice: «Ma sì». Siccome volevo vedere un po’ come andava,
avevo... era poco che era morto il povero mio padre ed era lui che tirava avanti
la baracca, poi è successo che c’è... avevo in famiglia, oltre a me, che ero l’unico
maschio, avevo tre sorelle; […]. Alòra sono andato a casa, ho parlato con mia sorella,
non ho chiesto neanche a mia madre perché mia madre era ancora in gamba, ma oh...
morale della favola, che... che decisi di andare via, più che tutt’altro perché sapevo,
mi ero già informato, sapevo come era il trattamento. Insomma, non era lo spirito
d’avventura... che politico, che me ne fregava proprio un bel po’. Perché un motivo
solo, perché io la politica, a dirlo in poche parole, m’ha sempre fatto schifo. lo sono
nato socialista, lo dico io …
Lei era socialista?
Lo dico io... No, non ero socialista, ma ho vissuto con dei socialisti; avevo un mio
zio, fratello di mio padre, che era un socialista e dormivamo nella medesima camera.
Allora ho imparato un po’ da lui il modo di trattare, ma più che altro era lo spirito
mio, a me piaceva veder la gente che andasse d’accordo e che si dividessero il pane,
non come facevano in genere gli italiani, se no... sono... anche adesso, sono iscritto
al partito socialista, ma le dico la verità: àm piés mìa; come an n’um piés ch’ietér, non
mi piacciono gli altri; io ci ho però un punto di partenza e quando dico, quando sento
parlare degli italiani, àm và vìa tùtt al vòi. Me a m’han delùs talmeint, sarà anche un...
il carattere mio, che me a sùn quasi un tedésch, praticamente nel modo di fare...
Cioè il modo di fare preciso?
Preciso, metòdic, metodico, disciplinato; non sentivo neanche la naia quando
m’han mandato a chiamare a militare, non la sentivo per niente, anche quando si era
via... Dopo son partito sono andato in Libia, dopo aver fatto la Spagna ho fatto la Libia,
son turné a ca’, ho fatto sei anni con tre anni di prigionia e tutto; non sentivo mica
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la disciplina, cioè sentivo l’affetto per i miei cari, perché ci pensavo volentieri... tanto
alla povera mia madre specialmente, alle mie sorelle, però non sentivo quell’affanno
che hanno in genere...
Il patriottismo?
I còs... Sì... No, non era patriottismo, era come si dice... spirito di disciplina ecco,
tutto lì. Insomma in poche parole, allora è successo che, che mi misi d’accordo, andai
alla sera... Siccome però andar via allora, come le ho detto prima, che io non ero mica
un iscritto. Sì facevo parte del cos... come si dice… del gruppo dei giovani fascisti,
perché mi piaceva fare dello sport, praticavo, giocavo a pallavolo, a pallacanestro,
corsa a piedi... corsa campestre, niente di buono perché purtroppo, perché a un dato
punto dovevo fermarmi, per via... del cuore. Allora accettai perché mi dissero che
prendevo... a me non davano niente, ma mandavano... il governo italiano, subito lo
ricordo, non so di preciso questo qua, se il pagamento, il pagamento dei, dei volontari
che andavano in Spagna veniva fatto tramite la Santa sede, non lo so di preciso...
Lei dice attraverso la Santa sede?
So perché vede, io sono andato giù allo sbaraglio, cioè in poche parole, un gruppo,
non eravamo ingaggiati dall’Esercito italiano; dopo ci fu la partecipazione diretta... del
governo italiano.
Lei andò prima?
Allora mandarono giù dei milioni e tante belle cose, invece no, noi eravamo un
gruppo di gente, tanto è vero... da Reggio siam partiti in sette...
Ma che data era, se la ricorda la data precisa in cui è partito?
Dunque quando siamo andati via, partiti direttamente da Reggio, andati in Spagna
o partiti per la Spagna, perché a gh’è da scéglier, cioè mé a sùn sté ingagié il 28
dicembre del ’36... e la rivoluzione spagnola era scoppiata il 18 luglio. Andammo a
Cadice.
Cioè da Reggio, o da dove?
Da Reggio andammo giù a Napoli, da Napoli, siamo stati là dal 28 fino al 9 o al 10
pressapoco, poi arrivammo a Cadice l’ 11 gennaio ’37, là eravamo tutti... anche giù a
còs, anche giù a Napoli non eravamo mica incorporati, non l’eravamo mica...
Eravate in borghese?
Sì. tant’è vero che a Napoli ci fu un capitano, che veniva dalla Marina, era un tenente,
primo tenente, dopo passò capitano, si chiamava Maltese, era un esperto in fatto di
artiglieria. Siccome noi, io, poi, avevamo domandato consiglio, poi dopo non potevo,
non sapevo che branca prendere, quando ci fu chiesto se, in che corpo volevamo andare,
si imbatté il caso che un giorno o due prima trovammo un ufficiale reggiano giù... che lui
non lo conoscevo, ma conosceva gli altri, fra i quali c’era Consolini, ma Bassoli non c’era
mica, che era già... venne dopo... tra gli altri che già erano venuti via con me.
In poche parole... «Lei di dov’è?» «Ma io sono... in artiglieria... voglio venire in
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artiglieria...», «Dite... che... siete degli artiglieri, poi se caso mai mi chiederanno
confermerò...». Cioè l’era un po’ una baraonda, in pochi paròli. Fatto sta che, che
infatti ci chiesero in che corpo volevamo andare in artiglieria, artiglieria, még... con
me, c’era uno che è ancora al mondo... qui di Reggio, però non so se lui sia un tipo
adatto da...
Lo sa il nome?
Si chiama Montanari Enzo... siamo venuti su da ragazzi insieme. [...] Al dìs: «Béda
bein – al dìs – mé a vòi gnìr via tég...».
Perché voleva venir via con lei? Perché era proprio un suo amico?
Sì, a parte quello lì non è questione che, era che lui si trovava nelle condizioni
che ero io, cioè anche lui aveva lavorato sotto all’Ente autonomo ed era disoccupato
anche lui... alòra...
Anche lui aveva bisogno di lavorare?
No, non è che fosse proprio nella necessità di lavorare lui, lui poteva campare
ugualmente, io no, che avevo... avevo bisogno, lui invece poteva anche tirare avanti
senza, senza farcela alta, intendiamoci bene: aveva dei fratelli che lo potevano aiutare
ecco, in poche parole... ma lui voleva venir via con me, anche perché lui come ho
detto non aveva fatto il militare. Era un po’ di spirito avventuroso, alla vela, ma...
non sapeva da che punto... Insomma voleva venir via e tutto, allora ci siam messi
d’accordo che la sera dopo, quando dovevo riportare la risposta alla sede... quando
sono andato là, ho parlato con il segretario e dico: «C’è un mio amico che vuol venir
via con me». Perché allora, come le ho detto, gli ingaggi erano fatti a «in una qualche
maniera». Mi domandano chi è. «Ma l’è Montanari... Enzo» rispondo: «Ah... alòra»,
poi dopo... «Ma... noi abbiamo chiamato te perché sappiamo chi sei». Allora andava
anche un po’ in fiducia... che non fosse uno da mandare via e poi quando arrivava
là passasse dall’altra parte, capito... In poche parole era quello lì lo spirito; dico: «No,
ma lui ci ha anche il fratello che è capo manipolo...». Ah mo al dìs: «Mo sé, mo sé – al
dìs – no, no... va bein, va bein, alòra dìg c’àl végna anca lò». Infatti a l’ho mandato là,
perché prima di firmare la domanda di partenza per la Spagna, noi dovevamo fare il
passaggio alla milizia, se no, non potevamo mica andar via.
Quindi, anche se uno non era iscritto doveva iscriversi per forza alla milizia?
Iscriversi alla milizia per partire, in quelle condizioni lì, perché si diceva allora che
tutti i sold... tutti i reggiani, tutti gli italiani che andavano in Spagna, dopo che era
scoppiata quella rivoluzione lì, che facevan parte... della parte di... Franco, logicamente
dovevano... venivano pagati dalla cosa...
Da Franco?
No, dalla Santa sede e difatti io ho trovato un amico mio che abitava lì alla Rosta
Vecchia, dove abitavo anch’io prima... l’ho trovato giù...
In Spagna?
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Dopo, dopo due mesi, due mesi o tre mesi circa che ero su ho trovato questo,
Benedetti Alfio si chiamava... dice: «Ma cosa fai qui?» «Eh…» mi dice... aveva cambiato
nome... si chiamava Bianchi, perché allora quando siamo andati noi avevamo, tenevamo
il nostro nome e cognome che ci avevamo, invece quando furono mandati via quelli là,
erano mandati via in incognito, quelli là cambiavano nome arrivati in Spagna...
Erano proprio i primissimi quelli là?
Sì, quelli erano i primi, erano partiti un mese o due dopo l’avvento di questa
rivoluzione... insomma e se... in poche parole... sono riuscito... che non... poi, dopo
quando là, il comando di legione, che era lì dove c’è la polizia stradale adesso, lì in viale
Timavo, lì c’era il comando di legione della milizia... allora siamo andati a richiedere...
facendo parte della milizia sono andato a finir sotto al battaglione di Reggio che era l’89°
battaglione di Reggio delle camicie nere... e una giornata mi han mandato a chiamare.
[...] E sono andato al comando della milizia. Quando sono stato là, ho parlato con un
capo squadra... «Guarda tu sei ingaggiato... ti abbiamo mandato a chiamare per tenerti
pronto, at’ mandòm via». «Un momento – dico – beh mi avete mandato a chiamare, ma
il tale non l’avete chiamato»... Lui dice: «No, lo chiameremo dopo, ma lui per il momento
non c’è». Dico: «Ma quanti siamo?». Risponde: «Siete in sette». Eravamo... partimmo in
sette dalla zona che ci trovavamo poi...
Eravate tutti di San Pellegrino, no? Non di Reggio e basta?
No, no, di San Pellegrino c’ero solo io, no in due, uno è uno che è morto subito...
un certo Lusuardi...
Morì in Spagna?
No, no, morì a casa... e io e lui, poi c’era uno di... di San Polo, uno di Cavriago
mi sembra, o Ciano o Cavriago, insomma eravamo in cinque, poi so che facemmo il
gruppo qui emiliano nostro e eravamo in sette, fra i quali ce n’era due ferraresi con noi,
incorporati con noi, eravamo in sette, per part... quando siam partiti dalla legione di
Bologna, che noi da Reggio andammo alla legione di Bologna, dalla legione di Bologna
ci mandarono a Napoli alla caserma Bianchini, che era là il raduno [...]
Montanari, allora, partì?
[…] Sì, siamo andati giù e quando siamo arrivati là, siccome là han fatto la designazione
dei, dei reparti... come ho detto, siamo andati a finire tutti e due in artiglieria, solo che
io sono andato in un gruppo e lui andò in un altro... oh... obici... da cento, sa cosa vuol
dire obici? Sono cannoni corti, cioè il cannone, esempio il calibro 105, non so il cannone
migliore che avevamo allora al tempo... [...]
Senta, posso chiedere una cosa? Prima, lei prima ha parlato del problema dell’ingaggio,
quanto era questo ingaggio?
Dunque l’ingaggio era questo... ah noi partivamo... da, come partivamo da, da...
Reggio, partiva la cosa... ogni mese mandavano a casa, direttamente a casa seicento
lire... alla famiglia. [...]
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Quindi loro le mandavano seicento lire... a casa?
A casa direttamente, il governo mandava direttamente ecco... allora figurava il
governo fascista, poi... praticamente più noi, arrivati giù in Spagna, da quando fummo
inquadrati, almeno penso che fu... abbiamo preso questa data, a questo modo...
noi percepivamo cinque pesetas al giorno... che erano poi la nostra mercede che
davano... come si dice... il soldo... però da queste cinque pesetas veniva detratto
il vitto, praticamente, tutti i mesi ci davano 60, 65 pesetas circa, perché... circa tre
pesetas al giorno li tenevano giù per il mangiare…
E questi soldi glieli davano in pesetas?
Questi soldi ce li davano in pesetas, là, ci pagavano là... […]. Valevano circa due
lire nostre... e così alòra dopo un po’ di tempo che eravamo lì, che avevamo fatto un
po’ di addestramento... perché come le ho detto...
Perché voi sbarcaste a Cadice?
A Cadice.
Su quale nave eravate imbarcati? Sulla «Lombardia» per caso? No?
Dunque mi sembra che fosse il «Toscana», lì c’erano tutte... le navi che portavano
tutte il nome di regioni, c’era il «Toscana», il «Lombardia», l’«Emilia»... non mi ricordo se
c’era anche, no, il «Conte Rosso» l’ho preso ad andare in Libia...
Comunque voi arrivaste a Cadice? A Cadice, in quale data diceva che era arrivato
a Cadice?
Circa l’11, l’11 di... sbarcammo, mi sembra, la notte fra l’11 e il 12 di gennaio... del ’37...
E là sbarcaste di notte, quindi non c’era...?
Perché non c’era mica il còs... l’oscuramento no e anche perché c’era, c’era il
pericolo di un attacco da parte...
Di apparecchi?
Non di apparecchi, no apparecchi... una cosa minima quella lì... per quanto noi
non lo sapessimo... però c’era il pericolo dei cecchini; perché, ad esempio, lì a Cadice
io ho avuto occasione di vedere due o tre fucilazioni, cioè quelli che, che venivan
presi da, da quella gente là... a noi ci davano un po’ di libera uscita, bisognava andar
fuori in gruppo, perlomeno in quattro o in cinque e armati, col moschetto... perché
potevamo essere attaccati o altro, l’era ‘na rivoluziòn, in pochi paròli, non era una
guerra vera e propria... là c’è il nemico, qui ci siamo noi, non si sapeva mica da dove
venivano le fucilate... […].
Lei ha fatto Guadalajara?
Dopo... la prima è stata Malaga, la prima, la prima spedizione... però ecco le dico
una cosa. Credo, credo che sia stato circa dopo venti, un venti giorni, venticinque che
eravamo lì a Cades e partimmo, un gruppo, eravamo due gruppi, partì solamente il
nostro e lui non partì quel mio amico lì, non venne con noi... Facciamo la colonna,
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ci avviamo, andammo all’interno, attraversammo l’Andalusia e poi ci portammo su
dietro la Sierra che c’è di dietro a Malaga e c’è... come si chiama, credo ci sia la Sierra
Leone, mi sembra ci sia, adesso non ricordo preciso, adesso ricordo che a un dato
momento ci fermammo... mettemmo in postazione i cannoni e lì cominciò il mio
calvario... calvario nel senso di fare il mio servizio... dovevo fare i collegamenti. Il
comando artiglieria... […] m’han dato l’ordine da portare qui al comando di batteria...
han fatto un po’ di fuoco, poi ci spostammo, poi andammo su. È sucés un fàt, am
ricòrd, no è stato dopo, alòra siamo partiti... ci siamo appostati con la fanteria, un po’
la pasèva lé, às déven al cambi tanti vòlt, perché succedeva che noialtri eravamo in
artiglieria, però a sucediva che nuéter éren in artiglieria, però a féven da préma linea
tanti vòlt. Siccome la guerra di Spagna non era mica stata fatta... per esempio questo
è uno sbarramento «X» e quello là lo sbarramento «K», no a s’andéva avanti a colòni,
a colòni veniva fatta la guerra di Spagna, perché un po’ la vastità e un po’ perché
gli eserciti erano, erano organizzati a una qualche maniera, capisce, erano bande.
Loro gli spagnoli avevano le banderas, quello che noi chiamiamo battaglione loro lo
chiamavano banderas, e dentro in quelle banderas lì ce n’erano poi anche dei nostri
che erano andati già prima... poi loro portavano a differenza... Noi per esempio,
quando siamo andati giù, avevamo l’elmetto e poi avevamo la bustina classica da, da...
soldato... alòra la bustina via e ci han dati il basco.
Il basco nero, il basco spagnolo insomma?
Sì e così facevamo parte... a loro... poi...
Loro avevano anche i marocchini, avevano?
Ma i marocchini normalmente loro avevano il fez, più che tutt’altro, ne ho visti
pochi dei marocchini col basco.
Però ce n’erano dei soldati marocchini?
Eh, altroché... era...
Ed eran bravi a combattere?
Come si dice, i marocchini erano il nerbo dell’esercito di Franco, perché Franco
quando è partito dal Marocco è partito, è venuto in Spagna coi marocchini, erano
fedelissimi a Franco... E alòra a sucéd quesché, che combattendo, va e va... siamo
arrivati in Malaga, non ci fermammo, noi proseguimmo. Cioè lo schieramento nostro
continuò lungo la strada e siamo arrivati a un paese che si chiamava Motril, Motril
questo qua me lo ricordo bene, me lo ricordo bene perché ci sono stati, c’è stato de,
de... degli episodi da non dimenticare. E difatti è successo che... all’entrata di Motril
c’era un viottolino, sarebbe come dire una stradetta, mica larga molto... e, e a destra
dell’entrata del paese... come a dire qui c’è il paese... qui a destra c’era un campo
di canna da zucchero e dentro vi erano loro, mentre che e paséven nuéter, lòr a sé
sparéven... e gh’era gnù un fuggi fuggi... perché, come ho detto, non si capiva da
dove venivano i colpi... às saieva mia d’an’du gnìven i colp... ogni tànt se vdìva un
quelcdùn a caschér... partiva... va bein.
Siamo andati dentro al paese, poi abbiamo circondato al còs... in basso, perché
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di là c’eran loro... messo lo schieramento di difesa e allora loro si sono ritirati, però
ogni tànt partiva séimper al còs... perché nuéter as’ s’éren fermè la nostra fanteria
non aveva mica fatto... come si dice... la pulizia di questa cosa... di questo campo.
Oltre questo campo qui c’era... una piccola... un piccolo borgo che... ma... dicevano
tramite chiacchere i paesani lì, che quel borgo là c’era un magazzino di viveri e cose
del genere.
Alóra sucéd un fàt che la sìra am ricòrd: io ero sopra uno di quei camioncini lì,
facevo parte della colonna «OC», pattuglia «OC» (Osservazione e collegamento), cioè io
facevo il telefonista, il centralinista, avevo imparato a fare anche il radiotelegrafista... [...]
Beh l’é tòt un tira-mola, insomma succede che alla sera, mi ricordo, e venuto l’aiutante
maggiore del battaglione, della batteria. È venuto da me che ero sul camioncino. Mi
dice: «Veh Cigarini, vieni con me stanotte?», «Dove, dove andiamo?». Era un tenente,
l’ho sempre in mente, ma quando penso il nome...
Non era Maltese, no, un altro?
No, no, era, era uno di Carrara, uno che credo che abbia fondato lui il Fascio
a Carrara... come si chiama, beh non ha mica importanza il suo nome... ma... un
brav’uomo, un uomo anziano piuttosto... tànt nuéter éren zòven... mi dice: «Andiamo
domani, han detto che c’è un magazzino, se possiamo arraffare qualche cosa...». Infatti,
la sera dopo, io con il resto della pattuglia, che eravamo in sette, sette o otto, più
un altro sottufficiale siamo andati attorno al campo e siamo arrivati dentro al Colàr...
era un po’ abbandonato, ogni tanto incontravamo qualcheduno... buena noches,
buena noches... e l’òm fata do volt c’la tiritera lé, siamo riusciti ad arrivare là, siamo
andati dentro un magazzino, abbiamo trovato delle sigarette mi ricordo sempre dello
zucchero, del caffé, sì roba di conforto, l’abbiamo chiamata conforto del soldato...
e siamo riusciti a portarla al campo allora abbiamo fatto la cuccagna, mi è piaciuta
perché il giorno dopo, dopo quando eravamo là... nel tornare indietro so che mi
seriviva al cos... perché io mi intendevo un po’ di cucina, i’iva imparé da na mé zìa a
Santa Croz, cla féva al budghér, avevo imparato a far da mangiare, m’arrangiavo bene,
solo che non mi andava... lui mi chiamava sempre dicendomi: «Mo perché non vai
mica alla mensa?» «Perché mé a sun gnù ché per fér al suldé, mia per fér al servitor...».
Al vriva mìa ca g’al dgìsa... bein an’importa mìa... e c’sé, e poi a sucéd...
Questo a Malaga?
Questo è a Malaga, succede che... un giorno […] st’uficiél […] Al vìn da me, al dìs:
«Veh, tu bisogna che mi fai un piacere...». Già lui l’ìva fàt di piasér anch’a me, serché
ed lavéres al màn un cun cl’éter... «S’è ammalato – al dìs – il capo, il capo-cuoco della
mensa ufficiali, tu bisogna che lo venga a sostituire, perlomeno per domani – al dìs –
perché viene, viene lo Stato maggiore, non c’abbiamo il cuoco... e gh’era il generale
Mancini...».
C’era il generale Mancini?
Mancini [generale di brigata Mario Roatta, alias comandante Colli, alias generale
Mancini, N.d.R.], allora c’era Mancini allora e dopo cambiò, poi... venne Bergonzoni [si
tratta in realtà del generale Annibale Bergonzoli, N.d.R.] anche, venne... [...] Allora io
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avevo preparato un capretto, da fare per questa gente... gli avevo fatto la còs, le còs...
e gh’o fàt i quadertéin... i quadrettini con il coso di carne, perché loro la carne da fare
in brodo, come l’adoperiamo noi, non l’adoperano mica loro. E alòra ho trovato un
po’ di carne in macelleria, ho fatto il brodo, i pulàster i catéven, i rafféven. [...] Purté
a magnér tòt sti magna-magna che e sbaféven [...] Quand l’è sté dòp d’avér magné la
mnestra e duvi vén... al còs, mé i’ìva purté a cosér sté cavrét... ma méinter a sùn le al
forén ariva i aparéc... in séma, davanti, davanti àn dò sbucheva sta streda et fiànc al
forèn e gh’era tre o quatér autoblindi dal nostri... gh’era du aparéc ag’n’era mìa tànt,
perché a me al masìm c’abia vìst in Spagna insém e n’ho vìst tri...
Di quelli nemici?
Tri, nemìg, […].
E dopo Malaga?
Donca, dopo Malaga... abbiamo preso la strada del ritorno, abbiamo formato
l’autocolonna, siamo venuti giù... abbiamo riattraversato un po’ della, della bassa
Andalusia e siamo arrivati a Siviglia, ma da Siviglia siamo andati vicino a Siviglia e poi
a sòm sté férom un quelch giòren lé... un assetaméint e poi abbiamo... e sòm andé vérs
Granada, da càl perti lé, dove ci hanno messi in colonna, su un treno, una tradotta
militare, sul treno e siamo andati sù, siamo passati... girato attorno a Madrid e siamo
andati sul fronte di Guadalajara. A Guadalajara là abbiamo trovato la fanteria e nel
frattempo, nel frattempo venne anche l’altro gruppo, perché cusché... bah; perché non
ha mica importanza, ma lo dico perché dopo un po’ lì, dopo Guadalajara, cul mé amìg
lé l’ha pérs la gamba... […].
Montanari?
Lui, s’era addestrato bene a fare il puntatore, […] l’era un ragàz a pòst, l’era.
Insomma, in pochi paròli, me a féva seimper i colegaméint [...] ‘Na volta a m’han dé
‘na bicicléta ed quìli da bersagliér, ed quìli che useva ‘na volta che al s’dupiévén...
bicicletta... lung a la stréda, su la strada di Francia, era chiamata la strada di Francia
perché era la strada che da Madrid va in Francia ed era quella che passava da
Guadalajara... […] Méinter che steva lé... ta-tacpum, tac-pum,tac-pum, tac cusché, quel
là... tòt e sparéven […], viene, viene fatto l’attacco […] cumincia a sparér subìt, alé
pom, pom, pom, pom..., insomma un disastro... che erano andate nelle batterie alzo
tre... lé i’òm fàta la bataglia... quand a sòm andé avanti, quaranta chilòmeter circa...
i’hom fàt n’avanséda...
Una avanzata di quaranta chilometri?
Circa quaranta chilometri siamo andati avanti, a un dato punto... è saltato fuori i...
reparti nuovi che venivano in aiuto da Madrid, c’erano dei carri armati grossi e nuéter
gh’ìven i càr armé d’assélt, i càr, i cariuléin cichin... a gh’ivén gnint da fér, perché
quand riveva ‘na canunéda al vuléva via...
Cos’erano? Carri armati russi?
Carri armati russi. Gròs, canunséin, do mitragli... am ricòrd mìa s’erén 35 o 37... e
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féven del stragi... […] e in dal frateimp, meinter a sòm andé in sosta i’ho savù che cùl
mé amìg lé l’era armés frì... era rimasto ferito... […]. Gh’è scupié una granata propria
davanti al scùd dal canoun propria in téra... e l’era armés frì ... in do posiziòn, in
pochi paroli... [...] ho vrù cuntér l’afàri de sté Montanari... e andammo a Tudela del
Duero, in còs...
Com’è che si chiamava questo posto?
Tudela del Duero. Era un paese sul Duero che il Duero l’era un fiùm, era il fiùm
più gròs... più lungo della Spagna... eravamo in sosta, in retrovia insomma in pochi
paròli e lì non c’era il gruppo di questo mio amico, ma l’è capité lé dòp suquànt gioren
che nuéter i’eren feirom lé in atéisa; alòra a vàg subìt là a vàg... a dmandér... [...] Al
fà: «A Malaga... a còs a Guadalajara, e l’han ciapé e l’han mandé a l’ospedél da camp,
da l’ospedél da camp e l’han mandé a l’ospedél civil, dal civil e l’han mandé a Irùn,
in séma ai Pirenei»... un paés c’lé ai confini fra la Francia e la Spagna, dalla parte e
dl’oceàn atlantic, Irùn. L’han mandato all’ospedale là e sembrava che fosse guarito,
ma quànd l’è lé al g’ha fàt infesiòn... al dìs lé al còs... a la sira a vàg là al sò grùp, anzi
no. A la sìra an g’sùn mia andé, ho savù cl’éra là e a vriva andérel a catér, a m’han
dìt c’l’era a Valladolid... […]. A sùn rivé là, quand sùn rivé là và a l’ospedél, quand sùn
a l’ospedél i gh’ìven bé le tajé la gamba. I g’l’ìven tajeda, la gh’iva fàt infesiòn, a g’àn
tajé la gamba ché sòta al snòc apeina. E gh’era ‘n’inferméra... ed Réz.
C’era un’infermiera di Reggio? Come mai c’era una infermiera di Reggio?
Mah. A s’véd c’l’é andéda con la Croce rossa internazionale, può darsi, e péins. [...]
La m’ ha sintù a parlér e la dìs: «Sei di Reggio tu?». A dìg sì. La dìs: «E dig bein e cume
la metòmia ché... – la dìs – eh è andato tutto bene, ma ha solo bisogno di mangiare,
bisogna che mangi...». «Ma non vede come mangia? Come fa a mangiare – a dìg – àl
gh’a bisògn ed trafusion ed sangòv». La dìs: «No, no, non ne ha bisogno». Alòra ac’sé
in manéra che al g’l’ha cavéda a spuntérla, l’è pò gnù a ca a la meté dal ’38 circa o
ai prìm, prìm méis dal ’39.
Chi, Montanari?
E, l’è gnù a cà, l’han mandato a... è stata la sua fortuna... cuntra a la disgrassia...
nel senso che lui è venuto a casa, s’era acquisito dei diritti, perché alòra... la facenda
al sà... è come qui chi g’ha dirit adésa perché ihan vìnt la guéra, me l’ho persa lòr
l’han vinta... alòra s’in pérla, s’in pérla più. In pochi paròli ag’l’ha cavéda tramite
l’aiùt e... de, dei reduci legionari d’la Spagna, tanti béli còsì, l’è andé impieghé in
banca, a la Càsa ed rispérom, a la Càsa ed rispérom, al gh’è sté fìn a quatér o sinc àn
fà, c’l’è andé in pensiòun.
E allora tornato a casa, il partito gli ha trovato il posto?
Sì. A l’han iuté i reduci...
Lui ha preso, come si chiama, una onorificienza in Spagna?
No, no... no, perché...
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Una croce di guerra?
Sì, una croce di guerra, ma è la croce di guerra spagnola che non vale mica.
Che cos’è la Cruz roja?
La cruz roja… e g’l’ho mé...
Lei ce l’ha?
Sì. La vuol vedere?
Sì, volentieri.
Alòra è sucés che, che dòp a s’l’han deda anc’a nuéter, mé e g’n’ho trei dal cròs
ed guéra, mo cola d’la Spagna l’an gh’eintra per gnìnt...
Senta, facendo il punto, allora torniamo a questa cosa, quindi Guadalajara,
questo incidente di guerra a Montanari, dopo voi cosa avete fatto?
Da Guadalajara, dunque siamo partiti e siamo andati a fare l’azione di Barcellona,
cioè la campagna della Catalogna... [...]
Ma gli italiani che erano in Spagna, che erano con lei, erano dei bravi soldati o
no, come efficienza bellica?
Beh come efficienza bellica a féven al sò duvéir...
E gli spagnoli erano bravi?
Beh erano, erano, cuma s’dìs, dei faciloni, gente abituata con la faccenda della
corrida, della tradizione, perché andér a affruntér al tòr in d’la corrida ag’vòl dal
curàg... e sono gente anche coraggiosi, però éren ànc un po’ imbambì da cul lato lé.
Tanti vòlti quand andevén per fér l’asélt andavano avanti in pé, in piedi, imbambì e
cadéven come al moschi, ma... andér avanti... i’erén mìa boun, n’erén mìa bòun de,
de schivér un po’... capisci, propria da nustràn, in pochi paròli.
Lì a Guadalajara avete incontrato, dall’altra parte, quelli delle Brigate Garibaldi?
C’erano gli italiani dall’altra parte o no?
No, i’ italiàn nuéter an i’òm mai caté, propria diretaméint. Quànd e riveven sul
pòst nuéter, i’eroi, i’eroi ch’in dvinté adésa, tòt i’eroi d’la famòsa bataglia, tòta gìnt
ch’ in seimpér scapé... a cumincér dai vari Saragat e tanta et c’l gìnta lé.
Ah sì! Quindi quando c’erano le camicie nere quelli delle Brigate Garibaldi
tornavano indietro?
Sàl se gh’era? e gh’era da, da la pért de d’là a gh’era, a gh’era un esércit cosmopolita,
a gh’era, a gh’era la fécia ed tòt al mònd, e gh’era fìn di giapunéis ànca... ag’n’era et
tòt al qualité, ma l’era la fécia ed tùt al mònd. At dìg ànc perché. Nuetér i’òm caté ‘na
màsa ed dòn incinti... perché, perché la famosa «Pasionaria», la famosa, la s’ciaméva
a créd c’la s’ciamìs Dolores Ibarruri, praticava il libero amore, la ghe d’giva: «Quei
soldati là fanno il vostro, fanno il còs per salvér la Spagna, ma badate quando
arrivano, voi dovete soddisfare». Tàant... l’oblighéva st’al dòni, stì ragàz, st’al dòni
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che puvréti... i’in armasi lé cun di ragàz. Me a gh’o avù ‘na relaziòun lé prìma ed
gnìr a cà apéina a Alicante quand è finì la guéra, cun una che aveva un bambino,
che ha avuto... una cosa del genere... ho dovuto darmi per forza...
Ma perché, le, come si dice, le violentavano?
Beh i feven... ig’duvìven stér per fòrsa. Perché ec’cateven fòra la facénda dal còs,
del diritto, perché erano soldati e avevano diritto di divertirsi quando venivano dal
fronte... e fèven dal vandalismo...
Fatto del vandalismo?
Vandalìsom e féven un po’ de tòt...
È vero che bruciavano le chiese?
Guardi: erano della brutta gente a cumincér da i’ italiàn. Oh, premetto una
faccenda, che cert... certùn in méz al mùc... infàti un quelcdùn l’ha fàt... anc da
nuéter, perché me i’ho vìst, per ipotesi, in un paés gh’è sté, a gh’eren rivé deintér
i’italiàn e come i’in rivé déinter... an saiéven mìa sa fér, andéven a arafér... a gh’è sté
un c’l’ha, du o tri, che i’ in andé deintér in un apartaméint, a gh’era un òm anzian
a lét malé e alòra as’ véd i’han mìa caté gnìnt da fér bél, da gratér a g’han purté via
i linzòl in dal lét. Capisce sa vòi dìr... di episòdi a n’è capité anc a nuéter...
E quindi diceva... un’altra cosa, quindi la gente, il popolo spagnolo... simpatizzava
più con voi o più con l’altra parte?
A dir la verité cun ch’iéter a n’han mai simpatizé dimòndi.
Non hanno mai simpatizzato?
Se cun nuéter prima et tùt ag féven véder di fàt e la liberté c’ag déven, quand
per esempi ag liberéven al sò paés, dal mumeìnt che priven fér i sò coméd... diferéint
da qui là che... gh’impunìven ed fér cus’ché o cul ‘là... Insòma, in pochi paròli noi
davamo la libertà e la possibilità di vivere, invece ded’là e gh’impunìven ed fér...
come ho detto al ragiunaméint ed prìma, c’a s’ catéva un mùc ed dòni incinti... caté
di, di prét muré...
Lei li ha visti?
Sì, sì.
Ha visto dei preti murati?
Ma sì... a m’è tuché d’andéri a li berér... ‘Na volta a g’l’ho dìt cun al prét che ed
San Pelgreìn... Parland dal più e dal meno a dìg: «Na volta a sùn andé deintér in
d’na cantéina a sintìva a picér, déinter a un mùr ed dré dal mùr a gh’ era al prét, e’
c’ purtéven da magnér a la nòt... atravérs a un bùs...
E non l’avete liberato, no?
Sì. Ah, quand a riveven nuetér a liberevén tùt.
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Ma chi è che gli portava da mangiare?
I sò pesàn. Al saieven mìa ch’iéter de’d’là... se no ag feven la péla... eh e n’han
masé...
E di chiese incendiate ne ha viste? Di chiese incendiate dai repubblicani ne ha viste?
No. Non ne ho mica viste. Non avevan mica interesse, perché s’accattivavano le, le
simpatie del popolo a quella maniera lì... In gh’iven mìa gnìnt da cuslér... ma come ho
detto io, noi, e me am sùn caté tanti vòlt in prima linea con i canòun e me, per esempi,
proprio durante la campagna per andare a Barcellona, mi ricordo... che una postazione
presa durante la notte, al mattino credevamo d’aver davanti la fanteria, invece non c’era,
era dietro e davanti avevamo loro... come a... come i’ in gnù a avisér, han cumincé a
sparér con i... col mitragli cuntra i canòun e alòra an’gh’era mìa asé distansa, perché
a gh’era la distansa ed séint metér, séintsinquanta metér... che nuetér un po’ a i’òm lasé
scarghér e po dòp i’òm cumincé a sparér a zéro coi ca... coi còs... con i canòun. In dal
fratéimp, am ricord che a gh’éven un generale, che credo che sia commemorato lì in una
via lì a Strada Alta, Cascino, generale Cascino. Alòra... ancora comandava un battaglione
di... di... di còs, camicie nere... un po’ smerciédi d’italian, insòma... che dopo eravamo
mischiati, se quand l’era, quando la ghe strichéva un po’, che a gh’era ‘na posiziòun un
po’ dura... normalméint ag’ mandéven al camìs nigri, perché non che fùsen difereint
da ch’iéter, no, ma gh’era la facénda che erano, lo spirito, specialmente per quello che
riguardava il partito e tanti béli còsi. Eren ataché un po’ al partì e alòra per fér béla
figura e gh’andeven... invici i suldé, qui ch’è sté ublighé a andér là, perché ag’nè sté un
quelcdoun c’l’è sté un pò, l’è sté ciapé un po’ a tradiméint l’è mia c’al sia sté ublighé a
anderégh, però i’ in sté ciapé a tradiméint, perché me a sò, per esempi, c’à gh’è sté di suldé
in Italia, ch’in sté imbarché per andér zò in Africa orientél e po dòp invici i’han dirotté... i’
han dirotté là... Lé i g’han fàt capir c’l’era, a gh’era da stér mìa mél e tanti béli còsi e alòra
t’sé i s’in lasé lusinghér, t’sé speciallméint i cuntadéin e via... la ginta ed basa plebe, chi
gh’i ven... da l’istrusiòun ag’n’iven mìa dimondi, mo sé... ànc sa c’fùsa sté un quelcdùn
c’al prìsa... c’al li savìsa... ac’ tuchéva taséir perché ‘angh’iva mìa nisùna voz in capìtol...
Ma l’era un po’ un casòt via... e così l’è andéda a finir che dopo siamo andati a
Barcellona, oltre Barcellona, siamo proseguiti e ci siamo portati fino vicino ai Pirenei...
a... péins c’la s’ciaméva Figueroa [si trattava evidentemente di Figueras, N.d.R], Figueroa,
sì vicino ai Pirenei. Poi dopo è finita, lì anche l’han preso possesso le truppe di Franco
e... e i reparti italiani... sòm turné indré i’hom fàt tùt al gìr, i’hom turné a girér atorna a
Madrid e sòm andé a Toledo, dove si è fatta poi l’ultima... insòma vicino al còs, come si
chiama quel palazzo... l’accademia militare...
L’Alcazar, che avete liberato?
L’Alcazar, beh a dir la verità sì a l’hom liberé però... le... quand ac’sòm rivé nuéter
praticaméint l’era béle quasi liberé, perché a gh’era rivé prima... [Alcazar di Toledo: i
giovani cadetti dell’accademia Militare, agli ordini del colonnello José Moscardó Ituarte,
rimasero assediati per diverse settimane. L’assedio e la eccezionale resistenza dei militari
vennero ampiamente sfruttati dalla propaganda fascista e l’Alcazar nella Spagna di Franco
sarebbe diventata monumento nazionale, meta di un pellegrinaggio nostalgico, N.d.R.]
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Franco?
No.
Emilio Mola Vidal?
Anca lòr, a gh’era Mola, a gh’era Franco a gh’era tùt lilòr... ma più che tùt eter
a gh’era al trùpi d’la fanteria davanti a nuéter. T’sé nuéter a sòm andé ed ripos e po
dopo...
E pò dopo di lì cominciò la famosa facenda d’la bataglia ed Madrid, ma prìma
a gh’era d’andér... al mér, da Toledo i om ciapé la stréda d’la Mancia, abbiamo
attraversato la Mancia, che sòm pasé in un paéis, sulla strada della Mancia, non mi
ricordo se si chiama proprio la Mancia, am ricòrd mìa, ad ogni modo mi ricordo che
in questo paese, un paés c’l’era costegé dalle case no, la strada principale, e sulle case
c’era pitturata la storia del Cervantes... Don Chisciotte. E gh’era tùt, tùti al pitùri. […]
Il paese dov’è nato il Cervantes?
No, la Mancia è la regione, ma la città è quella che... non so se sia nato lì, non me
lo ricordo […]
Quindi, arrivaste lì?
E sòm rivé lé, e sòm rivé fino ad Alicante, poi da Alicante siamo andati fino vicino
al porto, ma non siamo andati al porto, perché e gh’eren lòr… e s’vrìvren mìa arénder,
non volevano arrendersi. Alòra in’han mìa reagì; il comando italiano diede ordine
di tenerli bloccati, ma di non sparare. Nuéter as’sòm giré d’atorna a Alicante e sòm
andé in un paesino c’al s’ciaméva Muciamiel ed era distante... c’era anche il tram che
partiva da Alicante per andare a stò Muciamiel. A Muciamiel i’òm lìs... i’òm pianté al
nostér cmand, mìs sù al centraléin telefonic, fra i quali normalméint a féva servìsì
mé, anche per un motìv che mé era un po’ al factotum […]. A ghe sté ‘na volta è
capité, durànt campagna della Catalogna, sì a Barcellona; una notte e féven servisi
al centraléin, come solit e ciàm, perché ogni tànt bisogna ciamér per savéir se, se
funzionava il collegamento, tànt da ‘na pért come da c’l’etra. [...]. A gh’era am ricòrd
me a gh’era un certo Comitti ed Como, comasco, càl zoni lé, l’era un cuntrabandér, al
gh’iva ‘na fifa, a ghe d’giva pò: «Cuma févet a fér al cuntrabandér cun c’la...». Insòma
al dìs: «Mé quand a vàg fòra ca seint a sparér... un lavòr...».
Quello era un volontario no?
Sì. Sì, l’era ‘na camìsa nìgra, l’era gnù via anca lò con la, con la... perchè ag’n’è sté
dimondi ch’in gnù, dìt fra nuéter, con l’idea d’andér a arafér...[…].
Volevo sapere una cosa. Lei quando è andato in Spagna sapeva cosa stava
succedendo là? Lei era convinto di essere dalla parte giusta fra le due parti?
Ma diciamo la verità, ho detto prima... ma la politica a la lés da ‘na pért e gnàn an
in vòi mìa sintìr parlér ed politica. L’ho detto prima, me ac’sùn andé...
Certo: per i soldi?
…E basta. Perché potevo aiutare la mia famiglia e nient’altro. […]
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Senta, volevo chiedere una cosa, quando lei, lei è tornato in Italia dopo i
festeggiamenti?
Quando è finito, dòp ch’è sté un còs un po’. Dònca e sòm sbarché, e sòm sbarché a
Napoli, in sìma al «Toscana» am sembra, e al «Toscana» e s’han purté a Salerno, però
a gh’ era d’i’ eter repért che eren lé, tra Salerno e Napoli, i’éren ed la fanteria e nuéter
éren a Salerno, e gh’o la fotografia ed Salerno, ma ac’ sòm in trì, nuéter trì e basta,
an’g’a mìa nisùn valòr. Dòp d’un po’ a gh’era da fér la sfiléda a Roma...
Davanti al duce?
Davanti al Duce, al Zìo. [...]
Senta e a Roma, lei è andato, no?
No.
È tornato a Reggio subito?
Ah, sùn gnù a Rez subito. Dòp è sucés, è sucés che quand i’in rivé a Réz i reduci ed
Réz i’han fàt la sfiléda per via Emilia e alòra i’han...
C’era anche lei?
No. Ac’sùn mìa andé... Cioè ac’sùn andé e àm sùn mìs da ‘na pértà, insìma a la
via e quànd i’in pasé a g’ho dìt: «ciao veh... salàm», el tulìva pò in gìr perché ac’tuchéva
sfilér... n’etra volta.
E quando è tornato a Reggio no, lì dal partito come è stato accolto?
Più o meno, coi festeggiaméint fàt a c’la manéra lé. Ah un episodi c’ag voi dìr.
Dòunca me a serchéva d’andér a lavurér... a n’iva bisògn, dòunca era béle un méis
e méz e più ch’era a cà e gnàn ché ed lavurér an m’in catéva mìa nisùn. ‘Na béla
giurnéda e partìs e vàg sù dal segretari, dal federél... e alòra a gh’era al vice; fàghia al
nòm? L’era Menada.
Menada?
Sì, figlio del vecchio sindaco di Reggio. Menada fighìn. [...]
Allora, Menada, cosa le aveva detto poi?
Menada, alòra, l’ha tiré i remi in barca, al dìs: «Adesso, adesso vedremo»; «Serché
ed movrév, perché mé am ciàp sù e pò a vàg a Ròma, fé uetér mé an vòi saltér davanti a
nisùn, però se uetér an tulì mìa di provediméint, che mé e sùn ché, a g’ho ‘na famìia da
mantgnìr e créd ed veir còs... mé an vòi mìa vantér di dirìt, perché a g’han tùt dirìt ed
lavurér, mé a sùn fàt a c’la manéra lé, en vòi mìa di privilég perché a sùn sté in Spagna.
In Spagna ag’sùn andé per ciapér da vìver e ché a vòi fér etertànt, a vòi lavurér per vìver».
Premét una facénda, che prìma d’andér in Spagna cun Montanari lé, siccome l’era un
po’ ed téimp ch’i’éren a cà tùt dù, i’hom fàt tùt al pusìbil per andér in Africa a lavurér,
là in Etiopia, an g’l’hom mìa cavéda a andér vìa, i’hom fàt tùti al dmandi possibili per
andér via, ag’l’hom mìa cavéda a andér via, gnàn in méz, gnàn in méz a i cuntadéin,
perché, al perché nuetér an feven mìa pért et cul sindachét lé, mo bein, mo c ‘lavòr...
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Che sindacato era?
Il sindacato di commerciànt, al noster, col lé l’era al sindachét e di agricoltòr, c’la gìnta
lé, i cuntadéin...
Quindi lei era ancora disoccupato?
Eh, ero ancora disoccupato.
Che cosa ha fatto dopo?
Niente... […] Sùn andé a l’olificio... e as’sòm a la fìn dal ’39, è scupié al bugnòn, è
scupié. […] E premét una facénda, che mé quand a féva al budghér, i’ho fàt al còrs da
agente daziario, i’ho dé l’esàm in Prefetùra, a g’ho ancòra la patéinta e a sùn pasé agìnt
daziari, oh a sò che a gh’era da catér al lavòr anca lé. A sùn andé fìn a Fiuràn ed Mòdna,
‘na vòlta in bicicléta, quànd i’ho sintù dìr che serchéven ùn. Quand a sùn sté là a m’han
dìt: «No, per al muméint an n’hom mìa bisògn, però lasés ché l’indirìs, che se vìn bisògn».
Gnìnt. Alòra i’ ho ciapé servìzi a l’olificio... e gh’è sté una... dòunca cuma éla gnùda la
facenda... ah a lavuréva a l’olificio, doùnca, a còs, a vàg a cà, dòp avér finì e d lavurér
la giurnéàa, e vàg a cà e am’mànda un a ciamér a cà d’andér al còs, al dazi, al dìs: «A
sùn dal dazi, che al Diretòr l’i va bisògn». A vàg là, am preséint. «Dunque lei – al dìs – è
disposto a prendere servizio». «L’è còl c’serchéva mé». A dìg: «Si, però, ma...» al dìs: «No tu
per venire qua bisogna che ti fai dare il libretto di lavoro, eh, altrimenti non posso mica
assumerti». Mé al giorén dòp am preséint subit a l’ufizi ed ragioneria e tanti béli cosi, e
ghé spiég la facenda... al dis: «lè un brùt lavòr – al dis – sét, per un motiv sòl l’oleificio l’è
un stabiliméint ausiliàri, te’ et pò mia licensiér, nuetér at pròm mia licensiér, a meno che
et végn licensié cun al fòi ròsa, in pochi paròli, come lavativ. Sét perché an gh’è gnint da
fér? Perché se a vin ché al capitàni ed l’aviaziòun» perché l’era: Oleificio nuova società
aeronautica italiana...
Cosa facevate all’oleificio?
L’olio e l’alcol. Se avin ché al capitàni c’al cmanda al repért, al còs, che et gh’è mia, che
an gh’è mia al tò librét, a gh’è da pasér di guai. Insòma, in pochi paròli, a l’hom mnéda, a
l’hom mnéda tànt a digh: «L’è tùta la mé véta che a séirch ed metròm a pòst e an’ né g’ la
chév mia». […] Al dis: «adés a prepér al librét e pò a t’al dàg». Tu al librét e pò vin fòra e po a
vàg a, al còs, al dazi, quànd sùn rivé sù al dàzi vàg dal diretòur a digh: «Sgnòr dutòur ché
a gh’è al librét ed lavòur». «Bravo – al dìs – allora aspetta qua un momento». L’ha ciamé al
càp dal guérdii c’ l’era, c’ l’era Curti al barbòun, al capo delle guardie del dazio, al l’ha
ciamé, l’è gnù subit: «Dòunca, al dis, vé, Cigarini, l’era sabét, Cigarini lunedé matéina
al ciàpa servizi».[…] «Bravo, bravo Sigaréin a sùn propria cuntéint, andòm vin mo még»
e as sòm purté a la barriera ed San Peder, là an du gh’è la péisa, […] Olà a sùn cuntéint
cume una pasqua, finalméint che propria tiré al fié a la loùnga, finalméint am chév ‘na
sodisfasiòun; a vàg a cà e ca càt la povra mé medra cun la cartuléina in man, d’andér via.
Am duvìva presentér al martedi matéina, al lunedé i’ho tgnù andér, ho tgnù fér a l’indré
tùt quél gh’iva fàt al dò giurnédi prcedeinti, per avéir la cosa per andér là.
E dove l’han mandato?
In Libia. [...]
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Ernesto Bini
Nato il 6 luglio 1917 a Gatta (Villa Minozzo).
Durante il servizio militare viene mobilitato per la Spagna, ed il 27 novembre
1938 parte con destinazione Cadice. Rientra in patria il 12/13 maggio 1939.
Soldato di leva appartenente al Battaglione «Verona», ritorna in caserma al
Brennero, non congedato a causa dell’inizio del conflitto con la Francia.
Partecipa poi alla campagna d’Albania e di Grecia.
L’8 settembre tenta di raggiungere la propria famiglia ma viene bloccato dai
tedeschi, riesce a sfuggire tentando di espatriare in Svizzera. Viene catturato e
consegnato ai tedeschi; rinchiuso in un campo di concentramento, fa il cuoco.
Ritorna in patria nel 1945.
Testimonianza raccolta il 20 ottobre 1987.
Perché è andato in Spagna?
Noialtri il battaglione... la 2a «Tridentina» si chiamava, il battaglione «Verona» è stato
messo... è stato mobilitato per la Spagna, tutta la «Tridentina», c’era il battaglione...
io ero nel battaglione «Verona», però ci sono in una divisione, ci sono; adesso non
ricordo... dieci o dodici battaglioni che formano una divisione e allora noialtri siamo
stati mobilitati per la Spagna, ma però come volontari.
Lei stava quindi facendo il soldato?
Io facevo il soldato su al Brennero e avevo 21 anni... ero nel ’38... avevo 21 anni
perché ero andato sotto in maggio del ’38... è stato mobilitato del general Franco un
aiuto per la Spagna... e allora... noialtri ci ha fatto partire tutti... ha fatto partire tutta la
divisione per... in aiuto e però tutti in borghese. E ne aveva richiamati tanti di soldati
che... tanti volontari che volevano andare in Spagna, e ce n’erano un mucchio, tutta
gente di trenta o trentacinque anni, fino di quaranta anni ce n’era, che sono venuti in
Spagna, che li abbiamo trovati noialtri a La Spezia che montavano su nella nave con
noi tutti questi volontari, però volontari anche noi eravamo. Vestiti da borghese col
cravattino tutti belli... e siamo arrivati sullo stretto di Gibilterra e ci siamo fermati per
un giorno e una notte fermi, perché non ci lasciavano passare e dopo a forza non so
di reclami di una cosa o dell’altra, ci hanno lasciato passare. E siamo passati noi con
la nave, di dietro a noi c’era la nave dei muli, perché noialtri eravamo degli alpini
e c’erano tutti i muli. Allora noialtri siamo passati a distanza... non so ogni tanto si
vedeva la nave che avevamo noialtri di dietro che veniva... han fermato anche quella
dei muli e quella dei muli l’hanno fatta saltare per aria e così noialtri dopo siamo...
siamo arrivati la sera dopo o due sere, ci abbiamo messo quattro giorni per arrivare in
Spagna. Siamo partiti il 27 di novembre del ’38 dal Brennero e così siamo arrivati... lo
chiamavano il porto di Santa Maria, che aspettavano che arrivasse i muli per andare
sui Pirenei e così gli è arrivato un avviso che la nave dei muli era sprofondata e
così tanto per fare ritornare i muli dall’Italia, noialtri siamo stati fermi 22 giorni lì. E
allora in questi 22 giorni, che abbiamo aspettato che venisse i muli, è venuto come
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una liberazione che finiva la guerra e così noialtri siamo stati questi 22 giorni tanto
che arriva i muli, ecco sono arrivati i muli e poi dopo abbiamo fatto delle grandi
passeggiate lì, mangiare si mangiava poco, del pane, una razione di pane tanto come
quella che ci davano quando ero prigioniero in Germania; del resto si mangiava quel
pochino di rancio che ci davano: ceci... C’era la gente borghese che era lì della Spagna,
signorine, ragazzi così, che venivano nella paglia a raccogliere su tutte le briciole del
pane perché c’era fame. Io poi avevo trovato un ragazzo... un bambino che aveva sei
o sette anni che mi aveva imparato a conoscere e mi chiamava e così lì andare via
insieme... un giorno mi dice dove abitavo e così c’ho detto che ero un italiano... lui mi
voleva bene questo bimbo e mi portava sempre delle banane e io ci davo due soldi,
dieci pesetas, e allora... lui tutte le mattine quando ha visto che ci davo questi soldi,
tutte le mattine era lì e mi portava le banane, queste banane. Noialtri, era il brutto
che si andava fuori sulla montagna, che c’era questi del Marocco, questi marocchini
che quelli che trovavono fuori, li facevano fuori e altro che una raccomandazione
di andare via in gruppo molto grossi e col fucile e essere sempre pronti perché se
trovavano una squadra di quelli lì del Marocco di farli fuori, io avevo questo ordine.
Ma non erano vostri alleati i marocchini?
No, ma era... ce n’era... questi e quegli altri, c’era dei marocchini che avevano
come una coperta addosso, con una fune, quelli erano che volevano la repubblica... e
così dopo noialtri si girava sempre per questo paese, abbiamo girato lì circa quaranta
giorni e poi dopo siam cambiati.
Dal porto ci hanno, dal porto di Santa Maria ci hanno portati a Cadice, che era
una città molto grossa e molto bella, era la città... che mi ricordo era... eravamo a
Cadice dunque lì a Cadice, era la settimana santa perché la Spagna c’era... erano
molto religiosi, la Spagna, in questo paese tutte le sere andavano in giro la settimana
santa a portare un Cristo, che portavano in dodici e allora con il capitano g’ho dét: «Ci
posso andare anch’io una notte così a fare una passeggiata?» E dice: «Chi vuole andare
ci facciamo il permesso, però armati. E allora sòm andé una nòta, una notte a girare
dreda a sté Crést. Dei versi, che dal volti capiva ma dal volti capiva un’ostia perché
lo spagnolo si capisce abbastanza bene. E di lì siamo stati lì fino alla fine d’aprile e
poi dopo siamo andati, ci hanno mandato sui Pirenei come per fare... un controllo
se c’era ancora della gente... dei rastrellamenti, ecco facevamo quel lavoro lì noialtri.
Ma stavano bene, perché noialtri e gh’iven gùst che dùressa la guera perché ciapévom
una mucia d’ sold in Spagna del ’38, io prendevo 36 lire al giorno e 36 lire al giorno
erano tanti, perché noialtri qua si prendeva cinque lire al giorno, invece in Spagna
erano 36 lire al giorno che si prendevano.
Arrivavano in Italia o ve li davano in Spagna?
Loro ci davano questi soldi, però a noialtri sei lire da consumare in Spagna in
pesetas e il resto lo mandavano a casa, dove li volevi mandare a una banca, a una
posta, ecc., perché tutti soldi non li davano perché a dare tutti quei soldi lì c’era di
quelli che... c’era le donne così e allora «fochi fochi» cinque pesetas, «fochi fochi»
cinquo pesetas, e allora c’era di quelli che li spendevano tutti per quei affari lì e tutte
le mattine avevano la visita noialtri, tutte le mattine la visita dal medico perché c’era
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una pestilenza... e quelli che prendevano qualche cosa subito li rispedivano in Italia...
eh! Quanto gridava il colonnello, il capitano per quel lavoro lì che... mentre io ero
socio di quel bambino e mangiavo banane ne mangiavo un cavagno al giorno...
Per il resto noi abbiamo girato... come di guerra, non abbiamo fatto, siamo andati
di presidio così da un paese all’altro, c’erano dei paesini piccoli ma... come guerra
noialtri siamo arrivati... Si partiva subito se i muli arrivavano, quando noi allora si
partiva subito per i Pirenei han detto: stasera facciamo sosta qua a Santa Maria,
domani si parte per i Pirenei. Il nostro colonnello, invece, la fortuna che non è mica
arrivato i muli, è stato sfortunato quei soldati che ci sono restati dentro alla nave
perché l’hanno fatta saltare per aria... Ah quando siamo stati nello stretto di Gibilterra
che ci facevano le prove a noialtri di camminare alle barche perché se tiravano alla
nave avevamo tutti il nostro posto di... al N° 5, al N° 7, ecc. bisognava andare tutti
a quel posto che c’era la barca per tutti ed erano barche grosse perché sulla nave
eravamo in settemila.
Si ricorda il nome della nave?
Non mi ricordo la nave... era una nave brutta non era mica come adesso e stata poi
la prima nave che ho visto, che ag’niva mai vist ed navi ma non era mica... era brutta
e allora ho detto: «mi se sòuna l’allarme e deg invece d’ càminer a la barca vado giù
in stiva giù sotto ac’ sé sun al prem ad ander so» perché era terribile il mare quando
siamo andati là... c’era dei pesci che erano come i muli [Probabilmente delfini, N.d.R.]
e correvano dietro alla nave, sembravano muli e deg: «Se salt dénter in mar m’magnen
subét»... del resto la vita è stata bella... io l’ho detto tante volte, ritornerei in Spagna.
Sui Pirenei, in quale località vi trovavate?
Sui Pirenei abbiamo fatto tutta la costa lì della Francia e adesso i nomi non me li
ricordo, c’era scritto dei nomi lì che ag gh’iva ed nov a sàveir léger. Mi ricordo che ce
n’era uno che si chiamava... Gijòn era proprio di questi paesetti che non mi ricordo...
sulla montagna dei Pirenei ma lì poi ci sono... abbiamo fatto dei rastrellamenti dieci/
quindici giorni, poi siamo tornati indietro e dopo il colonnello ha detto: «Ritorniamo
in Italia, siete contenti?»... tutti quanti dicevano no... che si stava bene in Spagna...
si stava male per il mangiare, ma i soldi si prendevano, poi con i soldi si mangiava.
Non ha mai avuto paura?
No, mai, avevo paura solo dei marocchini.
E fino a quando è rimasto in Spagna?
Fino al 12 o 13 maggio.
Come vi hanno detto che era finita?
Lo sapevano già da quando siam partiti da Cadice che era finita la guerra, che il
general Franco aveva vinto e che la guerra era finita. No, perché tutti i bimbi di dodici/
tredici anni erano mobilitati, quelli là della Spagna tutti ci avevano il fucile, bambini
di dodici, tredici, quattordici, quindici anni, tutti sté ragazzini avevano tutti il fucile.
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Erano in divisa?
Divisa non si capiva che cosa fosse, i paséven con dei cavalli che... in mezzo a
queste pianure in questa sabbia che facevano paura, anche questi ragazzi tutti anche
con le frecce, no col bastone che lanciavano... delle lance.
Ma stavano dalla parte di Franco questi ragazzini?
Sì, tutti dalla parte di Franco, volevano che finisse questa guerra... ma era pur
finita... noi siamo andati là... dopo venti giorni, un mese che siamo stati là, la guerra
era finita... noialtri tenevamo l’ordine, il buon ordine... e... mangiare delle banane e
fumare delle sigarette ed è stato là che mi sono rovinato a fumare... potevo iniziare
anche in Italia ma in ogni modo...
Erano forti le sigarette spagnole?
Sì, ma c’erano poi tutte, c’era «calipso», «tre stelle», quelle sigarette, che usavano una
volta che ci sono anche adesso... mi ricordo io quando al tenente ci ho detto: «Tenente
non si potrebbe comperare delle sigarette?» e dice: «Dove le mettiamo?» e io: «Le
munizioni le buttiamo in mare, riempiamo le cassette e le piombiamo e dico dentro
c’è munizioni e nessuno ci guarda. Allora il tenente dice: «Lo facciamo». Ne abbiamo
prese non so non ricordo se erano 12.000 o 13.000 pacchetti di queste sigarette ma
tutti i soldati ne avevano poi preso... le munizioni facciamo conto di averla drovata e
la butòm szò per mar.
Avevate messo le sigarette nelle scatole di munizioni?
Eh sì, in tutte queste cassette di legno o di ferro e le abbiamo portate in Italia.
Poi dalla Spagna cosa avete portato in Italia?
Niente, perché i soldi si prendevano ma non ne davano, davano quella quota. In
Spagna c’era del vin bon, e alòra me al vin am piasìva e vag dénter a un’osteria e go
dét: «Datemi una bottiglia di vino» al dìs: «In quanti siete?» e dìs: «Ac son da mé». Ero lì
vicino all’accampamento, al dìs: «No, no un bicchiere, un bicchiere, un bicchiere di
vino basta» perché qua e a vriven gnan gli ufficiali che s’abvéssa perché se catéven un
che avesse bvù, che fussa sté ubriaco l’’masseva subìt e alòra bisognava star semper
atenti a quel che s’feva.
Come erano i rapporti con gli spagnoli?
Oh, abbastanza in ordine, perché poi c’era tutta gente vecchia e donne e bambini...
donne giovani... di uomini non ce n’era anche i ragazzini erano via tutti con al sciòp,
tutti col fucile.
Ma la gente come vi deveva? Di buon occhio oppure...
Sì con noialtri italiani molto... con noialtri italiani guai, avevamo sempre la gente
così attorno all’accampamento che volevano venire... ma non si poteva lasciarli...
perché avevano messo un filo per dire qua... è zona militare e avevano messo un filo...
e venivano dentro e c’erano degli ufficiali che non dicevano niente c’era quell’ufficiale
che vedeva che parlavi con quella gente lì e... non volevano. Ecco.
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Cosa dicevano della guerra gli spagnoli?
Dicevano quello che dicevano anche i tedeschi lo stesso, che speravano che un
giorno o l’altro finisse... di finirla la guerra.
Ma sapevano e anche voi sapevate che guerra era quella?
Quella lì... la guerra della Spagna era... come... una rivolta perché... c’era Franco
con l’altro... adesso non lo so come si chiamava, non mi ricordo... lottavano loro
insieme lottavano, era partito contro partito, erano due partiti che lottavano insieme
il resto...
E la gente da che parte stava? Da quella di Franco o con i repubblicani?
Eeeh... ben come ho detto prima che dalla parte di Franco ce n’era tanti ma
quando si trovava quegl’altri, quelli che avevano quel cinturone così come... una
coperta forata e... messa addosso, legata, legata con una fune... quelli che passavano
quelli, che delle volte noialtri andavamo su in montagna, erano qua accampati e
andavano fino in cima a fare un giretto. Dieci/quindici tutti armati si guardava...
c’era un sergente con noi, un sottotenente... si guardava per vedere... insomma per
vedere cosa c’era nella Spagna così... e si trovava lassù in questa montagna che non si
poteva... si trovava molti maialini, ma come tutti, come i cinghiali ecco maiali selvatici
e guai non si poteva spararci perché allora... allora era proprio una rivolta. E quelli del
cinturone contro a Franco e si trovavano sempre giù nella valle, nella pianura perché
c’era tanta pianura lì come Cadice, Porto di Santa Maria... era tutta pianura e... lì non
ce n’era, si trovavano ad andare su nelle montagne che stavano nascosti come i ribelli
quando erano qua si trovavano in quelle zone lì...
Ne avete catturati di questi repubblicani?
No, noialtri quando sono andato via io non ho mai... ho visto passare una squadra,
ma noialtri... perché anche loro non si tiravano mica se non erano mica sicuri e loro
cercavano di prenderti più che ammazzarti, di prenderti perché non volevano far
sentire sparare e loro ti tiravano con quelle frecce che ho detto io prima, con quelle
lance lì ma... con i cavalli, loro avevano i cavalli...
Erano quelli i vostri nemici, a cavallo con le lance?
C’era quelli e quegli altri... loro con una lancia di quelle lì come di qua sulla strada
c’entravano a cavallo mentre che andavano a cavallo, perché io l’ho visto anche quelli
là, la squadra di Franco che passavano lì nella pianura... quando tiravano queste lance
c’era il capitano, il colonnello che voleva vedere come facevano ma... prendevano
questo bastone con questa lancia poi, mentre che andavano di gran galoppo, tiravano
questa lancia a un centro e prendevano eh... c’era di quelli che era...
E i rossi che incendiavano le chiese, violentando le suore... le risulta?
No, perché nelle zone dove mi sono trovato io non è mai successo... so soltanto
che... noialtri quando siamo stati a Cadice ho visto... son stato a visitare le chiese...
del resto come a Santa Maria, quel paese grosso lì, la messa la diceva il capellano del
campo. Non siamo mai andati fuori lì si circolava lì sempre e dopo, quando abbiamo
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sentito che era finita la guerra, allora ci lasciavano più liberi. Ma però basta andare
via con... in quindici/venti e alla talora rientrare, essere tutti dentro perché prima che
andasse giù il sole bisognava essere tutti nell’accampamento.
Erano tutte case vecchie con brande per terra con della paglia e al mattino lì, dopo
che era finita la guerra veniva dentro queste ragazze lì, a pescare nella paglia una
briciola di pane così... prendevano e se lo mettevano in bocca...
Torniamo a una cosa vista prima. Secondo lei combattere per Franco era giusto?
Era giusto rischiare la vita per Franco?
Quello lì poi... noialtri siamo partiti giovani e non abbiamo saputo e ci hanno
mobilitato... il tal giorno bisogna partire lì, eravamo al Brennero in mezzo a un metro
di neve... ci avevano messo con le scarpine basse vestito col cravattino il vestito
leggero... siamo stati otto giorni al Brennero abbiamo preso un freddo... essere vestiti
prima da militari con... e dopo da borghese...
Diceva di essere rimasto fermo 22 giorni in attesa dei muli. Come passavate le
giornate?
A girare qua per questa pianura qua e non facevano niente altroché aspettare che
arrivasse i muli dall’Italia... e quando sono arrivati... prima di raccogliere i muli ancora
e di fare il carico per venire ancora in Spagna son passati questi venti giorni.
E alla sera cosa facevate? Che cosa inventavate per passare il tempo?
Per passare il tempo facevamo la lotta noialtri soldati lì nel campo, non si poteva
andare fuori... i primi venti giorni erano chiusi... lì portavano... c’erano quelli che
avevano le carte e... facevano alla lotta tre/quattro ragazzi insieme...
Diceva prima di quest’ordine di partire per la Spagna mentre era militare; quindi
una decisione «costretta». Com’è invece che poi risultò volontario?
Non so poi... il battaglione «Verona» parte volontario per la Spagna come volontari
perché... non si poteva andare... come militari.
Ha firmato delle «carte» per andare in Spagna?
No, non, non abbiamo firmato niente perché ci avevano fatto partire da... come
borghesi, dicevano lì gli ufficiali, perchè da soldati non si poteva... e credevano che
fosse una nave di civili che... andava in Spagna... ecco.
Lei era iscritto al partito, alla milizia? È stato costretto ad iscriversi?
No, mai! Io... non ero iscritto da nessuna parte, né allora né adesso io... non ho
voluto sapere di... nessuna cosa... il mio partito l’è a cà.
Quando è tornato a casa e dove siete sbarcati?
Sono tornato nel ’39 a maggio... il 12 o il 13 maggio... e siamo sbarcati a Napoli... e
a Napoli, anche a Napoli, abbiamo fatto venti giorni di contumacia... No diciamo di...
come una disinfezione... ecco che facevano per... prima di... venire su. Perché li tutte
visite mica visite... eh... bisognava essere a posto prima di partire da lì... se uno aveva
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preso una malattia infettiva... una cosa o un’altra. Ci hanno tenuto diciannove giorni
a Castellamare di Stabia.
Vi hanno ridato le divise poi?
Ah no! Le divise... i vestiti in borghese... ci hanno spogliato subito, appena siamo
arrivati... era tutta la divisa coloniale.
Ma dove?
In Spagna. Siamo arrivati in Spagna vestiti da borghese poi sulla nave avevamo poi
tutta la divisa... munizione... fucile mitragliatore... io avevo la mitragliatrice pesante
ero... avevo il fucile mitragliatore... poi su al Brennero ci hanno ridato le divise da
alpino.
Poi su al Brennero che cosa è successo?
Quando sono tornato è arrivato ancora le reclute nuove e allora han detto: «Eh
quando – e c’era poi dentro alle caserme qualche anziano – eh quando arriva i
lupi dalla Spagna voialtri…»... perché sfortunatamente io avevo il comando di una
camerata... ce ne avevo 27 o 29 di queste reclute che erano sotto... che sono venute
sotto. Quando sono rientrato così... gli hanno detto: Questo qua è il tuo comandante
della baracca... allora alla sera quando venivo a casa, mi facevo pulire le scarpe... mi
facevo levare le scarpe... e far piano... perché mi rompete le ossa che me le hanno
rotte là... in Spagna. Alla prima mattina quando ci ha dato il caffé... ce lo ho buttato
in faccia...
E poi dopo... siamo ritornati dalla Spagna e poi dopo abbiamo fatto una ventina
di giorni lì al Brennero e poi dopo siamo andati in licenza per quindici giorni e poi...
siamo ritornati sotto. E poi dopo a noialtri non è arrivato il congedo... sette anni...
e poi dopo guerra contro alla Francia, contro l’Albania, contro la Grecia, contro alla
Francia e... sono stato fortunato che non sono andato in Russia.
Quando è tornato a casa?
Io sono andato sotto dal... ’38 in maggio... sono venuto a casa del ’45 quando la
guerra era finita, sono venuto a casa del ’45.
Ed è stato, mi dicevano, deportato in Germania?
Anche in Germania sono stato molto fortunato che appena arrivato in Germania...
io ero... un comandante... della Germania.
Come? Un comandante?
Non ho mai patito fame... davo da mangiare ai tedeschi...
Dove è stato catturato?
Mi hanno preso al Brennero anche lì... perché dopo noialtri, il nostro battaglione...
la nostra divisione «Tridentina» era su sopra... da Trento che andava fino al Brennero,
del ’43 quando è stato l’8 Settembre che ci hanno presi... a me mi hanno preso sulla...
Pala Bianca che avevo tentato di andare in Svizzera... e... mi ha preso dei borghesi...
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e... dice: «Ah sei qua!» e lì io ero disarmato... avevo buttato via tutto, ero borghese... e lì
mi hanno preso sulla Pala Bianca e mi hanno portato giù a Merano... e da Merano sono
andato a finire in Germania. Quando ce ne era tanti che scappavano, che tentavano di
scappare, quando ho visto che ne ammazzavano un, due, tre... dieci, questi tedeschi...
dico sarà il destino... vado in Germania.
Quando è tornato nel ’45 a Gatta come ha usato i soldi che aveva guadagnato in
Spagna?
Per comperare un aratro e... un carro. Perché li avevano mandati a casa a mio
padre; io non li ho mica mandati... in banca, in posta o così, io li ho mandati a mio
padre.
Quindi suo padre li ha tenuti, quando lei è arrivato...
No, no aveva già... usati... e se ha comprato anche una fune per legare i carri del
fieno.
Ma quanto aveva spedito a casa?
Erano 36 franc al dé... per sei mesi... novecento lire al mese, seimila lire...
Una volta tornato, la sua esperienza spagnola, le ha creato dei problemi con la
gente del posto?
Nessuno ha detto... era volontario... era fascista... nessuno ha parlato niente perché
la divisione «Tridentina» era stata... avevamo i volontari che noialtri gli dicevamo:
«Come mai siete venuti volontari per andare in Spagna che noialtri vorremmo andare
a casa? E voialtri siete venuti volontari in Spagna per venire in guerra»... Tutta gente,
la maggior parte, erano tutti questi volontari erano tutti toscani, tutti della provincia di
Lucca, Pisa, Pistoia... la maggior parte erano tutti toscani… andiamo in Spagna, come
c’era della gente che sono andati in Africa per prendere qualche soldo perché qua
non si...
Ma erano fascisti o poveracci?
No, qui non si prendeva niente... perché sono andati a lavorare in miniera in
Belgio... perché qua non c’era lavoro; sono andati in Africa perché qua non si prendeva
niente, non c’era lavoro, non c’era soldi...
Ha conosciuto delle camicie nere volontarie «vere»?
No!
Neanche in Spagna?
Là era tutta una divisa. Almeno dove sono stato io era tutta quella divisa color kaki,
color caffélatte lì... ma del resto non c’era mica come... non ho visto... da dire qua c’è
un’altra divisa di roba di fascisti o una cosa o l’altra. Io non ci pensavo nemmeno...
a quel lavoro lì. E dopo essermi trovato in Spagna dicevo: «Almeno essere qua come
siamo, durasse la guerra» dicevo che...
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Quando è tornato a Gatta cosa ha fatto?
Il contadino, il mezzadro... ai conti, dare... dare; facevano una pagina lunga come
di qua al fiume, tutto dare, non c’era mai avere.
Lei quindi è tornato a casa tranquillo. Anche alla sua famiglia mentre era via non
è mai successo niente, ritorsioni...?
Sono venuti che abitavo lì in fondo... lì dentro mio papà lo hanno calciato e ci
hanno portato via tutto, anche il bestiame.
Perché lei era andato in Spagna?
No, io ero prigioniero in Germania, ma al tempo della guerra di Spagna non ci
hanno portato via niente.
È successo dopo quando era in Germania?
Sì. I partigiani e i tedeschi tutti quanti ci sono andati; una volta i partigiani... mia
moglie me lo diceva, perché io sono venuto a casa e ho preso moglie, quando sono
venuto dalla Spagna, mi sono sposato nel ’41; sono venuto a casa in una licenza
agricola, perché uno aveva della campagna da lavorare... davano un mese... quaranta
giorni... di licenza agricola per lavorare la terra... e così ho preso moglie. Poi sono
andato via, ci ho detto a mia miglie, lasciami prendere dietro il vestito da borghese
che così almeno quando sono... me lo sentivo... lei no! No, no, perché dopo tu...
e le donne... e perche è ancora giovane... e così io facevo servizio al Brennero, al
tempo prima dell’8 Settembre, facevo servizio al Brennero... segnavo le macchine che
entravano e che uscivano dal confine. Io avevo tutto il collegamento lì... e... l’Italia
era andéda a... gamb all’elta. E allora mi sono incamminato in stazione per prendere
il treno per venire a casa; i borghesi li lasciavano andare, e il militare... niente... E lì è
stata una battaglia, è stata una battaglia che ho perso il cappello [perdere il cappello
per un alpino è un disonore, N.d.R.]...
Cioè?
Ho avuto uno scontro con i tedeschi... e lì è stata una battaglia che ho perso il
cappello... sarà state le 11 di notte così, sento cammilinare pian piano e dico: «Chi va
là?»... non ho capito niente. Io mi sono buttato giù per un burrone... e così... ho perso
il cappello ma mi sono salvato e poi dopo al mattino così... quando è incominciato
a venire giorno, traversavo così la montagna, che ero molto pratico che era già tre
o quattro anni che ero su questa montagna e dico: «Vado in Svizzera». Quando sono
arrivato per andare, per passare il confine, che c’era ancora cinque/seimila metri, ho
trovato due borghesi di quei crucchi che abitavano... a Merano, Bolzano così, di quella
gente lì e mi hanno preso e mi hanno portato giù e così... in Germania, in Germania
che ero un comandante. Della Germania potrei raccontarle tantissimo, la Spagna cosa
vuol mai... abbiamo fatto lì cinque/sei mesi di villeggiatura.
Perché violenze non ne ha viste?
No, niente proprio… niente... della gentaglia che combatteva contro queste
signorite.
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Cioè?
Come dire... quelli che andavano in giro con la donna spagnola, anche abbastanza
belle e... andavano con queste donne... era tutta una malattia proprio una battaglia,
tutta la battaglia del grano.
Si ricorda la cosa più bella accadutale in Spagna?
Il ricordo più bello è stato quando ero a Cadice che si passeggiava così che mi
piaceva molto, avevo poi girato poco prima di andare soldato. Ero stato a Reggio una
volta... del resto non avevo visto... vedere una città come la Spagna lì a Cadice... dico
... non avevo mai visto... ecco, bello, mi divertivo.
E il ricordo più brutto?
Dispiaceva essere lontani, pensare ho a casa una famiglia e chissà se ritorno a
casa... del resto per la Spagna mi sono divertito molto... perché si andava a spasso; si
mangiava e si andava a spasso.
Di cosa parlava insieme ai suoi commilitoni? Quali erano gli argomenti di
discussione?
Era soltanto che noialtri si poteva sapere di più se noialtri andavamo su al fronte,
allora si poteva sapere... noialtri eravamo rinchiusi e allora si parlava... meglio che qua...
non facciamo niente... siamo venuti in Spagna a fare una villeggiatura in Spagna... e le
ho detto tante volte che mi sarebbe piaciuto tornare in Spagna a visitare la Spagna; ma
ormai ho una età... come la Germania, mi sarebbe piaciuto tornare... ma mi è piaciuta
meno. La Spagna quelle città che ho visto, per me sono state stupende.
I vostri superiori invece cosa vi dicevano?
Noialtri siamo venuti qua... altro che dicevano: «Mi raccomando, mi raccomando di
entrare la sera» perché c’era sempre la ronda che girava, perché eravamo in settemila
ma ce n’era cinquecento la sera che giravano di ronda intorno all’accampamento
che giravano se qualcuno andava fuori, se qualcuno veniva dentro, borghesi... quei
marocchini lì... e per fare qualche cosa.
C’erano dei suoi compaesani in Spagna?
Sì, però la maggior parte erano qua di... del comune di Villa Minozzo, di Cerré
Sologno, della Val d’Asta... eran tutti di questa montagna... ce n’eran tanti degli alpini
in Spagna.
Quanti reggiani conosceva in Spagna?
Saran stati... duecento.
Là ha incontrato altri reggiani?
No. Là tutti i volontari che sono venuti... perché duecento... ci saremo stati anche
forse trecento perché tutta la divisione «Tridentina»... la maggior parte erano tutti di
queste montagne qua. Gli alpini erano emiliani, poi c’eran veronesi, friulani, tutta gente
della montagna, la maggior parte, perché dalla nostra pianura qua non c’era nessuno.
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Là, non ha sparato neanche un colpo?
No. Noialtri quando siamo arrivati... mancando i muli, ci siamo bloccati lì, siamo
stati fermi lì, non abbiamo fatto niente. Altro che mangiato e bevuto del vin buono.
Mangiato? Mangiato delle banane, perché pane non ce n’era, carne poca poca, pasta...
con tanta pasta così facevano da mangiare a cento persone. Ceci, ceci. C’era una
miseria in Spagna che... era proprio nera.
Quando ha vinto Franco, cosa avete pensato?
Noialtri quando han detto «La guerra è finita!», «Franco ha vinto!» e... dico: «Speriamo
di stare in Spagna lo stesso». Noialtri per la Spagna abbiamo fatto niente, niente.
Sapeva che dall’altra parte, quella dei repubblicani, c’erano degli italiani, quelli
della Brigata Garibaldi?
Sapevano che noialtri dovevano andare là sui Pirenei che c’era il fronte di...
combattere... no...
Dicevo un’altra cosa. Se sapeva di italiani come nemici?
No, non so se c’erano degli italiani sui Pirenei fra quella gente loro, come ho detto,
cercavano sempre di non sparare, se potevano ti prendevano, ti facevano prigioniero
e basta.
Come trattavate i prigionieri?
I prigionieri li mettevano rinchiusi lì dentro che si sentivano gridare, dentro in
queste caserme grosse che c’eran le guardie... si sentivano urlare, alla notte dei versi
così, ma... poi noialtri non c’entravano...
Andavate d’accordo con i soldati spagnoli?
Abbastanza perché... c’era poi la maggior parte che erano lì con noi, c’era tutti dei
ragazzini qualche vecchio, del resto i giovani erano proprio tutti al fronte.
Cosa ha portato a casa dalla Spagna... oltre alle sigarette?
Niente, perché tanto si ritornava a fare il militare e non si veniva mica a casa. E
siamo arrivati a Napoli e lì a Napoli poi dopo... siamo andati di nuovo su al nostro
reggimento.
È vero che i soldati italiani avevano diritto al saccheggio?
Adesso io quello non lo so perché non mi sono trovato in questi e gli italiani sono
peggiori dei tedeschi, quello sì che lo dico!
In che senso?
Perché io mi sono trovato in Albania, quello che facevano gli italiani, i tedeschi
non lo facevano. Invece i tedeschi, saranno stati severi, crudeli, però facevano il
suo servizio, invece gli italiani, ci siamo trovati in Grecia, in Albania... portavano via
tutto, entravano dentro, portavano via tutto, trovavano... una ragazzina... così... la
violentavano, mentre che i tedeschi, quelle cose lì, e sono stato due anni in Germania,
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quelle cose lì non le ho mai viste, mai! Che a me mi facevano schifo... io ero uno di
quelli che... se c’è una passati i venti che insomma mi trovo lì in compagnia... va bene,
ma delle ragazzine, delle bimbe ancora... di dieci/undici anni... lì bisognava tagliargli
il collo. Io sarei stato cattivo...
È vero quello che si diceva, che gli italiani in Spagna dovevano difendere Franco
ma anche la libertà, la chiesa dai rossi? Non ha mai sentito questi discorsi?
No. Guarda io di quelle cose lì non posso spiegare niente perché non ho sentito...
non ho mai sentito, di quelle cose lì... uno voleva buttare giù un partito, una cosa
o l’altra... non ho mai sentito. Noialtri ci hanno rinchiusi in questo pezzo di terreno,
come diciamo di due chilometri quadrati, ci avevano chiusi lì... cosa vuol mai... come
della Spagna ho fatto... l’ho fatto bello perché, ho visto la Spagna che non avevo mai
visto niente...
Aldo Buffagni
Nato a Reggio Emilia il 24 maggio 1912.
Sposato con un figlio, 4a elementare, forgiatore Officine meccaniche italiane.
Ha prestato servizio militare in fanteria con il grado di soldato. Dal 24
maggio 1934 è iscritto al pnf e alla mvsn con il grado di cn. Risulta iscritto
a: Sindacato industria; Dopolavoro metallurgico; Associazione volontari di
guerra.
Volontario oms, partito il 26 gennaio 1937, rientra il 19 giugno 1939.
Decorato con la croce di guerra al valor militare.
Dal 30 giugno 1939 è capo-nucleo del Fascio di combattimento di Pieve
Modolena. Le note informative del gerarca Buffagni del periodo 1939-41 esprimono un giudizio «buono». Dal 6 marzo 1943 è capo-nucleo del Fascio di
combattimento di Pieve-Roncocesi.
Aderisce al pfr ed entra in forza alla gnr dal 25 febbraio 1944, nella
Compagnia op. Il nominativo del Buffagni è presente nell’elenco delle persone
catturate, collaboratori dei nazifascisti, partecipanti ai rastrellamenti. Viene
condannato a dieci anni di reclusione in sede di primo giudizio dalla sezione
speciale della corte d’assise di Reggio Emilia con sentenza del 13 marzo 1946,
sentenza successivamente annullata in data 12 dicembre 1946 senza rinvio
per aministia. Il Buffagni risulta nullatenente.
Fonti: Schedario dei gerarchi fascisti; la Polizia Partigiana, ora in Polo
archivistico Comune di Reggio Emilia-Istoreco.
Intervista raccolta il 10 luglio 1987 nella sua abitazione di Reggio Emilia, vi
ha assistito anche la moglie. * Indica gli interventi della moglie.
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Per iniziare la conversazione, come prima domanda, le volevo chiedere com’è che
è partito per la Spagna? Lei era volontario?
No. Ero operaio alle Reggiane, è arrivata una lettera di partire per Cadice per...
L’Africa?
*No. Per la Spagna proprio direttamente per la Spagna, perché mi ricordo anch’io
che quando ti è arrivata la cartolina, che sono andata in sede...
In sede dove?
*In sede del partito, che mi hanno detto: «Adesso guardiamo se troviamo uno da
mettere al suo posto», perché aveva una bimba di tre mesi. E allora io ci ho risposto:
«Se lo mandate magari in un matrimonio lo trovate, ma andare in guerra sarà difficile».
Perché avevo già il fratello e il cognato...
In Spagna?
*No, in Africa, ne avevo già due e poi hanno chiamato questo per la Spagna.
Ma lei allora cos’era? Militare? Dove prestava servizio?
No, mi hanno messo nelle brigate nere [Nella MVSN. Nelle Brigate nere ci andò nel
1944, quando furono istituite, N.d.R.]...
Lei era iscritto al partito fascista?
Sì, c’era la milizia allora, mi hanno mandato a Santa Maria Capua Vetere a Napoli e
lì siamo stati tre giorni e poi siamo andati a Gaeta e ci siamo imbarcati al 26 gennaio
del ’37 e il giorno 31 mi son sbarcato a Cadice.
Era con altri reggiani?
Sì, c’era ben degli altri reggiani, c’era una compagnia e c’era anche il capitano che
comandava la compagnia.
Si ricorda il nome?
No, non mi ricordo, so che abitava lì all’Ospizio. Quello lì lo so, ma non mi ricordo
il nome.
Quindi lei era alle Reggiane quando...
Ero alle Reggiane e difatti dopo mi hanno fatto fare delle firme per la liquidazione
che ero ancora via; quando sono venuto mi hanno fatto fare delle firme... e poi dopo
da Cadice siamo andati al fronte, poi dopo c’è stato un combattimento, siamo avanzati
venti chilometri e il giorno dopo siamo stati contrattaccati, abbiamo indietreggiato
venti chilometri per la ritirata di Guadalajara.
Quindi, lei ha partecipato alla battaglia di Guadalajara?
Sì.
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Lei sapeva che guerra c’era in Spagna?
No, io non sapevo nulla.
Neanche i suoi commilitoni? Non sapevate che situazione c’era? Per chi andavate
a combattere?
No, anzi, io dovevo andare in Africa che c’era anche mio fratello, dovevo andare
in Africa e non mi hanno mandato.
Lei voleva andare in Africa?
Io volevo andare in Africa; quella compagnia dov’ero è andata in Spagna e allora io...
Quanti reggiani eravate?
Ma saremo stati dei reggiani... 45. Io ci avevo un catalogo, ma dopo la Liberazione
smarrito: o con noi o contro di noi.
*Ma come si poteva tenere dei ricordi con il momento che abbiamo passato.
Avevamo anche general Franco un quadro...
Che il figlio poi ci ho messo nome Franco. Quando sono venuto a casa è rimasta
incinta di quello lì...
Lei lo ha chiamato Franco in onore del comandante delle truppe franchiste?
Sì.
I reggiani che sono partiti con lei erano tutti operai delle Reggiane o erano contadini?
No, erano una compagnia di milizia. Io alle Reggiane ero in magazzino.
Questi ragazzi che sono partiti con lei erano tutti operai?
Tutti operai. Difatti c’era uno «stradalone» di Casina, quell’altro era un contadino
che è Bertani, c’era Galeotti operaio, il povero Ildebrando operaio, erano tutti operai...
*… Non c’era mica dei signori. No, no quelli a casa, quelli sono andati via da soli.
Che clima c’era in questo battaglione? Allegria, tristezza...?
C’era allegria, non è che stessero in pensiero... il pensiero è venuto dopo, là al
fronte, il 19 marzo che c’era la festa a Scandiano, la fiera di San Giuseppe mi torna
sempre in mente, che c’è stato un bombardamento nella battaglia di Guadalajara.
Dopo ho indietreggiato, sono andato a finire in un paese che si chiamava, aspetta
pure...
*... Bilbao?
No… Miranda d’Ebro.
Da chi siete stati accolti a Cadice?
Dai falangisti, ma c’era anche i marocchini, sa quelli lì erano per Franco, guai...
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C’erano tedeschi?
Sì, c’erano anche i tedeschi, ma erano un plotone e battaglione a parte. La più parte
erano con gli apparecchi da bombardamento, loro bombardavano più che altro.
Gli spagnoli come vi hanno trattato appena arrivati?
Ci hanno trattato bene.
Erano contenti del vostro arrivo?
Sì.
Appena arrivati dove avete alloggiato?
Lì a Cadice. A Cadice siamo stati un giorno o due, poi con il treno ci hanno portato sul
fronte e davanti a noi c’era i marocchini e difatti, man mano che si avanzava, si vedeva
qualche morto, quasi tutti marocchini.
Come eravate equipaggiati?
Eravamo equipaggiati bene.
Che armi usavate?
Io ero per le bombe, avevo un tascapane più un mitra italiano, era piccolo, corto.
In che squadra eravate?
Ero nella quinta squadra.
Quanto tempo è rimasto in Spagna?
Trentasei mesi, sono venuto a casa, son sbarcato a Napoli il 19 giugno del ’37.
Qual è l’episodio più significativo della guerra di Spagna che si ricorda?
Lì a Teruel, che allora adoperavano le pallottole dum dum, e un mio amico gli è
arrivata la pallottola qua e gli è scoppiata la gola...
*... di 27 sono venuti a casa in tre...
... e, infatti, ce n’è rimasto uno di Bagno, due di Casina...
*... uno di Castelnovo.
Lei non ha conservato un elenco dei suoi commilitoni?
*Macché avevamo anche i ricordi di quando son partiti da Bologna, ma purtroppo
abbiamo buttato via tutto, chi è che tiene quella roba lì nei momenti che abbiamo passato...
Volevano far fuori anche lei.
*Mi hanno fatto la buca per mettermi dentro. Sa perché secondo loro era andato via
volontario, invece ce lo hanno mandato, poi invece era risultato volontario...
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Quindi nei documenti ufficiali risultava volontario?
Sì.
Quindi mentre suo marito era in Spagna...?
*A me mi hanno fatto il resto.
Quindi, che cosa le hanno fatto signora?
*Glielo ho detto, mi hanno fatto la buca da mettermi dentro, mi sono salvata
perché avevo la bimba piccola. […]
Lei ha imparato lo spagnolo?
Perchè là mi sono scritto, anche dopo a casa avevo una amicizia con uno....
Con chi?
Con un falangista e allora ci siamo scritti ancora per cinque/sei mesi. Poi dopo si
vede o che è morto o chissà, non ho più sentito... […]
Che rapporto c’era fra voi e gli spagnoli? Erano contenti della vostra presenza?
Sì, sì.
Ma perché erano contenti?
Perché volevano Franco...
Avevano paura dei rossi e volevano...?
Avevano paura dei rossi.
Perché avevano paura dei rossi?
Perché là hanno fatto la rivoluzione e chi ha salvato Franco sono stati i marocchini.
Guai per Franco.
Però la gente aveva paura dei rossi perché avevano fatto la rivoluzione... O perché?
Perché allora chi ci faceva paura era la Brigata Garibaldi, gli italiani all’estero.
Perché cosa faceva la Brigata Garibaldi?
Avevano paura; era quella lì che combattevano.
Gli spagnoli. Allora la popolazione aveva paura della Brigata Garibaldi?
Infatti, un qualcheduno ci è rimasto lì a Santander; perché Santander, Bilbao,
Barcellona, Teruel io li ho fatti.
È stato in tutte queste città?
Sì, un mese stavo in un posto, l’altro mese in un altro. Sa, variazioni di compagnie.
Lei diceva che avevano paura della Brigata Garibaldi, ma perché avevano paura
di essere uccisi?
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Perché hanno visto che quando si ritiravano c’era qualche cosa che non andava.
Io non so poi il perché.
Non riesco a capire: quando si ritirava la Brigata Garibaldi?
Allora avanzavano questi qua. Però che ci faceva paura era di essere invasi dalla
Brigata Garibaldi.
Perché, quando arrivavano i rossi nelle città spagnole controllate dai falangisti,
cosa facevano?
Non so, non mi ricordo.
In queste operazioni di guerra cosa succedeva quando facevate dei prigionieri?
Guardi di là come prendevano dei prigionieri li facevano fuori mentre noi li
mettevamo con i prigionieri.
Come li trattavate?
Li trattavamo bene. Sa mi ricordo che hanno fatto prigionieri. Va bene, gli hanno
dato da mangiare subito e poi sono stati un bel po’ in compagnia poi li hanno portati
con gli altri prigionieri di guerra.
Dove li portavano?
Li portavano in gita nelle città, rispettavano l’idea.
Mentre quando catturavano dei vostri li ammazzavano subito?
O li picchiavano o li ammazzavano subito, dipende da chi trovavano. Se trovavano
un volontario, lo facevano fuori, se invece trovavano un obbligato, lo lasciavano lì.
Ripensandoci oggi, cosa è successo in quegli anni in Spagna? Chi è che aveva
ragione, voi o gli altri?
Queste sono cose che non si possono sapere.
Ma secondo lei?
Io sono convinto che il sistema stava bene dalla nostra parte; che poi se stavano
bene loro, garantisco che non stavano bene.
Quando arrivavate in una città che era occupata dai rossi fino al giorno prima, la
gente era contenta del vostro arrivo?
Sì, sì, proprio contenta. Ci battevano le mani e poi ci chiamavano: «Venga qua, qui
c’è casa de comida».
Quindi il popolo stava con voi?
Era più dalla nostra parte.
Lei si è scontrato con gli italiani della Garibaldi?
No, io non ho mai usato una pallottola.
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Non ha mai sparato.
Io sparare non sparavo, non potevo nemmeno vedere quando uno dava uno
schiaffo, anche se era un nemico.
*La più parte è stato in magazzino.
Lei era nei viveri?
*Sì, lui ha fatto poco.
Dopo sono stato anche qua a Reggio, facevo il «cuciniere».
Dove?
Lì dove sono i carabinieri adesso, c’era la caserma della milizia; di là c’era la
compagnia delle Brigate nere.
Quando è tornato dalla Spagna cosa ha fatto? Come siete stati accolti una volta
tornati dalla Spagna?
Eeh, sono venuti a prenderci con la musica.
Dove?
Siamo sbarcati a cosa... A Pompei.
Siete partiti da dove?
Da Cadice.
Chi c’era ad aspettarvi a Pompei?
C’era poi la compagnia, anzi c’era i militari perché ci hanno smobilitato.
Vi hanno fatto festa?
Sì.
Chi c’era?
La musica.
Chi c’era del partito?
Non mi ricordo. Siamo stati lì cinque giorni...
Quando è arrivato a Reggio come è stato trattato?
Ci hanno fatto la festa.
Anche a Reggio?
La marcia su via Emilia San Pietro, di lì alla stazione.
Chi vi ha accolto? Il federale?
Sì.
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Chi era il federale allora?
Chi si ricorda?!?
Poi come lavoro è stato assunto?
Sì, come volontario.
Quindi, lei non ha perso il lavoro. Tornato dalla Spagna lavorava ancora?
Sì, non mi hanno dato il mio vecchio posto.
Le hanno trovato un nuovo posto visto che l’avevano fatta licenziare dalle Reggiane?
No, non me lo hanno dato, me lo sono trovato. Ho dovuto mandare in servizio lei
[la moglie, N.d.R.] e dopo si è impegnato il ragionier Bertolini della Banca agricola e
commerciale.
Era un gerarca?
Non era niente, era perché c’era andata mia moglie a fare dei fatti per dare da
mangiare ai bimbi.
Ma lei quanto guadagnava in Spagna?
Venticinque pesetas al mese.
Quindi, lei riceveva lo stipendio in pesetas, non in lire. Ma chi glieli dava questi soldi,
Franco o Mussolini?
No, no. Franco ce li dava a noi, noi li mandavamo a casa che qua a mandare dieci
pesetas ne tiravano ventimila lire.
Ventimila lire?
No, erano il doppio che prendevo, la lira là era mezza.
Cioè dieci pesetas erano cinque lire?
Sì.
Quindi, lei mandava venti pesetas...?
... E ne tiravano quaranta lire.
Lei là non spendeva niente?
Ne spendevo anche là, ne tenevo anche per me.
Per andare al cinema?
Perché dopo questa qua [sempre la moglie, N.d.R.] prendeva qualche cosa di più
perché aveva gli assegni familiari.
Per i figli. Ma sua moglie riusciva a vivere con i soldi che inviava dalla Spagna?
*Andavo a lavorare; non c’erano abbastanza dei soldi di lui con dei figli...
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Insomma in 36 mesi mi sono messo da parte settecento lire, allora erano soldi.
Allora è riuscito anche a risparmiare?
*Ah, io cercavo di risparmiare, cercavo di lasciare fermi i soldi che arrivavano dalla
Spagna, io vivevo con quelli che guadagnavo io perché passavano il latte, passavano lo
zucchero, passavano la legna.
Chi è che passava queste cose?
I tre partiti uniti: comunista, socialista e democristiani; allora c’è l’associazione,
facevano i più bisognosi e passavano qualche cosa ai bambini.
Ma in che anni?
Nel ’45.
Ma io dicevo quando suo marito era in Spagna?
*Mi davano soltanto le pesetas di lui e basta.
Nessuno vi aiutava. Il partito fascista vi aiutava?
*Dopo sì...
Voglio dire, c’era un po’ di riconoscenza da parte del partito per il fatto che suo
marito era in Spagna?
*Quando lui era via, se c’era qualche cosa mandavano a prendere, sa dicevano:
«avete bisogno di qualche cosa?»...
Il partito fascista?
*Sì, il partito fascista, anche il comunista; me mi hanno dato l’aiuto tutti.
Sì, perché dopo quando sono venuto a casa...
*... A me mi hanno dato l’aiuto tutti.
Lei è tornato ferito dalla Spagna?
No, no, sono tornato con la pleure....
*… Con la pleure e ha fatto 32 mesi di sanatorio.
Una volta caduto il fascismo lei cosa ha fatto?
Io andavo a lavorare che mi ha messo a posto quel ragioniere lì della Banca agricola,
aveva un laboratorio lui fuori e faceva la fotochimica, Industria italiana dagherratopia
facevano... per i fotoincisori i cliché, non so se è pratico...
Quindi lei ha continuato a fare il fotografo?
Ho continuato vent’anni poi sono venuto qua, in carrozzeria. Facevo anche il
carrozzaio e mi hanno preso qui e gli ultimi tre anni mi sono ammalato e allora sono
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andato invalido...
*... Del ’69 sei andato invalido sì e dal ’48 sei ammalato.
Che rapporto aveva con i partigiani?
Ero amico di tutti.
Durante la guerra di Liberazione che cosa faceva?
Me mi hanno fatto un processo che ho preso dieci anni.
Chi le ha fatto il processo?
Quando è finita la guerra mi hanno fatto il processo per...
*... Perché avevi fatto la guerra in Spagna...
Sì, dieci anni per favoreggiamento con il tedesco invasore e poi dopo quello che
mi aveva fatto quella denuncia lì non si è presentato.
Qualcuno aveva fatto la «spiata» che lei era andato in Spagna?
*Sì, ci volevano male, un odio personale...
Lui adesso è al cimitero e io sono qua.
Quindi finita la guerra qualcuno ha detto «il Signor Buffagni è andato in Spagna
volontario»?
*Sì, perché si è trovato bene, non ci è stato niente, si è sempre comportato bene e
lui dalla gelosia che ha avuto dei fratelli che purtroppo ce ne ha lasciato ci ha avuto
l’odio personale e ci ha fatto del male.
Quindi, il processo è andato bene?
Sì.
Quindi i partigiani...?
Anzi hanno fatto una scena a lui.
Non ha fatto la guerra di Liberazione?
No, no, sono stato nascosto qualche giorno poi quando ho visto che avevo sempre
i carabinieri «vicino al culo» allora sono andato sotto alle armi, ero stato chiamato, sono
stato nascosto ma dopo ho visto che erano sempre lì, sempre lì mi sono ripresentato.
Senta, tornando alla Spagna, quando eravate in città e in riposo, cosa facevate al
pomeriggio e alla sera?
Andavamo a letto, andavamo un po’ fuori e poi a letto.
Non c’erano cinema, bar, luoghi di ritrovo?
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C’era la corrida che, quando c’era la corrida, mandavano tutta la compagnia. Sì ci
sono stato anch’io.
Andavate a letto presto?
Alla sera andavamo a letto quando si poteva, quando non si poteva, se si era al
fronte, bisognava stare lì in agguato tutta la notte.
I rapporti con i tedeschi? I tedeschi come vedevano gli italiani in Spagna?
Ma erano visti bene, però non stavano sempre insieme, erano pochi i tedeschi fuori
di quelli che avevano gli apparecchi, ma del resto non avevano mandato una compagnia
o un battaglione come noi, l’Italia, ha mandato tutti per terra...
E i vostri comandanti erano bravi?
Ma noi avevamo tre ufficiali di Reggio. Adesso non li vedo più.
Dove sono morti i suoi commilitoni?
A Bilbao ce n’è stato un mucchio e a Teruel, perché lì c’era dei passaggi obbligati
da fare e allora avevano piazzato sulla collina loro e quando passavano «tack» avevamo
cinquanta metri col tascapane da fare a piedi e allora c’erano le pallottole dum dum che,
quando ti colpivano non ti salvavi più, è come una bomba, come va dentro scoppia.
Avevate anche mezzi corazzati?
Carrarmati italiani; c’era l’artiglieria.
E i nemici erano bravi a combattere gli spagnoli dall’altra parte?
Di quelli ne combattevano pochi, per la grande maggioranza erano inglesi e italiani
quasi tutti.
Ma gli spagnoli?
Ma non so erano bravi. Noi li chiamavamo i «cecchini».
Perché cecchini?
Perché quando c’erano i passaggi obbligati... Li chiamavamo cecchini per quello.
Ma come valore, al fronte eravate più bravi voi o quelli dell’altra parte?
Non so cosa dire... so solo che uno non vedeva l’ora di arrivare a casa. Ho sempre
detto: «Noi siamo qui al fronte sotto ai bombardamenti e gli altri saranno a casa il 19 a
Scandiano alla fiera di San Giuseppe».
È vero quello che si dice? Che là i rossi incendiavano le chiese, torturavano e
ammazzavano i preti...?
No, no; ho visto ammazzare una suora, questo sì, a Teruel.
Ma come mai?
Non lo so.
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Ma chi era stato?
Ma mentre si ritiravano l’hanno trovata accanto a un olivo impiccata su un olivo, le
mancava anche una mammella. Ma torture non ne ho viste.
Lei ha visto solo una suora morta? Fucilazioni di preti, chiese incendiate...?
No, non ne ho viste!
Quindi secondo lei non era vero quello che...
*Sì caro mio in tempo di guerra ci sono più chiacchere che terra.
Ma si diceva che i rossi uccidevano i preti... Si diceva che gli italiani fossero andati
in Spagna per difendere la libertà e la Chiesa, che i rossi attaccavano. Lei era convinto
di essere andato in Spagna per difendere queste cose?
No, no; io non ci capivo niente, ho sempre capito niente in quei lavori lì.
Lei là ha fatto il suo dovere, quello che le ordinavano...?
Sì, perché quando sono venuto a casa e sono andato da quello che mi ha trovato
da lavorare, lavoravo con il fratello di Valdo Magnani comunista, era il nostro dottore;
«Buffagni – diceva – non rientrare nella politica». Magnani Marte, e adesso c’è Paolo
che è suo figlio.
Dopo la guerra è rimasto fascista?
No! No! Non ho più voluto sapere niente di niente.
Perché ha voluto chiamare suo figlio come Franco?
Mah.
Lei quindi ammirava il generale Franco?
Sì, come «lasciato», come «lasciato» di questa esperienza.
Che altri ricordi ha della Spagna, a parte la guerra, del popolo per esempio?
Ho visto della gente buona come da noi che dicono quelli della «bassa»; quelli della
«bassa» ci sono i buoni e i cattivi qui come là è un popolo un po’ più unito.
Avevate il capellano con voi?
Sì, avevano il parroco di compagnia e dove andavamo dicevamo sempre la messa;
anzi gli spagnoli si sono meravigliati che noi fossimo così di chiesa.
Perché loro non erano «così di chiesa»?
No, loro sono sempre di chiesa perché vedevo che, dove andavo, vedevo che c’era
sempre pieno, sempre pieno.
Però voi dicevate più messe di loro?
Io dicevo più messe perché sa con quello che hanno detto, se c’è Dio vedrà anche
i peccati che uno fa, tutti i modi è così.
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È tornato in Spagna dopo la guerra?
No, mai!
*Lui non è più andato in nessun luogo; ha fatto del sanatorio, dell’ospedale a vita...
Sono andato anche in Sardegna, ma ci sono andato con la macchina perché avevo
i miei figli che lavoravano là.
Cosa dicevano i vostri comandanti al fronte?
Mah ne dicevanto tante... Hanno sempre ragione quando parlano là.
Per farvi combattere che cosa dicevano... «Combattiamo per uccidere i rossi»?
No, no, parlavano di libertà, la libertà.
Secondo lei e secondo i suoi compagni era giusto che degli italiani andassero in
Spagna per aiutare degli spagnoli?
Ma noi si discuteva poco, noi si discuteva lì che non vedevamo l’ora di finire per
arrivare a casa.
Questa era la cosa più importante?
Sì, speriamo che non vengano più guerre per me è finita, ma è per i figli e i nipoti.
Quando è morto Franco lei che cosa ha pensato?
Non ho fatto festa. Allora a Franco erano in molti ad applaudirlo; una parte lo
odiava, ma l’altra è stata male quando è andato via Franco.
Lei lo ha visto Franco?
Sì, a Madrid prima di venire a casa abbiamo fatto la sfilata a Madrid poi di lì siamo
andati a Cadice, a Cadice ci siamo imbarcati con il «Lombardia».
Franco che cosa vi ha detto?
Ci ha applaudito che gli italiani hanno fatto il suo dovere.
Ha avuto delle medaglie in Spagna?
No, non ho niente, solo il congedo militare. Mi è rimasto quello, quando ho fatto
il soldato a Gorizia, 23° fanteria.
Come è che gli è venuta la pleurite in Spagna?
Ma la pleure è sufficiente una sudata e un colpo d’aria.
E là non l’hanno curata non avevate quindi una buona assistenza medica?
No, c’era il dottore di compagnia, ma poi quando ero al fronte non avevano tempo,
erano molti che facevano i malati anche se non lo erano.
Mangiare avete sempre mangiato...Cosa vi davano? Anche sigarette?
Ecco sigarette ci passavano 25 sigarette al giorno.
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Italiane?
Spagnole, un po’ forti allora fumavo sì.
Vi davano anche liquori?
Vino, un quarto a testa a pasto, poi al fronte ci portavano da mangiare.
In caserma dormivate in camerate?
Sì.
Il momento più brutto che ha avuto in Spagna quale è stato?
Il bombardamento di Guadalajara: i proiettili venivano giù...
Che cosa pensava?
Di ripararmi.
E i suoi compagni?
Facevano quello che facevo io: cercavano di evitarli.
E il momento più bello?
Quando siamo venuti a casa.
Un altro momento bello?
Mah…
Non c’è mai stato un momento in cui ha pensato di essere utile a qualcosa o a
qualcuno?
No, pensavo solo di venire a casa.
Non ha conosciuto dei ragazzi contenti di essere in Spagna? Dei volontari contenti
di essere là a combattere?
No! C’era qualcheduno, ma pochi.
E le donne spagnole?
Sono «buone»; chi ci riusciva si andava in casa de puta, al casino; la prima sbarcata
che ho fatto a Cadice è venuto un ragazzetto, avrà avuto dieci anni, e dice: «Italiano
vuole casa de puta?» e io gli ho risposto che ero venuto apposta.
Quindi andavate nei casini?
Quello sempre, quando si è giovani anche per ridere.
Anche gli ufficiali o solo la truppa?
No, no roba di truppa. Gli ufficiali ci rimanevano due minuti poi andavano...
Italiani che si sono sposati con delle spagnole...?
Alcuni sì, anche uno di Reggio si è sposato con una di Guadalajara.
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Si ricorda il nome?
No.
La gente che incontravate che mestiere faceva?
Mah.
Lei signora riceveva corrispondenza da suo marito?
*Sì!
Quasi una cartolina tutti i giorni e le dicevo: «sono al fronte».
Le avete tenute tutte le cartoline?
Sì, tutte.
Finita la guerra non si è più parlato della Spagna?
*Basta, chiusura. Partiti o non partiti basta quando si pensa che uno è partito anzi
lo hanno mandato via e poi figura volontario; no allora i partiti si lasciano andare
l’idea c’è...
... Avevo il mio posto e una figlia avevo proprio bisogno di andare via, sono
venuto a casa che mia figlia non mi voleva vedere.
Giorgio Guindani
Nato a Gualtieri il 23 dicembre 1916.
Abilitato all’insegnamento. Ha prestato servizio militare nei bersaglieri
con il grado di sottotenente. Iscritto al pnf dal 24 maggio 1938. Volontario
oms. Tenente di complemento dell’8° bersaglieri, viene inquadrato nel reparto
camicie nere «Dio lo vuole» e sbarca a Cadice alla fine di dicembre del 1936.
Partecipa alle battaglie di: Malaga, Guadalajara, Bilbao, Fronte dell’Ebro,
Barcellona; rimpatriato verso la fine del 1938. Richiamato allo scoppio della
guerra con la Francia, finisce prigioniero in Marocco. Nel 1945 viene promosso
in servizio permanente effettivo e continua la carriera militare raggiungendo
il grado di generale. È stato decorato con la croce di ferro di 1a e 2a classe
(onorificenze tedesche).
Fonti: Schedario dei gerarchi fascisti, ora in Polo archivistico Comune di
Reggio Emilia-Istoreco.
Intervista effettuata il 3 settembre 1987 a Gualtieri.
Quando e perché è andato in Spagna?
Io sono andato in Spagna... eravamo non sicuri di andarci, praticamente un ufficiale
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di Stato maggiore lì all’8° reggimento bersaglieri e dice, riunivano il circolo ufficiali e
allora... è un momento molto eroico in Italia, i giovani tendevano a dimostrare amore
per la patria, quel credo che loro ci avevano insegnato, e allora venne e chiese chi
voleva andare a combattere all’estero per l’Italia, e allora io ho alzato la mano e pure
un mio collega dietro ha alzato la mano, siamo partiti dopo pochi giorni e ci hanno
fermato a Pisa e ci hanno dato una divisa da truppa color kaki.
Lei era già ufficiale?
Tenente all’8° bersaglieri.
Di leva o di carriera?
Di complemento, ci hanno fermati lì a Pisa non ricordo più quale reggimento di
fanteria, in deposito lì ci hanno fatto fare la nostra cassettina con il nostro materiale da
spedire a casa che poi non è mai arrivata e... ci hanno dato un’uniforme una divisa e
poi ci hanno mandato a Napoli, a Napoli ci hanno imbarcato mi pare sul «Sardegna»
o sul «Monviso», su una di queste navi e siamo andati in Spagna, siamo sbarcati... lì
abbiamo trovato della truppa a Pisa, un plotone mitraglieri e abbiamo fatto un plotone
mitraglieri e allora siamo sbarcati a Cadice; da Cadice poi ci hanno inquadrato in un
reparto camicie nere che era la prima divisione mi pare camicie nere che aveva il titolo
si chiamava «Dio lo vuole». E noi abbiamo formato con questi reparti un battaglione di
mitraglieri, una compagnia di mitraglieri all’ordine del capitano Guarino e con quella
compagnia lì siamo andati da Cadice a Siviglia e da Siviglia siamo andati verso Malaga,
ed è stata la prima azione che hanno subito gli Italiani, che ha scombussolato un po’
il loro sistema di combattere che era un sistema molto blando, molto spagnolo.
Si ricorda la data di quando è sbarcato in Spagna?
Dicembre. Era verso l’ultimo dell’anno del ’36; poi siamo andati a Malaga, siamo
arrivati prima di Malaga, ci siamo fermati, ci siamo assestati, ci siamo sistemati bene
ci siamo organizzati e poi abbiamo puntato su Malaga. Ricordo che a Malaga, io
ho perso il documento mi dispiace molto, a Malaga è stata occupata il 5 febbraio
ufficialmente, e io il 4 febbraio ero a Malaga, con la pattuglia di esplorazione sono
entrato in Malaga, penso per primo e ho evitato che tagliassero il cavo sotterraneo,
ho mandato un telegramma in Italia datato 4 febbraio e non ci credevano nessuno,
perché ufficialmente è stata occupata il 5 e io già dalla sera prima ero in Malaga;
dopo da Malaga a Motril 150 chilometri avanti mi ricordo e da lì il fronte si è fermato
lì perché da lì non siamo andati più avanti non siamo più riusciti ad andare avanti, la
nostra unità è stata ritirata, ecc. Da lì ho portato 150 prigionieri a Malaga mi hanno
dato questo incarico fra i quali un ragazzo siciliano che era fra i fuoriusciti italiani,
dall’altra parte, che abbiamo scoperti in un canneto con una radiolina. E questo qua
non l’ho messo con gli altri, l’ho consegnato ai comandi italiani perché gli altri in quel
momento lì in Spagna c’erano delle vendette personali che facevano spavento, una
guerra, una rivoluzione vera e propria come è accaduto praticamente anche qua dopo
il ’40 è successo... la storia si ripete sempre, odii non odii e questi poveri prigionieri
quando sono arrivati c’era di tutti i ceppi: anglosassoni, francesi, russi, spagnoli e poi
li hanno fucilati perché loro fucilavano con una facilità spaventosa.
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Appartenevano alle Brigate internazionali?
Sì alle Brigate internazionali... e mi ricordo che consegnai questi prigionieri ed
esigevo la ricevuta come una merce e sono rimasto molto impressionato da questo
perché a diciannove/venti anni certe cose danno anche fastidio, dover dare della
gente e vedersi dare un pezzo di carta con la ricevuta, ma io l’ho desiderato perché
volevo documentare che i prigionieri erano stati consegnati a un altro militare, però
loro mi hanno fatto un «recibo» così alla buona.
Così gli ha evitato la fucilazione?
Ma chi è che entrava in merito con quella gente lì, erano scatenati, io l’ho consegnato
in una caserma, là c’era gente dentro ce n’erano altri poveretti, dico poveretti erano
comunisti, poveretti perché li hanno fucilati; la stessa fine hanno fatto altri di Franco
quando sono andati di là a Barcellona.
Venivano anche torturati i prigionieri?
No, venivano presi e fucilati, non c’erano problemi anche dall’altra parte; lì a
Malaga rimasi impressionato perché avevano fatto propaganda che noi tagliavamo la
lingua ai bambini, agli animali, delle robe così, propagande banali dei comunisti e
allora nei canneti trovavamo un sacco di gente, poverina, disgraziati che aspettavano
che noi arrivassimo per questo ci temevano, poi quando li vedevamo così ridotti ci
commuovevamo gli davamo il rancio, poi una pena vedere dei bambini con tutta la
gola ingrossata perché non mangiavano niente, poveretti succhiavano delle canne... è
il vero grande dramma e poi abbiamo incominciato a vedere le chiese bombardate, le
chiese devastate, i campi santi devastati, le tombe scoperchiate, tutte sté cose... erano
comandati male erano poco comandati, non erano molto riuniti, non erano disciplinati
come i nostri; insomma i nostri erano più disciplinati, io al mio reparto non avrei mai
permesso una cosa del genere e questo è il primo contatto che ho avuto con una
guerra strana, una guerra civile praticamente fino a che la guerra si svolge al fronte è
una cosa diversa, poi siamo andati a Badajòz, ecc. poi siamo arrivati ad un’altra grande
battaglia che era Guadalajara, quindi abbiamo fatto trenta chilometri avanti e tredici
indietro: lì è stato un combattimento atroce, specialmente a [incomprensibilie, N.d.R.]
proprio vicino a Guadalajara, prima di Guadalajara, e lì ci sono stati dei combattimenti
molto violenti e il battaglione di camicie nere poveretto ha subito delle perdite
grandissime. Lì cominciammo a sentire le Brigate internazionali italiane, il battaglione
«Garibaldi», si cominciò a sentire qualche parola d’italiano e se non stavi attento non
c’era un collegamento tra le linee, è stata una battaglia tutta disorganizzata quella lì.
Mi ricordo che venne da noi una notte un generale che io non riconobbi, ero in prima
linea e venne un generale e feci uscire i miei ragazzi, era come una pattuglia e i miei
ragazzi attorniarono questa pattuglia armi alla mano pronti ad intervenire, perché
sapevamo che c’erano delle infiltrazioni italiane di questo battaglione che invitavano
ad andare là da una parte o dall’altra facendo ritenere che conoscevano l’ambiente
e tutto per portarci in definitiva oltre le linee loro; fecero così con un battaglione. In
questo guazzabuglio si vedeva una guida, un individuo vestito come un italiano, si
fermava chiedeva «voi dove dovete andare, io so dove...» invece era dei loro, e allora
noi stavamo attenti a questo perché lo sapevamo, allora il mio comandante, Olivas si
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chiamava il comandante di battaglione, e questo generale che io armi alla mano portai
dal mio comandante Olivas era Bergonzoli «barba elettrica», il quale poveretto con la
sua divisione cercava disperatamente di creare dei collegamenti per avere un fronte
unico, ma è stata una cosa molto difficile, tutte queste infiltrazioni hanno provocato un
po’ di caos e così ci siamo trovati di dover ripiegare di tredici chilometri e noi siamo
andati verso Saragozza a riposo e li ci siamo ricreati un pochino perché... molti sono
tornati in Italia cioè, avevamo fatto un reclutamento molto veloce in Italia per questa
Spagna i reparti camicie nere erano stati reclutati molto velocemente, insomma non
c’era un grande... io venivo dall’esercito e vede la differenza che c’era anche come
inquadramento, e allora naturalmente, delle persone che vivevano solo di grida e di
evviva, quando si sono trovati a dover combattere, dove ci vuole della disciplina di
ferro, dove un superiore deve sapere quello che deve fare e dove deve sapere anche
trascinare i suoi, sapere decidere se fermarsi o continuare e lì sono i dilemmi che
hanno messo in crisi tutti perché non essendo i quadri sufficientemente preparati a
questo, è accaduto quello che è accaduto. Dopo di lì sono andato lì vicino a Saragozza,
ci siamo rimessi a posto e molti sono tornati in Italia, come le dicevo, e non so dove
li hanno mandati, insomma, non è che erano indegni, erano incapaci, erano gente
che non valevano la pena tenere in Spagna, insomma, in guerra. Dopo di che hanno
chiesto dei volontari per andare al fronte, lì si stava tranquilli, io ero un po’ irrequieto
ero giovane così... e allora si sapeva che sul nord c’erano delle brigate italiane miste,
fatte di italiani e di spagnoli, che andavano verso Bilbao, che andavano verso Bilbao e
io chiesi di andare al nord, che non potevo stare cosi a fare niente. E allora mi hanno
mandato alla brigata mista «Frecce Nere» che c’erano il cinque percento di italiani, ed
erano tutti spagnoli, i ragazzi che erano lì a combattere.
Anche marocchini?
No, noi i marocchini non li abbiamo mai avuti, abbiamo avuto solamente spagnoli
alle dipendenze ed erano dipendenze nostre insomma perché erano inquadrati da
italiani questi ragazzi, questo cinque percento di italiani con il grado di tenente o
capitano formavano delle compagnie o dei plotoni; io sono andato al battaglione
«Laredo» che era il battaglione d’assalto di questo reparto «Frecce Nere». La massa di
questi ufficiali veniva, molti venivano dall’esercito e lì abbiamo fatto la campagna
del nord e siamo arrivati fino a Bilbao. Bilbao, io ero lì nel reparto «arditi», nella
compagnia «arditi» della brigata e siamo entrati in Bilbao ma poi abbiamo dovuto
ripiegare, perché il diritto di precedenza era stato dato a quelli spagnoli del generale
Mola, che era un grande generale, militarmente dicevano migliore di Franco, che poi
è accaduto... anzi è caduto con un aereo che si è parlato di sabotaggio. A Franco
dava fastidio un generale come Mola; lui aveva tutti i «requétés» navarrini, aveva quelli
della Navarra poi ha fatto una divisione con quelli della Navarra; eh sì, combattenti di
valore. Dopo di lì siamo andati verso Santander e poi la guerra del nord è finita. Poi
dopo, è iniziata la campagna dell’Ebro. La campagna dell’Ebro, siamo arrivati fino al
mare attraverso anche dei combattimenti violenti, siamo arrivati fino al mare, sempre
con la brigata mista «Frecce Nere». Io sono rimasto con quella e al reparto «arditi»
di questa brigata. Abbiamo fatto il nostro dovere... poi dopo si è aperto il fronte di
Barcellona, e a Barcellona si è concluso tutto. La battaglia più dura è stata rompere
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il fronte, dividere il fronte, sotto la battaglia dell’Ebro: dividere il fronte di Madrid e
il fronte di Barcellona, cioè la Catalogna, che è la parte più delicata dell’argomento.
I catalani sono dei separatisti nati, proprio non vogliono saperne, hanno una lingua
loro, hanno una cultura loro, hanno una preparazione loro e hanno dei capitali loro
come li hanno i baschi. I baschi lo stesso; noi abbiamo combattuto al nord tra mine
e tra non mine; da non credere i disastri che procuravano loro ritirandosi, perché
erano dei grandi minatori e come grandi minatori, lei vede l’età adesso, sono capaci
di mandare una macchina al quinto piano, sono dei minatori formidabili... è rimasto
per 48 ore tra due blocchi di cemento insomma una chiesa che è crollata, erano
tutti dei maestri nel far saltare degli edifici, peggio del bombardamento di Guernica
insomma, quando passavi per un paese minato da loro, trovavi la distruzione quasi
assoluta ponti o non ponti... e lì a Bilbao è stato interessante il «cinturone di ferro»,
il superamento del cinturone di ferro che loro avevano scritto «no pasaràn», non
passeranno, che invece dopo ha ceduto.
Che cos’era il «cinturone di ferro»?
Era come il vallo atlantico praticamente, per loro il cinturone di ferro era un
cinturone intorno a Bilbao che nessuno avrebbe potuto superare, invece siamo riusciti
a superarlo. Fortificato, ed era pieno di mine, era minato da morire era minato da far
spavento, se non c’era l’artiglieria nostra che con delle preparazioni adeguate tagliava i
fili delle mine perché eran fatti anche abbastanza semplicemente questi campi minati,
però di notte non sapevi dove camminavi e molte volte i fili erano tagliati e ti salvavi,
perché c’erano dei tubi di gelatina sotto che facevano paura.
Lei è arrivato anche a Madrid?
No, non sono arrivato a Madrid, sono stato a Barcellona e poi sono rimpatriato.
E l’Alcàzar?
L’Alcàzar è caduto quando poi hanno deciso i capi comunisti di arrendersi... la
gloria dell’Alcàzar è rimasta intatta insomma praticamente sono usciti questi ragazzi
dell’accademia con Moscardò che lì ha perso il figlio. Qui di Gualtieri c’erano molto
volontari, molti volontari, ma io non so elencarli, perché proprio non c’ero in quel
momento lì, ma molti sono morti che io sappia di vivi c’è Donelli che me lo ha
ricordato lei.
Prima diceva che per la Spagna avete sbagliato il reclutamento. Perché, come si è
svolto?
Hanno preso i reparti delle camicie nere volontari e così li hanno mandati in
Spagna. Avrebbero dovuto fare un reclutamento diverso, scegliere un pochino,
eventualmente... le persone che dovevano rappresentare bene o male l’Italia e non
mandar via della gente... e poi soprattutto i quadri della milizia, molti non erano
preparati.
Esisteva anche un premio d’ingaggio?
Premio d’ingaggio io non l’ho mai avuto, avevo uno stipendio italiano e uno
101
stipendio di Franco che mi mettevo in tasca e che spendevo appena potevo.
Si parlava di seicento lire al mese come stipendio accreditato in Italia, più la paga
di Franco.
Sì, ma è stato anche quello ad invitare molta gente ad arruolarsi probabilmente.
Quindi secondo lei questo ha contato?
Penso di sì, c’è sempre stata della miseria in Italia, non c’è stata mai dell’abbondanza,
della ricchezza. Questi ragazzi sono stati, oltre all’entusiasmo anche la guerra d’Africa,
tutto andava a gonfie vele e allora in quel momento eroico così clamoroso, queste
vittorie italiane da una parte e dall’altra e poi la propaganda che ha gonfiato bene
le cose e allora questi figlioli andavano anche... perché là di soldini. Mandavano a
casa anche i soldi che ricevevano molti... si potevano anche convertire, volendo,
si spendevano perché quando avevo dei soldi in tasca sapevo dove spenderli, ma
molti avevano famiglia; io non avevo famiglia, mio papà e mia mamma non avevano
necessità, già ricevevano il mio stipendio...
Là come si potevano spendere i soldi?
Ci sono nelle retrovie, noi quando avevamo riposo due/tre giorni ogni tanto tempo,
avevamo le tasche con delle pesetas con parecchi soldini insomma, e allora andavamo
in giro, da un locale all’altro prendevamo qualche mezzo per andare a San Sebastian
sulle spiagge di San Sebastian, andavamo quasi in linea in taxi addirittura per stare
fuori fino all’ultimo momento. Non avevamo problemi economici là.
Mangiare, si mangiava bene?
Le dirò che mangiare, noi mangiavamo il rancio che facevano loro, perché io
avevo gli spagnoli che facevano la cucina, mangiavo molti fagioli e molti ceci perché
loro queste cose qua loro le mangiano a spron battuto, pastasciutta niente perché
loro non conoscono la pastasciutta... andavamo a mangiare giù quando andavamo
al riposo due/tre giorni e mangiavamo lì, nei ristoranti di Saragozza o di Valladolid
e cercavamo di trattarci bene, era un retrovia tutta la Spagna, quello che mi aveva
impressionato era la spinta patriottica che aveva la gente: le famiglie erano orgogliose
di mandare un figlio in combattimento o in guerra. Gli spagnoli che ho conosciuto
erano dei franchisti convinti. Io parlo della parte dove era Franco, nella parte dove era
Franco non ho mai avuto dubbi su questo, che loro amassero Franco, loro Franco lo
amavano, lo inneggiavano e lo amavano. Abbiamo avuto al nord qualche sentore di
gente che pensava diversamente, al nord soprattutto, lì in Biscaglia nel santanderino,
nelle Asturie e lì abbiamo avuto la sensazione di essere un pochino in casa d’altri e
allora... infatti un battaglione di «Gallegos» della Galizia... mi ricordo al mio reparto
venne una informazione che si sarebbero ribellati, insomma, e per una notte o due
siamo stati molto all’erta con dei fidati un pochino per vedere cosa succedeva. Ma non
è poi accaduto niente, dopo qualche giorno sono arrivati degli ufficiali spagnoli che
hanno sistemato la questione tirando via qualcheduno, qualche elemento spostandolo
da una parte o dall’altra. Ma da noi non è mai accaduto niente di serio, che io ricordi,
quello lì è stato l’unico episodio... mi ricordo dovevamo fare un attacco quella notte lì
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e non lo abbiamo fatto proprio perché pensavano che questi soldati, nostri i «Gallegos»
della Galizia, si sarebbero rivoltati, ribellati al regime di Franco, in combattimento
quando uno si ribella si volta e spara perché l’unico modo per ribellarsi è quello e
allora noi l’attacco, è stato annullato, non abbiamo fatto niente... ma penso che possa
interessare questo ambiente non vedo diversamente. D’altra parte se lei va a chiedere
a uno che ha fatto le battaglie del Carso perché la guerra ’15-18 è scoppiata non lo
sa. Lui sa che ha fatto delle battaglie al Carso e poverino è sopravvissuto cioè, più si
va avanti nel combattimento lei deve cercare qualcheduno che è stato ai comandi,
anche in Spagna o nelle retrovie, per avere una sensazione più precisa, perché io ero
in prima line. Il mio obiettivo era una quota. Facevo solamente degli attacchi di notte,
degli assalti di notte, perché andavamo a fare dei colpi di mano di notte...
Ma la popolazione come vi accoglieva?
Bene, bene, bene... ospitalissimi loro hanno avuto un po’ di ribellione con noi
italiani dopo le prime vittorie, ma più che altro non era mica colpa nostra, era colpa
dello Stato italiano che esaltava enormemente tutte queste vittorie italiane. Dopo
Guadalajara ci sfottevano per via che non eravamo arrivati a Madrid; avevamo un
bel da dire noi che eravamo andati avanti trenta chilometri ed eravamo arretrati di
tredici solamente, però loro ci sfottevano dopo Guadalajara e a noi questo non è
stato gradito, però quando si vive sempre al fronte queste cose non hanno nessuna
importanza, che sfottano o meno, lì ognuno fa il suo dovere e basta insomma. La
popolazione a noi ho trovato... io ho conosciuto anche delle famiglie spagnole, erano
patriottissime, Franco aveva veramente la nazione con lui, parte della nazione con lui
a mio avviso, quel poco che ho visto ecco perché le chiedo di prendere contatto con
gente che era dietro non davanti come me.
Ho difficoltà a rintracciarla questa gente...
Eh, lo so...
Quindi, i rapporti con i civili erano buoni?
Sì, sì, buoni e ospitali guardi in tutte le regioni sono stati molto ospitali; in Andalusia
e dappertutto dove noi ci siamo fermati qualche giorno per rimetterci a posto, per
riposare così dopo qualche combattimento, qualche battaglia cosi, abbiamo trovato
della grande ospitalità e soprattutto dell’amore di patria anche lì, anche lì al nord
insomma c’erano delle isole contrarie che dopo è nata l’età, è nata la ribellione cioè
non tutti sentivano la propaganda antifranchista, noi abbiamo trovato della brava
gente. La «Pasionaria», siamo andati anche a Laredo proprio nella sua casa, mi pare
che sia lì e in quella zona lì abbiamo visto la sua casa e allora raccontavano, io penso
che siano fandonie, che quella donna lì è venuta in Italia a fare della propaganda
antipatica e non aveva il diritto di farlo e dicevano che lei aveva iniziato la campagna
contro il clero, praticamente era lei che aveva dato avvio alla campagna contro il clero,
uccidendo un prete lei, la Ibaruri, sono episodi questi... Da una parte hanno ucciso
Primo de Rivera, dall’altra il grande poeta Lorca. Sono ripicche che hanno avuto tra di
loro e non se la sono perdonata mai.
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E il vandalismo contro la Chiesa?
Guardi io posso testimoniare che hanno distrutto delle chiese, fucilato Gesù
Cristo, si vedevano i colpi di fucile su Gesù Cristo, tombe scoperchiate, quello lo
posso testimoniare. Suore violentate non ne ho mai viste, me lo dicevano, non c’è
da meravigliarsi perché è stata una accozzaglia di gente, dicevo, da una parte loro,
come c’è stata in parte dalla parte nostra: ma in fatto di violenze loro ne hanno
fatte molte e poi c’era una grandissima propaganda sulla libertà, sull’amore libero,
sì una grande propaganda, trovavamo molti opuscoli su queste cose e anche libri,
capivamo il motivo perché loro... uno si poteva accostare con la donna che gli piaceva
senza vincoli matrimoniali o di fidanzamento niente, erano delle violenze, insomma,
finalizzate alla distruzione della famiglia. Perché la famiglia per loro era una cosa
contraria, lì è lo Stato che è valido, è lo Stato che educa i tuoi figli, è lo Stato che li
cresce come vuole lui e che insegna a loro quello che crede.
Lei ha conservato del materiale?
Macché, macché.
Facciamo un passo indietro. La propaganda italiana per preparare la leva per la
Spagna su quali punti batteva?
Qui non saprei rispondere. Come le dico guardi come è scoppiata la guerra di
Spagna c’è stata questa indagine ai reparti, ed è partito un gruppo «X» di ufficiali...
Allora perché lei è partito?
Il dovere di fare qualcosa per l’Italia d’allora, perché quando ti vengono a dire:
«Chi vuole combattere per l’Italia all’estero?» io sono andato. Allora era un po’ una gara
per i giovani fare qualcosa, io avevo già chiesto di andare in Africa e non mi presero
perché ero troppo giovane e allora quando mi è capitato di andare, sono andato. Non
ero neanche certo di andare in Spagna praticamente...
Ma perché combattere?
Difendere il Mediterraneo dal comunismo sicuramente era il primo obiettivo, quello
di difendere la Chiesa è stato connaturato poi dopo con noi quando abbiamo visto
quello che succedeva. Loro avevano tutte le armi russe, cecoslovacche, francesi, loro
avevano delle armi molto superiori alle nostre, loro avevano delle mitragliatrici che
avevano degli alzi azzerati a settecento metri noi avevamo l’alzo... a duecento metri
dovevamo già alzarla l’arma; loro avevano dei cannoni che facevano spavento, avevano
loro delle armi micidiali bellissime che venivano dal nord, venivano dall’Inghilterra, da
tutte le parti e poi armi tedesche, c’erano anche russe, svedesi, avevano dei cannoni,
delle armi... bellissime solamente che erano inquadrati male. Ne abbiamo risparmiati
molti noi di loro quando venivano avanti, anche disarmati, per punizione, a volte li
mandavano anche disarmati sì... dall’altra parte c’era il commissario politico e allora il
commissario politico era quello che si faceva temere anche dai comandanti e allora per
punizione mandavano avanti dei soldati disarmati. Noi capivamo che erano disarmati
poveretti e allora non sparavamo, praticamente la mia parte, io parlo del mio settore,
io non ho mai sparato a un disarmato perché è proprio contrario alle mie regole. Io
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ho cercato di fare una guerra leale e quando alzavano le mani li risparmiavo cosa che
difficilmente accadeva a volte con i marocchini, noi ci siamo anche lamentati perché
questi marocchini ne risparmiavano pochi. I reparti «Tagor», i battaglioni marocchini
quando davano l’assalto erano terribili, erano preparati... avevano diritto al bottino...
loro ed erano inquadrati da ufficiali spagnoli.
Anche voi avevate diritto al bottino?
No, no, loro sì per invitarli a fare le cose, se no è difficile che potessero... li eccitavano
anche attraverso la possibilità di... infatti molti marocchini quando avevano finito un
combattimento si davano al commercio cioè il loro comando diceva: «Voi rientrare alla
base e fra tre mesi ci rivediamo lì, siete liberi per due mesi per esempio, allora loro
in quei due mesi lì... che avevano il commercio nell’anima loro, loro giravano per i
reparti addirittura in linea sì... andavano in linea per fare il té e lo facevano pagare
naturalmente oppure commerciavano altra roba, quello che trovavano.
Che garanzia avevano i comandanti che rientrassero?
Nessuna garanzia, però loro avevano interesse perché gli promettevano la
fucilazione o di rimandarli a casa e loro a casa non volevano tornare... volevano
raggranellare dei soldi... i marocchini, ma era simpatico a volte. Lei vedeva un reparto
italiano con dietro due tendine, in queste tendine c’erano due marocchini che avevano
già combattuto che erano in riposo e facevano il té... facevano delle cose strane... era
una grande tragedia, è stata una grande tragedia; è ancora in ginocchio la Spagna
secondo me. Hanno ucciso tutti ragazzi di venti anni, è partita una generazione.
Le rivoluzioni portano a questo grandissimo scompenso, uccidono la parte migliore.
Sono tornato amareggiato un po’ dopo aver visto tutte queste cose.
In che anno è tornato?
Nel ’38... sono sbarcato a Napoli e poi dopo sono tornato subito a casa qui a
Gualtieri; poi dopo nel ’40 è scoppiata l’altra guerra e allora mi hanno chiamato subito
al 12° bersaglieri qua a Reggio Emilia e mi sono fatto tutta l’altra guerra fino alla
prigionia con i francesi in Algeria nel campo di [incomprensibile, N.d.R.] governato
dai marocchini della legione straniera... è stata dura sì. Praticamente sono partito a
diciotto anni e sono tornato a più di trenta insomma. Sono partito ragazzo e sono
tornato uomo con la testa da ragazzo... È questa la fregatura ho fatto solo esperienze
di violenza e di guerra. Sì perché sono tornato a casa definitivamente nel ’46... nel ’45,
no nel ’46. Dovrei guardare i documenti.
Nel frattempo ero stato promosso in servizio permanente effettivo, ero stato promosso
per un concorso di duecento posti, lo avevo vinto e sono andato al reggimento... sono
andato in servizio permanente quindi ho continuato la mia carriera, sono arrivato al
grado di generale e adesso sono a casa in riposo. Ero generale dei bersaglieri fino a 58
anni. Io ho l’onore di essere stato... non ho partecipato alla... a libri storici ecc. perché
ritengo che non si debbano valorizzare le persone ma soprattutto gli atti di valore, ma
io sono qui nella storia dei bersaglieri.
A 26 anni ho avuto l’avventura di comandare un battaglione di bersaglieri. A 26
anni non è facile comandare cinquecento uomini in combattimento, poi in Tunisia,
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che è stato un momento terribile in Tunisia qui siamo ad [incomprensibile, N.d.R.] ho
fatto tutto anche questo... vede noi bersaglieri abbiamo avuto la sfortuna di non avere
una sezione di cinefoto dietro come avevano gli alpini. Loro avevano il cinematografo,
a noi non l’hanno data, noi non avevamo tempo...
Quando è tornato in Italia la sua partecipazione come volontario alla guerra di
Spagna le ha creato dei problemi? La sua iscrizione al partito?
No, no e poi io iscritto al partito non lo sono mai stato. Sono stato anch’io epurato
per modo di dire, cioè venivamo processati dopo la guerra ma nessuno... sulla base
di quello che è stato scritto su di noi... no nessun problema perché i miei amici che
avevo qua uno ha fatto il partigiano, l’altro ha fatto quando sono tornato era dall’altra
parte, nelle Brigate nere, io non ho mai avuto problemi.
E la sua famiglia?
C’erano i tedeschi a casa mia, era un comando tedesco in casa mia, mi sono
salvato perché io avevo avuto delle decorazioni tedesche, io ho la croce di ferro di
prima classe e quella di seconda classe datami da Rommel personalmente e quindi
io avevo mandato a casa i documenti e i tedeschi che erano in casa vedevano i
documenti e allora... È un paese amico questo qua per me, ho sempre salvato capra
e cavoli, me la sono presa anche con il segretario politico perché non ho mai capito
certi atteggiamenti: l’olio di ricino, l’atteggiamento di obbligare la gente a comperare
il «Popolo d’Italia».
Quindi lei non fece mai la tessera?
Io non ricordo di averla fatta, ricordo di avere avuto una tessera da balilla nel ’22
e pensi un po’ anche quella storica l’ho persa. Io non ho mai avuto problemi, con
me sono rimasti amici tutti io ho cercato di aiutarli tutti dopo... servizio militare e non
servizio militare, tutta brava gente e poi in definitiva questo è un paese tranquillo,
paese che ha dato moltissimi volontari, però non c’è stata violenza in questo paese,
la violenza c’è stata per colpa di altri che sono venuti da fuori... durante il periodo
partigiano... sono venuti da fuori per potere... e qualcheduno è stato ucciso poveretto
e poi una famiglia, la famiglia Rossi è stata distrutta dalle truppe russe [germaniche,
N.d.R.].
Tornando alla Spagna. Le riesce a distanza di cinquant’anni a fare un bilancio?
Penso che siamo arrivati fino qua in queste condizioni anche per questo, proprio per
questo, la Spagna era diventata un baluardo che ci ha permesso di vivere in completa
libertà. Assolutamente senza dei principi che possano imporre alla società una certa
linea d’azione, che non è conforme ai principi della libertà; io non apprezzo... la gente
scappa da Est verso Ovest, non da Ovest verso Est, e allora è significativo questo qua
mi sembra, quindi noi abbiamo evitato questo con la guerra di Spagna che poi ci siano
state delle correlazioni e ripercussioni negative o strane che poi accusino l’Italia di
aver dato alla Spagna delle armi vecchie della prima guerra mondiale, proiettili che
non scoppiavano, questo è anche vero perché abbiamo scaricato i 75 del deserto... Chi
ha fatto la guerra lo sa perché facevamo preparazioni d’artiglieria vedevamo, ma che
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sia stata... e poi quello che è più bello in questa guerra di Spagna è l’insegnamento
che ha dato che andrebbe segnalato a tutti ed è importante: tutti i caduti per un’idea e
per la patria sono dello stesso livello nella valle de «Las Caidos», a Madrid ci sono tutti
dentro, comunisti e fascisti abbracciati. Franco non ha fatto distinzioni, li ha messi tutti
insieme e questo è un insegnamento secondo me che dovrebbe essere di carattere
storico... Quando muori per un ideale, sei un uomo degno di considerazione, quando
muori vuol dire che hai dato tutto te stesso per questo e quindi questo sacrificio
immenso, questo immolarti per questo ideale...
Lei non ha mai pensato alla morte?
Non perdi di vista questo particolare, perché se in combattimento uno pensa a
questo può diventare anche un vigliacco, deve essere leggermente fatalista perché se
no... Io sapevo di partire e potevo non tornare.
Diventa un’abitudine un pochino il pericolo, cioè diventa abitudinario essere nel
pericolo, però a volte devi dare qualche scrollata di spalle se no puoi diventare anche
un vigliacco, di fronte ai propri uomini non è possibile fare così, noi poi nel nostro
corpo siamo abituati a trascinare.
Il ricordo più bello della Spagna?
Guardi spontaneamente non le saprei dire, potrei dire la fine di un combattimento
vittorioso, quando c’era un’azione difficile da fare che si risolveva, il momento più
bello era quando dopo l’azione mi mettevo intorno i miei ragazzi e ci guardavamo
in faccia e c’eravamo quasi tutti, quello era il momento più bello e io ho fatto così
anche in questa guerra, ho cercato sempre di aiutare chi sbaglia e di evitare di fare
morire stupidamente della gente, non è più il momento di dire «ho avuto tante perdite
e merito tanto», io dico che è indirettamente proporzionale alle perdite il valore, cioè
o sei un incosciente e allora...
Il ricordo invece più brutto della Spagna?
Un brutto ricordo ce l’ho quando hanno ammazzato il tenente... che ha fatto in
tempo a dire «mamma!» e poi è crollato; questo è un brutto ricordo, che ho poi dei
brutti ricordi ne ho, perché avevo degli amici che partivano per un combattimento
che sembrava stupido e non tornavano più. I ricordi brutti sono di quando perdevo
qualcheduno per me era strappato il cuore quando perdevo uno dei ragazzi così.
Che grado aveva lei in Spagna?
Sottotenente, ma io avevo il grado di tenente. Ci davano il grado agli ufficiali
italiani, ci davano il grado di tenente perché sottotenente là era una stelletta sola e
c’era l’Alferez, l’Alferez che era un aspirante ufficiale, diciamo, allora a noi davano il
grado di tenente.
Che sentimenti provava a combattere in Spagna contro suoi connazionali, come
per esempio a Guadalajara? Per lei che era un patriota?
Potrei dire tranquillamente che avrei potuto avere più odio che per gli altri perché
lo stesso succedeva a loro, che si erano messi contro gli stessi italiani, ma se avessi
fatto dei prigionieri li avrei risparmiati indubbiamente, come ho sempre fatto, ma in
combattimento non avrei esitato perché non fai in tempo a guardare.
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Quindi lei non si pose problemi per la presenza di italiani come nemici?
Sì, me li sono posti prima del combattimento e dicevo guarda un po’ perché si deve
arrivare a questo punto, di batterci tra di noi ma quelli erano degli esagitati... come
noi d’altra parte; loro la pensavano diversa da noi e quindi ci battevamo per qualche
cosa e ognuno pensava di avere ragione... ma senso di vendetta... no... A Tortosa, per
esempio, sull’Ebro dove siamo stati, quando siamo arrivati a [incomprensibile, N.d.R.]
per cui avevamo proposto di fare uno sbarco al di là dell’Ebro e di tagliare fuori
tutto il gruppo degli italiani nell’ansa dell’Ebro e allora e allora potevamo prenderli
tutti ma non è stata accettata, sarebbe stata una bella cosa perché avremmo fatto dei
prigionieri e ci sarebbero stati meno morti, ma Franco non lo ha accettato, perché
c’era sempre questa punta d’invidia, se noi facevamo qualche azione bella un po’
brillante ci rimanevano male. Franco non si può dire che fosse invidioso certo è…
vede la propaganda italiana ci picchiava dentro, noi avevamo di grandioso l’aviazione;
pochi apparecchi ma... avevamo l’asso di bastoni: la squadriglia «Campoforbi» dove
avevamo i gobbi, gli 81 e gli S81 da bombardamento, ma erano i caccia che erano
spettacolari... loro avevano dei caccia superiori; loro avevano i Rata [Polikarpov I-16,
aereo da caccia sovietico N.d.R.], erano russi, erano più veloci dei nostri però i nostri
erano molto più abili e quando c’erano dei combattimenti aerei eravamo tutti fuori
dalle linee... Vedere i nostri volteggiare per aria... un aereo nostro è riuscito a stare in
coda ad un russo e lo ha fatto atterrare al campo di Badajòz senza sparargli standogli
in coda e poi dopo ha fatto delle acrobazie sul campo e naturalmente i comunisti
hanno dovuto battere le mani.
Si parlava di politica in Spagna?
Non avevamo tempo di parlare di politica; non si parlava di cosa può succedere,
cosa può non succedere. Io dico che oltre l’entusiasmo di fare qualche cosa per
l’Italia d’allora per quel momento particolare non c’era niente che potesse interessare.
Noi avevamo alle spalle un’Italia che sembrava una cosa colossale... enorme... un
impero, una potenza e pensavamo che fosse così... che dopo ci siamo accorti durante
la seconda guerra che non era così purtroppo e allora non si pensava alla politica...
Si poteva dire gli altri che faranno, ma non noi cosa faremo; noi su quella strada e
pensavamo che fosse la strada migliore, ci avevano insegnato quello e praticamente
poteva essere anche giusto, che fosse giusto poi lo abbiamo visto che non era così,
perché dopo l’impreparazione della guerra mondiale abbiamo visto cosa c’era.
Abbiamo visto che, per cercare una divisione per mandarla in Russia, Mussolini ha
girato mezza Italia e si è dovuto anche arrabbiare... e allora vuol dire... la politica era
entrata nelle file delle forze armate e che non doveva entrarci. I tedeschi in Spagna
avevano sperimentato gli aerei, delle armi, dei forni, noi abbiamo sperimentato niente;
loro avevano dei sottoufficiali per esempio, vestiti da sottufficiali, che erano degli
ingegneri che guardavano che cosa si poteva fare per sfruttare in Spagna, qualche cosa
per chiedere a Franco qualche cosa perché sapevano cosa chiedere a Franco... il nord
della Spagna è ricchissimo, loro avevano dei sottoufficiali tecnici... ingegneri minerari
e tutta quella gente lì, avevano al loro seguito, avevano un’armata di scienziati, di
specialisti per sfruttare al massimo tutto, noi no.
108
Ma è vero che eravamo male equipaggiati in Spagna?
In Spagna avevamo roba della prima guerra mondiale, noi avevamo le carrette
ancora, ma noi abbiamo incominciato questa guerra con il 18BL; questo sta a significare...
immagini cosa c’erano tre o quattro anni prima in Spagna. 18BL con le gomme piene
con la tendina davanti sopra era degli anni ’12-13... Noi per arrivare a [incomprensibile,
N.d.R.] prima dei tedeschi abbiamo camminato giorno e notte per due o tre giorni
senza dormire, sono caduto tre volte addormentato in motocicletta per arrivare prima
dei tedeschi a Monstar con degli autocarri. Così loro ci passavano davanti di giorno e
noi continuavamo giorno e notte ad andare e intanto li superavamo... siamo arrivati
primi lo stesso. Loro ci passavano con il rancio che facevano il rancio tranquillamente
noi per il rancio dovevamo fermarci, tirare giù i bidoni stagnati e fare il rancio... Le
marmitte da campo... quelle cose lì loro avevano la loro cucina con i reparti corazzati
e motorizzati che erano una meraviglia con tutte quelle moto lì impermeabili... noi...
chi le ha mai viste impermeabili... siamo arrivati in Africa c’erano le mosche che ci
uccidevano... i tafani in Africa, c’erano delle miriadi... uno non poteva fare così che
venivano giù dappertutto, loro avevano la retina già per le mosche, noi non abbiamo
mai avuto la retina o se qualcheduno dice che non era vero, era la retina ai comandi o
dietro perché io di retine dalle forze armate italiane non ne ho mai avute... ci davano
della pomata scura per gli occhi perché si infiammavano gli occhi. Avevamo paura del
tracoma perché lì in Africa c’è il tracoma che può portare anche alla cecità... Per dirle
che c’è stato qualcosa che non ha ingranato ed era veramente una cosa di coscienza.
Anche in Spagna più che la tecnologia è stato l’entusiasmo...?
È stato il valore e la capacità dei reparti inquadrati bene e non la forza vera e
propria delle armi, noi avevamo le mitragliatrici FIAT 14 della prima guerra mondiale,
quelle ad acqua e in Africa avevamo i fucili mitragliatori che li buttavamo via i nostri e
prendevamo i «bren» inglesi perché con i nostri non si sparava... Il contributo italiano fu
fondamentale alla vittoria di Franco: abbiamo insegnato un tipo di guerra a loro che non
conoscevano, lei deve sapere quando abbiamo trovato il fronte così fermato, bloccato;
si scambiavano le sigarette la domenica e chiacchieravano tra di loro, la domenica
era difficile che si combattesse... Alla «domingo descanso»: riposavano, si scambiavano
le sigarette sulla linea... Dopo noi abbiamo tolto questa mania combattendo, a loro
abbiamo rotto un pochino l’ambiente in quel modo lì e poi quando abbiamo fatto
l’azione di Malaga. L’azione di Malaga è importante perché abbiamo tagliato una fetta
di Spagna direttamente. Senza guardare né a destra né a sinistra siamo piombati su
Malaga ed è finita lì la cosa e allora loro non avrebbero mai pensato... facevano una
quota poi... starebbero ancora facendo la guerra loro... una mentalità così. Atti di
valore indescrivibili gli spagnoli sono di... getto. Io ero proprio nei reparti d’assalto
ma dovevo tenerli a freno. Erano proprio ragazzi in gamba; perlomeno i miei hanno
combattuto molto, ma molto bene. Io non posso che dir bene.
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Alcide Spaggiari
Classe 1904, avvocato. L’intervista è stata registrata il 15 marzo 1988, nel
suo studio. Alcide Spaggiari nel 1938 diventò segretario del GUF e componente
effettivo del direttorio federale.
La sua è quindi una testimonianza che proviene direttamente dall’interno
del potere politico.
Vorrei ricostruire con lei l’opinione pubblica di quegli anni, partendo dalla sua
esperienza, dal suo osservatorio privilegiato. Dalla cronaca del «Solco» è assente la
guerra di Spagna, c’è un elenco dei caduti che viene pubblicato nel ’39 e poi ripreso
nel ’40 e poco altro...
C’è l’esaltazione di alcuni che sono caduti, alcuni di primo piano, non so, per
esempio il capitano Bottazzi che morì in un incidente aereo; poi c’è l’esaltazione di...
come si chiama... Degli Incerti, che cambiò nome e diede nome alla sua famiglia Degli
Incerti Tocci poi dopo morì in un incidente a Rimini... o a Riccione. Ma in generale
allora non se ne parlava molto, cioè, la stampa metteva in risalto gli orrori, diciamo
così, della parte avversa... degli spagnoli nemici di Franco, ma che se ne parlasse
molto... no. E forse la ragione, io penso, è che l’intervento di Spagna è sempre stato un
intervento simulato, non è mai stato un intervento ufficiale, perché in fondo in fondo
se noi pensiamo a modo, il fascismo diceva che in Spagna si era fermata l’avanzata
comunista.
Francia e Inghilterra sembrava che non la pensassero così, però gli aiuti ai nemici
di Franco non ne hanno mai dati. È una delle lamentele dei comunisti, cioè di quelli
che combattevano... era questa mancanza di aiuti. Insomma, si vede che la partita si
giocava su un tono politico, diciamo così, di «dico non dico»; tant’è vero che dall’Italia
non abbiamo visto partire dei reparti... come partivano per l’Africa.
Per l’Africa abbiamo visto partire... non so, mi pare due battaglioni di camicie nere,
un gruppo d’artiglieria, ecc. in fila, scortati: quella era la guerra aperta, là non era più
così. Io non riesco neanche a capire, ho avuto qualche amico, qualche cosa... come
siano andati, se siano andati volontari scelti nei reparti, o se li abbiamo mandati, anche
perché reparti combattenti, oltre le camicie nere non ce ne sono andati, c’è andato
qualche gruppo di artiglieria... purtroppo c’è andato anche un mio carissimo amico,
che poi lo hanno ammazzato nel ’45, Mirotti, era un mio caro amico...
.... che tornato dalla Spagna diceva «Di rossi ci sono rimasto solo io»?
L’ha scritta a me, dietro a una fotografia «Di rossi ci sono rimasto solo io», perché
era rosso di capelli. Ma Mirotti dice «io ho saputo di andare in Spagna quando sono
arrivato là». Allora c’era questo vasto movimento verso l’Africa e allora molti ufficiali...
Poi c’era anche un gruppo notevole di ufficiali che in Africa erano diventati ufficiali
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effettivi. Ora, a questi io credo, che si potesse anche imporre, o per lo meno far
forza, per mandarli in Spagna. Gli ufficiali diventati effettivi in Africa erano moltissimi,
ma in Africa andavano giù con entusiamo, era un po’ un modo di sistemarsi, ma
perché bisogna pensare che allora tutti i diplomati e i laureati facevano i corsi allievi
ufficiali, arriva l’Africa, c’è stata un’ondata di gente che è andata giù, per esempio non
so... il generale Lasagni poveretto che è ancora qui, è andato giù come ufficiale di
complemento, il mio amico Franzoni che è morto l’altro giorno, e che è poi tornato su
perché passò comandante della guardia alla frontiera, il fratello del senatore Franzini,
quello che adesso è in Cile, che era diventato colonnello, il povero avvocato, non
povero deve essere vivo ancora, erano andati in Africa però si erano conquistati
queste posizioni. Io penso che qualcheduno sia stato sollecitato ad andare là, dico lo
penso, perché allora non se ne parlava; ad un certo punto si sapeva che era partito
uno, che era partito un altro, ma in genere gli ufficiali superiori…
Lei che era un intellettuale già allora, ho trovato un suo articolo del ’34 intitolato
Fascisti universitari e giovani fascisti sul «Solco Fascista», lei era responsabile del GUF e
poi...?
No, io sono stato segretario del GUF e vicepresidente dell’Istituto di cultura, quindi
come segretario del GUF, oltre ad accogliere gli studenti universitari ed agevolarli,
qualcheduno mi ha fatto anche dei riconoscimenti, come Landini che non sarebbe
andato all’accademia se io non avessi detto che lui era fascista, perché non avrebbe
potuto esserlo nel senso che non era venuto dai fasci giovanili, l’ha detto nel libro di
cos... il mio amico Leonardi... ad ogni modo noi come GUF più che altro, organizzavamo
gli universitari e una delle attività più notevoli era quella di organizzare i Littoriali del
lavoro, ed erano interessanti è stata una bella azione, cioè facevamo delle gare di lavoro
fra gli operai dei diversi cos, nominavamo... cioè facevamo fare dei concorsi locali e il
primo che risultava a Reggio lo mandavamo a Roma, se a Roma uno diventava primo,
diventava littore aveva l’M d’oro... che lo ha avuto Leonardi, lo ha avuto... aspetta
pur quell’altro che era al Consorzio agrario... in un anno so che ne ho avuti quattro,
Alcide Farri, Leonardi e quell’altro come si chiamava... e questa è una bella attività. Poi
l’altra attività, quella dell’Istituto di cultura fascista, noi davamo, come GUF, molti dei
relatori che al sabato andavano nelle diverse sedi a fare delle conferenze, ci andavano
i Dossetti, ci andavano... ci andavano tutti, sui sindacati, sulla previdenza sociale,
ecc. Ricordo un particolare curioso ed interessante, il mio amico Manghi Mariano, il
padre dell’assessore in Comune, aveva fatto una bellissima relazione sulla previdenza
sociale, perché ci eravamo laureati insieme e sperava di entrarci. In guerra è andato
tra i partigiani, ha avuto dei guai; dopo la guerra quando lo vedo, gli dico: «Guarda
che c’ho ancora quella relazione che mi hai fatto vedere...». «Me la dai...». Infatti gliel’ho
data e l’avrà distrutta. Questa era un po’ la nostra attività; ma lì nel periodo della
guerra, diciamo così... passava sopra di noi, non se ne sapeva. L’opinione pubblica
era messa al corrente degli orrori degli eroi repubblicani spagnoli, delle violazioni dei
conventi, delle stragi, delle uccisioni, ecc., ma sulle vicende guerriere non si sapeva
mica molto. Così anche per quel che riguarda, non so, i volontari. Io a un certo punto
ricordo che era partito, ed era uno che partiva sempre, Patroncini. Era un impiegato
dell’ospedale, un maestro elementare che, venuta l’Africa, era tenente della milizia, è
111
andato in Africa, venuta la Spagna è andato in Spagna, venuta la Russia è andato in
Russia... un valoroso, ed è sopravissuto perché poi si era impiegato alla Camera di
commercio di Milano, è morto quattro o cinque anni fa. E ricordo che quando tornò
dalla Spagna, noi facemmo un po’ di festa, fra amici, ma niente di ufficiale, e il povero
dottor Manfredo Manfredi, era quello che era amministratore, stava a Como per la
verità, era amministratore della Banca commerciale italiana, era un po’ il factotum,
uomo intelligente, medico, ma non ha mai fatto il medico, è sempre stato un gerarca
di quelli... di quelli che ha fatto anche i quattrini bisogna dirlo; ricordo che diceva:
«Patroncini – era carico di decorazioni – aveir il tuo giubét e la mia testa...». Fra l’altro
è diventata famosa... Ma come dico erano queste figure, per esempio Bottazzi; io non
ho mai saputo come Bottazzi sia andato giù. Bottazzi, era il capitano Bottazzi perché
era capitano delle Reggiane perché era centurione della milizia. Io ho saputo che era
in Spagna, sì che lo conoscevo, quando ho avuto la notizia che al ritorno della Spagna
è precipitato con un aereo, anche lui era della milizia, ufficiale superiore della milizia.
Ma come mai non riusciamo adesso a trovare un elenco dei reggiani che
parteciparono?
È quello che mi domando anch’io. Ci pensavo in questi giorni dopo che mi hai
telefonato, perché per esempio noi vediamo che in provincia c’è la lapide di quelli
rossi, cioè di quelli dell’altra parte della guerra di Spagna; qui forse non hanno fatto
in tempo a farla, ne sono caduti anche di Reggio; forse non hanno fatto in tempo
ad organizzarla, perché tra la fine della guerra di Spagna, poi lo scoppio dell’altra...
oppure non so, non c’è stato un interesse adeguato...
Per una lapide sì, ma per un elenco...
Ma un elenco dovrebbe esserci, ma resta da vedere questo elenco chi lo poteva
fare. Per esempio il comando della milizia, poteva fare l’elenco dei suoi, l’esercito i
suoi, ma non è che ci fosse un istituto che li congiungesse, in federazione non mi
consta che ci fosse una cosa del genere, non c’era, in federazione... la federazione
organizzava altre cose, una cosa del genere non c’è mai stata.
Quindi si parlava solo in maniera ufficiosa di questo periodo?
Anche all’interno non è che fosse così compatto anche il pensiero. Certo
ufficialmente la cosa era quel che era, però si sapeva ad esempio che in quell’epoca
lì, subito dopo la guerra d’Africa, d’Abissinia, c’era stato un tentativo d’avvicinamento,
il famoso viaggio di Eden a Roma, quindi era una cosa sulla quale almeno la stampa,
il pensiero ufficiale, evidentemente doveva andarci adagio. Quella di Spagna per me è
passata, io dico che la guerra di Spagna per me è passata... non me ne sono accorto,
anche nei riflessi interni proprio... non c’era niente, non c’era niente.
Nelle vostre riunioni, nei vostri momenti di aggregazione, non ne parlavate?
Si sentiva qualche discorso, qualche cosa, ma non c’era niente. Perché a un certo
punto per esempio in quel periodo lì, io ero segretario del GUF, all’interno si parlava
piuttosto di un cambio nell’indirizzo generale, era il periodo di Starace, era il periodo
della ginnastica nei cerchi di fuoco, ecc., e si sperava da parte nostra che il cambiamento
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fosse in senso di dare una importanza maggiore agli intellettuali, tant’è vero che io,
questo è il ricordo che ho... L’ultima volta che sono stato a rapporto a Roma su a
palazzo Vidoni, all’ultimo piano da Mezzasoma – Mezzasoma che è andato a morire
volontariamente con Mussolini, anche se nessuno lo avrebbe trovato, anche perché
prevalendo le idee contrarie cioè intellettuali, cioè lo chiamavano «mezzasega» questo
per dire, ed era un amico carissimo con il quale sono stato in rapporto fino all’ultimo) –
disse: «Pare che sia la volta buona». Ed era la volta che pensavano tutti a Bottai, invece,
ci fu il cambio di Starace, ma venne Muti cioè venne la corrente più intransigente,
più squadrista più cos, che la corrente che voleva essere intellettuale. Questo era il
problema tra la guerra di Spagna e la guerra si sentiva. Ma la guerra di Spagna non ha...
secondo me non ha lasciato il segno di una certa presenza nell’opinione pubblica, poi
del resto se tu hai letto i giornali, hai visto che non se ne parla.
Ma è vero che durante la guerra di Spagna assistiamo a un rafforzamento delle forze
antifasciste. Che a Reggio parecchi giovani comunisti, a partire dal ’36, si inseriscono
nei GUF?
Non ricordo la data esatta, ma quando ero io segretario del GUF, successe a Reggio
il fatto di Poppi. Poppi che poi durante il partigianato diventa il partigiano Davide,
quello che ha scritto anche Il commissario, che poi lo hanno tolto dal cos perché
parla addirittura diretto delle cose, dei modi di concepire... dell’estremismo comunista
d’allora, perché Poppi scrive nel suo Commissario, era in vendita alla [libreria, N.d.R.]
Rinascita, e a un certo punto lo hanno tolto e io sono riuscito a prenderlo, a un certo
punto si lamenta che i giovani erano disposti nei primi anni dopo l’8 Settembre del ’43
a far saltare un ponte, ma non si azzardavano ad affrontare uno e a sparargli in faccia,
poi dice «invece dovremo favorire questa forma di guerra per suscitare le reazioni
anticomuniste». Quindi era proprio uno che guardava la fine in questo modo qui, ora
il fatto, Poppi fu l’unico fatto che successe quando io ero segretario del GUF. Io ero
amicissimo di Poppi, tant’è vero che nel periodo in cui non ero ancora a Reggio, prima
del ’37, perché la mia famiglia era ancora a Puianello, avevamo una stanza insieme
come alloggio; Poppi era segretario del Fascio di San Bartolomeo, ufficiale della milizia,
ecc... Improvvisamente Poppi si scopre che era a capo di una cellula comunista, era a
capo di una cellula comunista che lavorava soprattutto nel campo delle Reggiane, delle
officine ecc., è stato arrestato e processato a Roma.
Ricordo che il federale Bolondi me lo disse; Poppi io lo vedevo al circolo del
«Casino» a fare una partita ecc., me lo disse una sera che mi prese e disse: «Sai cosa
è successo a Poppi?». «No!». Al dìs: «È stato scoperto, lo hanno arrestato e adesso noi
diciamo che si tratta di un incidente stradale, ma non lo potremo tenere nascosto per
parecchio tempo». Questa la mentalità di allora. Poi fu processato a Roma, tant’è vero
che io ricordo che feci anche quasi un falso, l’ho poi detta a Poppi dopo, perché
Bolondi a un certo punto mi disse: «Guarda, c’è il processo di Poppi a Roma, lo difende
lo zio di sua moglie, che è il vecchio avvocato Borsiglia», dice: «Mi hanno chiesto se è
vero che Poppi abbia fatto domanda di andare volontario in Africa a suo tempo». Gli
ho detto: «Guarda al GUF non c’è niente, però quando l’avvocato Mariani mi ha dato
le consegne del GUF, mi ha detto che tutti gli universitari che avevano delle cariche
politiche avevano fatto domanda di andare in Africa; questa è la dichiarazione ufficiale
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che lui ha fatto nel discorso di consegna a me. Ora se vuoi che ti dichiari che risulta al
GUF che ha fatto domanda di andare in Africa lo dichiaro, non ho documenti specifici,
ma te lo posso dichiarare». E l’ho fatto. Non so se gli sia servita al processo, Poppi
non mi ha saputo neanche dirmi... ma quello è stato un fatto di notevole importanza,
perché gli studenti universitari, perché lui era già laureato, non c’era solo Poppi, ma
c’era una quantità di ragazzi delle Reggiane, mi pare dieci o dodici che sono stati
arrestati, processati, tant’è vero che quando è scoppiato l’8 settembre, Poppi è stato
condannato, non so se a diciannove o venti anni, Poppi avrebbe potuto scappare
perché era in un ospedale in... là in un ospedale in Piemonte, ed è scappato; poi dopo
è venuto e ha fatto tutta la Resistenza, era il commissario temutissimo e potente di tutta
la zona dell’alto Appennino reggiano. Quello è un fatto realmente accaduto, in quel
periodo lì, ma la Spagna non c’erano. Erano anzi gli anni del consenso, perché dopo
il periodo della guerra d’Africa effettivamente tutti i grandi dissensi erano scomparsi,
era il periodo migliore, quello lì era il periodo in cui la gente si era lasciata veramente
trascinare. Io ricordo sempre questo episodio: nel periodo della guerra d’Africa io
ero allievo ufficiale a Moncalieri, perché io ho fatto l’allievo ufficiale dal ’35 al ’36,
poi dopo ho fatto il servizio qui al 3° artiglieria, prima di diventare segretario del GUF.
Beh, io ricordo che la sera del 5 maggio, mi pare, dopo la presa di Addis Abeba, il
giorno insomma della vittoria definitiva della guerra di Abissinia, ho visto a Reggio un
episodio che mi ha impressionato. Le truppe erano uscite dalla caserma, han fatto tutta
la via Emilia, ben inquadrate, colonnello a cavallo in testa ecc., per arrivare davanti al
monumento dei caduti a rendere omaggio... la città era piena in un modo che non si
immagina. Al ritorno non c’era più l’esercito, c’eran dei soldati con le canne dei fucili
con dei fiori che cantavano e che urlavano. Io ero nel periodo, avevo atto il corso allievi
ufficiali e aspettavo la nomina, infatti, la nomina è arrivata il 1° giugno, ricordo che
mi trovai vicino l’uomo più austero, che mi faceva paura, che era l’avvocato Leuratti,
il padre dell’attuale avvocato Leuratti, presso il quale avevo fatto la pratica legale. Un
uomo che non parlava mai, aveva però due medaglie d’argento della prima guerra
mondiale, era nella brigata «Sassari». Era vicino a me che cantava... cantava, quando
mi ha visto è arrossito; per dirti l’entusiasmo che aveva suscitato, del resto i giornali lo
dicono, tutti i giornali lo dicono che era il periodo del maggiore consenso, che era il
periodo del maggiore consenso. Quindi, io ti posso assicurare che nel periodo che io
sono stato al GUF...
In che periodo c’è stato al GUF?
Non me lo ricordo neanch’io. Dunque, io ho finito di fare il servizio militare il 31
dicembre del ’36, credo che sia stato dall’estate del ’36, fino al ’38, mi pare. È un periodo
in cui le cose sono andate con la maggiore tranquillità, io non ho avuto un sol caso di
ragazzi devianti; e poi nel GUF c’era sempre un clima goliardico, non prendevamo sul
serio probabilmente, cioè eravamo convinti, facevamo...
Però, proprio nel ’36-37 iniziano, così si dice, i sabotaggi alle Reggiane degli aerei
che partivano per la Spagna, gli arresti dei comunisti che raccoglievano fondi per la
Spagna rossa...
Quello lo si diceva, l’ho sentito dire però non ho visto niente, non si è visto niente;
un vero sabotaggio c’è stato, ma c’è stato durante... Nel ’41 quando è morto Scapinelli,
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che è stato un sabotaggio, quando è morto il colonnello Scapinelli, ma era nel ’41
perché ricordo che io avevo soldato sotto di me suo fratello e ho ricevuto e ho detto:
«guarda è successo questo e questo» per dargli la licenza e mandarlo a casa subito; ma
prima se ne era sentito parlare ma... almeno allora non risultava, ecco. Poi erano cose
che non interessavano certamente noi del GUF. Noi facevamo le nostre manifestazioni.
Ricordo io feci venire allora Marinetti, che per poco non mi procurò delle grane, sì
perché io lo feci venire e nel salone della casa del fascio (c’era un gran salone che
adesso non c’è più, che lo hanno buttato giù, dove adesso mettono le macchine i
carabinieri); Marinetti, naturalmente Marinetti, fischi, urla, ecc. Un federale lì su che
sentiva mi chiama: «Ma cosa succede?». È un genere che Marinetti le vuole così, dico,
infatti, urla, c’era il vecchio Pino Garavelli con la cravatta di latta, ecc., urla ecc., e ci
ha parlato di tutte queste cose e tutto è andato bene: entusiasta Marinetti, entusiasti gli
altri, riunione in cui Marinetti parlava più serio nella sala del circolo «Casino», il prefetto
in prima fila. Ad un certo punto mentre parlava, e parlava della necessità di demolire
i vecchi modi di fare, le vecchie retoriche ecc., e a un certo punto prese la parola
l’avvocato Strozzi. Era un tipo strambo e originale; non so se era iscritto al fascio, ma
non credo. Domanda la parola e dice: «Io desidererei sapere come Marinetti concilia
queste idee con la sua feluca di accademico d’Italia?». Il prefetto... fischi e il prefetto lo
fa cacciare fuori dalla sala. Questo è l’unico episodio che io ricordo, ma altri episodi
non ce ne furono. Vi fu un episodietto, ma lì non riguardava il GUF, non riguardava
niente. Cioè, una volta mi chiamò il federale e mi disse: «Va a vedere cosa è successo
ieri sera a Campegine». A Campegine la sera prima era successo che un segretario del
fascio, nuovo, mandato lì (era uno anche molto duro), insomma, aveva preferito dare
l’olio di ricino a due che non so cosa avessero fatto; e quei due glielo hanno buttato
se non in faccia, per terra, insomma non lo hanno preso, e allora voleva denunciarlo,
perché c’era la questione di cui si è discusso, se il segretario del fascio era un pubblico
ufficiale, altrimenti ci sarebbe stato reato. «Vai a vedere cosa è successo». Io vado a
Campegine. A Campegine c’era un mio amico, poveretto, gh’iva un oc ed véder, era
comandante del fascio giovanile, ma lo conoscevo perché eravamo stati in collegio
insieme, un certo Brugnoli, «Cosa è successo l’altra sera, dimmi tu, tu c’eri?». «Ma sai,
il segretario ha esagerato, buona gente, una cosa e l’altra, li ha offesi, li ha minacciati
ecc., e loro non è che gli hanno buttato in faccia l’olio di ricino, lo hanno buttato per
terra». E mi ha fatto vedere dalla finestra che c’era ancora la macchia. E allora io venni
a Reggio e dissi a Eugenio: «Guarda, a me pare che abbiamo esagerato nel dire le
cose, le cose si sarebbero svolte così...». «Ma sai...», il Bolondi era giovane, non era alla
marcia su Roma e quindi con i vecchi squadristi faceva fatica a barcamenarsi con loro;
«Ma – dice – sai, Pietranera, ecc., lo vogliono denunciare, vogliono fare il processo… io
non lo farei». Fatto sta, che venne fatto il processo e furono assolti, furono poi inviati al
confino ecc. e fu uno dei colpi peggiori per Bolondi, ma era un fatto così di periferia,
altri fatti io non ne ho. Per esempio, io feci l’assemblea annuale del GUF, che venne
presieduta da Pallotta, che allora era il segretario nazionale dei GUF, col teatro Ariosto
pieno, entusiasta, ecc., ricordo che uno dei più entusiasti era il mio amico Arrigo
Negri, quello che è sempre stato poi funzionario della federazione comunista, quello
di Novellara, che è morto una decina di anni fa, un entusiasta, era uno dei più originali
per fare un po’ di casino, fatto sta che facemmo questa cosa qui. Io feci la relazione
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(quando Vaiani ha fatto la mostra ho visto anche le fotografie, simpatiche) e restammo
impressionati tutti perché a un certo punto Pallotta disse: «La nostra generazione non
è destinata a morire fra due lenzuola». Poco dopo, sette/otto mesi dopo, partì per
l’Albania e morì appena arrivato in Albania. Era il conte Pallotta di Torino, un uomo...
Era un mondo così, di entusiasmi forse senza pensarci; si accettavano le cose come
erano... non so se ci fosse qualcheduno... per esempio io ho sempre sentito dire,
dopo, delle riunioni che si facevano alla libreria Prandi, alle quali avrebbe partecipato
i vari Cocconi, Maramotti, Cucchi, Valdo Magnani, ecc., l’ho sentito dire dopo, prima
non ho mai sentito niente. Io Magnani l’ho avuto come collega, abbiamo fatto tre
anni, due anni di guerra insieme nello stesso reparto... soltanto che sette/otto giorni
prima dell’8 settembre lui era giù nelle Bocche di Cattaro, è scomparso ed è andato
con i partigiani, con cui si vede aveva già da prima dei contatti. Ma di questa azione
qui... io dopo lo ho sempre sentito dire, non l’ho mai negato, non ho mai detto di
no, perché non lo sapevo; non è che fossi un cretino, non mi interessava, pensavo
a tutte altre cose. Certo che Prandi dice che si riunivano lì, e lì si riunivano Degani...
Ricordo, che nello studio di Degani per delle riunioni parlando di letteratura, ci sono
andato tante volte anch’io, ma non ho mai avuto la sensazione di questa fronda, che
ci fosse, a meno che non sospettassero di me perché ero segretario del GUF e non me
lo dicessero. Era una vita così serena, così... se tu pensi, per esempio, che io andavo
a raccontare al federale tutte le barzellette antifascite: «Sai questa, sai questa...?» e
lui faceva: «Chi te la ha detta?». «Guatteri». Guatteri, era un ufficiale della milizia, che
era funzionario qui all’ECA, era il padre di quel Guatteri che adesso è farmacista su a
Busana, zio di quel Guatteri che è alla Banca agricola, un «barbetta» simpaticissimo,
spiritoso; mi raccontava tutte le barzellette e io le andavo a raccontare al federale, e
il federale rideva come un matto. Questo per dirti come era l’ambiente insomma di
quella cosa lì, quindi in questo ambiente la guerra di Spagna è passata là come una
cosa... che forse riguardava i superiori comandi, forse riguardava qualcheduno.
Voi non avete svolto nessuna attività?
Né attività di ricerca di fondi, né attività di convinzione per ottenere delle... perché
poi dei volontari per la guerra di Spagna, io non ne conosco. Conosco quelli che ci
sono andati, conosco Mirotti, conosco Zoboli, conscevo Degli Incerti Tocci, ma sono
cose che ho saputo dopo. Io Mirotti non ho fatto in tempo neanche a parlargli, perché
quando lui è tornato, io ero a soldato […]. Uno che non è mai stato... Ma iscritto
forse sì, perché la sua famiglia a Campagnola, era soprattutto una famiglia religiosa,
erano dell’Azione cattolica ecc., suo padre era un ricco agricoltore. Recentemente mi
è arrivato un libro di uno di Campagnola sull’oratorio, e mi è piaciuto perché... per
questa cosa qui, per questo accenno a Mirotti, perché sai, si fa presto a parlare e a dire
tutte le cose, ma quando trovi uno che ti parla di un amico di cui nessuno parla perché
sembra una cosa proibita parlarne e ti dice male di un caro amico come era Mirotti e...
mi ha fatto piacere... me lo hanno mandato... ma l’ho già portato a casa... è la storia
dell’oratorio di Campagnola... l’ha scritta un ragazzo giovane... sarebbe interessante
trovarla... non c’è... l’ho portata a casa.
116
E i cattolici e la guerra di Spagna?
I cattolici? Non si è mai sentita la loro voce. I giornali ci tenevano a far vedere
che era una difesa della cattolicità, almeno dalla stampa, ma che ci fossero delle
posizioni precise, no. Io ricordo che allora ero in contatto, come sempre perché era
un amico, con monsignor Prospero Simonelli che quando aveva qualche grana della
Curia con la Federazione veniva da me; certe cose... mi ha detto e mi ha scritto che
ha sempre avuto soddisfazione; d’altra parte io c’ero con Bolondi, quando Bolondi
era l’uomo più mite e più tranquillo e meno... anzi quello che gli rimproveravano era
che lui era un antifascista diventato fascista quando lo hanno fatto federale. Masini di
Milano, fratello della Masini che è stata partigiana, è stata a villa Cucchi ecc., e lui mi
raccontava sempre che Bolondi era uno di quelli che criticavano il fascismo, quando
improvvisamente lo hanno fatto federale, perché aveva la protezione di... e lo ha
fatto bene perché, dove è passato lui, sia a Reggio, sia a Padova, mai successo niente.
Ma come dico, quella lì della Spagna non l’abbiamo avvertita qui in periferia come...
l’unica cosa che io ricordo, e ricordo molto bene, è stata quella di quei due o tre
miei amici che erano là e non sapevo come. Mirotti era ufficiale d’artiglieria e gruppi
d’artiglieria non so se li hanno mandati. Qualcheduno, non certamente da Reggio. Ero
ufficiale anch’io qui a Reggio del 3°... anche perché i nostri pezzi, erano pezzi pesanti e
quindi probabilmente per la guerra di Spagna ci volevano dei pezzi leggeri. Mirotti era
stato in Africa e poi è andato in Spagna; Zoboli, il maestro Zoboli è andato in Spagna,
è stato ufficiale...
Lei prima ha parlato di una festa che avevate organizzato. C’era stata per il ritorno
di un vostro amico dalla Spagna...?
Sì, ma erano cose personali...
Cose personali sì, ma di cosa si parlava, che testimonianze vi aveva portato?
Ci ha portato prima di tutto del cognac «Fundador», e poi noi eravamo convinti
che non potesse aver fatto niente sul serio. E poi era già ufficiale, credo che fosse già
maggiore, fatto sta che è tornato con tutte... so che dopo è andato in Russia con il 79°
battaglione camicie nere con Margini, famoso, e lì hanno fatto veramente il loro dovere.
Non si è avuto il senso del dramma. Era una visita serena, tranquilla, l’organizzazione
consisteva come dico al sabato, nel fare i littoriali del lavoro, che ci impegnavano per
tre/quattro mesi, nel farli partecipare alle celebrazioni normali e soprattutto l’attività
dell’Istituto di cultura, quello sì. Ma erano cose interessanti. Intendiamoci bene, non
può mica pensare che in pubblico un Dossetti andasse a sparare della retorica.
Prima parlavo di quella relazione sulla organizzazione e funzione della previdenza
sociale che era uno studio serio; io poi non mi ricordo, perché non facevo altro che
avere i nomi di quelli che potevano andare... e chiedevo: «Tu hai qualche cosa di
pronto? Vai qua, vai là». Era una vita tranquilla e serena e poi c’è questo, insomma, che
ci avevano abituati che di politica, ne parlavamo meno che adesso perché la politica
era quello che era. Questa era la realtà.
Ho trovato un dato pubblicato su un inserto del «Resto del Carlino» dedicato alla
storia del fascismo reggiano a cura del dottor Badini, che indica in 193, quindi un
117
numero ben preciso che fa pensare ad un elenco, i fascisti, o meglio i «volontari» reggiani
partiti per la Spagna. Mi chiedo, come è possibile che sia partito un numero così elevato
di persone senza che nessuno se ne sia accorto, senza che nessuno abbia organizzato,
promosso la partecipazione?
Che Badini l’abbia tratto probabilmente dai cos della prefettura; se noi ci pensiamo
193, immagini che, 193, almeno, almeno una cinquantina fossero già in Africa, a destra
o a sinistra, che poi partiti così alla spicciolata, oh 193... erano cinquecento o seicento
le camicie nere quando sfilarono in via Emilia quando andarono in Africa. Erano
120 quando, no erano quattrocento e tanto quando un gruppo d’artiglieria, ricordo
con il mio colonnello Russo in testa, partimmo per l’Africa. Quindi erano migliaia.
Ora questi alla spicciolata che potevano andare, a me non risulta che ci sia stato una
partenza di gruppi, ma che fossero delle cose individuali che andavano, tornavano,
qualcheduno probabilmente con la speranza, essendo ufficiale effettivo di nuova
nomina, di completare la sua... qualcheduno anche dei reparti di camicie nere che
volesse... insomma come dico, io proprio nei miei ricordi, come ricordo benissimo
le partenze per l’Africa, quelli lì della Spagna non mi è rimasto niente, niente perché
come dico era una cosa clandestina, era come non so se adesso, non dico lo scandalo
di Palermo, quello fa più rumore, non c’era una cosa, probabilmente come dal punto
di vista ufficiale doveva essere una azione, diciamo così simulata, nel senso che non
c’era da rompere dei rapporti internazionali, non doveva comparire. Se un aviatore
andava là e cambiava il nome, non doveva essere... e d’altra parte non solo da parte
nostra, ma anche da parte dell’Inghilterra che non ha mai aiutato la controparte, quindi
è logico che anche questi invii di truppe passassero in silenzio ecco, o fossero simulati,
o fossero partenze per l’Africa e poi andavano in Spagna, volontari o non volontari,
non lo so io questo, ma come dico nell’opinione pubblica, anche nella federazione, se
ne sapeva poco, almeno dal mio punto di vista.
Lei come responsabile dei GUF, non ha mai ricevuto direttive, coordinate dall’alto
sulla guerra di Spagna?
Io non ho mai ricevuto nessuna direttiva sulla guerra di Spagna, non se ne parlava
così, ma la nostra era tutta azione per l’organizzazione per la formazione di corsi di
cultura, per i Littoriali del lavoro e della cultura, in quanto non li organizzavamo noi
quelli della cultura, ma venivano organizzati nelle sedi universitarie, ma ci andavano
anche i nostri. Per esempio ho avuto un universitario, che era Iannaco, che si segnalò
ai Littoriali della cultura e divenne poi titolare di letteratura all’università di Firenze. È
morto due anni fa, ha sposato una sorella del dottor Laghi... ma nei littoriali del lavoro
ho avuto successi.
Quelle erano le cose che facevamo e che io in particolare facevo volentieri.
Per il resto... nota che posso dire una cosa: non avevano i riflessi di quegli
avvenimenti lì neanche nel direttivo federale, perché io come segretario dei GUF, ero di
diritto nel direttivo federale, eravamo in otto o dieci.
Quindi neanche nel direttivo federale?
Trattative speciali no, neanche lì; quindi secondo me era tutto una campagna mossa
dal centro attraverso azioni particolari in determinati settori ecc., ma io non ricordo,
118
e son sicuro, che non ho mai avuto nessun particolare interessamento, direttiva o cos
per potere agire, non so per stimolare i volontari...
Non sono arrivate domande di volontari?
Non sarebbero mai arrivate a noi, arrivavano alla milizia, al massimo la federazione
avrebbe potuto fare un’azione di stimolo, ma la milizia aveva il suo ortus conclusus,
perché noi dobbiamo pensare, che la legione aveva il suo comando a Reggio, ma in
servizio non c’era più di venti persone. I legionari erano in tanti distaccamenti, in tanti
drappelli, in tante squadre, erano in tutte le frazioni, in tutti i paesi, quindi non è che
ci fosse un esercito acquartierato in un angolo, quindi loro avevano il loro comando,
erano tutti di diversi paesi i loro sottoufficiali, ufficiali con venti, trenta, quaranta militi,
era tutta una cosa seria. Attraverso i GUF non aveva risonanza ecco. Mi dispiace che
non ti ho potuto dare tante cose.
È vero che nel ’36-37 si registra un aumento della attività clandestina degli
antifascisti? Ci sono le raccolte di denaro «pro Spagna rossa»? Si ascolta Radio
Barcellona?
Oh, queste cose erano molto clandestine, o noi eravamo molto ingenui; perché alla
federazione non arrivava niente, proprio niente. Io credo che anche Bolondi sapesse
ben poco. Anche perché voglio dire come era la situazione. Il prefetto Pellizzi, il
prefetto della Liberazione, a conclusione di un suo libro nel 1936 scrive a conclusione
di un suo libro:
conviene a questo punto che la narrazione abbia termine. Uno studio delle vicende che
seguirono sarebbe, infatti, come si dice principium inopportuno perché scaldata da ricordi
e da passioni troppo recenti che non consentirebbero una serenità necessaria. Ci basta aver
tratteggiato per ora questi pochi anni del primo Novecento reggiano che furono la premessa
degli svolgimenti futuri, fra qualche tempo si potrà descrivere l’ulteriore conquista sociale,
le grandi opere pubbliche, lo sviluppo industriale e agricolo della provincia, le nascenti
speranze nazionali, il movimento interventista sbocciato in pieno furore socialista, le opere
civili compiute in pace e in guerra, il contributo di sangue e di eroismo offerto dai reggiani
nell’immane conflitto europeo. Il dopoguerra, la degenerazione socialista, il fenomeno del
pescecanismo, i primi passi del movimento fascista, il trionfo dell’idea mussoliniana, l’attuale
vita reggiana protesa nella luce dell’impero, sono fatti che balzano come creature viventi
nella anima nostra, nessun pennello […].
Ah, aah... stampato eh!! Questo per dirti qual era il consenso che si manifestava in
questo periodo qui.
Lei insiste a parlare di consenso senza dissenso, ma abbiamo per esempio
l’antisemitismo.
Quello viene molto più tardi, ’38-39 e nessuno ci credeva. Ma era un’imposizione
tedesca. Questo perché nessuno di noi, del resto lo ha scritto adesso anche il figlio
di Mussolini, Vittorio, nessuno era convinto. Se la maggior parte, moltissimi gerarchi
erano ebrei, la casa del Fascio di Modena, andando verso Bologna, è la casa del
fascio Sinigallia. Mi viene in mente un episodio con l’avvocato Finzi: una volta, ero
nello studio dell’avvocato Finzi, con Mascheroni, poveretto, e altri amici, e si parlava
119
dello sviluppo... e dice: «Mo pensa che durante il periodo fascista a Correggio – lui
era di Correggio – non hanno fatto niente, proprio niente, e secondo me la colpa
è del segretario del Fascio d’allora», che era lui; e suo fratello Riccardo era ufficiale
della milizia. Quando è venuta la campagna, ovviamente si sono trovati in stato
d’opposizione.
Reggio e gli ebrei?
Ma guarda, io non c’ero più a quell’epoca lì perché... a Reggio se ne sono andati...
sono andati via prima delle deportazioni, perché le deportazioni sono venute con i
tedeschi, perché per esempio il professor Bonaventura, ecc., nessuno li ha disturbati
in un primo tempo, invece quando sono venuti i tedeschi... io ricordo una volta
quando cominciava a inspessirsi questa azione, andai in federazione verso le 3 e vidi
nell’anticamera del federale Cesarino Sinigalia, quello che vendeva i mobili, che suo
figlio c’è ancora che fa il consulente... «Cosa fai qui?», sono rimasto sorpreso perché
sapevo... e mi dice: «Guarda io vado via, ma bisogna che saluti Bolondi», e li ho visti
piangere come due cos, l’uno nelle braccia dell’altro, e Bolondi avrebbe dovuto farlo
arrestare. Dopo poi le cose naturalmente sono andate come sono andate, ma io ho la
fortuna di quelle cose lì di non aver fatto in tempo a viverle, perché quando è andato
via Bolondi hanno mandato via anche me, cioè hanno sostituito anche il segretario
del GUF e al mio posto in primo momento ci avevano messo Nicoli, poi Nicoli è stato
richiamato e credo che ci abbiano messo Pasini, quello che adesso sta a Bibbiano, poi
dopo si sono avvicendati perché mettevano uno e poi veniva richiamato, c’era poco
da fare.
Lei continua a descrivermi un clima «tranquillo e sereno», ma per un intellettuale
come lei, provvedimenti come la censura, l’indice dei libri, che valore avevano?
Ma... non arrivavano fino a noi. A meno che non fossero quei pochi che andavano
a cercare chissà che cosa, non arrivava fino a noi. Come si fa a parlare di censura; un
libro si pubblica o non si pubblica, la censura la capisco durante la guerra, quando c’era
una mezza colonna bianca. Effettivamente io sono convinto che questo movimento
sotterraneo ci fosse, soltanto che l’hanno un po’ scoperto dopo, allora era veramente
clandestino e clandestino sul serio si vede, perché noi non ne abbiamo avuto nozione.
Il caffé Bussetti viene descritto come luogo di ritrovo di antifascisti…
Io ci sono sempre andato, non so se ero antifascista anch’io.
Si parlava su discorsi proibiti, su letture proibite, al caffé Bussetti e alla libreria
Prandi...
Alla libreria Prandi l’ho letto anch’io, l’ho sempre sentito dire, ed è probabile,
perché Prandi, essendo in contatto per ragioni di lavoro, naturalmente, con tutti gli
editori, probabilmente doveva anche editare le cose che la propaganda ufficiale... ma
il caffé Bussetti era un caffè di giocatori, di commercianti, era bello: aveva due grandi
sale, oltre alla sala bar che era in angolo, poi aveva una sala sulla via Emilia e una
sala su via Crispi ed era proprio il ritrovo... Da Prandi l’ho sempre sentito dire che
ci fosse questa cosa qui, ma io di Prandi ho solo un bel ricordo che lo ha ricordato
120
anche lui, lo ha fatto ricordare a Montanari, ed è che quando io fui tornato all’Ente
del turismo nel ’44-45 fui chiamato in prefettura per accompagnare Dollman a visitare,
è stato anche pubblicato sulla «Gazzetta di Reggio», per accompagnare Dollman a
visitare la città. Io accompagnai Dollman per la città a visitare i monumenti. Avevo
una paura maledetta, parlava benissimo l’italiano, ne sapeva più di me su tante cose;
a tutti i modi gli ho fatto vedere la città e abbiamo chiacchierato cordialmente di cose
simpaticissime, finché alla fine, mentre uscivamo da San Pietro dove ero andato per
fargli vedere i quadri di Luca Ferrari, dice: «Ho visto in prefettura due bei volumi su
Francesco IV e Francesco V di Clelia Fano», perché quando era venuto in Italia, era
venuto per fare uno studio sui Farnesi, e mi chiese se a Reggio c’erano dei rapporti
con i Farnesi e mi dice che i volumi sono belli e mi chiede se Clelia Fano è ebrea e
io gli rispondo che è stata mia collega, perché nel ’35 prima di andare a soldato feci
in tempo a fare sette mesi di supplenza sostituendo il professore di filosofia che era
malato, e c’era Clelia Fano e dico: «Sì, io l’ho conosciuta molto bene...». E dice: «Era
ebrea?». «Sì» dico e mi dice: «Ma si possono trovare quei due libri?». E dico: «Se non ne
ha la libreria antiquaria» e andai dentro da Prandi con lui e strinsi l’occhio a Prandi per
dire: «sta attento». Li trovò e da quel giorno Dollman è andato quasi tutti i giorni o ha
mandato, a comperare dei libri antichi da Prandi. E Prandi ha fatto un affare. Poi non
solo, e Prandi lo ha raccontato in un’intervista che ha fatto a Montanari recentemente,
quando furono condannati a morte suo fratello Ferrari, Zanti, ecc., fu fucilato soltanto
il padre della Zanti, perché Dollman nel suo libro Roma nazista dice che aveva dei
precedenti tali che non poteva salvarlo, ma gli altri quattro, non fidandomi di lasciarli
a Reggio, li portai a Modena prima, poi a Roma e si salvarono così. E questo Prandi
lo ha ricordato e mi ha fatto piacere: «e lo aveva accompagnato il professor Spaggiari».
Ma che Prandi fosse questa cosa qui, lo dicono e io credo che lo sia, perché Prandi è
sempre stato di quell’idea lì, però io non ne ho mai avuto la sensazione. Andavo da
Prandi se avevo bisogno di un libro, lo comperavo, trovavo lì degli amici, li salutavo,
ma non ho mai avuto la sensazione che i miei amici, Cocconi che era in collegio con
me...
Comparoni...
Beh, Comparoni era molto più giovane, Comparoni era stato mio addetto alla
cultura del GUF ed era giovane e forte prima della guerra, non so cos’è, del ’28... era
giovanissimo, io lo presi, non so se aveva appena finito il liceo nel ’36, quindi era del
’20-22-23, che io lo presi, che io non lo conoscevo, che Bolondi mi disse, Comparoni
era compagno di scuola dei suoi fratelli, e mi dice: «Ma c’è quel ragazzo lì che è molto
bravo». E lo presi come membro addetto alla cultura, che era poi l’organizzazione
dei littoriali. Un caro amico. Poi siamo rimasti amici, poi ci siamo ritrovati che io
insegnavo al liceo e lui non so dove, fino agli ultimi tempi che... conoscevamo tutti
un po’ il suo dramma, il suo dramma familiare poveretto... un caro amico. Così, come
dico era tutta una cosa. Adesso quando si parla di queste cose qui, si ha sempre un
po’, da una parte l’esaltazione, dall’altra la demonizzazione. Tornando alla Spagna,
secondo me è difficile trovare elementi per la sua ricerca, secondo me è stata fatta
una azione nei reparti, cioè nei reparti armati, nei reparti della milizia ecc., per vedere
chi andasse, quando non hanno preso qualche reparto e lo hanno portato là dritto
121
credendo di portarlo in Africa, sono questi fatti. Che io ricordi a modo a Reggio c’era
Zoboli, c’era... Mirotti, Degli Incerti, il capitano Bottazzi e non ne ricordo altri.
Prima riferendosi a Degl’Incerti diceva che gli cambiarono il nome?
Agli aviatori spesso cambiavano il nome, infatti Degli Incerti in Spagna era il
capitano Tocci e quando venne a casa la famiglia prese il nome Degli Incerti Tocci.
Erano aiuti che non dovevano apparire in un primo tempo, soprattutto nei confronti
dell’Inghilterra, con la quale c’era stato un breve rallentamento dell’urto quando venne
Eden a Roma...
Lei era amico di Mirotti. Secondo lei uno come Mirotti come ci arriva in Spagna?
Che tipo di canali, che tipo d’immaginazione lo colpisce per andare in Spagna?
Mirotti essendo ufficiale di artiglieria, quindi uno specialista, sia stato preso e
portato in Spagna. Era uno che se ne fregava, era un tipo ameno, simpaticissimo.
Perché venne assassinato Mirotti nell’immediato dopoguerra?
I comunisti non gli avevano perdonato questa cosa qui, forse c’erano dei rancori
personali...
Il suo omicidio è da collegarsi all’avvenuta partecipazione come «volontario» alla
guerra di Spagna?
Intanto lui era figlio di un ricco agricoltore, quindi cattolico, pretino, quindi
non della corrente del sindaco di allora; era stato in Spagna, ce n’era di più... per
ammazzarlo ce n’era abbastanza, e lui poi non aveva nessun timore, lo hanno sorpreso
mentre tornava a casa di notte, era in borghese... era un tipo... il tipico... non dico
menefreghista ma un tipico ragazzone che aveva sempre voglia di scherzare, la stessa
frase «Di rossi...», ma io credo, perché Mirotti era ufficiale d’artiglieria, che in Spagna
avessero bisogno soprattutto in un primo tempo di specialisti, gente abile cioè gente
abile ad operare... cioè aviatori, artiglieri forse non lo so, volontari di qualsiasi tipo,
infatti, Maccario era nei bersaglieri. Infatti Brindani era ufficiale, Patroncini era un
maestro elementare impiegato all’ospedale che quando poteva andare fuori, andava
fuori, se c’era una guerra, andava a fare una guerra, è andato in Africa, in Spagna, in
Russia, aveva messo su un giubét che Manfredi diceva: «Patrocio, àl tò giubét e la me
testa», è bella...
Terminata la guerra di Spagna, rispetto a quell’esperienza...?
C’era già quell’altra pronta. C’era una paura... io ricordo la paura che ho avuto
prima di Monaco cioè prima dell’incontro di Mussolini a Monaco; la guerra faceva
paura insomma. Quella d’Africa l’hanno presa tutti alla leggera; sono andati ma si
sono accorti che molti non sono tornati. Hanno capito che la guerra è la guerra.
Quindi la guerra del ’39 metteva sotto qualche cosa che faceva paura, perché si aveva
voglia di dire che Hitler era forte... ma quella faceva pensare; la Spagna era quel che
era. L’unica cosa che fece impressione fu la saggezza per lui di Franco a non entrare
in guerra con noi. Di Franco dicono tutto il male possibile, ma Franco ha salvato la
Spagna e l’ha avviata a una forma d’organizzazione moderna. Franco è stato saggio.
122
C’è stato l’incontro a Bordighera di Mussolini e Franco, non so la data esatta, ’39-40...
Era un momento così, ma come dico la guerra di Spagna è passata così...
Si sapeva di questi episodi, di questi amici che erano là, ma che ci fosse un riflesso
sulla vita politica, non c’era, era proprio tutta una cosa... forse era come il comunismo
clandestino ecco, clandestino quello e un po’ meno clandestino quell’altro, perché
tutti sapevano cosa succedeva perché qualche conoscente in guerra non so, io ricordo
quelli, ma probabilmente conoscevo qualcheduno altro che andava; nel GUF no, al
GUF non ricordo proprio nessuno. Ricordo Zoboli e Mirotti che c’erano, ma c’erano da
prima perché erano stati chiamati durante la guerra d’Africa. Quindi c’erano da prima,
erano soldati, dall’Africa qualcheduno veniva, qualcheduno tornava... ma per la guerra
di Spagna non c’è stata un’eco e neanche il fatto di rafforzare il comunismo sapevamo,
chissà, forse se ci sono documenti che lo dicono, si saranno documentati bene.
Non solo i comunisti, nelle stalle, nelle osterie si parlava della «Spagna rossa»...
La stalla fino alla guerra era il salotto dei contadini, si trovavano lì; c’era la posta
vuota dove veniva il calzolaio aggiornato, il sarto aggiornato, dove si invitava a
fare l’amore la contadina, dove piantavano il telaio per fare... quindi che anche lì si
parlasse, è probabile.
Però professore si parlava, come dice lei, nei salotti dei contadini, della guerra di
Spagna e non nei salotti della città?
Ma Dio, anche quelle lì sono interpretazioni... Come dico come quelle insomma
delle conversazioni antifasciste nella libreria di Prandi e al caffé lì di piazza del Monte,
all’Ente autonomo, come lo chiamavamo, che ci fosse qualcheduno che realmente
parlava che comunicava così è possibile, anzi lo sarà, se me lo dicono, ma che fosse
una cosa così palese, non credo.
Anche sul «Solco» non se ne parlava?
Ma lì al «Solco» chi faceva tutto fin d’allora era un uomo in gamba che probabilmente
non credeva in niente, ma sapeva scrivere, Paglia, che poi aveva sposato una ricca,
la Sidoli che è morta recentemente e lui dopo e lui dopo la guerra subito è andato in
Sudamerica dove è ancora e si è accompagnato con una negra, ha ottenuto il divorzio
dalla Sidoli la quale era proprietaria di quella casa lì in fondo a via Monte Cusna sulla
sinistra, una bella casa, aveva dei poderi a Parma, a Puianello, è la zia di Matteo Sidoli,
Matteo Sidoli quello che parla sempre in televisione, quello sportivo che è anche
consigliere a Quattro Castella.
Professore, lei sicuramente lo sa, le notizie che il «Solco» pubblicava in prima e
quarta pagina erano notizie d’agenzia...
Erano veline, non credo che ci fosse nessuno allora che si permettesse in un
giornale locale... la redazione sistemava quelle cose lì, metteva le notizie locali,
sceglieva forse anche fra le cose meno... lo ricordo che tutte le volte andavo al «Solco»,
perché a un certo punto credo anche di aver fatto una pagina anche del GUF, non
so se la curava Bellocchi, comunque collaboravano Comparoni, il povero Strozzi.
Comunque ti ripeto, era un periodo così. Io ricordo che in quell’epoca lì, nel ’38, mi
123
sono sposato. Era un’ottica che andava con la maggiore tranquillità, perché subito
dopo la guerra d’Abissinia e di Spagna si aveva l’impressione che si fosse raggiunta la
pace ecc., finché è saltato fuori quel matto là di là e poi fortunatamente tutto è andato
come è andato. Voialtri... sono episodi che non vivrete: la guerra, l’essere ferito come
sono stato io, l’essere... andare via da casa e lasciare moglie e figli, torneremo... booh,
l’imbarcarsi sapendo che ci sono dei sommergibili pronti a silurare. Mi viene sempre in
mente quel marinaio, dice: «Ma in mare un’ascia si trova sempre», era naufragato non
so quante volte, e io mi guardavo attorno e non vedevo asce, mi consolava mentre
attraversavamo l’Adriatico per andare alle Bocche di Cattaro.
Lei dov’è stato ferito?
A Punta Colza che è a metà strada tra Fiume e Segna. Tutti i giorni, dovendo
trasferire o macchine civili o militari da Segna a Fiume, si faceva una colonna a
cui si aggregavano, quindi in testa alla colonna ci mettevano un’auto protetta, una
specie di camion con le lamiere, metti una mitragliatrice sopra, una specie di carro
armato. Quando siamo arrivati a Punta Colza che la strada fa una specie di budello,
cominciarono a spararci adosso da tutte le parti. Un disastro e il guaio è che per
strada c’è una colonna d’artiglieria di quelle con cavalli. Ammazzati i cavalli davanti
e di dietro, io non riuscivo ad andare né avanti né indietro con il mio automezzo e
poi ho appena detto al mitragliere: «Prova a sparare là perché c’era un cos», l’ hanno
centrato in faccia e io mi sono sentito gelare e poi noi eravamo nella strada, da una
parte il mare dall’altra la montagna e dalla montagna hanno incominciato a gettare giù
delle bombe a mano e allora le bombe a mano sono scoppiate in questo carro qui. Ci
fregava tutti e allora sono smontato e poi ho fatto scendere i soldati e quando sono
sceso mi sono accorto che sanguinavo ecc., da una delle feritorie di fianco è entrato
una scheggia, una gran quantità di sangue, ma non c’era niente. Infatti, non c’è rimasto
neanche il segno. Ad ogni modo sono rimasto ferito e mi hanno curato e siamo stati lì
in quelle condizioni e fatto sta che non hanno avuto il coraggio di saltare sulla strada
dove eravamo noi, sono saltati proprio dentro il fiordo, ma venirne fuori non sono
venuti, finché dopo un’ora e mezza circa è arrivato un reparto di bersaglieri e gli altri
sono scappati. In testa ai bersaglieri vedo uno con una croce rossa: era don Bruno
Moratti, il mio compagno di scuola e parroco di Santa Teresa.
Chi posso sentire per avere ulteriori informazioni su quel periodo, chi da un
osservatorio privilegiato come il suo mi può aiutare a capire il rapporto tra la guerra
di Spagna e la nostra città?
Ma perché in Federazione lì, nella Federazione di quel periodo lì c’ero io, segretario
del GUF, tutti gli altri membri del direttivo erano tutti vecchi squadristi: Rabotti... tutta
gente che è morta da un pezzo, io ero il più giovane, e poi non se ne è mai parlato.
La segreteria di Bolondi era tenuta, poveretto, a quell’epoca lì dal dottor Sani che poi
divenne dopo la prigionia professore di inglese, titolare di inglese all’istituto tecnico ed
è morto. C’era Falcetti, l’avvocato Falcetti, che è ancora fascista missino: è un vecchio
rimbambito, ma forse potrebbe anche tenerci; abita nella sua grande villa lì a Rivalta;
in città viene poco. Lui era segretario particolare del federale. Per un certo periodo lì
alla segreteria c’è stato Max Menada che è vecchio, io dico vecchio come se io fossi
124
giovane, sono del 1904, ma la realtà è questa che io lavoro ancora come lavoravo
venti/trent’anni fa, vivo la mia vita anche se purtroppo vedo che l’età per certi conta.
Sarà perché mio padre è arrivato fino a 94 e io devo batterlo, sì devo batterlo, perché
mio padre era un operaio, un ciabattino, e io ho due lauree e tutto il resto, però fino
a 94, cioè fino a quando è morto, se c’era qualche cosa che non andava… «Et capés
gnint, té un stùpid!» e io penso che, se per caso non arrivo alla sua età, à m’ndà dal
stùpid per l’eternité. Am dis: «Ma se t’ om fàt studiér a fér?». È un ragionamento che io
faccio, se poi non va, pazienza. Ma non credo che ci sia altra gente; se Falcetti volesse
parlare esaltando il duce e il fascismo, lo farebbe, ma non credo.
L’atteggiamento, secondo lei, della Chiesa a Reggio?
Beh, sulla guerra di Spagna in particolare non lo so, com’era prospettata come
guerra contro il comunismo ateo eccetera, la religione, io penso che fosse favorevole;
io l’ho sempre pensata favorevole, bisogna vedere gli atteggiamenti concreti.
125
Memorie
e
Testimonianze
Il timbro tedesco
Quando Cesare Campioli sfuggì alla
cattura
Gianfranco Romani
Premessa
Chi scrive queste note è ben consapevole che in parti solamente narrative di
contorno, riguardanti il racconto, sono presenti descrizioni pensate: la mia età
di otto anni all’epoca dei fatti non poteva consentire diversamente. Ovvio. Ho
inteso così interpretare le situazioni, le persone e i dialoghi di allora attraverso
contatti, testimonianze e letture.
Essendo nato ed avendo vissuto a
Cavazzoli fino a 19 anni, ho «respirato», se
pur giovane, l’ambiente, gli umori e credo di
avere in certa parte introitato lo spirito morale
prevalente degli abitanti della frazione,
avendoli all’epoca in gran parte conosciuti di
persona e frequentati. Il filo concettuale degli
avvenimenti descritti, però si rifà ai veri eventi
accaduti. Continuo a frequentare ai giorni
nostri l’ambiente cavazzolese, incontrandomi
con piacere con i miei pari età.
Debbo riconoscenza a Raffaele Campioli
(classe 1934), nipote di Cesare (al sio Céser), per le valide testimonianze. Oggi
è diventato reggitore/erede della numerosa famiglia di un tempo (contava otto
fratelli senza contare mogli e figli) e abita tuttora nella casa paterna.
Anche con il padre di Raffaele, Severino (classe 1903), deceduto dieci anni
or sono, ebbi sempre buoni rapporti. Di carattere bonario, mi confidava con
gioiosità nei nostri incontri, preziose notizie e aneddoti che non potevano
andare dimenticati.
Era il 1987 quando combinammo un incontro a casa sua nel corso del
quale registrai le nostre conversazioni, pregando Severino di citarmi quella
tale circostanza, o l’altra sul fascismo, molte sul fratello Cesare, sulla guerra, i
tedeschi in casa e nella stalla, ecc.
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Testimonianze espresse nel lessico del nostro dialetto, con la stupenda
schiettezza e genuinità dell’animo contadino: vero magnifico reperto di una
lunga vita vissuta in operosità e onestà.
In seguito, purtroppo, con l’intento di fare copia della cassetta incisa,
disgraziatamente, per un disguido tecnico, il nastro venne cancellato con mio
profondo rammarico. Fortunatamente per certi episodi avevo preso appunti.
Altro testimone prezioso è stato Giulio Montanari (classe 1933) del luogo,
che mi ha reso spontaneamente noto l’episodio chiave, del quale oltre a
lui, quasi nessuno era a conoscenza: l’impensabile avvertimento da parte
dell’impiegato della questura Enzo B. (parente della famiglia Montanari),
trasmesso ai Campioli, riguardante un’irruzione notturna da parte della GNR
nella casa, intesa alla cattura di Cesare. Anche altri nativi del borgo che
hanno vissuto concretamente gli anni 1944-45, hanno contribuito con schietta
naturalezza, rendendomi valide testimonianze ed episodi.
Nell’ambiente, nei contatti umani che ancora persevero come già detto,
purtroppo oramai ridotti ai pochi anziani rimasti, colgo ancora la presenza,
l’atmosfera dei tempi trascorsi, il paradigma della passata, umile, ma equilibrata
sapienza: lontani figli di Paolo Davoli e Cesare Campioli.
La situazione nel ’44 a Cavazzoli
Vogliano i lettori considerare che gli avvenimenti riferiti hanno una visione
di quanto accadeva limitatamente alla frazione, compresa la zona di San Giulio.
Solamente in modo marginale vengono considerati gli episodi certamente
più importanti accaduti in città e ciò, se da un lato può essere giustamente
valutato come restrittivo, dall’altro consente di esprimere un linguaggio più
conciso, spinto anche dall’amore per il proprio borgo natio.
Cavazzoli aveva, come ha tuttora, un’appendice costituita da un gruppo di
case coloniche, una dozzina, denominata valle San Giulio, percorsa da una
stradina che seguiva, parallelamente, l’argine sinistro del Crostolo. Il viottolo
termina contro il piccolo oratorio chiamato con il nome del santo, riedificato
nel 1761.
Detta località appunto perché isolata, viveva maggiormente l’atmosfera tesa
del ’44. Le notizie giungevano agli abitanti riportate attraverso fonti indirette e,
come spesso accade, in maniera distorta. La zona si prestava a colpi di mano,
a nascondigli di armi, di volantini di propaganda, di vestiario destinato alla
montagna. Nei punti più isolati dei vasti campi, si individuavano zone idonee
per riunioni a cui partecipavano i primi gruppi che poi divennero squadre SAP.
C’era preoccupazione e paura, specialmente di notte negli animi di semplici
contadini, sopratutto nelle donne. Si era saputo che alla fine di aprile erano
stati affissi nel centro di Cavazzoli diversi manifesti che incitavano i giovani a
disertare la chiamata alle armi; su qualche casa apparvero scritte come «viva i
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partigiani» e «viva la democrazia».
Facendo cronologicamente un passo indietro. A parte la caduta di Mussolini
del 25 luglio 1943, è noto che l’8 settembre fu firmato l’armistizio. Assieme ad
altre migliaia di soldati sbandati del nostro esercito, una dozzina appartenevano
a famiglie fra Cavazzoli e San Giulio. Spogliatisi della divisa (per chi ancora
la indossava), nascosti, specialmente nei primi giorni nei fienili o nei solai,
vivevano una situazione di preoccupazione i cui sviluppi erano ignoti.
I cosidetti «disertori» avevano disposto, incaricando genitori e fratelli, una
guardia discreta alla strada, temendo un controllo da parte dei carabinieri. La
loro posizione li teneva in allarme e con loro i famigliari: tutti si muovevano
con circospezione attenti ad ogni evento. Trascorsi i primi dieci-venti giorni, la
tensione cominciò ad allentarsi. I più intraprendenti si mossero nottetempo, si
cercavano incontrandosi, si interrogavano ansiosi sul da farsi. Quelli di famiglie
contadine si diedero ai soliti lavori nei campi mischiandosi ai famigliari, ma
restando sempre guardinghi; quelli di famiglie operaie (i casànt) avevano
maggiori difficoltà: stavano spesso nei solai, uscendo solamente in certi orari
per lo più notturni, indossando capi comuni.
Tutti dovevano prestare molta attenzione nell’evitare incontri, in special
modo con gli iscritti al fascio e loro simpatizzanti, spesso vicini di casa.
Maggiormente dovevano tenersi lontano dal postino Massimo e dal parroco
don Minardi, ritenuti, a torto o a ragione, referenti dei fascisti locali.
Col passare delle settimane alcuni dei giovani militari imboscati vennero
contattati con cautela da amici (i primi elementi SAP), per un iniziale
abboccamento con proposta di collaborazione, tenuti poi sotto discreta
sorveglianza. Altri maggiormente decisi e più conosciuti, dopo i primi
contatti, accettarono di essere accompagnati nottetempo, attraverso percorsi
programmati, da elementi addestrati allo scopo, per poi raggiungere le
formazioni in montagna. Normalmente il primo agganciamento avveniva in
una piccola località sopra al paese di Borzano.
Nella frazione continuavano le azioni di sabotaggio alle linee telefoniche
e volantinaggio contro il regime. Il 17 maggio due «repubblichini» soliti a
frequentare la località San Giulio a caccia di selvaggina, all’imbrunire furono
affrontati sull’argine del Crostolo da quattro armati con viso coperto (uno
aveva una pistola finta, un altro un vecchio mitra inceppato). Erano aderenti
alla futura squadra SAP locale, ma ciò lo si seppe mesi dopo. I due militi colti di
sorpresa innalzarono le mani sbiancando in volto, facendosi disarmare senza
porre resistenza. Sequestrate le armi, spogliati dalle divise, furono lasciati liberi
e in mutande, incitati a fuggire di corsa. La notizia di tale fatto suscitò notevole
scalpore.
Da qualche tempo si sentiva nominare nel borgo la strana parola «SAP» senza
conoscerne il significato, ma poi si era capito che era collegata agli elementi
antifascisti in zona.
Si era anche saputo di incontri notturni giù dall’argine del Crostolo, con
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alcuni uomini che provenivano dalla dirimpettaia parte di Sesso: si trattava dei
fratelli Manfredi.
La tensione aumentava. Altra circostanza di preoccupazione fu la messa in
atto da parte del nucleo fascista locale, in ottemperanza agli ordini provinciali,
di imporre a mezzo dei propri capi, uomini di loro fiducia nella conduzione e
amministrazione del caseificio e della cantina sociale.
Si potevano così controllare la produzione e le giacenze facilitando le
destinazioni alle truppe tedesche o ad elementi fascisti. Al tempo stesso veniva
preventivamente impedita la possibilità di prelievi da parte dei sappisti locali
(alcuni di questi ultimi erano anche soci produttori della latteria e cantina), dei
prodotti che sarebbero poi stati inoltrati in montagna.
Le disposizioni messe in atto però si ripercuotevano sugli stessi contadini
produttori: essi vedevano diminuite le loro quote parti di burro e formaggio
normalmente assegnategli, indispensabili al fabbisogno alimentare dei propri
numerosi famigliari. La riduzione di tali alimenti basilari nella dieta contadina,
portò disagi e rabbia ai capi famiglia.
Nel mese di novembre ’44 fu effettuata una importante azione alla quale
parteciparono oltre trenta persone fra partigiani e sappisti provenienti anche
dalle ville vicine.
Il casino Nobili di Cavazzoli era stato adibito a deposito decentrato delle
farmacie comunali riunite. Nottetempo con l’ausilio di automezzi, posti alcuni
uomini armati di guardia, il gruppo asportò una ingente quantità di medicinali,
inoltrati poi all’intendenza in montagna attraverso la squadra SAP di Roncocesi.
Nei primi giorni di dicembre altro rilevante intervento alla cremeria di Sesso.
Fu necessario un non facile lavoro organizzativo nel coordinare squadre di
Cavazzoli, Roncocesi, Sesso e San Prospero, data la quantità di burro asportato
pari a trenta quintali. Il cospicuo lavoro manuale di prelievo e caricamento
su automezzi, comportò l’impiego di un centinaio di uomini, considerati i
partigiani armati di guardia, posti all’inizio, alla fine del viottolo di accesso
all’opificio-latteria e all’imbocco della statale SS 63.
L’avviso di Enzo B. La notte fuori casa
Era un caldo pomeriggio degli inizi del settembre ’44. Nel podere Montanari
nella valle San Giulio, Beniamino e il figlio giovinetto stavano arando nel campo
verso il Crostolo. Alla tornata del trattore in direzione della casa, il ragazzo alla
guida con i suoi undici anni, si sentiva ancora più importante contando che
almeno qualcuno delle famiglie lo guardasse. Il trattore scartò leggermente ad
un tratto dato che le piccole mani allentarono la presa sul volante: il ragazzo
Giulio vide comparire all’improvviso nel cortile della casa un uomo vestito bene
in bicicletta.
La persona si fermò guardandosi attorno e dopo qualche minuto una donna
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anziana col fazzoletto in testa, uscì di casa andandogli incontro: i due si misero
a parlare. Papà Beniamino camminava a fatica nel solco prodotto dal vomere
con lo sguardo fisso, attento al regolare rivoltarsi delle zolle; ma si accorse del
piccolo spostamento del trattore e urlando per superare il forte rumore del
motore, diede una voce al figlio. Poi non capì perché Giulio diminuì i giri del
motore: nell’uscire dal solco per avere la visuale aperta e guardando in direzione
della casa, vide l’uomo fermo nel cortile che parlava con la donna.
Pur fissando lo sguardo, con gli occhi semichiusi dal sudore, dopo essersi
asciugato la fronte e alzata l’ala del logoro cappello, data la distanza, non riuscì
a riconoscere la persona. Tornò all’aratro, alzò i vomeri e disse al figlio di
spegnere il motore.
Quell’uomo nel cortile lo preoccupava dati i tempi di ostilità che si vivevano.
Essendo sudato, si infilò la vecchia giacca e si incamminò a passo svelto lungo
la carraia. Allorché fu più vicino riconobbe con sollievo la persona che lo
guardava e pareva lo attendesse. Riconobbe, infatti, Enzo B., napoletano di
origine, impiegato col ruolo di ispettore in questura, parente acquisito avendo
sposato una seconda cugina di sua moglie.
Il B. ricambiò il saluto e avvicinandosi disse qualcosa all’uomo che si fece
serio annuendo. Poi i due entrarono in casa. Poco dopo Beniamino uscì con gli
abiti cambiati e inforcata la bicicletta, si diresse con energiche pedalate verso il
centro del borgo.
Giulio rimasto sorpreso, non comprendendo gli strani movimenti del padre,
scese dal trattore, si calò il berretto e correndo si diresse verso casa. Mentre il
Montanari pedalava deciso verso casa Campioli, perché era là diretto, era serio
in volto, pensieroso.
Era preoccupato della notizia che aveva ricevuto dal parente e pensava a
come i fratelli Campioli avrebbero inteso la rivelazione; cercava di riflettere
pedalando, quale poteva essere stata la ragione che aveva portato il B. a rendere
noto, anche se a persona conosciuta, una così importante informazione riservata,
che dava la notizia nientemeno di una operazione di polizia riguardante la cattura
di un uomo schedato, ricercato quale «elemento attivista comunista pericoloso».
Con la testa in confusione, il contadino arrivò nell’ampio cortile che trovò
deserto. Dopo un momento gli si fece incontro Severino, sbucato dal portico
che dava alla stalla. Si salutarono freddamente e dopo un attimo di imbarazzo
Beniamino chiese: «È a casa Cesarino? Perchè avrei una cosa importante da
dirgli».
Il Campioli tolse le mani di tasca, se le stropicciò facendo un passo indietro
cercando di nascondere l’agitazione che lo aveva colto e rispose: «Mio fratello
non è a casa ed è un po’ che non lo vediamo!» (si capiva che stava mentendo).
Mentre disse ciò, gli mulinavano in testa molte cose: pensava come mai l’uomo
che aveva di fronte di nota famiglia di stampo fascista, stava parlando di un
argomento così delicato e importante. Poi aggiunse confusamente: «Quello che
dovevi dire a Cesare dillo pure a me!».
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Il Montanari che aveva ancora la bicicletta fra le mani, rosso in volto,
imbarazzato, la appoggiò al muro sospirando e con tono grave disse: «En’sò
mîa c’mè dir! Lèe un lavor poch béll! Còll me parèint ch’al lavora in questura,
lée gnûu a cà mia dsadèss e al’ ma détt, per fàr un piasèir, cl’à savû da un
sò colèga amîgh, ma amîgh dabòun, che la nôt ’ch vîn gnirà a cà vostra un
gròpp ed fasésta cun al camiunéti, per ciapêr Cesèr!». Poi ha aggiunto che
Enzo B. disse ancora, di avere sentito come un impulso, di usarvi un riguardo
conoscendo attraverso noi la vostra famiglia come gente onesta e buona
d’animo; ha detto ancora in un certo modo (ingenuo?): «Di non dire niente a
nessuno al di fuori di voi!». Riprese Montanari: «anch’io Severino, credimi, sono
molto sorpreso di questo fatto, non so cosa dire, ma ho piacere per voi se la
cosa in qualche modo può aiutare tuo fratello».
Campioli non sapeva più quale atteggiamento prendere! Fra l’imbarazzo e la
riconoscenza, salutò a mezza bocca l’amico che, inforcata la bicicletta sparì
rapido nella strada. Pensò in confusione che non l’aveva neanche ringraziato.
Mentre rimuginava su tutto ciò, quasi soprappensiero, entrò in casa, salì le
scale dove in uno stanzino d’angolo trovò Cesare seduto sul letto; su un lato
c’era un vecchio armadio che copriva uno stretto passaggio che dava nel
solaio nel quale era stato approntato un buon nascondiglio.
Cesare dall’alto aveva visto l’uomo giù nel cortile che parlava fitto con suo
fratello, ma non l’aveva riconosciuto anche perché doveva stare ad una certa
distanza – il finestrino era senza tenda – per non essere visto. Gli pareva però
di avere capito che il colloquio, dagli atteggiamenti dei due, riguardava una
cosa importante. Cesare informato della notizia si fece serio e assieme al fratello
convennero di informare uno degli altri fratelli, Otello, e lo chiamarono.
Al momento non ritennero di dare la notizia agli altri e men che meno alle
sorelle e mogli per non creare un dannoso allarmismo. Solamente prima di
andare a letto Severino avrebbe informato i restanti componenti della famiglia,
in modo blando, della eventualità del sopralluogo che avrebbe definito
come un ordinario controllo. Anche se l’informazione presentava aspetti non
certi, Cesare, che rientrava nell’organizzazione del Comando piazza, poteva
disporre di contatti abilmente dissimulati, con collaboratori quali una staffetta
e il responsabile della squadra SAP Walter.
Per ragionata precauzione venne deciso che Cesare doveva trascorrere la
notte fuori casa; si mise in contatto con la staffetta Wally incaricandola di
recarsi presso la famiglia Iotti preavvisando, come avvenuto in altre occasioni.
Gli Iotti, contadini, antifascisti fidati, abitavano in una casa in aperta campagna
fra Pieve Modolena e Roncocesi. La località era denominata «Ballan le oche»,
ma non veniva mai pronunciata in lingua1.
1
In dialetto viene pronunciato «in’bàla-àl ‘gli’òch», un quasi toponimo pittoresco e fantasioso
che si può prestare ad essere inteso, nella verbalità dialettale che antepone l’in – ovvero dove –
anche come: «imballano le oche». (in=im) Uno strambo esilirante «detto». Certo non per le oche!
La passione per il dialetto ci ha fatto deviare dalla narrazione dei fatti che subito riprendiamo.
132
Cesare, prima di allontanarsi alla chetichella da casa sull’imbrunire, sulla sua
fida bicicletta, si infilò a tracolla la solita borsa di pezza con le cose per la
notte; poi tutto coperse con un deciso giro del tabarro scuro, alzò il bavero e
si calcò il cappello fin sugli occhi.
Prima di lasciare la casa trovò il modo di avvisare Walter della sua
temporanea assenza e della azione notturna che avrebbe potuto avere luogo
da parte dei fascisti neri.
Walter a cui il coraggio certo non mancava, si attivò come più oltre vedremo,
in attesa dell’evento della notte.
Partì piano piano il Campioli, guardingo; non si diresse dal cortile di casa
verso la strada principale, bensì imboccò il breve tratto di carraia che portava
al vicino viottolo del cimitero che all’epoca, su un lato, godeva di un’alta siepe
di bosso che copriva alla vista: una circostanza vantaggiosa. Severino da sotto
il portico lo seguì con uno sguardo affettuoso.
Il ciclista, pedalando piano, di tanto in tanto, girava la testa leggermente
ma in modo sufficiente per guardare dietro e accertarsi di non essere seguito.
Certo i tanti episodi vissuti in latitanza, mesi di prigionia e i tanti anni trascorsi
da esiliato a Parigi, lo avevano temprato ad un’esperienza che gli consentiva
un controllo, un dominio sui sentimenti che pur premevano.
Come nelle volte precedenti, abbandonò quasi subito la strada principale
per infilarsi in viottoli e carrarecce che ben conosceva. Arrivò in vista della
casa con un po’ di fiatone; la vide deserta ma di lì a poco apparve sotto il
portico la moglie di Iotti, grembiule smunto a fiori e fazzoletto in testa.
Cesare alzò la mano per rispondere al cenno di saluto della donna; il cane
che aveva accanto subito abbaiò, poi smise ad una voce della padrona.
Per tre giorni l’ospite si intrattenne, per maggiore cautela, pensando al disagio
che la «visita» notturna doveva avere procurato ai suoi famigliari, come gli fu
poi puntualmente riferito dalla staffetta.
Riceveva un trattamento con ogni riguardo dalla famiglia. Sentendo il
dovere di sdebitarsi in qualche modo, Cesare mostrava un comportamento di
modestia e amicizia con tutti i famigliari, anzi chiese allo Iotti di poterlo aiutare
nei lavori di aratura però nei campi più lontani dalla casa. Indossò così un
grembiulone e un largo cappello di paglia, rivivendo i tempi di anni addietro,
allorché, nei giorni che gli erano consentiti poteva aiutare i fratelli nei lavori
dei campi.
L’irruzione nella casa
Era imbarazzato Severino durante la cena. Pensava gravemente fra sé: chi
avrebbe potuto avvertire dei famigliari del fatto che sarebbe potuto avvenire
a poche ore, dato che avevano visto stranamente Cesare andare in bicicletta
verso il cimitero. Sì, perché sull’avvertimento del pomeriggio trasmessogli da
133
una persona con la quale non aveva mai avuto frequenti rapporti, nutriva
ancora dubbi.
Però Cesare, parlandone col fratello prima che uscisse di casa, pur avendo
avuto esperienze peggiori di quella che probabilmente sarebbe accaduta, si
dimostrava abbastanza tranquillo e ciò rincuorò il fratello.
Nessuno però conosceva bene gli intendimenti veri del B., le sue idee politiche:
era pur sempre un «questurotto» napoletano! La delazione avrebbe potuto essere
un modo per snidare il Campioli dalla casa, oppure creare un allarmismo in
seno alla famiglia costituita da gente semplice: il pensare a uomini armati in
casa di notte! Specialmente dalle donne, dal loro comportamento, si sarebbe
potuto trarre delle utili indicazioni.
Puntualmente nella notte avvenne l’irruzione. Nella casa abitavano una
quindicina di persone, fra fratelli, sorelle, mogli e figli piccoli.
Erano circa le tre di notte quando i militi della GNR, divisi in due gruppi,
parcheggiarono le camionette ad una certa distanza dalla casa, cercando di
evitare rumori, ma da due case vicine si accesero delle luci, però con finestre
subito chiuse.
Un automezzo si fermò lungo il viottolo del cimitero in modo da intercettare
una via di fuga attraverso i campi; l’altro si fermò sulla strada in direzione
di Roncocesi. Su ogni camionetta restò un milite di guardia. Una parte del
gruppo circondò la casa mentre i restanti si accodarono al capo pattuglia, il
quale attraversato il cortile, picchiò forte alla porta.
Immediatamente diverse finestre si illuminarono e comparve nel vano di
entrata la figura allarmata di Severino, rimasto in attesa dissimulata senza avere
chiuso occhio; però finse bene la sorpresa. Gli uomini irruppero; un paio si
infilarono velocemente nelle stanze a piano terreno chiedendo se c’era una
cantina interrata, mentre gli altri gli altri con il capo pattuglia in testa salirono
rumorosamente alle stanze superiori.
Il forte trambusto verosimilmente impaurì i famigliari, specialmente le
donne: vennero sbattute le porte, accese le luci, accertate le persone scrutando
a fondo i visi maschili con bruschi commenti ad alta voce.
Si vissero attimi di paura: persone inermi in un letto, armi puntate, militi
con modi sgarbati a chiedere il nome degli uomini. Solamente Raffaele, con
la spensieratezza dei suoi dieci anni, interpellato oggi, ricorda vagamente il
trambusto e le rauche sgradevoli voci non famigliari. Era addormentato e si girò
appena nel letto all’aprir secco della porta, intravedendo figure scure. Poi si
rimise nella posizione solita cercando di riaddormentarsi alla vista rassicurante
del papà, apparso nel vano della porta rimasta semiaperta.
Vennero perquisiti vecchi armadi che emanavano all’apertura l’odore
del tempo e cassettoni. Trovarono unicamente indumenti personali e sugli
scaffaletti vecchi candelabri, piccoli libri consunti e bolle di consegna della
cantina sociale, ma nessun documento che potesse riguardare l’attività di
Cesare. Accorto ed esperto, consapevole di non creare altri problemi ai fratelli,
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non teneva tracce e/o documenti personali nella casa paterna.
Serpeggiava nei famigliari il forte timore che, non trovando il ricercato,
uno dei fratelli venisse portato in questura come ostaggio. Infatti, uno di loro
pareva assomigliasse a Cesare: fattolo alzare bruscamente dal letto, risultava
di statura inferiore, più magro in volto e con capelli radi, mentre la persona
ricercata era completamente calvo.
Due militi salirono nel solaio perlustrandolo in ogni angolo con una torcia,
ma trovarono soltanto ragnatele e polvere. Poi tutti gli uomini, ad una voce
del loro capo scesero e si riunirono nel corridoio d’ingresso: il comandante era
alterato in volto dalla rabbia così come i militi. Disse loro di uscire in cortile,
chiamando quelli in attesa dietro casa. «Meno male», pensò Severino ancora
molto scosso dall’accaduto, avvertendo nell’intimo una punta di soddisfazione.
Mentre si avvicinavano agli automezzi, alcuni militi imprecavano, altri
accesero una sigaretta, delusi dall’azione conclusasi con un nulla di fatto.
Risaliti sui medesimi nervosamente, finalmente ripresero la strada per la città.
In casa Campioli si respirava una mal celata aria di contentezza per lo
scacco subito dai fascisti, ma diversi, fra fratelli e sorelle, rimasero assai turbati
tanto che la Cesarina dal carattere più sensibile, scoppiò in un pianto dirotto,
consolata dalla sorella Adelfina anche lei con gli occhi lucidi. Accesero subito
il camino ed Emore, uno dei fratelli, ravvivò il fuoco aggiungendo un bel
ciocco.
Chi riuscì si appisolò mentre una buona parte dei componenti la famiglia
scesero in cucina, sorseggiando, con gli occhi fissi sul muro, una tazza di
caffelatte preparata dalla Adelfina sulla stufa.
Le narrate circostanze sui movimenti dei militi all’esterno della casa, i loro
comportamenti, le rabbiosi frasi dette, avevano avuto dei testimoni.
Due sappisti locali erano appostati in due punti idonei, abbastanza vicini
al cortile: uno era a poche decine di metri dalla camionetta ferma nel viottolo
del cimitero, acquattato dietro al muretto, dalla parte che dava sui campi di
Grisendi. E ciò da testimonianze riportate da un anziano antifascista che non
ha desiderato essere citato, che a sua volta le ebbe subito dopo il 25 aprile
1945, da un componente del gruppo SAP deceduto da anni.
Come qui narrato, la cattura di Campioli non avvenne grazie all’avvertimento
di Enzo B. e in quei tempi l’arresto, considerata la posizione di Cesare,
significava altra galera, torture certe, più che probabile fucilazione. Si consideri
l’esempio tragico dell’amico e compagno Paolo Davoli, come è noto anch’egli
di Cavazzoli.
La ragione dell’avvertimento trasmesso, è rimasto privo di una spiegazione
logica, tenendo conto del rischio che in se comportava. Oltre all’ipotesi della
«buona azione» prima citata, ma a nostro avviso non del tutto convincente, ci
sentiamo di prendere in buona considerazione un’altra probabilità. Da notizie
certe acquisite, in questura erano presenti all’epoca, alcuni addetti in servizio,
di fede non proprio fascista, che segnalavano molto accortamente notizie utili,
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a persona oltremodo conosciuta e fidata, in contatto con il CLN. Qualche mese
dopo il 25 Aprile Enzo B. fu trasferito alla questura di Parma.
Anche negli anni che seguirono il 1962, allorché lasciò la carica da sindaco
della città, Campioli continuò a dare attività al movimento democratico e
all’antifascismo. Assunse la presidenza dell’azienda municipalizzata gas, in
pratica da lui fondata. Istituzione che divenne in seguito la Gas-Acqua, poi
successivamente AGAC.
Colpito da un male incurabile che lo costrinse alla immobilità, morì il 25
gennaio 1971. Le sue spoglie riposano nel cimitero monumentale nel grande
sepolcro comune dei reggiani illustri.
Cenni biografici
Cesare (all’anagrafe Cesarino) Campioli nacque a Cavazzoli – dove oggi
ha una via a lui intitolata – il 24 marzo 1902 da famiglia contadina di piccoli
proprietari. Frequentò fino alla 4a elementare in una scuola precaria ricavata
in un lungo caseggiato con unica maestra per le varie classi. Iniziò con piccoli
lavori nei campi assieme ai famigliari, poi a quattordici anni fece domanda e
fu assunto ovviamente come apprendista-aggiustatore alle Reggiane, dove si
lavorava undici ore al giorno senza riposo settimanale. Si consideri che nel
1916 ci si spostava a piedi, pertanto il ragazzetto Cesarino doveva scarpinarsi
due volte al giorno la distanza da Cavazzoli a via Agosti.
Nel 1920 fu tra i primi ad aderire al movimento giovanile socialista. Nello
stesso anno, al rientro di Paolo Davoli dal servizio militare (anch’egli di
Cavazzoli, nato nel 1900), i due ebbero i primi incontri politici. Divennero
inseparabili amici essendo accomunati dalle stesse idee politiche e anche il
Davoli2 s’iscrisse alla federazione giovanile socialista appena fondata.
Le «posizioni» politiche dei due si rivelarono però dopo diversi anni... Stava
nascendo il fascismo, appoggiato dalle classi padronali e agrarie e chi aveva
idee diverse era considerato un «sovversivo», una posizione che comportava
forti rischi, come è noto.
Dopo il congresso di Livorno, Cesare si avvicinò alle posizioni comuniste.
Nel 1922 s’intensificarono le violenze squadriste, pertanto gli sparsi gruppi di
aderenti alla federazione giovanile comunista dei quali Campioli era dirigente,
dovettero muoversi in costante all’erta. Venne fondata a copertura della iniziale
attività antifascista, un gruppo denominato «Giovani escursionisti reggiani»,
che organizzava gite sull’Appennino per poi trasformarle in riunioni politiche.
2
Un breve ricordo di Paolo Davoli (Sertorio) è doveroso. Fu importante figura dell’antifascismo
e della Resistenza, uomo equilibrato ma coraggioso, anch’egli esule per lunghi anni a Parigi. Fu
vero martire. Arrestato in circostanze fortuite il 2 dicembre 1944, dopo torture e atrocità subite,
venne fucilato il 28 febbraio 1945 assieme a nove patrioti sulla SS 63 nei pressi di Villa Seta ove
esiste un cippo memoria.
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Le squadracce fasciste colpirono e si distinsero per viltà in un episodio
della metà di febbraio del ’24. In quella fredda giornata, mentre Campioli si
recava al lavoro, vide alcune persone in un campo adiacente alla strada per
Cavazzoli vicino alla ferrovia Reggio-Ciano. Si avvicinò e vide un corpo steso
nella neve con una macchia di sangue rappreso uscito dalla bocca. Chiese alle
persone presenti, ma nessuno aveva identificato il cadavere. Con un doloroso
presentimento riconobbe, chino sulla vittima, Antonio Piccinini, noto dirigente
socialista candidato al Parlamento. Prelevato con la forza da un gruppo di
squadristi la sera prima dalla sua casa, davanti alla moglie implorante e alle
due figlie ancora bambine.
Nel 1926, Campioli, ricercato dai fascisti, si spostò a Milano dove rimase
quattro anni svolgendo clandestinamente attività sindacale all’interno delle
officine Breda, fino al 1928.
Autodidatta, dotato di forte carattere, in quel periodo arricchì le sue scarse
nozioni tecniche studiando con impegno i manuali tecnici della Hoepli e
frequentando corsi serali di perfezionamento sul disegno meccanico.
Alla fine del 1929, avendo effettuato una breve visita ai famigliari e compagni
di Reggio, venne riconosciuto e trattenuto quale «persona pericolosa», diversi
giorni nel carcere di San Tommaso, poi rispedito con foglio di via a Milano ai
primi di gennaio del ’30.
Nel breve tempo trascorso coi fratelli, apprese con sgomento che alla
fine del 1928 la casa paterna subì una irruzione da parte di una squadraccia
fascista che si concluse con l’incendio della stalla. Del grave fatto si sentiva
responsabile.
A Milano quale schedato politico subiva opprimenti controlli e così decise
di provare ad espatriare. Ottenne con difficoltà, aiutato da un compagno
«introdotto», un passaporto per la Svizzera quale operaio specializzato, quindi
con uno stratagemma passò in Francia.
A Parigi si mise subito in contatto con Paolo Davoli e Pietro Montasini,
riuscendo ad ottenere un primo precario lavoro. Nel luglio del ’30 faceva parte
del direttivo della sezione parigina collegata con le correnti di sinistra, per la
conclusione di un patto d’azione con i gruppi comunisti.
Proseguendo nell’attività politica, partecipa ad Amsterdam nell’ottobre del
’32 ad un congresso internazionale contro il fascismo. Non soltanto uomo
politico, Campioli a Parigi, migliorata anche la conoscenza della lingua, lavorò
poi per dieci anni in una fabbrica meccanica ove imparò la costruzione di
complesse macchine per la stampa: naturalmente premeva anche l’ordinario
sostentamento personale. L’esperienza detta gli consentì, una volta tornato a
Reggio, di impostare la prima organizzazione tecnica ad una importante attività
legata alla produzione speciale di macchine da stampa per l’applicazione su
corpi rotondi.
Nel 1933-34 partecipa a vari congressi e continua nell’attività di
coordinamento della dei gruppi comunisti sparsi nella grande città. Dal ’35 al
137
’37 fu segretario di raggruppamenti di lingua italiana della sezione parigina del
PCF e agli inizi del ’39, perdurando la guerra civile spagnola, reclutò uomini e
organizzò raccolte di materiali.
Il 5 giugno 1940 ha inizio l’occupazione tedesca della Francia. Campioli
dopo lo sbandamento iniziale, si occupò della organizzazione per la diffusione
della stampa clandestina nella capitale tessendo una rete di fidati collaboratori.
Per circa tre anni, avendo anche aderito ai gruppi del Maquis, svolse rischiose
attività varie cospirative contro l’occupante, collaborando attivamente ad atti
di sabotaggio in zone militarizzate, muovendosi sotto il pericolo di essere
scoperto dai tedeschi.
Improvvisamente arriva dall’Italia il 25 luglio 1943, come una bomba, la
notizia della fine del regime fascista: Mussolini esautorato dal re, Badoglio
promosso capo del governo. I momenti di sfrenata gioia dovettero essere
subito accantonati, poiché arrivò dalla direzione del PCI al Campioli la direttiva
che i quadri comunisti emigrati dovevano subito trasferirsi in Italia.
Il governo Badoglio però non aveva revocato i mandati di cattura relativi agli
antifascisti. Infatti, Campioli era iscritto alla rubrica di frontiera di Bardonecchia,
con scheda segnaletica riportante «provvedimento di arresto».
Così dopo quattordici anni di permanenza, partì da Parigi con la famiglia
che nel frattempo aveva formato, verso la fine di luglio. Giunto alla frontiera,
dopo rapido controllo dei documenti, venne subito arrestato dai carabinieri e
trasferito alle carceri di Susa assieme ad un compagno che poi rivelò essere
Giuseppe Saragat. La famiglia fu fatta procedere. Fu trattenuto in carcere fino
al 20 agosto, mentre Saragat fu liberato una settimana prima.
Arrivò finalmente a Reggio ed ebbe la gioia di riabbracciare l’amico e
compagno Paolo Davoli che lo attendeva in stazione.
Davoli era rientrato in Italia nel ’39. Dopo un commosso saluto ai famigliari
a Cavazzoli e sistemata la moglie e la figlia, venne subito incaricato dalla
federazione di organizzare la creazione di un movimento unitario e allo scopo
si incontrò alcune volte con l’avvocato Pellizzi.
Seguirono alcuni sondaggi preparatori per concretizzare il 28 settembre
nella canonica di San Francesco, in pieno centro, grazie alla coraggiosa
ospitalità di don Lorenzo Spadoni, la prima riunione ufficiale del CLN reggiano.
Interrompiamo la cronologia degli avvenimenti, per rendere noto un
periodo legato alla assenza di Campioli da Reggio, dal luglio al settembre ’44.
In tale periodo venne chiamato a dirigere la federazione comunista di Parma.
In uno degli spostamenti in bicicletta legati alla nuova attività, fu fermato
quindi arrestato da militi fascisti e da questi consegnato alla polizia tedesca,
assieme al dirigente Giorgio Amendola col quale aveva appuntamento.
Amendola si muoveva con falsi documenti intestati ad un certo avvocato Re di
Roma e subito animatamente contestò il suo arresto.
Dal viottolo periferico dove venero bloccati, i due, ammanettati, vennero
caricati su un automezzo e portati in città in un grande edificio dell’istituto
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case popolari e adibito a comando della polizia militare tedesca, la SD.
Dopo quattro giorni preoccupanti trascorsi nella cantina dello stabile
adattata a prigione, con la guardia fissa di brigatisti neri, senza comunicazione
alcuna, alla sera sul tardi senza avere avuto nulla dello scadente solito cibo,
Campioli venne fatto uscire e scortato all’ultimo piano dello stabile.
Come scrive il Campioli stesso nel suo libro, «l’orario non lasciava presagire
nulla di buono». Nella grande sala c’erano alcuni soldati seduti con le armi
appoggiate sul tavolo; uno pareva un ufficiale ma non aveva il berretto e
l’illuminazione era scarsa.
Quello che parlava uno stentato italiano, disse bruscamente al prigioniero
di avvicinarsi al tavolo; gli venne subito chiesto dei suoi rapporti nei confronti
dell’avvocato Re, della sua identità e posizione. «L’atmosfera era molto tesa, si
respirava un aria pesante: tutto aveva l’aspetto di un improvvisato tribunale
piuttosto sbrigativo». (Campioli).
Circa l’avvocato Re l’interrogato rispose, nel modo più naturale possibile,
che non l’aveva mai visto e che non sapeva nulla sulla persona. Non insistettero.
Per se stesso Campioli esibì (con molto coraggio!) un falso permesso,
come emesso dal comando piazza (Ortskommandantur) di Reggio Emilia,
autoredatto, con timbro e firma falsificati (testimonianza del nipote Raffaele
raccolta dallo zio Cesare). Aggiunse come altro alibi, questo autentico, che la
sua presenza a Parma era dovuta a pratiche che stava curando, relative alla
morte di un suo cognato investito da un automezzo tedesco.
Dopo un confabulare fra il presunto ufficiale e un collega, il primo si alzò,
prese il telefono ed ebbe una lunga conversazione a tratti animata.
Campioli sudava freddo: in condizioni psichiche provate, cercando di
dissimularle, venne fatto alzare e preso per un braccio, accompagnato verso
l’uscita. Il tedesco che parlava un po’ d’italiano lo guardava fisso con dura
espressione del viso, ma non disse parola. Scortato nella cantina, in uno stato
d’animo molto depresso, cercò di appisolarsi inutilmente. Gli mulinavano
nella testa: quale poteva essere stato l’argomento oggetto della telefonata
dell’ufficiale? E maggiormente un’altra preoccupazione assillante circa il
«permesso» presentato: era davvero stato riconosciuto ufficiale?
Trascorsero altri due giorni di angoscia e notti pressoché insonni senza
ricevere nessuna informazione. Il guardiano della brigata nera non profferiva
parola. Era forte la preoccupazione di finire lì i propri giorni! Ma al mattino
del terzo giorno la guardia nera aprì la porta della cantina-prigione facendo
cenno al prigioniero di uscire, dicendo in malo modo: «Puoi considerarti molto
fortunato!».
Campioli molto provato, subito temette di non capire. Dopo un attimo di
smarrimento, raccattò in fretta due cose personali sparse sulla branda e uscì
quasi incredulo nel corridoio. Non poté nulla dire ad Amendola dato che la
cantina dov’era rinchiuso era nel corridoio opposto. Seppe in un secondo
tempo che anch’esso fu liberato qualche giorno dopo.
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Un gruppo di giovani escursionisti reggiani fra i quali è Paolo Davoli (il primo a sinistra, in alto).
Ecco i loro nomi: fila in basso da sinistra a destra: G. Torelli, C. Campioli, A. Galingani, S. Iotti,
A. Manghi. Seconda fila: P. Fantozzi, Cucchi, E. Ciroldi, Varini, G. Bertani, R. Gallingani. Terza
fila in alto: P. Davoli, Riccardo Gallingani, R. Panciroli, A. Belloni, G. Orlandini. (L. Fanti, Paolo
Davoli Sertorio, Quaderni del decennale 2, Reggio Emilia 1955)
Riallacciandoci all’episodio sopraddetto, ci sembra importante precisare che
l’esperienza acquisita a Parigi dove lavorò su macchine da stampa, procurò
al Campioli una manualità di primo ordine. Infatti, dopo essere rientrato a
Reggio, eseguì, con arnesi di fortuna un timbro a forma rotonda, ad imitazione
di quello del comando tedesco, come si può notare nella riproduzione in
calce. Va considerata la perizia dell’esecuzione. Si ritiene che nell’episodio
dell’arresto di Parma, il timbro contribuì in modo determinante alla sua
liberazione, avendo dato «ufficialità» al documento.
Tornato a Reggio, trovò altri difficili momenti: apparivano proclami con
minacce di pena di morte, in un’atmosfera di oppressioni e violenze e dove
un minimo sospetto bastava ai fascisti per procedere ad arresti; automezzi
tedeschi che circolavano e carri armati coperti da frasche dislocati in punti
strategici.
E venne finalmente il 25 aprile!
All’alba dello stesso giorno, Cesare, stanchissimo, infreddolito, dopo una
notte convulsa, emozionante ed insonne, si diresse a piedi verso la casa paterna
con l’unico desiderio di dormire. Incontrò per strada, (oggi via Rinaldi) quasi di
fronte alla chiesa, il compagno attivista militante Michele Rovacchi raggiante e
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felicissimo dalle notizie apprese nella notte. Si scambiarono un forte abbraccio
convulso e alcune frettolose, ma gioiose parole.
Si divisero subito: Cesare in direzione della propria casa, mentre Michele,
esultante e quasi ebbro, pedalava vigorosamente sulla sua vecchia bicicletta
in direzione della città, agitando, col pugno chiuso, un braccio verso l’alto
gridando: «Lèe finida! Lèe finida! Lèe finida!» (in un bel dialetto). (Testimonianza
di un mio zio, Arnaldo Manghi, amico di Paolo Davoli, deceduto nel 1998.
Nella foto di gruppo è l’ultimo in basso a destra).
Oggi a Michele Rovacchi è stata intitolata una via a Cavazzoli, in seguito
a una biografia inviata all’ufficio toponomastica, redatta da chi scrive. Anche
Rovacchi era mio zio (paterno).
Nei giorni immediatamente successivi, per disposizioni e accordi con il
CLN, Campioli venne nominato sindaco della città e Pellizzi ebbe l’incarico di
prefetto.
BIBLIOGRAFIA
C. CAMPIOLI, Cronache di lotta, Edizioni Guanda, Parma1965.
L. FANTI, Paolo Davoli. Sartorio in «Quaderni del decennale», n. 2, marzo
1955.
COMUNE DI REGGIO E, C. Campioli, operaio, antifascista, sindaco della
Liberazione, (a cura di G. Soncini), Ed. Centro Stampa del Comune di Reggio
Emilia, 1981.
A. CANOVI, L’orma di Paolo, Ed. III Circoscrizione Comune di Reggio
Emilia, 1991
FONTI
Raffaele Campioli (nipote di Cesare) testimonianze; conserva il timbro «tedesco».
Giulio Montanari la sua preziosa testimonianza su Enzo B. ha dettato l’episodio
della tentata cattura.
Ermes Tondelli memorie, «Due martiri una scuola»; manoscritto in proprio con
annessa pianta di Cavazzoli e San Giulio, 1981.
Alfredo Nizzoli (Bosco) e Franco Fabbi (Robert), appartenenti al gruppo SAP di
Cavazzoli; testimonianza del 23 aprile 1947 sulle azioni dei medicinali al Casino
Nobili e del burro alla cremeria di Sesso.
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Una traversata sciistica
Un ebreo in fuga dai nazisti
Giulio Campagnano
Giulio Campagnano, con la moglie Luisa Brolis, la nipote e un’amica. La foto è stata scattata
dalla figlia Lidia negli anni Ottanta.
Il racconto della fuga dall’Italia di mio padre, Giulio Campagnano,
classe 1905, ha preso la forma scritta che segue quando noi figli eravamo
ormai grandi o grandicelli. Nella sua forma orale, frammentata, carica di
interrogativi, sentimenti e considerazioni tanto personali quanto politiche
ed etiche, ha determinato fin dalla nostra prima infanzia il clima della
convivenza familiare e l’indirizzo educativo di noi tre: Alberto, Marcella e
la sottoscritta, nata dopo la guerra. Mio padre era un ebreo di Roma, le leggi
razziali lo avevano privato del lavoro oltre che di ogni diritto. Sulle amate
montagne del Nord aveva conosciuto Luisa Brolis, la figlia del veterinario
di Verdello, in provincia di Bergamo: lei, cattolica, maestra di professione,
disgustata dalle ruberie del fascismo, aveva osato la strada di quel matrimonio
142
anomalo, celebrato da un amico prete secondo il rito detto «paolino» previsto
per i matrimoni con un coniuge non convertito, e la cerimonia si era tenuta
a Bergamo il giorno precedente la promulgazione di quel dettato legislativo
particolare che proibiva i matrimoni «misti».
Gli sposi si stabilirono nel piccolo paese di campagna dove lui, laureato
in giurisprudenza, si era messo a fare il contadino e allevava api e conigli.
I contadini «veri» lo avevano accolto con rispetto e affetto: la loro diffidenza
si rivolgeva alle sue proposte di innovazione delle tecniche agricole, piuttosto
che al suo non frequentare chiese di sorta. La famiglia Brolis era molto amata
a Verdello, ricca com’era di prestigio e povera di soldi, il che era un titolo
d’onore, a quel tempo: significava onestà e generosità.
Dopo l’8 settembre però nessuna protezione, né quella familiare né quella
del paese, bastava più: sia a Verdello che a Branzi, dove la famiglia sfollava
spesso a causa dei bombardamenti. Perché c’era, anche in quei paesi, chi aveva
scelto di militare per la repubblica di Salò e per l’invasore tedesco, e cercava gli
ebrei. Di qui la scelta – tormentata – di nascondersi in una baita nei pressi del
borgo montano di Parre, e poi l’espatrio e, per la prima volta forse, quel sentirsi,
nonostante le manifestazioni di solidarietà ricevute, (il «Polo» e il Bellarmino,
tra gli altri, non uscirono mai più dai nostri ricordi) un senzapatria, un
abusivo, un fuorilegge minacciato ogni giorno da pericoli che andavano
facendosi sempre più chiari nel loro orrore. Una parte della famiglia romana
di mio padre, infatti, fu deportata e sparì in un campo di sterminio, i nonni e
gli zii si nascosero in un convento sul Gianicolo. Durante la permanenza in
Svizzera, come risulta dai diari in forma di lettere ai suoi cari che mio padre
ci ha lasciato, l’angoscia per la loro sorte insieme a quella per un futuro che
non si riusciva a immaginare ma appariva disperato tormentava mio padre
come tutti i suoi compagni di sventura, nonostante la coltivazione quotidiana,
insieme alle patate, della dignità e della speranza, e il prepararsi a capire
meglio il mondo e la politica per diventare capace di contribuire alla rinascita
di quella che si ostinava a chiamare la sua patria.
Tornò dalla Svizzera a Verdello nell’aprile del 1945, accolto da gente in festa
che inseguiva vociando quel compaesano adottivo ricomparso all’improvviso a
tutta velocità su una bicicletta presa in prestito.
Perché a un certo punto decise di scrivere qualche memoria? Alla mia
domanda rispose, semplicemente, che scrivere gli piaceva, ma credo che anche
altro determinasse la sua scrittura: la percezione di un «voler dimenticare»
che andava diffondendosi. Ricordo bene come, alle elementari e alle medie, io
fossi l’unica a narrare di persecuzioni e di orrori nazifascisti: le mie piccole
compagne non ne sapevano niente, e niente trasmetteva la scuola. Quel
silenzio mi turbava. Se mio fratello e mia sorella hanno dovuto certamente
confrontarsi con l’enigma della sparizione del papà dalle loro vite, anche la
terza figlia recepì un complicato messaggio identitario : siamo (un po’) diversi
da altri perché siamo inclini a ricordare cose diverse. Cose enormi, pesanti.
143
Cose che riguardano la Storia. Essere uguali è un ideale da raggiungere, un
impegno, un attivo e consapevole essere parte dell’umanità che è una sola e
ci accomuna. Mio padre esprimeva con parole sue quel che ha scritto Primo
Levi: è accaduto, dunque può accadere di nuovo. Vigilare è un dovere e una
necessità.
Insomma, abbiamo ricevuto un’eredità. A questo serve, tra l’altro, la
scrittura.
Lidia Campagnano
La fila dei sei uomini si snoda lentamente nella nebbia che nasconde la
montagna, con gli sci che affondano nella neve, attraversa i canaloni che
rompono il pendìo bianco, supera i costoloni che scendono dalle alte creste,
raggiunge gli alti pascoli coperti dal manto nevoso dove le folate di nebbia e
nevischio diventano più aggressive
Eravamo partiti da Chiesa Val Malenco verso le tre del pomeriggio con
l’intenzione di attraversare il confine al Passo del Muretto, oppure, in caso
di presenza dei tedeschi a Chiareggio, più in alto, al Passo Tramoggia, che si
trovava a circa tremila metri.
All’albergo avevo lasciato mia moglie che mi aveva accompagnato fin là con
mio cognato Tonio. Avevo riveduto mia moglie alla stazione di Bergamo dopo
tanti giorni di separazione durante i quali ero stato in una baita sulle montagne
della Val Seriana dove per tutto il mese di novembre avevo visto l’autunno
ingiallire i boschi mentre le notizie giungevano frammentarie e confuse portate
da quelli che fuggivano dalla città e venivano a rifugiarsi in montagna perché
ricercati dai fascisti o dai tedeschi.
Si era in dicembre e cominciava il triste inverno del ’43.
Prima di partire Tonio era andato all’atrio della stazione ad incontrarsi con
mia moglie Luisa e a vedere se ci fosse qualche controllo dai partenti da parte
dei militi fascisti o tedeschi. Era ancora notte. Io ero rimasto solo, vicino a un
muro che accresceva l’oscurità intorno a me; ero fermo e guardavo le ombre di
quei pochi che si affrettavano verso il loro treno, ognuno con la propria sorte
sulle spalle ingobbite dal freddo e dai loro pensieri: poi partimmo.
Nel vagone quasi deserto e poco illuminato, sulle panche di legno, restammo
a lungo in silenzio. Eravamo d’accordo che se ci fosse stato qualche pericolo per
causa dei tedeschi o dei loro amici io dovevo essere considerato un estraneo,
perché sarebbe stato inutile mettere nel rischio mia moglie e mio cognato.
Pericoli ce n’erano sempre, in quei momenti. Quando arrivammo a Sondrio
e cercammo di salire sulla corriera per Chiesa questa era così affollata che non
riuscimmo a prenderla. Allora ci recammo a Chiesa con un auto a noleggio. La
corriera venne poi fermata da militi fascisti che avevano controllato l’identità di
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tutti i passeggeri, per fortuna senza conseguenze. E noi non eravamo provvisti
neanche di documenti falsi che ci potessero proteggere.
La proprietaria dell’albergo, alla quale eravamo stati indirizzati da un amico,
era una donna dal fare cortese ma deciso, che aveva già aiutato altre persone
a varcare clandestinamente il confine per sfuggire alla cattura e alla morte.
Mandò subito ad avvertire le guide che dovevano accompagnarmi, ma queste
non erano disponibili, ci dissero, perché già impegnate in montagna. Allora la
piccola signora decise che da quel momento avremmo dovuto starcene nelle
nostre stanze, anche per consumarvi i pasti, finché le guide non fossero tornate.
Così avevamo passato due giorni in attesa.
Finalmente le guide arrivarono e prendemmo gli accordi per partire il
pomeriggio del giorno dopo.
Era l’8 dicembre. Il cielo era coperto e si sentiva nell’aria la nevicata imminente.
Con Tonio attraversai il paese seguendo a distanza una donna che portava
nascosto nel gerlo il mio sacco da montagna con quelle poche cose da portare
con me in Svizzera.
Giunti in mezzo alle case di una frazione al di là del torrente ci eravamo
ritrovati nella casa di «Polo», guida alpina, espertissimo della montagna, così
appellato perché era stato con il capitano Sora al Polo Nord alla ricerca di
Nobile e dei dispersi del dirigibile «Italia». Con noi veniva anche il portatore
Bellarmino.
Da quella casa avevamo preso il sentiero per la montagna. I miei passi
avevano preso il ritmo del lungo cammino, staccandomi dai miei, da mio
cognato, che dopo un furioso abbraccio non aveva più la forza per salutarmi,
appoggiato all’angolo di una delle ultime case. Era lì contro il muro di sassi
di quella povera casa di montanari e anche lui era una sembianza umana che
esprimeva il dolore di tutti in quei momenti, il dolore della nostra miseria già
visibile in quei sassi contro i quali sosteneva la sua pena come alla ricerca di
una solidarietà che lo aiutasse: il dolore del ’43, della nostra gente che pure mi
dava aiuto con quei due uomini che mi conducevano verso la salvezza senza
essere nemmeno sicuri della loro salvezza, loro che restavano, come tutti i miei,
in una Italia dove non c’era più pace per nessuno.
Pernottammo in una baita al limite del bosco dove cominciavano i pendii
nevosi. La sera era giunta presto, anzi più presto perché il cielo era grigio, era
sempre stato grigio nei giorni precedenti, o così mi era parso e, al calore del
fuoco acceso nel camino, nel fumoso ambiente, ancora e ancora mi apparivano
i visi dei miei cari, i musini dei miei due piccoli che avevo lasciato. Perché non
erano con me? Perché io dovevo salvarmi? C’era forse una maggiore sicurezza
per loro, per tutti loro che erano rimasti a casa?... Già dopo l’8 settembre io
avevo pensato ad organizzare un nostro esodo in Svizzera, con moglie e figli, da
Branzi dove ci trovavamo in previsione di quello che sarebbe successo. Ma poi
mi ero lasciato convincere che il tentativo era troppo incerto per l’incolumità
e per la salute dei miei piccoli, di due e quattro anni. Avevo fatto bene o
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male a rinunciare? Ora che ero nel vivo della realtà, non solo nell’astratto di
una previsione, mi rendevo conto che il mio espatrio mi aveva reso uguale
a tutti coloro che avevano subito il terrore dei bombardamenti nelle città, la
deportazione nei vagoni piombati, il ferro nelle carni piagate, uguale nella
coscienza del nostro tormento e delle nostre miserie. E con quale speranza?
Non lo sapevo e tuttavia me ne andavo in cerca di salvezza.
Alla baita è giunto un altro fuggiasco, anche lui accompagnato da due guide.
Anche lui ha lasciato la moglie ed una bambina che si ritengono protetti da una
religione che non è la sua. Non conosce l’uso degli sci e quando al mattino
iniziamo la lunga traversata nella neve alta, solo la sua volontà tenace lo aiuta
a procedere faticosamente per ore ed ore.
Dobbiamo tenerci alti perché sappiamo della presenza di alpini tedeschi
in fondovalle. Il tempo cattivo ci protegge per tutta la lunga salita con nebbia
e raffiche di neve che ci occultano alla mira di ogni binocolo che scruti la
montagna. Attraversiamo colatoi e canaloni con le cautele suggerite dal «Polo»
per evitare di provocare una valanga, seguiamo la profonda pista tracciata dal
primo della fila sollevando lo sci ad ogni passo.
La fila degli uomini procede lentamente mentre le guide si alternano a
battere la pista che si snoda fra boschi e rocce e poi fra gli alti pascoli coperti
da una neve pesante nella quale si affonda fino a mezza gamba.
Altre volte avevo fatto lunghe, lunghissime traversate sciistiche sulle deserte
montagne dell’Abruzzo e sulle Alpi, durante un’intera giornata iniziata fin dalle
ore notturne e il mio essere aveva segretamente gioito di quelle marce che
mi portavano in alto, in zone desertiche e silenziose dove il ricordo delle mie
letture giovanili su esplorazioni di terre nuove mi esaltava come se ritrovassi lo
spirito di avventurose spedizioni. Anche ora i miei muscoli rispondono bene
alla durata dello sforzo. Ma ora non mi trovo con una spensierata compagnia di
amici, ora c’è una diversa atmosfera. L’impegno della salita è uguale e sembra
distogliere il pensiero da tutto quello che sto lasciando dietro di me, ma l’aria,
la stessa montagna sembrano diverse, non sono fini a se stesse, non mi danno il
piacere di respirare profondo, il piacere della mia forza e del paesaggio che mi
circonda. Anche senza pensarci mi accompagna la sensazione della stranezza
che in piena guerra io stia facendo dello sport sciistico mentre a poca distanza
da me altri uomini stanno facendo questa guerra che colpisce tutti e potrebbe
colpire anche i miei più cari.
La punta dei miei sci si apre la pista in una neve che sembra grigia e ostile
come la montagna intorno a confronto con la neve e con le cime dell’Abruzzo
quando entravano a far parte del mio godimento e rispondevano lietamente al
mio muto richiamo.
Ora l’8 settembre è scoccato come l’ora della nostra condanna e, mentre
nelle città e nelle pianure gli uomini neri hanno ripreso a sferzare le turbe
sotto lo sguardo freddo dei padroni tedeschi, nelle vallate alpine stanno ancora
uomini che si sentono liberi perché lontani da un supposto fronte di guerra,
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uomini che si cercano per unirsi ed organizzare qualcosa, uomini che per primi
hanno fatto una scelta per far rinascere in tutti una speranza, e le valli sono
percorse in su e in giù da gente ancora incerta sulla propria sorte e su quella
di tutti gli Italiani.
Sostiamo per un breve riposo presso una baita chiusa e la porta serrata
in mezzo al muro grigio della facciata, nella luce fredda di un cielo chiuso,
accresce il senso dell’indifferenza delle cose dinnanzi al tormento degli uomini.
Il mio compagno, spossato dalla fatica inconsueta, non ha più la forza di
parlarmi e siede abbandonato su di un masso con la buffa testa ricoperta da
un turbante di astrakan nero donatogli dalla moglie al momento della fuga e
sembra che la sua testa, divenuta più grossa, sia spinta sempre più in basso da
un enorme peso. Eppure è un uomo giovane e sereno, come lo conobbi poi
durante la nostra convivenza in Svizzera, fornito di un temperamento serio, da
scienziato, che svolse infatti felicemente, durante l’internamento, la sua attività
di chimico e che, dello studioso astratto dalla realtà quotidiana, conservava
una specie di ingenuità fiduciosa verso gli altri, lasciandosi guidare da chi lo
preservava dalle asperità pratiche della vita.
Riposiamo per un po’ davanti a quella baita, in silenzio, uomini di
temperamento e di abitudini diverse che la guerra ha riunito su quello spiazzo
nevoso e che sentono tuttavia di essere uniti da una solidarietà che supera le
diversità esistenti specialmente tra noi due profughi e le guide, sebbene tra me
ed esse la comune conoscenza della montagna e la mia abitudine ad avvicinare
la gente dei monti attutiscano quella differenze. Ma il mio compagno ed io
siamo sempre per le guide gente di città ed è diverso il tono con il quale i
montanari parlano fra loro e il tono con il quale si rivolgono a noi due. Soltanto
il «Polo», il buon Pedrotti, da uomo che è disposto a sacrificare anche la vita
pur di mantenere l’impegno di salvarci, ha una nota nella voce che, anche se
consapevole di essere il capo guida, quando si rivolge a noi si attenua in un
tono quasi paterno.
Riprendiamo la salita, ancora per ore in silenziosa lotta con il pendio, spesso
ripido, nella neve alta e pesante e la nebbia che a volte ci avvolge da vicino e
diventa più fitta e poi più scura ci annuncia che il sole sopra di essa si avvia
al tramonto e che si avvicina la sera. Finché usciamo dalla nebbia e vediamo
vicino il Passo del Muretto con il palo che segna il confine.
Lo raggiungiamo che è ormai sera e il vento ci investe con raffiche che
vengono dal versante italiano. Mi volto per un muto appello e mentre ricevo
sul volto le folate di neve sollevata dal vento guardo all’orizzonte lontano la
sagoma scura delle Alpi Orobiche stagliarsi nell’oscurità rossastra. Distinguo
il Pizzo del Diavolo e le altre cime vicine, vicine ai miei cari che stanno in
montagna in quel paese di Branzi dove ho vissuto tanto tempo accanto a
loro, quando le notizie giungevano lassù dalla pianura con gli uomini che ne
fuggivano le notti illuminate dai bombardamenti e i giorni carichi di minaccia
opprimente.
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Care montagne bergamasche, dove mi sono aggirato tante volte solo o con
i miei amici e parenti montanari, con mia moglie, la mia compagna forte e
sensibile, con il mio piccolo che mandava avanti le sue gambette quando
poteva scendere dalle mie spalle e mi accompagnava come un ometto dallo
sguardo pensoso, come se intuisse ciò che ci sovrastava!... La nostra vita a
Branzi!
Ormai ci consideravamo quasi dei montanari e quando i miei giovani cognati,
che pure volevano sfuggire ai bandi di chiamata alle armi del regime fascista,
venivano con me a far legna nei boschi per l’inverno imminente sembrava che
tutto dovesse continuare così, che la montagna ci avrebbe protetto senza un
preciso atto di volontà da parte nostra per dare agli avvenimenti una svolta
decisiva verso la liberazione dalla guerra, dalla violenza, dalla paura.
Ora dovevamo prendere la discesa su Maloia. Era notte, ma la luna ci
illuminava nel gelo del versante nord, in un cielo libero, in una luce che ci
permetteva di evitare il letto dei torrenti nascosto e reso insidioso dalla neve
che li copriva.
Ci rifugiamo un po’ in una baita a mangiare qualche cosa bevendo grappa
a grandi sorsate rese inoffensive dal grande freddo e riprendiamo subito la
discesa.
Il mio compagno ora non ne può più, si è già lasciato andare sulla neve più
volte dichiarando di non volersi più muovere. Le sue guide ormai vorrebbero
liberarsene, essendo in territorio svizzero e ci vuole tutta la mia energia per
imporre loro di assisterlo fino in vicinanza dell’abitato. Siamo giunti infine a
poche centinaia di metri dalle prime case di Maloia e lì ci separiamo dalle
nostre guide che ritornano indietro con i nostri sci legati sulle spalle.
Do al caro «Polo» il compenso pattuito: veramente irrilevante in confronto al
loro rischio e alla loro fatica, e una lettera già preparata per annunciare ai miei
il mio arrivo in Svizzera, che il Pedrotti si è offerto di impostare al suo ritorno
a Chiesa, ed infine stringo forte la mano a lui e al Bellardino staccandomi da
loro come se lasciassi due fratelli.
Seguito dal mio compagno al quale ho cercato di infondere ancora un po’
di energia, prescrivendogli di calcare addirittura le mie orme, affinché non si
lasci cadere nella neve, mi avvio verso le case silenziose nel freddo notturno
in cerca di un rifugio.
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Il «San Lazzaro» e il movimento
antimanicomiale italiano
L’esperienza reggiana
Intervista a Christian De Vito
Francesco Paolella
Christian De Vito è un giovane storico, che si occupa da tempo della storia
del sistema penitenziario italiano, tema a cui ha dedicato anche la tesi di laurea
in storia contemporanea, all’università di Firenze. Si è quindi perfezionato alla
Scuola normale superiore di Pisa. Si interessa anche di storia della psichiatria,
di politiche migratorie e di altri ambiti del welfare. Nel 2009 ha pubblicato
per i tipi della casa editrice Laterza Camosci e girachiavi. Storia del carcere in
Italia.
Lo abbiamo incontrato a Bologna, nell’ottobre 2009.
Perché hai deciso di dedicarti alla storia del carcere nell’Italia del Novecento
e poi di scrivere questo libro?
Tutto è partito dalla mia tesi di laurea. Volevo impegnarmi in una ricerca di
storia sociale sull’Italia degli anni Sessanta e Settanta. Inizialmente non avevo
pensato alla realtà del carcere, che non conoscevo. Anche in seguito, del resto,
ho inteso dare un taglio non soltanto istituzionale al mio lavoro, considerando
il carcere come un osservatorio dell’Italia degli anni del boom e della stagione
dei movimenti. Il filo conduttore della mia ricerca, che ha portato a una
tesi di 1200 pagine, è stato appunto il tentativo di leggere la storia sociale
italiana attraverso il carcere, da dietro le sbarre per così dire. Ho cercato di far
emergere la dialettica fra la realtà carceraria italiana e le spinte che premevano
dall’esterno su di essa. Per il libro, poi, ho ulteriormente accentuato questa
impostazione, provando a rivolgermi soprattutto ai non specialisti di carcere:
se la «questione carcere» è in primo luogo una grande questione sociale, è
giusto che tutti ne siano informati e possano farsene un’opinione.
Ed oggi continui ad occuparti di questo tema.
Sto per cominciare una ricerca per l’università di Lovanio, in Belgio.
Approfondirò il periodo più in ombra del secondo dopoguerra, quello fra il
1945 e il 1968, gli anni del «carcere pacificato»: in quella fase è cambiata la
popolazione carceraria, ma il carcere è rimasto una realtà impermeabile, del
tutto chiusa, nella quale sono falliti tutti i tentativi di riforma. Era presente
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allora una prospettiva soltanto tecnica di cambiamento, una utopia tecnicistica
affermatasi negli anni Cinquanta che è poi crollata con i movimenti del ’68.
Negli anni Cinquanta di carcere parlavano soltanto giuristi, tecnici, criminologi.
È stato dal ’68 che a parlare di carcere sono stati anche altri soggetti, in primo
luogo i detenuti stessi.
In quest’ottica, mi interessa ora una prospettiva comparativa con il caso belga
e con quello francese, che mi può permettere di allargare la riflessione anche
su altri aspetti della storia sociopolitica e culturale: il problema dell’epurazione
nel dopoguerra; la circolazione delle idee criminologiche e giuridiche a livello
europeo; il ruolo del volontariato e lo sviluppo dell’assistenza sociale; il
rapporto tra religione e concezione della pena.
Tu da molto tempo hai affiancato all’attività di ricerca quella di militante
nei movimenti per i diritti dei detenuti.
Sì, questo intreccio di ricerca e attivismo è iniziato il giorno stesso in cui ho
deciso di occuparmi di carcere, quando ho telefonato al carcere di Sollicciano,
a Firenze, ed ho iniziato anche a lavorare come volontario dall’altra parte
del muro di cinta. Sono poi nati a Firenze una serie di gruppi per favorire
il collegamento fra detenuti e società esterna. Ho fatto parte del gruppo
«Istituzioni totali» del Firenze social forum, alla cui base stava l’idea che le
politiche neoliberiste comportano un inevitabile maggiore ricorso alle pratiche
di esclusione sociale, fra cui, non ultimo, anche il carcere. Dal 2004 è poi sorto
il gruppo «Dentro e fuori le mura», per metà formato da ex detenuti e legato
alla commissione interna del carcere di Sollicciano. Successivamente è anche
nato un coordinamento, «Voci dal carcere», composto sempre da ex detenuti,
membri di associazioni di volontariato e attivisti. Oggi sono presidente
dell’associazione «Liberarsi» (per info: www.informacarcere.it), composta di
detenuti, in particolar modo ergastolani, e che si batte, con la campagna «Mai
dire mai», per l’abolizione dell’ergastolo.
A mio parere il collegamento tra ricerca e militanza è fondamentale.
Una cosa richiama l’altra: l’attivismo permette di superare una visione tutta
accademica dell’argomento studiato; il lavoro di ricerca consente di dare una
base solida all’intervento politico e sociale, che altrimenti rischia di trasformarsi
in un’affannosa rincorsa alle emergenze.
Tendo a vedere il mio lavoro come una permanente attività di inchiesta, che
tiene insieme la ricostruzione del passato e lo sguardo sull’oggi, l’attenzione
scrupolosa alla critica delle fonti storiche e l’ascolto dei molti punti di vista
che si intrecciano nel tessuto sociale, nei tanti luoghi di cui è fatta la società.
Mi piace pensare in verità che la ricerca possa diventare in futuro qualcosa
di molto più democratico, di radicalmente democratico: non il prodotto del
lavoro di un singolo studioso, ma il frutto di un processo collettivo di memoria
e di conoscenza; non l’attestazione di chissà quale dote accademica individuale,
ma l’affermazione della soggettività di tutti coloro che sono protagonisti di
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quella parte di storia sociale che si intende ricostruire. Penso per questo ad
esperienze del passato recente, che sarebbe bene riprendere in mano: la conricerca dei «Quaderni Rossi», le «150 ore», la rivista «Inchiesta», per restare in
Italia; ma credo che bisognerebbe anche abituarsi a guardare oltre i confini, ad
esempio verso i Subaltern Studies indiani, la storia orale brasiliana, la pratica
di inchiesta dei paesi scandinavi.
Hai avuto molte occasioni di presentare il libro in un carcere?
Tutto dipende dalla disponibilità dei direttori, ovviamente. Sono stato nel
carcere di Lauro (un carcere molto piccolo vicino ad Avellino), nella casa di
reclusione di Padova, presto sarò nel carcere di Bollate, a nord di Milano (una
grossa struttura, con circa 950 reclusi) e poi andrò nello storico penale di
Porto Azzurro. Le presentazioni in carcere sono discussioni serrate, non facili
per me anche dal punto di vista emotivo. Parlare di storia del carcere in un
carcere vuol dire incontrare persone che hanno vissuto in prima persona quei
passaggi storici che io ho cercato di descrivere nel mio libro e che vivono
anche oggi, quotidianamente, la detenzione.
Veniamo al tuo libro e partiamo dall’attualità. L’ultima parte di Camosci e
girachiavi è dedicata al tema del passaggio dallo stato sociale allo stato penale.
Negli ultimi venti anni si è verificata un’importante crescita del numero di
persone non soltanto passate per le carceri, ma in generale coinvolte nella
più ampia area penale. Volendo sintetizzare: oggi il carcere è soprattutto per
migranti («clandestini») e tossicodipendenti. Quali sono le ragioni di questo
boom penitenziario? Tu in particolare parli di neoliberismo, di globalizzazione
economica, di mutamenti radicali nel discorso politico sulla criminalità.
Per vedere cosa c’è nel carcere, secondo me bisogna porsi da un punto
di vista esterno al carcere. Tutta la letteratura più recente insiste sulla
connessione fra politiche neoliberiste e processi di ricarcerizzazione: è quindi
un fenomeno non solo italiano, anche se nei diversi paesi ha assunto dinamiche
differenti; ad esempio in Gran Bretagna si è assistito a un vasto fenomeno di
criminalizzazione dei minori. Ad ogni modo, anche in paesi che vantano una
forte tradizione abolizionista, come quelli scandinavi o i Paesi Bassi, il numero
dei detenuti è triplicato.
In Italia la situazione attuale deriva, a monte, dalla tendenza a condannare
a pene più lunghe (gli stessi ergastolani sono passati in venti anni da 300
a 1500) e ad inasprire la repressione verso tossicodipendenti e migranti, a
partire dai primissimi anni Novanta con la legge Martelli sull’immigrazione
e la legge Jervolino-Vassalli. Inoltre, un ulteriore, progressivo restringimento
si è avuto in uscita dal carcere. In particolare tre fattori hanno contribuito a
ciò: l’ampliamento dell’area dei reati ostativi (quelli cioè che impediscono
di accedere a misure alternative al carcere); la scarsità di organico della
magistratura di sorveglianza (fra l’altro schiacciata dalle pressioni sociali contro
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le «scarcerazioni facili»); le difficoltà nel trovare una casa e un lavoro una volta
usciti dal carcere. Esiste infine una specificità legata ai migranti, per i quali
formalmente vale il diritto alle misure alternative, ma che, essendo assai di
frequente senza permesso di soggiorno, passano dal carcere ai Centri per
l’identificazione e l’espulsione (CIE, ex CPT).
Nella lettura securitaria dei fatti sociali c’è stata una sostanziale continuità
fra governi di centro-destra e governi di centro-sinistra. È una tendenza
accentuatasi con il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica: la dottrina
sociale cattolica ed il punto di vista socialdemocratico in questo campo sono
stati messi da parte. Il discorso politico si è trasformato in una rincorsa a
provvedimenti sempre più repressivi. Non voglio con questo banalizzare le
differenze pure esistenti fra le diverse idee di governo, ma si tratta a mio parere
soltanto di sfumature: il centro-sinistra ha sempre cercato di coinvolgere anche
in questo campo gli enti locali, territorializzando il più possibile le politiche
sulla sicurezza; il centro-destra, invece, ha un’impostazione più centralista (si
pensi al decreto Maroni, dell’agosto scorso). La differenza è appunto quella
che intercorre fra i «patti per la sicurezza» e il «pacchetto sicurezza».
Il risultato di tutto questo è sotto gli occhi di tutti o, almeno, di chi vuole
vedere. Oggi assistiamo a un aumento vertiginoso dei nuovi ingressi, che
nella storia carceraria dell’Italia repubblicana eguaglia soltanto la situazione
dell’immediato dopoguerra: c’è un saldo di mille persone in più ogni mese,
fra il numero delle persone che entrano in carcere e di quelle che escono. Da
tutto ciò non possono che derivare condizioni intollerabili di sovraffollamento,
ossia problemi sanitari, igienici, psicologici. In sostanza: un drammatico
peggioramento nelle condizioni di vita delle persone detenute.
A qualche anno di distanza, come giudichi a questo proposito non l’indulto
in sé, ma gli usi politici dell’indulto, le speculazioni politiche e mediatiche,
nell’ambito dell’ideologia della «sicurezza»?
L’indulto era necessario, a fronte delle condizioni inumane di detenzione.
Sarebbe stato necessario che fosse accompagnato da una svolta politica,
nel senso della riforma del codice penale e dell’ampliamento delle misure
alternative. La speculazione politica e mediatica sull’indulto è andata invece
in direzione opposta, rivelandosi funzionale all’ulteriore rafforzamento delle
politiche repressive.
L’uso politico della sicurezza muta il vocabolario politico, modifica l’ordine
del discorso, la percezione della realtà. Un solo esempio: i migranti finiscono
di più in carcere a causa di precisi meccanismi di selezione penale, e invece la
loro carcerazione viene usata come argomento per dimostrare la loro maggiore
pericolosità.
Cosa resta dello spirito della legge Gozzini, a più di vent’anni dalla sua
approvazione? È uno strumento ormai svuotato?
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Quella legge, promulgata nel 1986, si riferiva a un tipo di detenuti che è
ormai minoritario. Pensava a un carcerato di nazionalità italiana, riconosciuto
colpevole di un tipo di reato che aveva in sé un’assunzione di responsabilità
che poteva evolversi nell’accettazione di un percorso di reinserimento. Il
che con ogni evidenza non corrisponde all’attuale carcere della «detenzione
sociale», che rinchiude in larga maggioranza persone imputate o condannate
per reati legati alla clandestinità o alla tossicodipendenza.
Della legge Gozzini è venuto così in primo piano l’aspetto «premiale»
e questo ha finito per contribuire alla desolidarizzazione del carcere, ha
individualizzato i detenuti, ovviamente interessati soltanto ai possibili benefici
e non più ad una rivendicazione collettiva dei diritti. A vederlo dal punto di
vista dei detenuti, questo aspetto rappresenta un fattore di netto peggioramento
rispetto al passato.
Dalla lettura del tuo libro, spiccano inevitabilmente gli anni Settanta, con
i diversi interessi politici sul mondo penale e penitenziario (e, più in generale,
sulle «istituzioni totali»), come momento storico in cui le carceri, i bisogni e le
voci sommersi in quei luoghi, sono riusciti a rompere l’isolamento, la chiusura
radicale a cui erano state condannate. Penso in particolare all’esperienza di
Lotta continua nei primi anni Settanta.
Lotta continua, ma non solo: anche gli anarchici, il Soccorso rosso, Potere
operaio, riviste come «Re Nudo»... Però in effetti Lotta continua è intervenuta
in maniera più sistematica sul carcere.
Secondo Lotta continua il carcere era per il sottoproletariato l’equivalente
di quello che la fabbrica rappresentava per il proletariato, ossia un luogo di
oppressione, ma anche di potenziale rivolta. In realtà, dentro il movimento
c’erano ampi settori che di carcere e sottoproletariato non volevano occuparsi.
La «Commissione carceri», attiva fra il 1971 e il 1973, era composta da non più
di quindici persone, favorita in quella fase dalla linea politica con cui Lotta
continua voleva appunto aprirsi dalle fabbriche verso il territorio.
Si è avuta allora una relativa sensibilizzazione dei movimenti verso il
mondo carcerario e contemporaneamente le carceri sono state attraversate da
un moto autonomo di politicizzazione di strati della popolazione detenuta. È
andata così un po’ in tutta l’Europa occidentale, dove tra il 1968 e il 1969 sono
nati movimenti collettivi dei detenuti. Quegli anni hanno rappresentato una
cesura netta, segnata anche da rivolte violentissime, impensabili fino a pochi
anni prima.
Questi due processi – politicizzazione all’interno e sensibilizzazione
all’esterno – si sono in parte incrociati: i militanti arrestati hanno incontrato
i detenuti comuni, che già si stavano muovendo. Sono gli anni del caso di
Valpreda, e poi del Soccorso rosso per i detenuti.
A mio avviso è molto interessante la differenza di impostazione di
atteggiamento verso il carcere fra Lotta continua e i gruppi della lotta armata.
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Lotta continua non puntava tanto alle evasioni, quanto piuttosto a creare
gruppi dentro le carceri e mantenere il più possibile contatti con l’esterno.
I gruppi di lotta armata, invece, davano del carcere un’interpretazione solo
ideologica: avevano il punto di vista esclusivo della detenzione politica. Lotta
continua, invece, non tralasciava una lettura sociale del carcere.
Una riflessione particolare merita in questo senso il caso dei NAP, gruppo
armato formato in larga parte da detenuti comuni che, abbandonati da Lotta
continua a metà degli anni Settanta ed esposti ad una repressione crescente,
finirono per fondersi con le Brigate rosse. La loro esperienza rappresenta un
punto fondamentale nel passaggio dai gruppi parlamentari ai gruppi della lotta
armata.
E gli anarchici?
Anche gli anarchici avevano nella loro tradizione una lettura sociale del
carcere (pensiamo a Emma Goldman), ma sono rimasti sul piano del «fuoco
alle galere», affermazione di un’opposizione tutta identitaria verso il carcereistituzione. Non hanno puntato a creare una forza interna al carcere, ritenendo
che questo avrebbe implicato una legittimazione dell’istituzione penitenziaria.
In sintesi, come ti sentiresti di descrivere i cambiamenti della popolazione
carceraria italiana dal secondo dopoguerra?
È esistita senza alcun dubbio una continuità di fondo: la popolazione
detenuta rispecchia costantemente l’emarginazione sociale, rappresenta
una selezione dall’universo dei «devianti». In questo contesto generale, la
discontinuità è relativa al tipo di gruppi repressi nei vari decenni attraverso il
carcere: negli anni del miracolo economico, erano gli immigrati meridionali i
più colpiti, mentre con gli anni Ottanta e poi negli anni Novanta sono stati i
tossicodipendenti il principale obiettivo, poi gli immigrati.
L’altro elemento da considerare è quello della repressione politica.
Proseguendo a ritroso, il tuo libro incomincia dalla Repubblica di Salò: il
mondo carcerario è stato davvero un segno esemplare dell’agonia del regime
repubblichino.
Quello era davvero un regime che voleva essere totalitario e che è stato
senza dubbio il più arbitrario. Nel libro ricordo la formula usata da John
Foot, quella di «anarchia nella dittatura», ossia la completa assenza di legalità
e ordine, pur pretendendo di disciplinare tutto. Guardare alla RSI da dietro le
sbarre permette di osservare bene questo aspetto fondamentale della storia di
quel periodo.
Un’altra questione storiografica centrale è quella del ruolo delle carceri
nel processo di deportazione dall’Italia, nell’ambito più ampio del rapporto
fra autorità fasciste e naziste. Queste ultime hanno istituito propri uffici nelle
carceri italiane – è un aspetto ancora poco studiato – finendo per utilizzare il
carcere per meri motivi di repressione poliziesca, al fine della deportazione.
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E come sintetizzeresti una storia dei rapporti fra sistema penale italiano e
sinistra istituzionale?
Nella sinistra istituzionale è sempre prevalsa una visione da ordine pubblico
del carcere, senza una vera apertura alla questione sociale. Esempio lampante
di questa prospettiva è stato nel dopoguerra l’atteggiamento del guardasigilli
Togliatti verso le rivolte nelle carceri. Per giustificarne la repressione egli è
arrivato a usare l’argomento – del tutto pretestuoso, come ho potuto verificare
– che quelle proteste erano di marca fascista. La stessa impostazione è poi
ricomparsa contro la lotta armata e, in verità, contro l’insieme assai eterogeneo
dei movimenti sociali che erano attivi in Italia sul finire degli anni Settanta.
In questa visione tutta statalista, il carcere appare come un’istituzione
pienamente legittimata, le cui contraddizioni rispetto allo sviluppo politico e
sociale sono poste sullo sfondo o completamente rimosse. Se si segue questo
filone di pensiero lungo i decenni, non stupisce poi, giunti agli anni Novanta
e alla fase attuale, la sostanziale e massiva adesione della sinistra «di governo»
al discorso securitario.
Da un punto di vista storico, colpisce inoltre la scarsa preparazione della
sinistra istituzionale sulla questione carceraria, dall’epoca della Costituente
fino almeno agli anni Settanta. La principale eccezione è rappresentata dal
Centro per la Riforma dello Stato, legato alla sinistra del PCI, da cui è emersa la
sinistra garantista (oggi rappresentata ad esempio dall’associazione Antigone)
che, sia pure minoritaria, negli anni Settanta ed Ottanta ha saputo collegarsi
al mondo degli indipendenti cattolici, come lo stesso Gozzini, svolgendo un
ruolo centrale nella riforma penitenziaria.
Nel corso delle tue ricerche, ti sei anche occupato diffusamente del caso
reggiano, dedicandogli la tesi di dottorato, I «tecnici ragazzini». Operatori
sociali, medici e tecnici nei movimenti degli anni Settanta a Reggio Emilia.
Hai anche pubblicato un saggio sui «saperi speciali» in un recente volume sugli
anni Settanta a Reggio (Tempi di conflitti, tempi di crisi. Contesti e pratiche
del conflitto sociale a Reggio Emilia nei «lunghi anni Settanta», a cura di L.
Baldissara, L’ancora del Mediterraneo, 2008). In particolare, ti sei dovuto
occupare delle lotte contro il manicomio del «San Lazzaro» come «istituzione
totale». Che cosa ha significato quel movimento? Penso anzitutto evidentemente
alla creazione nel 1969 del Servizio psichiatrico provinciale e alla figura di
Giovanni Jervis, a capo del Servizio fino al 1975.
L’esperienza reggiana rappresenta senza dubbio un lato specifico e originale
del movimento antimanicomiale italiano. Ha rappresentato anzi un modello,
alla cui base stava l’idea di chiudere il manicomio attraverso la costruzione di
un sistema di servizi dall’esterno, sul territorio, in alternativa e senza contatti
con l’ospedale psichiatrico. Era il modello opposto a quello seguito a Gorizia,
ad Arezzo, a Perugia, dove lo smantellamento dell’istituzione manicomiale si
è sviluppata dall’interno dell’ospedale psichiatrico stesso.
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A Reggio si voleva costruire un filtro davanti alle porte del manicomio, per
prosciugarlo, per così dire. Ossia: lavorare sul territorio per evitare i ricoveri.
Credo si possa dire che quel tipo di intervento, pur presentando caratteristiche
molto affascinanti, ha fallito storicamente il suo compito: il «San Lazzaro» è
stato chiuso (molto lentamente) a seguito della legge 180 e non per l’azione
del Servizio psichiatrico provinciale. Del resto, è quanto è successo anche
all’estero, in tutti i casi in cui si è cercato di svuotare i manicomi dall’esterno:
ospedali psichiatrici e servizi territoriali hanno semmai diversificato le utenze,
senza che si sia pervenuti ad una effettiva chiusura dei primi.
E su Jervis, che è scomparso nell’agosto scorso, cosa ti senti di dire?
Colpisce senza dubbio l’acredine di Jervis verso Basaglia e i basagliani, la sua
insistenza nel definire Psichiatria democratica come un gruppo iperpoliticizzato,
che avrebbe impedito un lavoro più prettamente teorico e clinico. La tesi è stata
ripetuta più volte da Jervis e ha trovato una sua esposizione particolarmente
chiara e dura nel libro scritto con Gilberto Corbellini (La razionalità negata.
Psichiatria e antipsichiatria in Italia, Bollati Boringhieri, 2008).
In parte, la posizione di Jervis merita di essere approfondita perchè rimanda
al suo interessante percorso di formazione personale, che lo ha visto ad
esempio lavorare con De Martino alla fine degli anni Cinquanta nelle ricerche
sul tarantismo. Da questa formazione derivava sicuramente la tendenza ad
accentuare l’importanza di una preparazione tecnica. Del resto Jervis già a
metà degli anni Settanta e proprio a seguito dell’esperienza reggiana ha scritto
il Manuale critico di psichiatria, che sin dal titolo mostra il suo punto di vista
peculiare nel dibattito tra psichiatria, psichiatria democratica e antipsichiatria.
A mio avviso comunque è un errore non riconoscere che è poi stata proprio
la componente politica del movimento ad aver consentito il superamento
di un discorso soltanto tecnicistico sulla psichiatria, a mostrare l’esclusione
manicomiale anche come esclusione sociale, a determinare la chiusura di
quelle istituzioni della violenza che sono stati gli ospedali psichiatrici. Nel non
riconoscere questo aspetto, la polemica di Jervis è onestamente fuorviante:
definendo «antipsichiatrico» l’intero movimento antimanicomiale italiano, egli
ha rimosso non solo le profonde differenziazioni interne a quel movimento,
ma anche l’elemento di distinzione di esso dall’antipsichiatria di derivazione
anglosassone, che è stato proprio nella capacità del movimento italiano
di uscire da una dimensione puramente tecnicistica, ponendo al centro le
contraddizioni della dimensione sociale e politica del sapere e della prassi
psichiatrica.
«Accanto» a Jervis c’è stato a Reggio, in montagna, Giorgio Antonucci,
psichiatra antipsichiatra.
È interessante pensare alla convivenza, nella Reggio dei primi anni Settanta,
fra Jervis e Antonucci. Rispetto a quella di Jervis e a quella basagliana di
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Gorizia e poi di Trieste, l’esperienza di Antonucci ha rappresentato infatti un
terzo modello di negazione dell’istituzione psichiatrica.
Antonucci aveva un riferimento teorico soprattutto nell’antipsichiatra
statunitense Thomas Szasz, ma ha cercato di radicare il discorso
dell’antipsichiatria nel contesto sociale, a partire dalla zona della montagna
dove operava. Quindi la sua è stata un’antipsichiatria non soltanto ideologica,
come ha dimostrato anche nella successiva esperienza di Imola, dopo
l’allontanamento da Reggio. Antonucci e la sua équipe dell’epoca hanno
ripreso e radicalizzato lo strumento delle assemblee nei reparti e nel territorio
e con le famose «calate» sul «San Lazzaro» hanno affermato nella forma più
diretta ed esplicita il principio del controllo popolare sull’operato dei tecnici,
che rimane tuttora un punto decisivo.
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Didattica
Insegnare storia con efficacia e
qualità rinnovate in tempi di crisi
e di involuzione del sistema scolastico
Beatrice Borghi, Rolando Dondarini
Può sembrare paradossale puntare alla crescita di qualità e di efficacia
nell’insegnamento della storia, in tempi che vedono succedersi e attuarsi «riforme»
che, nel nome di un sua presunta razionalizzazione volta al contenimento
degli «eccessi» di spesa, compromettono oggettivamente le potenzialità
formative del nostro sistema scolastico. È fin troppo facile intravedere nelle
continue limitazioni imposte all’insegnamento un premeditato attacco alla
scuola pubblica. In queste condizioni può prevalere l’aspirazione a resistere
e a mantenere i livelli faticosamente raggiunti in tanti anni di elaborazioni e
sperimentazioni; ma sarebbe un adattamento ben poco fertile, dato che le
involuzioni apportate e progettate attraverso provvedimenti e decreti si calano
su una realtà generale che non è certo giunta ad uno stato ottimale, ma che
vede poche eccellenze isolate emergere da un panorama quasi desolante.
Peraltro le bordate che giungono dai diversi ministri mettono a nudo anche
le contraddizioni e l’inefficacia di un certo modo di intendere e sviluppare
l’ambito disciplinare della didattica della storia, che spesso si rivela con
teoricismi e metodologismi non adeguatamente misurati sulle situazioni
concrete, ben poco attenti alle esigenze degli insegnanti e quindi incapaci di
incidere significativamente sulla realtà scolastica.
In effetti negli ultimi decenni le questioni legate all’insegnamento della
storia durante tutto il curricolo formativo sono state al centro di lunghe
controversie, suscitate in particolare da diversi progetti e provvedimenti di
riforma che però nella sostanza non hanno mutato, ma semmai accentuato
un quadro di generale inadeguatezza e di grigiore, da cui emergono solo
rari punti luminosi accesi dalla passione e dalla preparazione di una parte
purtroppo minoritaria di insegnanti.
Un esempio significativo è dato dalle amputazioni imposte per legge
all’insegnamento della storia nell’ambito dei curricoli formativi. Certo i
programmi o le indicazioni ministeriali dovrebbero essere intesi come
riferimenti generali che non possono e non debbono determinare rigidamente
competenze e conoscenze da apprendere e che quindi non dovrebbero
incidere sulla qualità dell’insegnamento.
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Tuttavia, non ci si può nascondere che alla luce dei primi anni di applicazione
le «Indicazioni» Moratti – sostanzialmente confermate dal ministro Fioroni il 3
settembre del 2007 – hanno comportato quegli esiti prevalentemente negativi
che furono paventati fin dalla promulgazione da una parte consistente degli
insegnanti italiani:
• la scomparsa delle visioni anche più generali dei due ultimi millenni
dagli orizzonti formativi di una fascia scolare come quella «primaria»,
nella quale si acuiscono sensibilità e interessi che rimangono indelebili;
• la sottovalutazione e il ritardo nell’acquisizione della consapevolezza e
del rispetto del patrimonio storico/artistico scaturito da quei periodi;
• l’abbandono di una ricca varietà di esperienze didattiche innovative
condotte sia in ambito scolastico che extrascolastico, per le quali
insegnanti e operatori culturali hanno attivato ampie convergenze
multidisciplinari; in particolare in riferimento alle didattiche museale e
archivistica e bibliotecaria e agli apporti di enti e associazioni;
• le conseguenti lacune e mancanze di riferimenti per gli apprendimenti
riferiti agli aspetti storico/ambientali da un lato e globali dall’altro, che
si stavano sempre più spesso adottando come terreni di incontro e di
comune formazione per gli scolari di diversa provenienza;
• le gravi ripercussioni sui corsi di formazione per gli insegnanti della
scuola primaria, che non essendo più tenuti a prepararsi su quei periodi
storici, ne hanno eliminato lo studio dai loro curricula con le conseguenti
carenze formative e culturali.
Naturalmente queste constatazioni lasciano presumere che ci sarebbero
stati esiti ancor più negativi nel caso si fosse giunti ad adottare la riforma per
l’intero curricolo scolastico. Altre e autorevoli voci hanno già sottolineato le
incongruenze di una simile scelta e come essa leghi fatalmente l’apprendimento
dei vari periodi storici alle diverse fasi della crescita e alle loro differenti
opportunità di approfondimento e renda quanto mai problematiche le
correlazioni con altre discipline come la letteratura, l’arte, la filosofia.
Il superamento delle ripetitività dei cicli andava affrontata non riducendoli
da tre a due, ma con una differenziazione profonda dei «formati» con cui
la storia può essere affrontata per intero nella scuola primaria, in quella
secondaria di I grado e nella scuola secondaria superiore.
Di fatto ora avviene quasi ovunque che gli insegnanti di scuola secondaria
di primo grado, prima di intraprendere dal medioevo il cammino prescritto
dalle «indicazioni», svolgano per diversi mesi corsi accelerati di riassunto dei
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periodi precedenti con metodi ovviamente di pura acquisizione mnemonica
che non possono che demotivare e demolire quanto eventualmente si era fatto
prima. Ovvio dunque che gli insegnanti di scuola media superiore si ritrovino
pesanti problemi di motivazione e i residui di una preparazione riproposta in
maniera affrettata proprio sui periodi che si affronteranno nel primo biennio.
Dunque ancora una volta e come troppo spesso accade gli insegnanti
italiani sono costretti a dar prova di capacità di adattamento non solo rispetto
alle naturali evoluzioni e ai continui mutamenti, ma spesso anche rispetto
a direttive imposte loro da provvedimenti ben poco attenti alle esigenze
dell’insegnamento. Tali provvedimenti presi dall’alto non agevolano la
soluzione dei problemi dell’insegnamento della storia, cioè di un settore tra i
più delicati e fondamentali di un percorso formativo in cui l’apprendimento di
conoscenze e competenze potrebbe concorrere a far acquisire consapevolezza,
autonomia e responsabilità.
Ciò non toglie che sia sempre possibile e auspicabile perseguire un elevato
grado di qualità e di efficacia nell’insegnamento della storia.
Va, infatti, dato atto che negli ultimi decenni si sono registrate anche felici
esperienze in proposito, con l’adozione di criteri metodologici e la realizzazione
di percorsi volti a far acquisire capacità e conoscenze effettivamente utili
all’insegnamento.
L’insegnamento della storia oggi
L’insegnamento della storia continua a pagare le conseguenze del difetto
più evidente che l’affligge da molto tempo: quello di essere proposto male
e percepito peggio, secondo un circolo vizioso che pare difficile rompere.
Lo stridore tra il nozionismo prevalente che lo caratterizza e gli intenti
formativi di una scuola in via di rinnovamento, tra un metodo trasmissivo
ancora preponderante e l’esigenza di coinvolgere gli scolari sottraendoli ad
una passività estraniante è venuto emergendo sempre più distintamente ed è
apparso tanto più insopportabile per gli insegnanti più sensibili e solleciti a
recepire e concretizzare le nuove istanze.
Sono gli stessi mutamenti in atto a richiedere non solo che la storia
non sia bandita dai percorsi della scuola di base, ma che opportunamente
riconsiderata sul piano motivazionale e metodologico, sia proposta in armonia
con lo sviluppo delle caratteristiche cognitive e psichiche e degli interessi dei
soggetti.
Ma come affrontare le questioni legate al suo insegnamento nel rispetto
delle correlazioni tra crescita, formazione e apprendimento quando riforme e
«controriforme», «indicazioni» e «raccomandazioni», prescrizioni e innovazioni
sottopongono gli insegnanti di ogni ordine e grado ai continui avvicendamenti
di disposizioni e di indirizzi conseguenti all’alternanza delle affermazioni
161
politiche e al prevalere dei relativi e spesso opposti orientamenti?
Lo stato di provvisorietà e di parzialità delle sollecitazioni e delle prescrizioni
istituzionali nei confronti della scuola e dei suoi programmi appare ancora
più paradossale e contraddittorio per un paese che continua a manifestare
particolari difficoltà a concepire e promulgare riforme organiche e complessive
per l’intero sistema scolastico, per i diversi gradi di istruzione e per i differenti
ambiti disciplinari.
La diffusa percezione di una continua precarietà che rischia di sfociare in
confusione, non è certo attenuata dalle ricorrenti contrapposizioni teoretiche
tra i cosiddetti «esperti» della didattica che sono troppo spesso riconducibili a
schieramenti politici o ad ambiti ideologici e che appaiono particolarmente
pressanti proprio in relazione all’insegnamento della storia, per il quale sono
ben pochi i criteri generalmente condivisi. Ne è prova l’annosa disputa sul
curricolo e sui cicli da proporre per l’intero itinerario formativo: anche se è
convinzione comune e generale che si debba programmare e adottare un
curricolo verticale che armonizzi in un percorso coeso e unitario le diverse
tappe di apprendimento ai vari gradi scolastici secondo finalità, metodi e
contenuti coerenti, si deve poi constatare che sono ben rare le realizzazioni
conformi a tale criterio; per non parlare delle diverse e spesso opposte scelte
sul numero e sulla scansione dei cicli cronologici da affrontare nell’intero
percorso formativo.
Tuttavia per chi voglia cogliere stimoli e sollecitazioni positive anche da
situazioni non ottimali, vale la considerazione che ogni terreno problematico
e incerto può divenire particolarmente fertile e stimolare creatività.
Motivazioni
Tenuti ad essere al passo coi tempi, agli insegnanti si chiede di essere artefici
e interpreti di un continuo rinnovamento che consenta loro di scegliere e
adottare criteri e metodologie in grado di rendere efficace il loro insegnamento
attraverso concrete procedure applicative che sappiano stimolare positivamente
i soggetti della formazione, suscitando interesse, curiosità e apprendimento.
Benché generalmente condivisa da tutte le componenti della società, questa
esigenza, così ardua da sostenere e da perseguire, trova ben poco spazio nei
percorsi formativi dei docenti.
È notorio che insegnanti motivati e appassionati sono in grado di suscitare
analoghi atteggiamenti nei loro scolari; si potrà affermare che la passione non si
insegna, ma di certo l’interesse e la curiosità possono essere stimolati e suscitati
attraverso la valutazione delle motivazioni che sottendono l’apprendimento.
Tra le finalità da perseguire nei processi formativi vengono generalmente
indicate l’autonomia di pensiero e la capacità creativa e progettuale.
Riconoscersi e orientarsi per poter scegliere e progettare più consapevolmente
162
e responsabilmente, raccordando passato, presente e futuro, sono esigenze
che hanno sentito tutte le generazioni umane, ma che oggi sono amplificate
da un’inedita accelerazione nel cambiamento di comportamenti, scale di valori
e contesti ambientali.
A dimostrare che proprio in presenza di uno straordinario strappo col
passato è necessario un generale recupero di conoscenza storica è sufficiente
constatare come lo smarrimento sia il primo e sicuro effetto per chi perda
la memoria. L’incapacità di fare scelte consapevoli, di formulare progetti
motivati, di prevedere almeno in parte le conseguenze dei propri gesti rende
ogni smemorato preda dell’angoscia di non poter scegliere liberamente e
lo subordina alla volontà altrui, poiché, non conoscendo il proprio vissuto,
non dispone di riferimenti essenziali ed è costretto all’immobilità o a passi
azzardati. Oggi si rischia di affrontare da smemorati un futuro dai contorni
indefiniti, non conoscendo adeguatamente nemmeno le premesse e le radici
delle questioni più inquietanti dell’attualità, come quella della convivenza o
quella dei limiti e degli squilibri dello sviluppo. L’appiattimento degli orizzonti,
degli interessi e della conoscenza su un presente apparentemente privo di
retroterra è poi uno dei possibili esiti del completamento di quel millenario
processo di saldatura delle sorti umane in un unico orizzonte planetario che
convenzionalmente chiamiamo «globalizzazione». Mentre a beneficiarne sono
ancora quasi esclusivamente i grandi monopoli economici e nell’attesa che a
trarne vantaggio sia la totalità del genere umano, uno dei timori più giustificati
che esso suscita è proprio quello dell’annullamento delle diversità in un
panorama piatto e indistinto, uniformato alle culture e agli interessi dominanti.
Si tratta di una svolta epocale di cui si colgono i primi pesanti esiti con
sempre maggior chiarezza. A sostenerla e a renderla efficace sono i più potenti
mezzi di diffusione e di propaganda che siano mai stati a disposizione della
specie umana: quelli radiotelevisivi, quelli delle reti informatiche e telefoniche,
al cui interno inarrestabili processi di concentrazione stanno selezionando i
dispensatori di informazione e cultura con effetti concreti e già ben percepibili
di condizionamento dei comportamenti e di manipolazione delle coscienze.
D’altronde le opportunità offerte dalla comunicazione e dall’informazione
possono essere utilizzate anche in senso contrario rivalutando e mettendo
a confronto voci, culture, conoscenze ed opinioni. In tale prospettiva
l’insegnamento della storia va finalizzato oltre che ad una maggiore conoscenza
delle origini e delle premesse delle realtà odierne, anche ad una fondata
capacità critica e di comprensione nei confronti dei processi evolutivi in atto e
alle conseguenti possibilità di progettare quanto più coscientemente il proprio
futuro individuale e collettivo in un tornante della storia in cui ogni grande
scelta è destinata a ripercuotersi sulla qualità di vita delle generazioni future e
rischia di divenire irreversibile.
In una società sempre più composita deve essere indirizzato anche a
promuovere una formazione culturale basata sulla consapevolezza delle
163
identità e delle diversità presenti, nella convinzione che ogni identità si
evolve e che è infondata qualsiasi presunzione di una sua immobilità con cui
giustificare il rifiuto dei nuovi arrivi e dei relativi cambiamenti.
A tutte queste motivazioni se ne aggiunge un’altra che dovrebbe essere
particolarmente sentita da una comunità nazionale erede di un patrimonio
storico-artistico valutato tra i più ricchi e consistenti del mondo. L’interesse e
la sensibilità verso i temi della salvaguardia e della tutela dei beni ambientali e
culturali dipendono in buona parte dalla soglia e dalla qualità della conoscenza
storica dell’intera società. L’attenzione per retaggi pervenutici dal passato
non si impone solo nell’ambito della formazione, ma anche come esigenza
di percepirli e valorizzarli come risorsa. In questa luce le scuole possono
concorrere alla sensibilizzazione necessaria, promuovendo in collaborazione
con sedi museali, archivistiche e bibliotecarie una più ampia conoscenza dei
beni presenti nel loro territorio.
Il «patrimonio» appare così come un approdo necessario e uno sfondo
integratore di rilevante valenza formativa, capace di proiettare in orizzonti
più ampi le potenzialità delle specifiche didattiche dei beni culturali e di
avvalersi degli strumenti più aggiornati della comunicazione. Esso diviene
così un’occasione di acquisizione e di produzione del sapere con cui si
stimola l’acquisizione di competenze e la costruzione di conoscenze mediante
specifiche esperienze di ricerca e di didattica; esige la confluenza di pertinenze
e la convergenza di percorsi in un intreccio interdisciplinare; implica un uso
sistematico di tutti gli strumenti della comunicazione e in particolare delle
tecnologie telematiche e dei supporti multimediali utilizzabili in ogni progetto
didattico e divulgativo.
Da quanto esposto appare evidente come vi sia un nesso significativo tra il
concetto di formazione e quello di «educazione al patrimonio» per la comune
sottintesa tensione a sviluppare processi di apprendimento integrati, ricorrenti
e permanenti.
In particolare sono due gli aspetti che rendono strettamente attinente
alla formazione l’apprendimento che verte sul «patrimonio»: l’integrazione di
molteplici competenze e conoscenze tratte da attività di simbiosi tra scuola e
sedi esterne in un quadro multidisciplinare di educazione alla consapevolezza
e alla responsabilità; l’adozione di metodi costruttivi che motivino, coinvolgano
e attivino all’apprendimento, spaziando dalla percezione e definizione delle
componenti e delle sedi del «patrimonio» all’acquisizione specifica relativa alle
sue componenti, fino ai più aggiornati metodi e strumenti di comunicazione.
Il tutto in una continua ricerca d’interazione tra le discipline che si occupano
dei processi di conoscenza e di valorizzazione del «patrimonio», degli aspetti
estetici e storico-artistici del territorio per una formazione che permetta e
induca scambi concettuali, pratiche comparative e affinamenti metodologici
oggi particolarmente importanti per attivare dialoghi interculturali e rapporti
da svolgersi in tutti i settori delle attività umane e in orizzonti senza limiti.
164
In merito poi all’attuale situazione italiana riferita all’educazione alla
cittadinanza europea si rivela che, a fronte di una crescita delle iniziative,
permane una certa loro sporadicità e frammentarietà che non rispondono
certo a quelle sollecitazioni ministeriali che invitano le scuole ad approntare
offerte formative all’interno di quadri generali di indirizzo dettato dalle regioni.
Tale sporadicità può essere superata a favore di un’adeguata sintonia e di una
maggiore continuità proprio attraverso il coordinamento regionale che, senza
imporre scelte e adesioni, può attivare sinergie, ottimizzare risorse ed evitare
sovrapposizioni.
Per educare al riconoscimento dei propri diritti e doveri, delle proprie
responsabilità nei confronti degli altri e al fine di promuovere una convivenza
basata sui valori della pace, della tolleranza, nel rispetto delle culture e delle
tradizioni dei diversi paesi europei occorre contare su un proficuo dialogo
tra la scuola e il territorio in cui gli enti locali e tutti gli altri soggetti educativi
esterni possano concorrere ad allestire gli itinerari formativi.
Persistenze e innovazioni di strumenti e opportunità
Tra i rapidi mutamenti che intersecano necessariamente il campo
dell’insegnamento si debbono annoverare le formidabili trasformazioni degli
strumenti a disposizione di docenti e scolari; trasformazioni tanto radicali da
interferire con le stesse finalità e metodologie di insegnamento. Compito degli
insegnanti è perseguire le strade più efficaci per stimolare l’apprendimento,
aggiornando e adeguando il ricorso agli strumenti secondo le continue
evoluzioni in atto e selezionando persistenze e innovazioni.
Alla perdurante esigenza di rendere gli scolari capaci di leggere e produrre
testi scritti si è abbinata quella sempre più pressante di avvalersi della
multimedialità e delle opportunità offerte dalle tecnologie più aggiornate. In
merito il patrimonio di esperienze condotte con esiti positivi e il novero delle
nuove proposte si stanno arricchendo di anno in anno.
Che l’informatica debba trovare ampio spazio nei processi formativi
in armonia con finalità e percorsi didattici adeguatamente programmati è
ormai un criterio generalmente condiviso; tuttavia si rendono indispensabili
le cautele e le attenzioni che tale ricorso comporta. Nella rete sono ormai
innumerevoli i siti di interesse storico, ma data la scarsa attendibilità che ne
caratterizza la gran parte, occorre che gli insegnanti si documentino in merito
e forniscano agli allievi una sitografia selezionata e motivata inducendoli ad
un atteggiamento critico e creativo. Pertanto anche per strumenti così ricchi e
articolati occorre evitare ogni forma di sudditanza e assumere comportamenti
attivi che consentano di avvalersene come opportunità di conoscenza e come
assunzione di capacità autonoma di documentarsi.
D’altronde la rete offre anche strumenti e opportunità immediate che non
165
danno adito ad alcun dubbio sulla loro utilità; si pensi alle illimitate possibilità
di accesso ai siti di sedi museali, da quelle più prestigiose a quelle più
specialistiche e locali presso le quali sempre più spesso sono fruibili percorsi
didattici appositamente preparati.
Queste nuove opportunità non debbono indurre a trascurare quelle
consolidate e tradizionali che rendono insostituibile e preziosa la figura
dell’insegnante; egli infatti può avvalersi di quel contatto e dialogo umano che
nessuna trasmissione o sollecitazione esterna può rimpiazzare. In contrasto
con la passività imposta da tali sollecitazioni, egli può mettere a frutto la
possibilità di far parlare e rendere ogni soggetto protagonista della propria
formazione, spronandolo ad un impegno che si rivelerà gratificante perché
comunque si tradurrà in cosciente conquista personale.
Ogni conquista è tanto più efficace, duratura e gratificante quanto maggiore
è il coinvolgimento emotivo che deriva dalla coscienza delle difficoltà e
delle sfide che si debbono superare per raggiungerla. Ciò non significa che
si debbano perseguire itinerari ardui e selettivi, ma che si possano rendere
avvincenti facendo leva sulla consapevolezza di compiere passi importanti
e non comuni, qualitativamente elevati, innovativi e degni di attenzione. È
una convinzione che deve essere ripetutamente stimolata e che può valere
come ulteriore incentivo all’apprendimento: sentirsi soggetti e partecipi di
imprese originali che portano a scoperte sempre nuove frutto dell’impegno
di ognuno e di tutti. Del resto è stato ampiamente verificato che promuovere
l’apprendimento motivando e attivando i suoi soggetti in un percorso
coscientemente impegnativo e verso una meta ambita e gratificante, comporta
sempre per insegnanti e scolari un incentivo e un consolidamento della stima
reciproca da cui entrambi si sentono vincolati a esprimere il meglio di sé.
166
Educazione al patrimonio e alla
cittadinanza nella formazione del
docente di storia
Luigi Guerra
Educare al patrimonio: evoluzione di un concetto
Il concetto di patrimonio si è progressivamente dilatato negli ultimi anni sia
nella definizione che ne danno autorevoli organismi internazionali (a partire
dall’UNESCO) sia nella coscienza comune. Da un’accezione interpretativa che la
vedeva riferita esclusivamente alle testimonianze monumentali o comunque
artistiche prodotte e conservate in un certo territorio nel corso degli anni,
l’idea di patrimonio culturale si è allargata inglobando al suo interno prima di
tutto l’insieme delle manifestazioni della cultura materiale prodotta dall’uomo
in riferimento alle esigenze della sopravvivenza, del lavoro, della relazione
sociale. In questo senso, fanno parte del campo del cosiddetto patrimonio
i materiali legati allo sviluppo della tecnica e della produzione industriale:
quindi, un primo passaggio è stato quello che ha visto introdurre, a fianco dei
beni artistico-monumentali, i beni tecnico-materiali.
Ma, in tempi più recenti, in parallelo con l’affermarsi di una concezione
dell’ambiente non più inteso come contesto naturale dell’attività umana, bensì
drammaticamente interpretato come luogo dell’incontro/scontro tra uomo
e natura e quindi non come contenitore preesistente e statico, ma come
prodotto continuamente in modificazione dell’attività umana, della relazione
tra intervento culturale ed evoluzione naturale, l’ambiente stesso è entrato
nell’idea di patrimonio in quanto anch’esso largamente prodotto dai nostri
«padri».
Da questi brevi note introduttive derivano alcune considerazioni, quali:
• se l’educazione al patrimonio poteva essere una volta affidata a singole
discipline del curricolo scolastico, con particolare riferimento alle
discipline artistiche e a quelle storiche, oggi non si può non riconoscere
che il patrimonio è strutturalmente oggetto di studio di tutte le discipline
che riguardano i prodotti dell’attività dell’uomo nel suo dispiegarsi nel
tempo e nello spazio e nel suo consolidarsi in oggetti, strumenti, idee
conservati e formalizzati attraverso l’uso dei diversi «linguaggi» elaborati
dall’uomo stesso. Quindi, in senso generale, quasi tutte le discipline
hanno a che fare con l’educazione al patrimonio e, in particolare, è
necessario che di questo assumano immediatamente consapevolezza i
docenti di area tecnico-scientifica;
167
• l’idea di patrimonio è stata per troppo tempo coniugata con l’evidenza di
una eccezionalità, grande rilevanza o comunque cospicuità degli oggetti
cui era riferita. Di qui anche, fondativamente, il confinare del concetto
di patrimonio culturale con quello di patrimonio inteso come insieme
delle risorse materiali messe a punto dai sistemi familiari o sociali in una
cornice di natura utilitaristica. La dilatazione citata dell’idea di patrimonio,
mentre ne apre orizzontalmente i confini introducendo i beni naturali e
i beni ambientali, consente di allargare anche verticalmente l’idea stessa
verso una concezione di patrimonio che comprende sia l’eccezionale
sia il quotidiano, sia l’enorme sia il piccolo, sia il «bello» sia il «brutto» e
via dicendo. In altri termini, e questo è sicuramente un risultato delle
attuali riflessioni sulla sostenibilità ambientale, costituisce un patrimonio
dell’umanità sia l’enorme Wellingtonia che troneggia da secoli sul quai
di Lugano o la più importante ulteriore sequoia dell’omonimo parco
californiano quanto la più umile delle parietarie calpestabile sui bordi
dei marciapiedi cittadini. È una consapevolezza che può portare a
prospettive di radicalità forse eccessiva, ma anche nel campo dell’arte
e della cultura sono indubbiamente patrimonio (e come tale sono
percepiti nella crescente consapevolezza che fonda la miriade dei musei
locali) tanto i prodotti artistici di coloro che sono stati riconosciuti come
grandi, quanto il sistema dei prodotti di coloro che sono stati definiti
epigoni, attori secondari e che comunque hanno costituito il contesto
che nella maggior parte dei casi ha consentito l’emergere dei grandi, la
loro affermazione sul mercato, il loro fissarsi nella memoria collettiva;
• l’educazione al patrimonio è quindi compito di molte discipline. A
tutte comunque richiede quell’approccio interdisciplinare che solo può
garantire una conoscenza delle diverse tipologie dei prodotti umani,
collegati nell’idea stessa di patrimonio, di natura non feticistica, capace
di contestualizzazione e quindi di interpretazione critica. Nello specifico
dell’insegnante di discipline storiche, punto di partenza deve essere la
consapevolezza che l’intero sistema della «storia», il suo intrecciarsi tra
fonti, documenti, narrazioni, costituisce di per se stesso un patrimonio:
e un patrimonio in continua evoluzione.
Educazione al patrimonio e educazione alla cittadinanza
Nelle direzioni fin qui indicate, l’educazione al patrimonio non può che
essere fatta rientrare, a pieno titolo, all’interno dell’ambito più vasto della
«educazione alla cittadinanza». E questo non certamente nelle asfittiche
prospettive previste dall’art. 1 del C K 137/2008, che comunque vale la pena
ricordare: «A decorrere dall’inizio dell’anno scolastico 2008/2009 … sono
168
169
nostro paese proprio in quanto relativa all’area dei saperi «caldi», legati alle
scelte esistenziali (valoriali, politiche, confessionali) del singolo cittadino.
Presente invece, ci permettiamo di ricordarlo anche per sottolineare la possibile
deriva nazionalistica di questa interpretazione, in quasi tutte le discipline della
scuola del ventennio: una scuola tutta tesa a predicare l’italianità come valore
fondamentale dell’educazione e a proporla come radice identitaria comune di
ogni cittadino.
Le due interpretazioni possono essere percorse in modo unilaterale o in
modo integrato, ma, come è facile intuire, ogni assunzione unilaterale del
concetto comporta un’immediata riduzione del significato complessivo del
progetto pedagogico ad esso correlato.
Interpretare univocamente l’educazione alla cittadinanza come civicness
significa correre il rischio di un percorso pedagogico improntato al formalismo
civico, fatto cioè esclusivamente di leggi e norme, di diritti e doveri. Saremmo di
fronte, in questo caso, ad un approccio per così dire «oggettivo» all’educazione
alla cittadinanza. Un approccio, da un lato, in negativo, scarsamente motivante
e coinvolgente perché giocato in chiave prevalentemente giuridica, d’altro
lato, in positivo, utile a formare un cittadino rispettoso del quadro complesso
di «diversità» esistenziali che caratterizza la comunità civile. L’esito della
cittadinanza come civicness è infatti il famoso «cives romanus sum» di san
Paolo: l’affermazione di una identità amministrativa (con il suo quadro positivo
di garanzie) del tutto scollegato dall’identità linguistica, culturale, religiosa del
singolo soggetto, ma proprio per questo del tutto funzionale ad una città
caratterizzata dall’esplosione delle differenze.
Interpretare altrettanto unilateralmente l’educazione alla cittadinanza nel
senso che abbiamo dato in precedenza all’idea di citizenship significa correre il
rischio di investire su radici comuni, condivisioni culturali, omogeneità valoriali
tanto forti nel garantire identità, appartenenza, partecipazione, quanto esposte a
fenomeni di fanatismo, esclusione del diverso, prevaricazione delle minoranze.
L’esito, che purtroppo vediamo più o meno consapevolmente progettare in
questi anni di migrazioni imponenti dalla parte più retriva e conservatrice
della nazione, può essere sì il cittadino consapevole e criticamente radicato
nella storia che ha prodotto la sua città, ma anche e soprattutto l’hooligan, il
«celtico», il cultore della purezza delle tradizioni (se non della razza). Non a
caso, tra l’altro, chi sulle piazze e sui giornali si distingue oggi nel difendere
una cittadinanza pretesamene omogenea e storicamente determinata dimostra
per lo più di avere scarsa conoscenza del complesso di vicende culturali e
politiche che hanno costruito la nostra storia.
Interpretare l’educazione alla cittadinanza come integrazione problematica
dell’idea di civicness e di citizenship (l’unica prospettiva strutturalmente
positiva sul piano educativo) significa infine fondare la conoscenza e la pratica
delle regole della società civile sul sistema di valori e culture che la singola
microcomunità e, alla fine, il singolo soggetto, riconoscono alla base delle
170
regole stesse: un sistema complesso fatto di omogeneità e disomogeneità, di
comunanze e differenze in costante modificazione.
Solo questa è una visione forte della cittadinanza che la può rendere
oggetto di un progetto formativo articolato in percorsi di istruzione, di ricerca
e di creatività: istruzione, per gli infiniti possibili rimandi alle singole discipline
del curricolo di ogni ordine scolastico; ricerca, perché l’idea di continua
trasformazione delle differenze che formano la città chiede la partecipazione
diretta del discente a percorsi formativi fatti solo in parte di saperi consolidati;
creatività, perché nel senso indicato la cittadinanza è fatta di cittadini chiamati
a dare alla città il loro contributo originale di conoscenze, valori, utopie.
Quale educazione al patrimonio? Proposte per una didattica
problematica
Il modello problematico di una didattica del patrimonio all’interno
dell’educazione alla cittadinanza è già stato di fatto avanzato alla fine del
paragrafo precedente e può essere intitolato ai tre concetti indicati di istruzione,
ricerca, creatività.
L’educazione al patrimonio utilizza oggi prevalentemente se non
esclusivamente gli strumenti di una didattica di tipo riproduttivo. La concezione
«museale» del patrimonio, unita all’oggettivo ritardo dell’innovazione didattica
all’interno dei musei stessi, sostiene esperienze formative per lo più costruite
come visite sporadiche e frettolose a monumenti/prodotti culturalmente
attrezzati e socialmente riconosciuti come luoghi di conservazione formale
del patrimonio. Non mancano di certo (sarebbe ingiusto non riconoscerlo)
esperienze significativamente diverse, ma la realtà consolidata della didattica
del patrimonio coincide sostanzialmente con l’escursione didattica, con la
gita scolastica, con la frequentazione occasionale ad ambienti in cui guide/
animatori specializzati sostituiscono l’insegnante di fronte ad allievi distratti,
impreparati, attenti solo agli aspetti «ricreativi» dell’uscita.
Contro questa prassi, far valere le ragioni di una didattica problematica
significa sostenere esperienze educative di utilizzazione del patrimonio:
•
che abbiano, innanzitutto, le caratteristiche della continuità e della
sistematicità e che non si rivolgano solo ai prodotti e alle forme di eccezionale
rilevanza del patrimonio. Può essere facile perfino per un razzista rimanere
affascinato da manifestazioni straordinarie di una cultura che pure disprezza.
Educare al patrimonio, pertanto, non vuole dire frequentare soltanto le
vetrine in cui è conservato il volto «alto» di una cultura: vuol dire invece
aprire un confronto continuativo con le quotidianità dentro alle quali i
prodotti eccezionali hanno trovato radici e ragioni di esistere. E questo non
è semplice perché, come afferma Vecchioni in Malinconia leggera: «Volare
171
è facile, si sa, ci vuol più fantasia per camminare»;
•
che presentino, in secondo luogo, una collocazione strutturale
all’interno della programmazione educativa, con forte attenzione ai momenti
della predisposizione culturale dell’esperienza, all’assegnazione di specifici
compiti di conoscenza agli allievi durante la sua effettuazione, all’analisi
delle ricadute in termini di competenze effettivamente conseguite dopo
l’esperienza stessa;
•
che attivino, infine, le citate dimensioni educative dell’istruzione,
della ricerca e della creatività.
È su questo aspetto di una didattica problematica del patrimonio che ci si
soffermerà in questa ultima parte del paragrafo. Appartiene all’autore (che l’ha
già presentata in numerose sedi) l’adesione convinta ad un approccio didattico
plurilaterale e problematico che impone di riconoscere la possibile compresenza
integrata di tre prospettive dell’educazione intellettuale: rispettivamente, la
prospettiva monocognitiva (quella dell’istruzione), metacognitiva (quella della
ricerca) e fantacognitiva (quella della creatività). La prospettiva monocognitiva
interpreta l’educazione intellettuale come alfabetizzazione culturale: intende
cioè garantire ad ogni allievo il possesso delle informazioni indispensabili
a livello di organizzazione dei contenuti, di lessico, di conoscenza degli
strumenti di indagine delle diverse discipline che compongono il sapere. La
prospettiva metacognitiva persegue l’attivazione significativa presso gli studenti
dei modi e delle competenze del cosiddetto «pensiero scientifico»: di modalità,
cioè, di assunzione, formalizzazione e risoluzione dei problemi che passino
attraverso le fasi canoniche della osservazione, ipotesi, sperimentazione,
verifica. In altre parole, si ripromette di stimolare in modo sistematico
l’utilizzazione di strumenti di indagine diretta (atteggiamenti, metodi, tecniche)
che aprano alla possibilità, appunto metacognitiva, della concettualizzazione,
della generalizzazione, della trasferibilità dei saperi prodotti. La prospettiva
fantacognitiva, da parte sua, si propone di stimolare e sostenere lo studente
nella costruzione di percorsi originali di comprensione/rivisitazione del sapere:
nell’elaborazione di «altri volti» – interpretati soggettivamente – della cultura.
Intende perseguire la scoperta non soltanto di oggetti culturali nuovi o diversi,
ma anche e soprattutto di approcci nuovi/diversi (originali/creativi) agli stessi
oggetti messi a punto attraverso la valorizzazione della propria soggettività.
La dimensione istruttiva della didattica del patrimonio richiede la capacità di
costruire «presentazioni» dei luoghi/monumenti/prodotti progettate all’insegna
della chiarezza e della capacità di individualizzazione. Postula un lungo
lavoro dell’insegnante sia nella direzione della didascalizzazione del singolo
fenomeno sia in quella del suo inserimento in quadri/mappe concettuali che
ne combattano una mera conoscenza da idiota specializzato. Può contare sulle
172
straordinarie risorse in direzione di multimedialità offerte oggi dalle nuove
tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
La dimensione metacognitiva dell’approccio al patrimonio si fonda
sull’attivazione di competenze di ricerca e riformalizzazione delle dimensioni
del patrimonio assunte come strumento e oggetto di lavoro. Richiede
all’insegnante stesso di essere un ricercatore e di muoversi verso concezioni
dell’insegnamento di tipo socio-costruttivistico all’interno delle quali lo studente
(il gruppo degli studenti) venga stimolato ad assumere ruoli da protagonista del
proprio apprendimento. Può utilizzare le significative potenzialità in direzione
di autonoma produzione di documentazione e di ipertestualizzazione offerte
anch’esse dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
La dimensione della creatività nei percorsi di educazione al patrimonio deve
essere garantita nella consapevolezza che la memoria collettiva e i luoghi/
oggetti in cui si è sedimentata è costituita in gran parte dalla somma degli
«sguardi» individuali che l’hanno accompagnata. Di qui l’esigenza didattica di
assicurare agli allievi (ad ogni allievo) la possibilità di una ricostruzione delle
diverse manifestazioni del patrimonio che valorizzi l’estetica individuale, a
partire dall’affermazione della propria specifica sensorialità fino alla capacità
di illuminare oggetti e avvenimenti con gli occhi del proprio vissuto.
173
Progetto in rete
La costituzione della cittadinanza
Liceo scientifico statale «A. Moro»
Liceo classico-scientifico «L. Ariosto-L. Spallanzani»
Istituto Statale d’Arte «G.Chierici»
con il patrocinio del Comune di Reggio Emilia
Lorenzo Capitani
Tiziana Fontanesi
Paola Montanari
Brunetta Partesotti
Presentazione
Sono giornate tristi per tutti coloro che hanno a cuore le sorti di una
democrazia fragile come la nostra, ma che nel riferimento al dettato
costituzionale aveva fino ad oggi trovato un limite invalicabile.
E le parole dossettiane, pronunciate nel lontano 1995, sembrano risuonare
ancora una volta profetiche.
Attenzione, agli assalti alla sovranità popolare che si pretende di sostituire con
una sovranità mitica, che seduce il popolo, ma in sostanza lo viola e lo delegittima.
La conseguenza sarà il passaggio da una democrazia rappresentativa parlamentare,
con le sue mediazioni dialogiche spesso difficili, a una democrazia populista, a
influenza mediatica, in cui l’assenza di razionalità e l’appello prevalente a “mozioni
istintive e impulsi emotivi” ridurranno il consenso del popolo sovrano a un mero
applauso al Sovrano del popolo.
Non sappiamo cosa ancora ci riserverà la crisi che in questi giorni, dopo
anni di ossessivo martellamento proprio contro la Costituzione, e dalle parti
più diverse per la verità, si dispiega in tutto il suo potenziale di devastazione
del tessuto civile, con il conseguente diffondersi di ampie arie di fastidio, di
disincanto, di allontanamento da ogni forma di partecipazione alla vita della
comunità.
Anzi lo stesso termine comunità, proprio quando ricordiamo il magistero
olivettiano, appare blasfema, quasi che in essa fosse implicita una dose di
organicismo totalitario, mentre ben altro spessore viene assumendo il nuovo
«totalitarismo» che oggi dobbiamo fronteggiare.
174
Come reagire a questa deriva? Qualcosa si sta muovendo e, come ha
recentemente ricordato Stefano Rodotà, «tutti sappiamo che la Costituzione
vive proprio grazie al sostegno e alla capacità di identificazione dei cittadini».
La «comune identità costituzionale» può ancora essere assunta come «leva per
cercare di uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo
sempre meno strisciante, a un cambiamento di regime»?
In questo orizzonte, inevitabilmente, viene a collocarsi anche ogni iniziativa
che abbia un valore educativo non epidermico o tradizionale. Del resto, in
poche settimane, nella scuola, siamo passati dalla evocazione di una nuova
disciplina Cittadinanza e Costituzione, con un suo autonomo statuto ed una
sua autonoma valutazione, a un più cauto e modesto inserimento sperimentale
di tematiche costituzionali nell’ambito delle discipline storiche o giuridiche.
Del resto, il contesto sopra richiamato rischia di stridere non poco con il
significato generale che si vuole assegnare a queste nuove proposte, con il
pericolo di essere vissuto, da parte dei giovani, come la solita predica sulle
buone norme del vivere civile, del tutto incapaci di «mordere» una realtà che
ben altri modelli quotidianamente è in grado di presentare. Tuttavia, quando,
in pieno giugno, nel cuore delle attività scolastiche finali, il ministero della
Pubblica istruzione ha bandito un concorso per progetti sperimentali sulla
educazione costituzionale, non ci siamo tirati indietro.
Abbiamo messo insieme alcune esperienze di lunga data, già consolidate,
unito grandi sforzi personali e modeste risorse economiche, confezionando un
a proposta che infine ha raccolto grande consenso, piazzandosi nei primissimi
posti della graduatoria nazionale e ottenendo il finanziamento previsto di
15.000 euro, con il quale già molte cose abbiamo potuto impostare e realizzare.
Giocando sulle parole, abbiamo voluto, con il titolo, ricordare che la
cittadinanza non può essere concepita staticamente e si trova continuamente
a fare i conti con nuove e più complesse modalità per la sua effettiva
costituzione. Un approccio che ha cercato di evitare strade più consuete e
che punta ad un coinvolgimento attivo delle classi interessate, con l’intento di
fornire spunti, materiali, percorsi utili per tutti gli indirizzi scolastici.
Al di là delle incertezze normative, infatti, un quadro di educazione
costituzionale fondato sulla cultura, sulla storia, sulla lettura critica del presente,
che riesca a coinvolgere una pluralità molto ampia di soggetti pubblici e
associativi, è nostra convinzione possa rappresentare un buon antidoto per
contrastare i tanti veleni che vanno diffondendosi nel nostro quotidiano vivere
civile.
Non a caso il tema di fondo del Progetto che di seguito presentiamo è
rappresentato dal significato di città, intesa come comunità allargata e plurale,
non luogo ideale e pacifico, ma ricco di contraddizioni non facili da dipanare,
su cui deve esercitarsi ogni autentica volontà di integrazione e condivisione.
A partire dai giovani, con i giovani. A partire dalla scuola, con la scuola. (l. c.)
175
Finalità del progetto
• avvicinare i giovani alla Costituzione come loro «compagna di strada»
(Giuseppe Dossetti);
• educare alla cittadinanza attiva, solidale e consapevole;
• promuovere la capacità di lettura critica del presente attraverso percorsi
innovativi;
• educare alla legalità e alla vita democratica;
• educare alla solidarietà, alla tolleranza, alla pace;
• promuovere la consapevolezza di essere parte, come cittadini
protagonisti, di una comunità a livello locale, regionale, nazionale ed
europeo;
• promuovere la consapevolezza che in tale comunità ciascuno è portatore
di diritti e di doveri ed è responsabile della crescita qualitativa collettiva;
• promuovere un atteggiamento di apertura e condivisione nei confronti
di diverse realtà e culture;
• promuovere la consapevolezza di essere cittadini dell’Europa e del
Mondo, impegnati ad affrontare i problemi in una visione planetaria;
• stimolare la memoria storica del passato, nell’ottica della speranza verso
un futuro da costruire.
In sintesi il nostro Progetto si propone di produrre concreti modelli
curricolari che diano sostanza all’introduzione della nuova disciplina, facendo
leva, del resto, su un’esperienza largamente consolidata da oltre dieci anni.
Nucleo tematico
Il titolo che abbiamo scelto per il nostro progetto, «La costituzione della
cittadinanza», «giocando» con le due parole-chiave della nuova disciplina,
allude ai significati e alle forme attraverso cui si fonda l’idea di cittadino.
Il nucleo tematico individuato dalle tre scuole in Rete ruota pertanto
intorno all’idea di città, intesa in senso etimologico come polis/civitas, dunque
non solo come urbs, bensì una città fatta di persone, cittadini e cittadine che
possano viverla attivamente e consapevolmente come luogo di incontro, di
relazione, di integrazione, di esperienze multiculturali.
Obiettivi di apprendimento
• acquisire conoscenze e concetti-chiave relativi alla storia della nostra
Costituzione : una sorta di «grammatica etica essenziale»;
176
• trasmettere ai giovani quel patrimonio di valori che sono il fondamento
dell’ordinamento repubblicano e che contribuiscono alla formazione di
una coscienza politica orientata ai principi della convivenza civile e della
democrazia;
• comprendere e utilizzare i concetti-chiave della storia e del pensiero
costituzionale, indispensabili per orientarsi nelle tematiche e nei
problemi di attualità, anche in riferimento al territorio locale;
• conoscere e utilizzare il lessico di base relativo alle tematiche della
cittadinanza e della Costituzione;
• comprendere la complessità del concetto-chiave di «società»;
• analizzare e utilizzare documenti e fonti di diversa tipologia.
Strategie organizzative
Le tre scuole in Rete hanno concordato alcune fasi di lavoro comune.
Formazione e autoformazione: un ciclo di incontri-seminari-aggiornamenti
sui temi prescelti, da svolgersi nella parte iniziale dell’anno scolastico 2009-2010,
presso la scuola capofila (Liceo Moro) in orario mattutino e/o pomeridiano,
rivolti specificatamente ai docenti, ma aperti anche agli studenti-studentesse e
alla cittadinanza.
L’autoformazione avrà dunque l’obiettivo primario di valutare luci ed
ombre di tali esperienze, in modo da individuare percorsi formativi credibili
ed efficaci, strettamente connessi al tema generale del nostro progetto: le
visioni della città.
La formazione dovrà invece essere rivolta prevalentemente
all’approfondimento di tematiche riguardanti sia la genesi, le finalità, le partizioni
interne della nostra Carta sia la consistenza di alcuni nuclei essenziali della
trama costituzionale, senza trascurare il necessario aggiornamento intorno al
dibattito in atto sulle riforme costituzionali.
In particolare, si farà riferimento alla esperienza della «Scuola di formazione
per una consapevole cultura costituzionale» promossa a Rovigo dal Dipartimento
di Scienze giuridiche dell’Università di Ferrara, una scuola operativa già da due
anni, con risultati eccellenti, accreditati dall’Alto patronato della presidenza
della Repubblica.
Intendiamo anche avvalerci di un rapporto organico con l’Associazione
italiana dei costituzionalisti, attraverso la collaborazione del professor Roberto
Bin, responsabile del Progetto Scuola e Costituzione della Regione Emilia
Romagna.
Infine, intendiamo sviluppare esperienze organizzate di partecipazione alle
attività della Fondazione Camera dei deputati: in sintesi, si tratta di andare al di
là delle tradizionali visite ai «luoghi del potere», spesso anche controproducenti,
177
per favorire invece momenti ben costruiti di approfondimento sia di figure
significative della storia parlamentare sia di tematiche di rilevante attualità.
Queste le fasi fondamentali di lavoro che abbiamo individuato.
1. Attività nelle classi: ogni scuola della Rete coinvolgerà i consigli di classe in
fase di stesura della programmazione annuale, sollecitando la partecipazione
al progetto e la scelta di un tema o attività da svolgere: almeno una classe per
ogni anno di corso parteciperà al progetto. Inoltre tre classi appartenenti alle
tre scuole in Rete lavoreranno su uno stesso modulo/percorso.
2. Attività con altre scuole, anche esterne alla Rete, di diverso ordine e grado:
negli scorsi anni il Liceo Moro e il Chierici hanno lavorato con scuole elementari
e medie di Reggio Emilia; per il 2009-2010 si prevede di collaborare con le
scuole dell’infanzia ed elementari.
3. Laboratori aperti con il territorio: si collaborerà con varie associazioni e
istituzioni, sulla base di esperienze già consolidate: Comune e Provincia di
Reggio Emilia, Foro dei magistrati di Reggio Emilia, arma dei carabinieri,
Direzione provinciale del lavoro, Istoreco, Consorzio «Oscar Romero», Libera,
CO.LO.RE., Pax Christi, Nondasola, Parada, Periferica.
4. Visite di istruzione-stages: si prevedono le seguenti mete: Roma-Montecitorio,
in collaborazione con Biblioteca della Camera-Fondazione Camera Deputati,
«Le giornate di studio a Montecitorio», promosse dalla Camera dei Deputati
o «Un giorno a Palazzo Madama», promossa dal Senato della Repubblica;
Montesole e Barbiana sul sentiero della Costituzione, in collaborazione con
Pax Christi e Fondazione don Milani; visite di istruzione-campi di volontariato
nei territori liberati dalla mafia; Bruxelles-Parlamento Europeo;
5. Percorsi creativi: produzione di manufatti artistici, esperienze teatrali,
lavori multimediali da parte degli studenti e studentesse della Rete, ispirati
alla Costituzione e/o alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Per quanto
attiene al manufatto artistico, l’idea è quella di realizzare un grande murale
nell’atrio della scuola capofila: le proposte elaborate in forma di bozzaidea dagli studenti saranno interpretate graficamente con una realizzazione
artistica. Si può pensare a dipinti su pannelli che costituiscano non solo un
elemento di decoro per l’atrio del Moro ma portino all’allestimento di una
«mostra itinerante» trasferibile in altre scuole o luoghi della città.
Per quanto riguarda poi la possibilità di realizzare uno spettacolo teatrale,
si può contare sulle originali esperienze che tutte le scuole in Rete vantano,
sia per la stesura del testo che per la regia, la recitazione, la scenografia, la
musica…
178
Modalità e tempi di realizzazione
Il Progetto si articola in due parti:
1.
1a Parte (settembre-dicembre anno scolastico 2009-2010):
• coinvolgimento dei Collegi docenti delle tre scuole
• riunione del Gruppo di Progettazione per predisporre le proposte
da presentare nei Consigli di classe
• approvazione del Progetto all’interno della programmazione
didattica del Consiglio di classe
• formazione e autoformazione
• incontri con le diverse componenti della scuola (docenti, genitori)
• collaborazione con Enti e Istituzioni del territorio
• revisione e adattamento del Progetto sulla base della formazione e
autoformazione e delle collaborazioni attivate
2.
2a Parte (gennaio-settembre a.s. 2009-2010):
• Attività didattiche scandite in quadrimestri e/o trimestripentamestri
179
Note e Rassegne
La X flottiglia Mas
Alcune brevi note
Michele Bellelli
Dagli esordi alla seconda guerra mondiale
La X flottiglia MAS, famosa o famigerata a seconda dei punti di vista, è stata in
effetti un’unità militare molto più complessa di quanto generalmente non si creda.
Per alcuni anni della seconda guerra mondiale è stata un’unità di punta della Regia
marina, mentre durante la guerra di Liberazione divenne un reparto specializzato della
RSI nella lotta antipartigiana; attività quest’ultima che le ha meritato la parte più triste e
sanguinaria della sua celebrità.
Le origini della «Decima» si possono far risalire al primo conflitto mondiale quando
reparti di motoscafi veloci assaltavano le navi della flotta austroungarica, oppure
cercavano di violarne i porti.
Il primo progetto di un motoscafo silurante risale al 1906. Si trattava di una piccola unità
lunga poco più di una decina di metri, armata di un siluro e munita di motore a scoppio che
potevano imprimerle una notevole velocità. Si pensava che, date le sue piccole dimensioni e
l’elevata velocità, essa avrebbe potuto portarsi di sorpresa a distanza brevissima da qualsiasi
unità di superficie senza che il tiro delle artiglierie riuscisse ad arrestarla … Il progetto
rimase sulla carta. Fu solo la guerra mondiale che riportò alla ribalta l’idea dei motoscafi
armati di siluro…1.
L’impresa più celebre di quegli anni fu quella compiuta dai MAS del capitano di
corvetta Luigi Rizzo che il 10 giugno 1918 riuscirono ad affondare la corazzata Santo
Stefano, una delle più importanti navi da battaglia della flotta nemica, nelle acque
dell’isola di Premuda (a ricordo di quell’evento è stata intitolata una via cittadina,
mentre l’anniversario del 10 giugno è tuttora ricordato con eventi e celebrazioni dalla
Marina militare italiana).
I MAS avevano cominciato a cogliere i primi successi esattamente due anni prima
con l’affondamento di alcuni piroscafi austriaci nel porto albanese di Durazzo.
Fra gli equipaggi possiamo ricordare anche Giuseppe Aonzo, che partecipò col
capitano Rizzo all’impresa di Premuda e Costanzo Ciano, futuro gerarca di primo
piano del fascismo e padre di Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri del Duce e marito
di Edda Mussolini. Proprio Costanzo Ciano era stato protagonista dell’affondamento
di un’altra corazzata austriaca, la Wien, avvenuto il 16 novembre 1917 al largo di
Cortellazzo (Jesolo)2.
1
2
N. MORABITO, La Marina italiana in guerra 1915-1918, Marangoni, Milano 1933, p. 161.
Ivi, pp. 210-217.
181
L’ultima importante impresa legata ai MAS nella prima guerra mondiale avvenne
proprio nelle ultime ore precedenti l’armistizio del 1918. Nella notte fra il 31 ottobre e
il primo novembre il maggiore del genio navale Raffaele Rossetti e il tenente medico
Raffaele Paolucci forzarono il porto di Pola e affondarono la nave da battaglia Viribus
Unitis. Nella seconda metà degli anni Trenta saranno proprio Rossetti e Paolucci a
ridare vita ai reparti incursori della Regia marina e a sviluppare i futuri maiali.
Molto si è detto anche sul significato della sigla MAS: motoscafo armato silurante,
motoscafo anti sommergibile … Gabriele D’Annunzio vi volle trovare un motto da
tramandare: Memento audere semper. La sigla originaria probabilmente significa
semplicemente motobarca armata SVAN, dove SVAN sta per Società veneziana di
automobili nautiche, che era la ditta costruttrice dei battelli durante la Grande Guerra.
Nel corso degli anni fra le due guerre la forza navale aveva mantenuto in servizio
le flottiglie MAS con scopi sostanzialmente simili a quelli avuti durante la grande guerra
ed in seno ad una di queste, la I, vennero ufficialmente aggregati i reparti d’assalto al
fine di celare la loro vera natura e sotto tale copertura avrebbero iniziato la seconda
guerra mondiale.
Il 15 marzo 1941 il reparto assume la sua denominazione ufficiale di X Flottiglia
MAS, nuovo nome di copertura per mascherare la vera attività del reparto speciale della
marina. Suo primo comandante fu il capitano di fregata Vittorio Moccagatta; l’unità si
strutturò su un reparto di superficie agli ordini del capitano di corvetta Giorgio Giobbe
ed un reparto subacqueo diretto dal capitano di corvetta Junio Valerio Borghese.
La prima azione della X nella sua nuova denominazione avvenne nella notte fra
il 25 e 26 marzo 1941 con l’attacco al porto cretese di Suda. Pochi mesi dopo il
comandante Moccagatta morì in azione durante un tentativo di forzamento del porto
di Malta (25-26 luglio)3 e Junio Valerio Borghese ne assunse interinalmente il posto fino
all’autunno, quando il comando effettivo della X Flottiglia MAS è affidato al capitano di
fregata Ernesto Forza. Il principe Borghese riceverà nuovamente il comando dell’unità
a partire dal primo maggio 1943.
Fino all’armistizio la X MAS è attivissima contro le flotte nemiche operando soprattutto
nel mare Mediterraneo, ma anche nel Mar Nero dove partecipa alle operazioni militari
contro i sovietici, in particolare durante l’assedio di Sebastopoli. Il sito web ufficiale
della Marina militare (www.marina.difesa.it) elenca tredici operazioni compiute con
successo dalla flottiglia, alle quali vanno poi aggiunte quelle concluse invece con un
insuccesso e costate la vita a molti operatori, nonché le operazioni già pianificate,
ma mai portate a termine per motivi vari (incluso naturalmente l’armistizio dell’8
settembre 1943 che automaticamente annullò tutte le operazioni previste contro gli
Alleati).
Fra le imprese concluse vittoriosamente la più famosa è certamente quella compiuta
contro il porto di Alessandria nella notte fra il 18 e il 19 dicembre 1941 quando, in
un momento già particolarmente delicato per la Royal navy, vennero gravemente
3
Nella medesima operazione muore anche il capitano di corvetta Giorgio Giobbe al cui posto
viene nominato il capitano di corvetta Salvatore Todaro.
182
danneggiate le navi da battaglia «Queen Elizabeth» e «Valiant», il cacciatorpediniere
«Jervis» e la petroliera norvegese «Sagona». In questo caso tutti gli assaltatori
sopravvissero, ma vennero catturati dagli inglesi.
Fra le operazioni fallite possiamo ricordare quella del 25 e 26 luglio 1941 contro
Malta e costata la vita a ben quindici marinai italiani (fra i caduti Moccagatta, Giobbe
e Teseo Tesei) e la cattura di altri diciotto. Un altro grave insuccesso fu l’operazione
contro il porto di Haifa conclusasi con l’affondamento del sommergibile «Scirè» che
trasportava gli assaltatori e la conseguente perdita di tutti i membri dell’equipaggio e
di tutti gli operatori il 10 agosto 19424.
Nel novero delle operazioni mai eseguite vale la pena ricordare il progettato
attacco contro il porto di New York, previsto per la fine del 1943 e mai realizzato per
ovvi motivi.
Dopo l’armistizio: la X MAS nella Repubblica sociale
Come tutti gli italiani anche i marinai di Borghese rimangono sgomenti alla notizia
della resa incondizionata agli angloamericani, ma a differenza di quanto avviene nel
resto delle forze armate la X MAS non si sbanda e rimane a piè fermo nelle proprie
caserme in attesa degli eventi.
Come è noto Borghese con buona parte dei suoi uomini si schiera immediatamente
al servizio dei tedeschi, rifiutando l’obbedienza agli ordini del governo italiano che
imponevano di cessare le ostilità contro gli Alleati e di considerare l’esercito tedesco
come invasore e quindi di combatterlo (messaggio di Badoglio dell’11 settembre).
Comandante effettivo della X MAS solo dal maggio precedente, Borghese, comportandosi
come un antico capitano di ventura, stipula un vero e proprio patto privato di alleanza
con la Werhmacht in base al quale la X era alleata delle forze armate germaniche. Tale
patto farà diventare il reparto una forza del tutto autonoma e parallela rispetto ai corpi
armati della RSI, perfino della Marina nazionale repubblicana della quale pure formalmente
faceva parte. Sulle motivazioni del capitano Borghese di mettersi al servizio dei tedeschi
ha pesato certamente anche la sua personale visione del mondo: non poté accettare che
il governo avesse firmato un armistizio senza prima informare il comandante della X MAS,
discendente di papi e principi, che per una sorta di diritto ereditario avrebbe dovuto
essere avvisato di tale iniziativa5.
Vale la pena sottolineare alcune caratteristiche del nuovo Stato fascista che lo
rendevano palesemente uno Stato a sovranità limitata privo di ogni effettiva autonomia.
Gli odierni difensori della RSI vi vogliono vedere uno Stato nazionale italiano sovrano
4
L.E. LONGO, I «reparti speciali» italiani nella seconda guerra mondiale, Murisa, Milano 1991,
pp. 54-63.
5
Sulle motivazioni di Borghese vedi anche: S. NESI, Decima flottiglia nostra, Mursia, Milano
2008, S. BERTOLDI, Salò, vita e morte della Repubblica sociale italiana, Rizzoli, Milano 1994, J.V.
BORGHESE, Decima flottiglia Mas, Mursia, Milano 2005.
183
e indipendente contrapposto al cosiddetto Regno del Sud nella lotta per il potere
nella penisola. La repubblica di Salò continuò (ma sarebbe più esatto dire che iniziò)
a combattere a fianco dei tedeschi per rimanere fedele all’alleanza italo-tedesca e
vendicare il sedicente tradimento del re e di Badoglio che avevano consegnato l’Italia
al nemico. Prescindendo dal fatto che il re era il capo dello Stato e che in base allo
Statuto albertino aveva il diritto di dichiarare la guerra e la pace senza consultare il
Governo e il Parlamento (un’istituzione quest’ultima eliminata grazie alla dittatura
fascista), i nostalgici di Salò amano parlare di onore, di fedeltà e di giuramenti.
Evidentemente però anche i giuramenti hanno una loro graduatoria e quello di fedeltà
al proprio paese e al proprio sovrano, prestato da tutti i militari, contava meno di
quello fra due ideologie. La nascita della RSI servì quindi non tanto a evitare che l’Italia
diventasse «un’altra Polonia», come recita una delle scuse preferite dei neofascisti,
quanto semplicemente a perpetuare nel tempo l’ideologia e la dittatura di Mussolini.
Premesso ciò che cosa mancava alla Repubblica sociale italiana per essere una
nazione sovrana? Praticamente tutto, a cominciare dalla sua stessa fondazione, fatta
dal duce, ma dietro perentoria richiesta nazista. E poi ancora: è sovrano uno Stato che
cede supinamente ampie porzioni del proprio territorio ad un altro paese (Trentino
Alto Adige, Friuli)? È sovrano uno Stato che trasferisce la sua stessa capitale per
soddisfare le richieste del suo alleato? È sovrano uno Stato che lascia internare centinaia
di migliaia di suoi cittadini dal suo alleato? Che lascia completamente in balia della
brutalità di un esercito straniero, ancorché ufficialmente alleato, la sua popolazione?
Che lascia trasferire in Germania le sue industrie più importanti con la scusa di sottrarle
ai bombardamenti (le città tedesche erano attaccate molto più pesantemente di quelle
italiane eppure nessuna industria germanica si è trasferita nell’alleata RSI)? È sovrano
uno Stato il cui stesso capo è protetto da truppe straniere? Che sovranità può aver una
nazione i cui cittadini in tempo di guerra prestano il servizio militare in un esercito
straniero? Migliaia di italiani hanno servito nella Werhmacht e addirittura nelle SS:
quanti tedeschi hanno militato nella GNR?
Ai repubblicani mancava addirittura il requisito basilare per essere un moderno
Stato indipendente, vale a dire quello che viene chiamato il monopolio della violenza,
cioè l’esercizio esclusivo da parte delle istituzioni del potere militare e di polizia.
Come è ben noto, infatti, accanto alle forze armate e di sicurezza ufficiali dello Stato
(esercito, marina, aeronautica, guardia nazionale e questure) operò tutta una miriade
di milizie private agli ordini diretti ed esclusivi di gerarchi e ras di ogni genere che
agivano in maniera del tutto autonoma rispetto al governo di Salò ed a volte anche in
contrasto con esso alla ricerca di interessi privati e criminali o al servizio dell’alleato
nazista. Fra queste possiamo ricordare le bande Koch e Carità, ma anche, e mi riallaccio
al discorso iniziale, la X flottiglia MAS.
Privata di fatto di ogni possibilità di operare in mare e contro gli angloamericani si
trasformerà in un reparto terrestre, specializzandosi nella lotta antipartigiana. Vi furono
alcune eccezioni come le operazioni compiute dal battaglione «Barbarigo6» lungo il
fronte di Anzio e altre azioni minori dei MAS contro il naviglio alleato, ma ormai il
«destino» militare dell’unità era definitivamente orientato verso la guerra antipartigiana.
184
Grazie ad alcuni importanti miglioramenti relativi al trattamento del personale7 e
al rispetto di cui gode presso i tedeschi, che non fanno mistero del loro disprezzo
per le altre forze armate repubblicane, la nuova X MAS di Borghese riesce ad attrarre
nelle sue fila alcune migliaia di italiani. Fascisti irriducibili, illusi della vittoria finale,
avventurieri, militari troppo disgustati dal presunto tradimento del Re che volevano
rimanere fedeli all’alleanza con la Germania nazista (ma avevano giurato fedeltà al Re
e all’Italia e non al patto d’acciaio) ed altro ancora.
Nel corso della guerra di Liberazione assunse una dimensione stimata in circa
20.000 unità8 suddivise in vari battaglioni fra i quali possiamo ricordare i nomi di
«Sagittario», «Barbarico», «Nuotatori paracadutisti», «Lupo», «Colleoni», «Fulmine» ed altri
ancora fino a incorporare, cosa alquanto strana per quello che formalmente era un
reparto di marina, un battaglione di alpini. Ebbe anche una sua unità di intelligence
quale la compagnia O (Operativa) posta agli ordini del tenente Umberto Bertozzi e del
sergente Schininà dell’ufficio I (Informazioni).
Nell’ambiente repubblicano non tutti erano contenti del principe Borghese e dei
suoi comportamenti, tanto che più di una volta si tentò di estrometterlo, di metterlo in
cattiva luce e di arrestarlo, di portare la X all’interno della normale gerarchia militare,
ma senza successo. La fama del suo comandante e il patto stipulato con i tedeschi
permisero sempre al reparto di mantenere una completa autonomia decisionale e
operativa. Anche da un punto di vista delle prestazioni militari più di una voce si levò
contro gli uomini di Borghese: del battaglione «Mai Morti», comandato da Beniamino
Fumai, gli stessi nazifascisti ad esempio ironizzavano sul nome dicendo che i suoi
uomini non morivano mai perché non combattevano mai9.
Nel corso dei venti mesi fra l’armistizio e la liberazione dunque la X MAS si dedicò
prevalentemente alle operazioni antipartigiane compiendo, al pari delle altre forze
repubblicane e tedesche, rappresaglie ed eccidi contro partigiani e civili. Delle
sue azioni in quei venti mesi è rimasta famosa la fotografia che ritrae il partigiano
piemontese Ferruccio Nazionale impiccato dagli uomini di Borghese dopo un fallito
attentato contro il cappellano del reparto; appeso al collo portava un cartello con la
scritta «Aveva tentato con le armi di colpire la X».
6
Il battaglione prese il nome da un sommergibile oceanico della Regia marina affondato nel
giugno 1943. Il battello è rimasto noto anche perché il suo comandante, Enzo Grossi, nel 1942
aveva dichiarato di aver affondato due corazzate statunitensi nell’oceano Atlantico; affondamenti
sempre negati dalle autorità di Washington. Al «Barbarigo» sono invece ufficialmente accreditate
39.299 tonnellate di naviglio nemico affondato, ma nessuna corazzata.
7
Vitto uguale per ufficiali e truppa, promozioni solo per merito di guerra e non più per
anzianità, arruolamento esclusivamente volontario e una paga migliore fra le altre cose.
8
I mezzi d’assalto, Ufficio storico della marina militare, Roma 1992, pp. 211-213.
9
Lo stesso Borghese decise di disfarsi di Fumai e dei suoi «Mai morti» perché ritenuti non
affidabili e non gestibili.
185
La Decima del Sud
Quella parte di marinai che al momento dell’armistizio del 1943 scelsero di non
seguire Borghese e la sua linea di condotta filonazista cercò di raggiungere, chi già
non vi si trovava, il Governo italiano a Brindisi nel sud già liberato dagli alleati. Pur
fra mille difficoltà Badoglio riuscì a creare una piccola forza armata da affiancare agli
angloamericani ed anche la Regia marina fece la sua parte. La X del sud riprese la
sua attività con il nuovo nome di Comando mezzi d’assalto, abbreviato in Mariassalto,
e portò a termine centinaia di operazioni a fianco degli alleati e in appoggio al
movimento clandestino del nord. Secondo l’Ufficio storico della marina militare solo
entro il dicembre 1943 vennero eseguite 250 missioni di sbarco e recupero di sabotatori
e informatori oltre le linee nemiche e 32 missioni di recupero di militari italiani dai
Balcani che consentirono il rimpatrio di 1600 commilitoni. Ricominciarono anche le
vecchie operazioni di forzamento dei porti nemici come quelle del 21 giugno 1944 per
affondare l’incrociatore Bolzano a La Spezia (operazione congiunta con gli inglesi) e
a Genova il 19 aprile 1945 per affondare la portaerei Aquila. Venne tentato anche un
nuovo assalto alla baia di Suda che aveva visto l’esordio operativo della X flottiglia MAS
nel 1941. Comandante di Mariassalto fu Ernesto Forza, già predecessore di Borghese
alla guida dei mezzi d’assalto della marina italiana10.
È noto pure che le due X, quella del nord e quella del sud, rimasero sempre
in contatto durante la guerra di liberazione: una sorta di lavoro preparatorio per
rimettere insieme le due anime del reparto in vista di un dopoguerra che comunque si
preannunciava denso di problemi per le forze armate. A riprova di ciò valga la fuga di
Borghese verso sud nei giorni della liberazione grazie alla collaborazione degli alleati
e dei suoi ex commilitoni11.
Non vi è traccia di un’attività militare della Decima nel reggiano, anche se è da
ricordare che la locale XXX brigata nera venne intitolata a Giuseppe Ferrari, un
volontario reggiano che fu ucciso dai partigiani il 14 ottobre 1944.
10
I mezzi d’assalto, cit., pp. 211-213.
Borghese utilizzò fra l’altro, sebbene con più fortuna, lo stesso stratagemma di Mussolini che
in quegli stessi giorni cercava di fuggire in Svizzera: il dittatore cercò di passare inosservato
indossando un’uniforme tedesca, mentre il comandante ne indossò una statunitense.
11
186
Classificare, pensare, escludere
Un importante seminario di formazione
per docenti
Carlo Pellacani
Promosso dalla Sezione didattica del nostro Istituto – d’intesa con il Mémorial de la
Shoah di Parigi, gli Istituti storici della Resistenza dell’Emilia-Romagna, la Fondazione
Fossoli, l’ANPI e la Commisione sanmarinese per l’UNESCO – nelle giornate del 6-7
novembre e del 6-8 dicembre 2009 s’è svolto il seminario di formazione per docenti
al quale ha partecipato una nostra nutrita rappresentanza costituita da operatori di
Istoreco e da docenti di scuole cittadine.
Il seminario aveva per titolo Classificare, pensare, escludere ed aveva come obiettivo
di mettere in luce il terreno culturale che nel corso del XVIII e del XIX secolo ha
preparato la Shoah e, più in generale, gli altri genocidi di massa del Novecento. Esso
ha fornito elementi di valutazione per identificare alcune tappe di un percorso che ha
condotto a concepire e realizzare programmi di annientamento, in nome della razza,
in un periodo in cui in Europa era prevalente l’esaltazione della forza e della virtù
redentrice della guerra, nonché una ferma convinzione dell’ineguaglianza delle «razze
umane». Tale concezione era possibile nell’ambito di un rifiuto dell’insegnamento
positivista dell’Illuminismo che aveva i suoi cardini nelle proposizioni di libertà,
uguaglianza, fraternità, accolte anche in Italia e alla base delle scelte repubblicane e
democratiche della nostra gente a partire dal 1796.
Il corso, svoltosi a Bologna nei primi due giorni ed a Parigi nelle restanti giornate,
ha fornito ai partecipanti strumenti interpretativi e storiografici che consentiranno loro
di approfondire gli eventi e i temi proposti, soprattutto alla luce delle diverse ricerche
storiografiche pubblicate in questi ultimi anni in Europa. Non sono mancati interventi
più prettamente didattici, con l’intento di offrire agli insegnanti materiali e spunti
di lavoro per la rielaborazione dei concetti discussi in una prospettiva educativa,
declinando al tempo presente un tema di grande attualità come il razzismo.
Qualificato il parterre di studiosi con i quali gli insegnanti hanno potuto confrontarsi.
Tra gli altri, Alberto Burgio, Nicola Labanca, Tal Bruttmann, Georges Bensoussan,
Joel Kotek, Christian Ingrao, Iannis Roder, Valentina Pisanty, Annette Becker, Alberto
Cavaglion, Gianluca Gabrielli.
Determinante per il buon esito dell’iniziativa è stata la collaborazione della Regione
Emilia Romagna (che ha ospitato la prima parte del seminario ed è stata rappresentata
per tutta la sua durata dalla presidente Monica Donini e dall’assessore Massimo
Mezzetti), ma soprattutto la efficienza della struttura operativa del Mémorial de la
Shoah, attraverso la puntuale gestione esecutiva di Laura Fontana e l’ospitalità e i
servizi della sede parigina del Museo.
I partecipanti (oltre sessanta persone, in rappresentanza della Regione EmiliaRomagna, di cui nove per il nostro Istituto) hanno potuto trarre importanti indicazioni
187
per la loro attività, approfittando della condivisione di momenti di forte impatto
culturale e del contatto con valenti studiosi delle logiche di formazione del pensiero
razzista in Europa.
Il giudizio positivo sull’iniziativa che ha accomunato i docenti che hanno potuto
fruire di questa opportunità ha fatto emergere l’esigenza che simili occasioni di
approfondimento e di crescita culturale possano ripetersi negli anni a venire. Tale
attesa è avvalorata dalla convinzione che l’antisemitismo è un retaggio del passato
che non è destinato a scomparire, come afferma autorevolmente Georges Bensoussan.
Arte e design nel mondo diviso
(A margine di una mostra al MART di Rovereto)
Carlo Pellacani
La Guerra fredda la cortina di ferro, le tensioni tra l’alleanza atlantica e i Paesi del
blocco sovietico, oggi sembrano episodi lontani, ma in realtà hanno accompagnato la
storia del Novecento, dal dopoguerra agli anni Settanta, ed hanno ispirato e animato
le manifestazioni della creazione artistica per alcuni decenni.
Due studiosi inglesi, Jane Pavitt e David Crowley, con l’appoggio del Victoria &
Albert Museum di Londra e del Museo d’arte moderna di Rovereto, hanno cercato di
ricostruire il clima di un periodo cruciale per la società, la politica e la cultura mondiale,
attraverso lo sguardo delle arti, dal design all’architettura, dal cinema alle arti visive.
Per raggiungere il loro scopo hanno raccolto e posto in mostra duecentocinquanta
oggetti che potessero testimoniare, nella loro autenticità, le differenze culturali e le
logiche contrapposte in base alle quali le due nazioni più potenti del periodo – URSS
e Stati Uniti – hanno influito sullo sviluppo sociale ed economico delle rispettive aree
d’influenza, condizionandosi vicendevolmente.
Basandosi sulla ricostruzione del percorso ideativo, delle realizzazioni e degli
utilizzi di oggetti e opere artistiche provenienti dai due blocchi del mondo diviso,
i curatori hanno esposto l’evoluzione della Guerra fredda, dal momento del suo
manifestarsi, nel momento della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, alle
fasi più acute e al suo declino dopo trent’anni di competizione acerrima a base di
innovazioni scientifiche, corsa agli armamenti, programmi di edilizia sociale.
Con l’esposizione di materiali provenienti da Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno
Unito, Cuba, Germania Ovest e Germania Est, Italia, Polonia, Francia e Cecoslovacchia,
i curatori della mostra Guerra fredda, arte e design nel mondo diviso hanno promosso
un’approfondita analisi delle conseguenze dirette della contrapposizione del mondo
in blocchi, favorendo una presa di coscienza del divario crescente che si era stabilito
tra le forze in campo e del costo – in termini economici, sociali e culturali – che tale
competizione comportava per le popolazioni coinvolte.
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I nuovi prodotti e le tecnologie industriali del mondo occidentale sono stati messi a
confronto con l’arte e l’architettura del realismo socialista. In questo campo uno spazio
privilegiato è stato fornito all’esposizione delle visioni architettoniche rivali che si
fronteggiavano a Berlino: nella parte est la monumentale Stalinallee e nel settore ovest
i programmi edilizi di Interbau, con il coinvolgimento di protagonisti dell’architettura
moderna come Le Corbusier e Walter Gropius.
La mostra ha dedicato un’attenzione speciale al desiderio di modernità che era
presente nei due poli (basti pensare al celebre dibattito tra Nixon e Kruscev sulla
funzione dello spazio della cucina all’interno della casa), anche se l’immaginario
collettivo era ossessionato dal pensiero di un’incombente guerra nucleare. Per dare
concretezza a tale ansia di progresso tecnico, sono stati esposti oggetti e dati sulle
conquiste dello spazio e sui trionfi della scienza applicata. È stato possibile accostarsi
alla prima navetta spaziale russa e ad oggetti appartenuti a Yuri Gagarin nel suo volo
con la Vostock, ma anche a progetti americani per gli interni delle navette spaziali
della NASA, cui erano affiancate tute sperimentali e mobili e architetture ispirati al
mondo della fantascienza. Tra i documenti esposti non potevano mancare manifesti
e films di carattere propagandistico, giungendo a contrapporre, per documentare
la gara in altezza tra le grandi realizzazioni edilizie, un modello della Post office
tower di Londra e della torre Ostankino di Mosca. Ampio spazio è stato riservato
anche alla presentazione di progetti sviluppati grazie alla ricerca tecnologica derivante
dall’industria bellica e studi di architetti per oggetti di consumo rivolti ad una nuova
società tecnocratica.
Non meno importante, sotto il profilo documentativi, la presenza di fotografie
illustranti il disagio delle nuove generazioni da una parte e dall’altra dei due blocchi.
La mostra e il catalogo, già impegnati in successive trasferte a Mosca e a New York,
hanno costituito un’occasione importante di approfondimento della conoscenza delle
logiche della «Guerra fredda» e degli effetti che tale stato di fatto ha generato nella
collettività mondiale. Essa ha inoltre permesso di confrontare la realtà e le ambizioni
di due mondi divisi, in conflitto per una supremazia che non aveva come fine il
benessere dell’uomo ma unicamente l’affermazione di potenze militari e politiche.
Attraverso materiali e documenti d’epoca è stata realizzata una lezione di storia che
meriterebbe di essere divulgata in modo più ampio tra le generazioni d’oggi.
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Recensioni
I. DEUTSCHKRON, L. RUEGENBERG, Papà Weidt, l’uomo che tenne testa ai nazisti,
RS libri-Istituto Regionale per i ciechi «G. Garibaldi», Reggio Emilia 2009, 10 euro
«Questa è la storia di un giusto: Papà Weidt» sono le prime parole dell’introduzione
scritta da Matthias Durchfeld al libro-testimonianza per ragazzi omonimo. Una piccola
importante produzione di Istoreco e Istituto Regionale «G. Garibaldi» per i ciechi per
svariati motivi. Il primo: perché racconta una storia personale, una microstoria, persa
nella storia con la lettera maiuscola di un uomo coraggioso che ha osato sfidare i
nazisti sul tema delle leggi razziali e della deportazione, un piccolo uomo che non si è
arreso al contesto in cui viveva e ha agito secondo coscienza salvando altre vite, altri
uomini, donne e bambini. Quest’uomo si chiamava Otto Weidt, era un non vedente,
che ha deciso di dare lavoro e trattare umanamente e non conformemente al pensiero
razzista vigente, ad altri che in quel momento erano ai margini della società e stavano
per esserne espulsi attraverso la loro eliminazione fisica: gli ebrei. Otto Weidt ne salvò
diverse decine, molti esseri umani, una persona più una persona più una persona,
quasi cento vite, volti, corpi, ricordi che senza la sua generosa e coraggiosa condotta
si sarebbero persi nei sei milioni di morti assassinati della Shoah, il genocidio del
popolo ebraico.
Otto Weidt come dice il Talmud ha «salvato il mondo intero», salvando vite, e
diventando un «Giusto fra le nazioni», un non ebreo che salva ebrei: è stato definito in
questo modo dal Museo memoriale Yad Vashem di Gerusalemme in Israele che gli ha
riconosciuto questo grande merito.
Papà Weidt è poi importante perché è una testimonianza di una ragazza dell’epoca,
Inge Deutschkron, che oggi parla ai ragazzi di ciò di cui è stata privata, delle
persecuzioni che ha subito, e anche della solidarietà che ha ricevuto nella fabbrica di
spazzole di Otto Weidt e da altri tedeschi che non si erano lasciati mettere i paraocchi
dell’ideologia che si fa legge di stato. La signora Deutschkron l’abbiamo incontrata
a Berlino durante uno dei nostri Viaggi della Memoria che da anni come Istoreco
organizziamo. Il suo volto e la sua voce sono stati fermati nelle immagini del video
che documenta il viaggio. Di lei in questo video (a cura di Andrea Mainardi) dove
incontra gli studenti reggiani in visita allo spazzolificio, ora museo di Otto Weidt,
ricordo due cose limpide e chiare: la sua grinta e la sua determinazione nell’affermare
che «i neonazisti sono dei fuori di testa e gli dovrebbero proibire di dire le cose che
dicono visto ciò che è accaduto» e la sua dolcezza nel ricordare Otto Weidt e ciò che
era riuscito a creare nella sua fabbrica di spazzole: «ci trattava come persone, cosa che
non ci era più capitata da molto tempo, e noi ci sentivamo protetti per la prima volta».
Papà Weidt rientra in un progetto di rilievo del nostro istituto, in collaborazione
con Istituto Regionale «G. Garibaldi» per i ciechi: questa storia, come già accennato,
l’abbiamo conosciuta durante il Viaggio della Memoria a Berlino nel 2009 e i ragazzi
190
della classe 4a A del Liceo Scientifico «Spallanzani» (a/s 2009-10), liceo che come
molte altre scuole della provincia di Reggio Emilia partecipa al progetto, hanno poi
scelto assieme ai loro insegnanti Tiziana Fontanesi e Manuela Marcucci di tradurla
dal tedesco per il giovane pubblico italiano. Ed ecco l’ultimo, ma non ultimo, motivo
di importanza di questa piccola ma preziosa pubblicazione: il pubblico a cui essa
si riferisce. Una storia vera narrata e disegnata per i ragazzi di oggi, una rarità nel
panorama dell’editoria italiana in questo ambito così povera di edizioni originali
e mal fornita anche di quelle storie adatte a un pubblico di giovani lettori che –
provenienti da paesi vicini come Francia e Germania – potrebbero essere benissimo
tradotte e pubblicate in Italia. È adatto a un pubblico di giovani lettori, Papà Weidt,
perché affronta l’argomento della persecuzione razzista e deportazione in modo
non traumatico scegliendo di raccontare una rara storia di solidarietà, che lascia
qualche speranza rispetto al disastro e al vuoto procurato dalla caccia e dall’uccisione
sistematica degli ebrei da parte dei nazisti e dei loro collaboratori in tutta Europa. Il
libro quindi si inserisce in un percorso di divulgazione pedagogica non traumatizzante
già tracciato altrove in Israele e nel vecchio continente. Anche il linguaggio utilizzato
così come l’illustrazione all’interno della narrazione favorisce un approccio soft a temi
ben più «pesanti» che lo rendono perciò particolarmente adatto ai più piccoli.
Papà Weidt quindi nelle nostre librerie e nelle nostre case, letto ai nostri figli, ci
ricorderà di tempi difficili in cui alcune persone hanno compiuto scelte profondamente
coraggiose. Per chiudere con le parole di Durchfeld: «I Giusti, non risultano sui libri
di storia, anche se il loro messaggio è molto importante. I Giusti erano ovunque. Non
esisteva e non esiste un paese dove tutti si comportino in modo uguale. Non erano
grandi eroi né santi. Erano persone che hanno avuto però il merito di salvare, oltre a
delle vite, anche la dignità dell’unica razza che esiste: la razza umana».
Alessandra Fontanesi
M. CARRATTIERI, M. MARCHI, P. TRIONFINO, Ermanno Gorrieri (1920-2004).
Un cattolico sociale nelle trasformazioni del Novecento, (con un saggio introduttivo di
Paolo Pombeni), Il Mulino, per conto della Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi
sociali di Modena, Bologna 2009, pp. 872, 50 euro
L’opera, frutto di una ricerca biennale condotta in équipe da Mirco Carrattieri,
Michele Marchi e Paolo Trionfino, propone un quadro esaustivo – a cinque anni
dalla sua scomparsa – dell’opera e della figura di Ermanno Gorrieri. Come sottolinea
Paolo Pombeni nell’introduzione, si è trattato di un’operazione alquanto rischiosa in
quanto ha dovuto fare i conti con l’esigenza di ricostruire un itinerario esistenziale non
soltanto utilizzando fonti archivistiche, ma confrontandosi con frammenti di vita che
non sono riproducibili nelle pagine di una ricerca storica. A tali difficoltà si è sommata
la peculiarità di un personaggio la cui attività si è sviluppata in un arco temporale
che copre quasi tutto il Novecento e presente in contesti diversi tuttora da acquisire
sul piano storiografico. La storia personale di Gorrieri ha portato, poi, i ricercatori a
scontrarsi con un andamento divergente tra documenti d’archivio e studi sul periodo,
a favore di questi ultimi nella fase iniziale della vicenda da narrare e caratterizzata da
assenza di riferimenti storiografici nell’ultima fase.
191
I tre studiosi che hanno svolto la ricerca per conto della Fondazione modenese,
hanno suddiviso la loro fatica per periodi. Michele Marchi ha sviluppato il percorso
evolutivo della storia personale di Gorrieri dal 1920 al 1963, proponendone un’analisi
dettagliata dello sviluppo culturale, dell’affermazione della sua coscienza democratica
e del consolidarsi del ruolo di attivista politico e sindacale. A Paolo Trionfino è stata
affidato il compito di delineare l’articolata militanza politica nella Democrazia cristiana,
a livello locale e nazionale, e la partecipazione allo sfaldamento della «nazione cattolica»
nonché ai tentativi di rifondare tale partito. Mirco Carrattieri ha analizzato la storia di
Gorrieri dall’inizio degli anni Ottanta e fino alla sua scomparsa, un periodo denso
di iniziative e di sperimentazioni, con un’attenzione permanente alla responsabilità
sociale della politica e alla ricerca di uguaglianza nelle condizioni di vita dei cittadini.
La ricostruzione storica della vita di Ermanno Gorrieri, pur con le approssimazioni
derivanti dalla difficoltà di contestualizzarne ogni aspetto, costituisce un contributo
di grande importanza per la conoscenza del Novecento. Il lavoro, realizzato per
esplorare e divulgare la straordinaria figura e la variegata attività di questo modenese
d’eccezione, rappresenta un tassello insostituibile per la comprensione di un periodo
ancora largamente inesplorato. Il merito spetta ai tre ricercatori e a quanti hanno
inteso – tramite loro – conservare la memoria di un convinto e pervicace testimone
dell’impegno politico per il bene comune.
Carlo Pellacani
G. NOTARI, Hai un cuore forte, puoi correre. Autobiografia di un partigiano
montanaro, prefazione di Antonio Zambonelli, Edizioni Consulta, Reggio Emilia 2010,
pp. 128, 12 euro
Giacomo Notari, partigiano montanaro e attivamente impegnato nella vita pubblica
reggiana prima di essere chiamato a presiedere l’ANPI di Reggio Emilia nel 2002, affida
a queste pagine la storia di una vita intensa, vissuta senza ripensamenti. La narrazione
è vivace e avvincente, ricca di riferimenti e di informazioni su eventi che hanno
caratterizzato il periodo bellico e la ricostruzione politica e civile della provincia
reggiana.
Notari adotta come confini della sua autobiografia l’amore per l’ambiente montano,
la passione politica e l’attaccamento alla famiglia. Tre cardini attorno ai quali si
sviluppano ottanta anni di vicende personali e di impegno pubblico, visti nell’ottica di
un abitante di Marmoreto di Busana che si mantiene costantemente avvinto alle sue
radici.
L’opera fornisce una fotografia fedele dell’evoluzione sociale e politica del Novecento
attraverso la descrizione delle motivazioni e della partecipazione dell’Autore alla lotta
per la libertà e per la democrazia: unitamente al resoconto efficace e documentato
di vicende partigiane e di incarichi elettivi svolti nel dopoguerra, accoglie descrizioni
particolareggiate degli usi, dei costumi e delle bellezze naturali dell’Alto Appennino.
Completando le informazioni fornite da preziose immagini didascaliche, la
prefazione di Antonio Zambonelli sottolinea la capacità dell’Autore di mantenere un
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atteggiamento di understatement, cioè di non cedere alla propensione a ipervalutare
ruoli e funzioni, spesso adottata da parte di chi stende la propria autobiografia.
Per gli aspetti indicati l’opera costituisce un supporto attendibile per la
comprensione di un periodo del secolo scorso che lamenta carenze di ricostruzione
storiografica, contribuendo a colmare carenze conoscitive e sanando informazioni
distorte.
Carlo Pellacani
M. CARRATTIERI, G. VECCHIO, La Penna. Periodico indipendente, Riproduzione
anastatica, Edizioni Diabasis, 2010, 60 euro.
Esce, a quarant’anni di distanza, l’edizione anastatica dell’intera raccolta del periodico
«La Penna», il giornale che riporta le cronache e le polemiche sull’attività resistenziale
a Reggio nel periodo bellico e nell’immediato dopoguerra nell’ambito della quale è
maturata l’uccisione di Giorgio Morelli, giovane e tenace volontario della libertà. Come
allora, la pubblicazione ha sollevato interessi e attese. Anticipando aspetti di ricerche
in corso, il volume accoglie significativi contributi storici su questioni irrisolte della
biografia del Morelli e del suo impegno politico, ma anche sull’interpretazione dei fatti
e sull’uso e sull’abuso della memoria.
Mirco Carrattieri effettua un attento risarcimento dell’autonomia e dell’originalità
della figura di Giorgio Morelli, solitario per scelta esistenziale ma anche per costrizione
degli eventi nei quali si trova avviluppato. «La tragedia del Solitario», scrive Carrattieri,
«non può essere di seconda mano, né avere secondi fini», come è invece ridotta
ad essere da parte di coloro che ne fanno «oggetto di polemica politica più che
di un’accurata ricostruzione storica». È un richiamo esplicito all’utilizzo, non sempre
metodologicamente lineare, che Giampaolo Pansa e certa pubblicistica di parte hanno
fatto di questa vicenda. Ed è un invito pressante ad approfondire le indagini su una
storia umana e politica che s’innerva con decisione nella realtà reggiana dell’immediato
dopoguerra e trae le sue ragioni più profonde dall’esercizio della lotta partigiana e
dalla condivisione di ansie e speranze di un’intera collettività.
«Si tratta di un’esperienza molto legata al suo contesto e ai suoi straordinari attori,
anche se non ha avuto un seguito significativo», conclude Carrattieri. Tali ragioni
rappresentano una forte sollecitazione a decifrare la reale portata di un percorso di
vita e d’impegno politico che coinvolge altri personaggi reggiani, identificati «per il
loro coraggio nell’assumere gravose responsabilità, ma anche per il loro approccio
alla vita pubblica».
L’edizione anastatica del giornale morelliano offre la stura per un risarcimento
del suo apporto alla stagione di lotte e di speranze che nasce dalla fine del conflitto
armato, quando una rigida contrapposizione ideologica e lo scontro fratricida sembrano
minare proiezioni ideali.
Giorgio Vecchio fornisce un’analisi di controverse interpretazioni della memoria
storica, spesso contrabbandate come volontà di conseguire una «memoria condivisa»
che naufraga in una ricostruzione disonesta dei fatti, fatta celando i lati oscuri e
193
rimuovendo le differenze. Altrettanto rilevante è, per Vecchio, l’esigenza di
contestualizzare il passato, evitando la prassi generalizzata e fuorviante di formulare
giudizi sugli eventi e sui comportamenti delle generazioni che ci hanno preceduto
sulla base delle conoscenze e delle consapevolezze dell’oggi. Inoltre, lo storico pone
in risalto gli effetti dell’onda lunga della violenza che spesso si somma con quella della
memoria, creando effetti perversi per lunghi periodi, travalicando la responsabilià
delle generazioni direttamente coinvolte.
Questa analisi, complessa e fluida nel suo farsi, rende problematico un giudizio
sulle manifestazioni di violenza dei giorni antecedenti o seguenti la Liberazione. Esse
paiono non derivare da razionalità, calcolo politico, programmazione, quanto essere
frutto di individualità represse, di paure inconfessabili, di mire di potere personale o di
vendette per torti subiti. Della complessità e diffusione del fenomeno, più che di una
verifica quantitativa, è espressione il costante monitoraggio degli eventi e l’attenzione
che i massimi dirigenti nazionali dedicano loro.
L’epopea morelliana si colloca in questa fase con la determinazione e la risolutezza
di un sovversivo, indifferente alle intimidazioni, proteso a smascherare fatti e
comportamenti che non riescono a trovare adeguata copertura in versioni di comodo.
Con i suoi scritti e con il suo atteggiamento, Giorgio Morelli ricerca verità e giustizia
tra le piaghe purulente di una classe dirigente che non riesce a recuperare i caratteri
di una comunità che aveva sempre professato coesione sociale e alacre laboriosità.
Molti aspetti non sono ancora ben chiariti a sessant’anni di distanza, né è così facile
comprendere le ragioni dei protagonisti, spesso travolti dal contesto di lotta.
«La Penna», con le ingenuità ed esacerbazioni proprie dell’età giovanile, è specchio
fedele di un periodo che ha inciso profondamente sul processo di affermazione di una
cultura democratica nella nostra comunità.
C’è da augurarsi che, sull’onda del crescente interesse per la comprensione di tali
momenti, le ricerche su Giorgio Morelli possano continuare, e con esse anche quelle
relative all’immediato dopoguerra e alle fasi successive della ricostruzione nazionale.
Sarebbe, questo, il modo migliore per risarcire la figura e l’opera del Solitario.
Ci sia consentita una nota sulla scelta del formato del volume. La difficoltà di
comprensione dei testi originali e il rispetto delle dimensioni originali della raccolta
non sono ripagate dalla scomodità di lettura e di gestione del volume, ridotto a icona
rappresentativa più che a strumento di approfondimento e di divulgazione di una
testimonianza umana e politica. Tali ragioni, purtroppo, disperdono gran parte del
recupero storicistico, non agevolano la percezione della reale portata dei contenuti e
tolgono meriti ad un’iniziativa editoriale qualificata.
Carlo Pellacani
G. RINALDI, I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie, Ediesse,
Roma 2009, pp. 198, 10 euro
Negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, molti convogli ferroviari
trasportarono migliaia di bambini dalle zone devastate della guerra e travolte dalla
miseria dell’Italia centromeridionale (ma anche da grandi città come Milano) verso
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l’ospitalità di altrettante famiglie dell’Emilia Romagna (e la città di Reggio è stata in
prima fila), della Toscana, delle Marche. Una ospitalità ispirata senza dubbio anche da
motivazioni politiche (fu una iniziativa in sostanza di comunisti), ma più sensatamente
parleremo di un profondo senso civile di solidarietà. Il libro di Giovanni Rinaldi, un
ricercatore pugliese che da tempo si occupa di memorialistica, rappresenta appunto
un primo, fondamentale punto fermo nella ricostruzione e nella divulgazione di questo
vero e proprio fenomeno di massa – un fenomeno, sia detto per inciso, che appare
ancora più formidabile (e anche incomprensibile) a rileggerlo con gli occhi dell’Italia
di oggi; davvero da allora una «rivoluzione antropologica» si è consumata nel nostro
Paese. Come oggi sarebbe possibile una solidarietà comunista di quella ampiezza, di
quella intensità?
Il volume è a un tempo una raccolta di interviste, sia ad alcuni bambini allora
ospitati, sia a membri (quasi sempre allora pure bambini) di alcune famiglie ospitanti,
ma anche un racconto del farsi di questa ricerca, un saggio sul costituirsi di un
interesse e di una serie di relazioni e conoscenze. Che cosa spicca da questi dialoghi,
da queste testimonianze raccolte con tanta fatica? Va detto anzitutto del magnifico
lavoro, spontaneo, dal basso, diffuso, spesso in conflitto con i vertici del PCI, svolto
dalle militanti e dalle responsabili dell’UDI, per riuscire a formare i treni, per garantire
un’ospitalità diremmo oggi di «qualità» (sanitaria, educativa, ricreativa), anche grazie
poi al supporto di diversi amministratori locali. Per molti bambini poverissimi del
sud l’Emilia era già quel «mondo nuovo» sognato da tanti. Queste esperienze non
potevano che creare conflitti, anzitutto nelle menti di quei ragazzi catapultati da
un’Italia a un’altra, catapultati in un ambiente radicalmente diverso per mille ragioni,
da un sottoproletariato assillato dalla fame a contesti di famiglie proletarie (spesso di
«aristocrazia operaia»), dove già si poteva immaginare una vita nel benessere. Conflitti
nascevano quando i bambini dovevano dopo qualche mese rientrare nelle famiglie
d’origine, che giudicavano ormai con occhi irrimediabilmente diversi. In molti casi
essi hanno deciso di tornare in Emilia, e molti vi hanno passato la vita. Le famiglie
d’origine a loro volta si ritrovavano dei figli «viziati», abituati a mangiare più e meglio,
a indossare vestiti che non fossero stracci, a usare le scarpe. E dire che – questo è un
tema che ritorna costantemente nelle testimonianze – i bambini spesso partivano con
nella testa le paure instillate loro dalla propaganda anticomunista dei parroci (e non
solo da quelli). Ad esempio: «“Ricordo solamente che partimmo da questo paese, e
c’erano anche i miei genitori. Tutti dicevano: ‘Non li mandate via perché là ci sono i
comunisti che se li mangiano!’. Ricordo il viaggio di notte, che a me sembrò eterno e
il cartellino col nome che mi avevano cucito al cappotto perché ero la più piccola”.
Anche lei ripete di aver viaggiato nel terrore perché prima di partire, al paese, le
avevano raccontato che in Romagna i comunisti bruciavano i bambini» (p. 140).
Questo libro è anche la cronaca di un lungo viaggio alla ricerca di un’Italia ormai
scomparsa, un’Italia dove l’ospitalità verso i bambini del dopoguerra non era spesso
che la prosecuzione dell’ospitalità verso partigiani e soldati alleati durante la guerra.
Francesco Paolella
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M. NACCI, Storia culturale della Repubblica, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp.
149, 14,50 euro
Questo libro è una rassegna ricca e complessa della saggistica prodotta attorno al
cosa, al chi e al come della cultura italiana dal secondo dopoguerra a oggi, ossia: a
che cosa sia stato e sia oggi considerato «cultura» nel nostro Paese, al potere rivestito
dagli intellettuali italiani (e ai rapporti degli intellettuali con il potere), agli strumenti
a disposizione della cultura (editoria ed altri mezzi di comunicazione, istituzioni,
università). Al centro del volume sta appunto il libro come prodotto culturale, ma
anche come merce caduta negli ultimi tempi in un coma pare irreversibile.
Una storia della cultura italiana (e quindi dell’identità italiana) dal 1945 non può
fare a meno di alcuni ingredienti: le riflessioni sul fascismo (e quindi sull’antifascismo
degli intellettuali), l’irrazionalismo, il provincialismo, l’antitecnicismo come elementi
costanti, il rapporto fra politica (il PCI su tutti) e la cultura (l’intellettuale organico, i
compagni di strada). Michela Nacci attinge ai libri di Gramsci (il Gramsci dei Quaderni),
di Bobbio, di Garin, di Del Noce, e colloca agli anni Settanta il momento in cui l’Italia
ha iniziato a cadere, a perdere, a svuotarsi, anche culturalmente. Si è trattato di una
frattura prodotta dall’intricarsi e sovrapporsi di tanti elementi: l’«impero irresistibile»
del consumismo, la fine delle ideologie, la confusione crescente fra «destra» e «sinistra»
(ricordarsi dell’ultimo Gaber!), la decadenza del ruolo dell’intellettuale, la desolazione
dell’università e delle istituzioni culturali. Oggi la cultura non è che il punto di incontro
– non conflittuale – fra politica (interessi particolari) e spettacolo (in senso lato): le
lauree honoris causa a sportivi e cantanti lo dimostrano con violenza. Si è creato
un cortocircuito fra cultura alta e cultura bassa (di massa), fra editoria, televisione,
pubblicità: tutto è diventato «oggetto culturale».
Quale è allora il rischio di una posizione «neoapocalittica», secondo la definizione
classica di Eco del 1964, che la Nacci rielabora? È quello di cadere nella nostalgia
confusa, nel conservatorismo cieco, nell’idolatria di un passato per molti versi pure
pessimo (ad esempio dal punto di vista della miseria e delle ingiustizie, del ruolo
supino degli intellettuali verso il potere, ecc.). Non bisogna assumere la modernità
come «feticcio negativo». L’ultimo capitolo del volume, L’epoca e il suo spirito, senza
dubbio il più interessante, è appunto dedicato alla rappresentazione di questa
posizione «neoapocalittica», tanto ormai diffusa quanto (almeno all’apparenza)
radicale. Michela Nacci cita due autori, Claudio Giunta (L’assedio del presente, Il
Mulino 2008) e Raffaele Simone (Il Mostro mite, Garzanti 2008) come le espressioni
più compiute di questa attuale (ma non nuova) autoriflessione della cultura italiana:
che Paese è oggi il nostro? Dobbiamo collocarlo in una prospettiva di crescita o di
declino? L’Italia è una nazione avanzata oppure arretrata? Questi temi, trasversali a
ciò che resta della destra e della sinistra, vengono letti alla luce di una modernità
cattiva e fallimentare, in uno stato di allarme permanente: il progresso è perdita secca
di cultura. La cultura autentica è scomparsa o ridotta a un fantasma, dominano la
pigrizia, il disinteresse, il cinismo, l’omologazione; i «nuovi soggetti culturali», come
i giovani, le donne, ma anche i migranti, sono schiavi ebeti del consumismo. E che
dire degli «imbecilli specializzati» di cui parlava Flaiano? Le masse sono abbrutite dalla
televisione, dall’ignoranza, dalle spese compulsive. Consumismo e tecnologia sono
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mostri ormai ingovernabili, male puro. Questo affermano i «neoapocalittici» nel quadro
fatto dalla Nacci. Ecco allora tornare (di moda) la lezione dei francofortesi e imporsi
quella di Bauman, ed ecco soprattutto dominare l’immagine di Pier Paolo Pasolini,
usato come un «padre spirituale» di questa corrente. Per l’autrice si tratta però di
un Pasolini addomesticato, imbalsamato nel ruolo un po’ ingenuo di «poeta delle
lucciole», di un difensore paradossale (solo paradossale) di una tradizione tutt’altro che
dorata. E su questo non si può che essere d’accordo. Sicuramente avremo sempre più
bisogno delle profezie del poeta bolognese, ma certo non di un suo santino alla lunga
irritante. Non ha davvero senso contrapporre in maniera assoluta passato e presente;
non si può invocare una tradizione di purezza intellettuale rispetto all’orrore attuale.
D’altra parte, i «neoapocalittici», pur facendo bene a denunciare con ostinazione la
desolazione attuale e l’assenza di prospettive, non possono rinunciare alla prospettiva
del cambiamento e al riconoscimento (almeno della necessità) di un soggetto politico
per il cambiamento. La storia, la ricostruzione minuta e marginale delle origini
(economiche, politiche, culturali) del disastro presente, possono essere senza dubbio
un sostegno a questa battaglia ancora tutta da inventare (e probabilmente da perdere).
Francesco Paolella
G. MAMELI, Fratelli d’Italia (a cura di D. Bidussa), Feltrinelli, Milano 2010, pp. 122,
6.50 euro
In anticipo rispetto le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, nel corso delle
quali è prevedibile che qualche spazio verrà riservato a controverse prese di posizione
sull’inno nazionale e sul suo autore, David Bidussa ha raccolto gli scritti di Goffredo
Mameli, poesie d’amore e convincimenti morali, ma soprattutto gli articoli e i proclami
politici che egli produsse nel periodo 1846-1849, emblematici di una fede salda nei
valori risorgimentali e di una forte speranza nella nascita di uno Stato democratico
e unitario. Goffredo Mameli fu, prima di Mazzini, tra i fondatori della Repubblica
romana nel 1849. E morì alle porte di Roma il 6 luglio di quell’anno (dopo un’agonia
durata quasi un mese) per il «fuoco amico» di un bersagliere che partecipava all’assalto
per riconquistare posizioni occupate dalle truppe francesi. Garibaldi e Bixio (anch’egli
ferito) assistettero alle sue ultime ore, mentre Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi, Carlo
Armellini, Giuseppe Montanelli gli fecero visita più d’una volta all’ospedale Trinità dei
Pellegrini ove gli era stata amputata una gamba. Per la sua eroica condotta nel fatto
d’arme, il generale Giuseppe Avezzana gli conferì la promozione a capitano.
Nei suoi scritti Mameli denota lucidità cospirativa e determinazione unitaria,
confermando la fondatezza della descrizione che ne rese Giuseppe Mazzini dopo la
morte, quando annotò che era un giovane dotato di «dolcezza quasi fanciullesca e di
un’energia di leone da rivelarsi in circostanze supreme».
L’opera di Bidussa riprende e completa la ricostruzione biografica che Antonino
Mameli ha steso nel 2002 (Un gigante del Risorgimento, con prefazione di Sandro
Pertini) e che resta finora l’opera più completa sul patriota piemontese, in nome del
quale si è costituita anche un’associazione culturale che si prefigge di valorizzarne la
memoria.
197
Gli scritti di Goffredo Mameli sollecitano, però, un altro problema che resta
tuttora irrisolto, cioè il riconoscimento ufficiale di «Fratelli d’Italia», con le parole
di Mameli e la musica di Michele Novaro, quale inno nazionale quale di fatto è
dal periodo risorgimentale. È noto, infatti, che il 12 ottobre 1946 si adottò tale inno
provvisoriamente ed esclusivamente per le cerimonie militari, essendo manifestata la
volontà di provvedere in tempi successivi alla sua adozione quale inno dello Stato
italiano. Tale decreto non è mai stato emanato, ma le parole di Mameli e le musiche di
Novaro continuano a rappresentare l’Italia in tutte le manifestazioni ufficiali, essendosi
meritati importanti apprezzamenti nel corso degli anni. Essi rappresentano un valore
simbolico che si accompagna indissolubilmente alla nostra bandiera.
È del 2002, per iniziativa dello stesso Antonino Mameli e presentata in aula
dall’onorevole Agostino Ghiglia, una prima petizione parlamentare per il riconoscimento
ufficiale dell’inno. Non avendo completato l’iter previsto, nel 2006 fu presentata
(questa volta per iniziativa di chi scrive e di Antonino Mameli) una seconda petizione,
ripetuta nell’agosto 2008 per sopravvenuta conclusione della legislatura. Anche questa
è iscritta nell’agenda della Commissione affari costituzionali del Senato, ma non se ne
ravvisa alcun interesse all’esame definitivo.
La pubblicazione degli scritti di Goffredo Mameli e il suo sacrificio per la causa
dell’unità nazionale probabilmente possono sollecitare maggiori attenzioni a sanare
un vulnus legislativo ed a fornire il dovuto riconoscimento ad una parte così
rappresentativa della nostra storia.
Il volume di Bidussa costituisce pertanto una buona occasione per far conoscere
nella sua reale dimensione una delle testimonianze più vive della nostra storia
risorgimentale e per promuovere il consolidarsi dell’orgoglio di appartenenza di
vecchi e nuovi cittadini.
Carlo Pellacani
P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino,
Bologna 2004, pp. 152, 11.50 euro
Il filosofo Paul Ricoeur, notoriamente uno degli interpreti più acuti del pensiero
freudiano, affronta l’uso equilibrato dell’analisi storica, rifuggendo dalla malattia storica
causata da un sapere puramente retrospettivo e provocando una catarsi, attraverso il
perdono, che consenta «un nuovo inizio» in grado di alleviare e rischiarare le mete del
futuro.
Come sintetizza Remo Bodei nella prefazione, Ricoeur propone di «prendere
serenamente congedo dal passato» e di non macerarsi per sempre nel melanconico
sentimento della perdita, nella paura che tutto sfugga e precipiti nel nulla.
Per giungere a queste conclusioni, il filosofo francese parte dalla considerazione
che il passato, in quanto non è più, indica che qualcosa va sempre irrimediabilmente
perduto a causa della potenza corruttrice e distruttiva del tempo. A questo aspetto
negativo il tempo accomuna il lato positivo dell’anteriorità dell’essere, identificato
nella «cosa assente, nella sua permanenza umbratile, non garantita dalla memoria, ma
suscettibile di essere evocata attraverso un ricordo che torna».
198
Il ricordo, oltretutto, non resta immutato nel tempo. Come evitare di immobilizzarlo
e di falsificarlo?, si chiede Ricoeur. Accettato come verosimile che la storia e la
memoria siano condannate a «oscillare fra fiducia e sospetto» l’unico rimedio consiste
nel rivendicarne una dimensione etica, realizzando un nuovo rapporto tra passato,
presente e futuro in cui trovi posto anche il gesto del perdono. Ricoeur ritiene il
perdono contrario all’oblio passivo e richiede un «sovrappiù di lavoro della memoria»
in quanto non verte sugli avvenimenti in se stessi, la cui traccia deve al contrario
essere accuratamente protetta, ma sulla colpa.
«L’oggetto dell’oblio – dice Ricoeur – non è l’avvenimento passato, l’atto criminale,
ma il suo senso e il suo posto nell’intera dialettica della coscienza storica». E precisa:
«C’è bisogno di un nuovo rapporto con la colpa e con la perdita», introducendo «il
lavoro del lutto accanto al lavoro della memoria» e fornendo una dimensione al
«perdono difficile, che prende sul serio il tragico dell’azione» e «punta alla radice
degli atti, alla fonte dei conflitti e dei torti». In questo modo si sciolgono i nodi delle
controversie insuperabili, dei danni e dei torti irreparabili. E si frantuma «la logica
infernale della vendetta perpetuata di generazione in generazione», tracciando una
linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito, che porta a prendere congedo dal passato
ed aprire una pagina nuova nella propria vita e nel proprio tempo.
Il lavoro di Paul Ricoeur, docente alle Università di Nanterre e di Chicago, si
aggiunge ai sei precedenti già pubblicati dal 1965 al 1970 e delinea un percorso
coerente di rottura con il determinismo storico. Esso offre spazi alla rimeditazione delle
aperture, delle possibilità, delle intenzioni degli uomini del passato mentre vivevano
e decidevano, e reintroduce nel corso della storia una componente di contingenza. In
tal modo il tempo che separa lo storico dal passato e dai morti di tutte le generazioni
precedenti diventa il «cimitero delle promesse non mantenute», da risvegliare e da
realizzare da quanti hanno la responsabilità della cosa pubblica. Questa è per Ricoeur
la «politica della giusta memoria».
Carlo Pellacani
L. CANFORA, La storia falsa, Rizzoli, Milano 2008, pp. 322, 17 euro
È intrigante il saggio di Luciano Canfora, perché svela passaggi sconosciuti della
nostra storia passata e recente, ma soprattutto perché affronta con determinazione
gli effetti di interpretazioni false di eventi che hanno influito in modo decisivo
sull’evolversi delle situazioni e sulle conoscenze di intere generazioni. Ed è ancor
più coinvolgente in quanto, inducendo ad effettuare agganci con recenti polemiche
relative a protagonisti e fatti della politica italiana del secondo Novecento, fa meditare
sulle controverse versioni di cui si avvalgono gli storici e i testimoni dei periodi
considerati. Come afferma Canfora riferendosi a Spriano e al suo Gramsci in carcere
e il partito del 1988, «lo sforzo di salvare il salvabile della storia sacra» può avere il
respiro corto e può indurre addirittura l’effetto contrario, rendendo «inefficace, specie
presso interlocutori ostili, anche il meglio della fatica» dello storico. In quel caso
l’ancoraggio alla «storiografia di partito» ha leso la credibilità del comportamento
risoluto e coraggioso di Togliatti nel 1938, quando si oppose al fanatismo cominternista
199
di Berti, solidale con la critica di Manuil’skij a Gramsci.
Quello di Spriano è soltanto un episodio di utilizzo della storiografia a fini
particolari. La casistica è ben più vasta, trovando esempi significativi anche nella
trattazione della storia giacobina della Francia rivoluzionaria e nella storia «sabauda»
del Risorgimento italiano.
Canfora dedica il suo saggio (ultimo di una serie che comprende Il mistero di
Tucidide ma anche Il papiro di Dongo, Esportare la libertà, Un mito fallito e Il papiro
di Artemidoro) a tre esempi di falsificazioni che hanno influito sul corso della storia,
confermando l’attendibilità del timore che i criteri di identificazione di un falso possano
costituire un campo minato. A scapito della verità storica, ovviamente.
Il primo «caso» cui Canfora dedica le sue attenzioni nasce dalle specifiche
competenze dell’autore, docente di filologia classica all’Università di Bari. È la vicenda
di Pausania, il potente re di Sparta, vincitore nella battaglia di Platea contro i persiani
nel 479 AC e successivamente accusato di avere avuto contatti con il nemico sulla
base di una lettera al re di Persia e alla risposta di quest’ultimo. Entrambe le lettere
sono riportate da Tucidide, anche se la lettera di Pausania, che per quel documento
compromettente fu murato vivo nel tempio nel quale si era rifugiato in nome del
diritto di asilo, risultò poi essere un falso. Pausania ha pagato per una colpa che non
ha commesso e si è dovuta attendere l’investigazione di attenti studiosi di duemila
anni dopo per accertarne l’innocenza. Ma soprattutto il decorso degli eventi è stato
falsato da una denuncia falsa.
L’altro passaggio documentato da Canfora riguarda la storia più recente,
collocandosi nel periodo 1923-24, gli anni della malattia di Lenin e delle sue proposte
al XII congresso del partito comunista sovietico per una sostituzione di Stalin alla
segreteria in ragione della ruvidezza e slealtà dei suoi comportamenti. Il promemoria
di Lenin non giunse mai all’esame dei congressisti. O meglio, vi giunse ma mutilato
della parte relativa alle critiche a Stalin, come ha potuto stabilire lo storico Buranov nel
1994. Anche in quel caso il corso della storia fu falsato e la ricostruzione degli eventi
nella loro realtà ha faticato a trovare adeguata evidenza nonostante sull’argomento si
siano confrontati eminenti studiosi.
Più «attuale» e controverso il terzo caso di forzatura del corso della storia: si riferisce
alla detenzione dei dirigenti comunisti Scoccimarro, Terracini e Gramsci presso il
carcere di San Vittore a Milano. I fatti si svolgono nel 1928 e sono originati da una
lettera a firma «Ruggiero» che viene spedita ai tre soggetti. È una lettera dal contenuto
tanto compromettente da far esclamare al giudice: «Onorevole Gramsci, lei ha degli
amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera». Chi scrisse
quella lettera e quale iter seguì il documento? Avvalorava esso la convinzione dello
stesso Gramsci che i suoi compagni non avevano fatto tutto ciò che era nelle loro
possibilità per salvarlo dal carcere? Su questi interrogativi si è sviluppata un’attenta
ricerca archivistica, che ha preso avvio da una segnalazione dello stesso Canfora
del 1968 ed è poi stata ripresa da Spriano e da altri studiosi della storia del partito
comunista che tentarono una difesa d’ufficio di Grieco, in quegli anni esponente di
punta del partito. Dalla comparazione dei testi di diversi anni dopo (anni Ottanta) è
emerso che le lettere furono oggetto di manipolazione (se non di rifacitura totale),
ma soprattutto che l’iniziativa di inviare una lettera da parte di un contumace a tre
200
imputati in carcere non fu condivisa da Togliatti. Ne derivava pertanto uno scenario
del tutto nuovo relativamente alla stesura della storia dell’incarcerazione e della morte
di Gramsci. Ma si era già negli anni Novanta, quasi sessant’anni dopo lo svolgersi degli
eventi e nonostante si fossero spesi fiumi d’inchiostro per una difesa disperata. Frutto
d’una storia falsa, appunto.
Carlo Pellacani
A. GIANNULI, L’abuso pubblico della storia. Come e perché il potere politico
falsifica il passato, Guanda, Parma 2009, pp. 368, 18,50 euro
«La storia è il suo uso pubblico, coincide perfettamente con esso», dichiara senza
tentennamenti Aldo Giannuli. E rincara l’affermazione chiedendosi: «Ma la storia, al di
fuori della comunicazione delle sue acquisizioni, a cosa serve?».
Da queste premesse è facile intuire il taglio problematico che Giannuli riserva al
suo lavoro. Egli è convinto che fra la storia e la politica esista un’attrazione reciproca
e inevitabile, in grado di tradursi in un rapporto elettivo fra lo storico e il potere. E
non ravvisa motivi di perplessità nel fatto che il potere politico cerchi di usare la
storia ai propri fini, definendo «moneta corrente di ogni epoca e paese» strumenti
come le cerimonie pubbliche, la monumentalistica, la toponomastica, gli indirizzi
nell’insegnamento della storia, la definizione delle materie storiche specialistiche a
livello universitario, le scelte di finanziamento di una ricerca piuttosto che un’altra. Si
tratta di un condizionamento che si è espresso in gradi diversi a seconda del tipo di
forma statuale da cui proveniva.
E tale condizionamento assume livelli diversi, dal negazionismo fino al revisionismo,
intersecandosi con certezze storiche e regimi che parevano dover durare per sempre
sono andati in briciole, e nel contempo i valori che li avevano sorretti sono messi in
discussione, tallonati da altri che cercano di rimpiazzarli.
Se può essere condivisa la convinzione che i resoconti storici non sono mai
neutrali perché ogni analisi storica implica decisioni e scelte, è altrettanto vero che
«lo storico ha il diritto di porre al passato le domande che ritiene, ma non di dettare
al passato la risposta che vorrebbe sentire» come sta evidenziando in modo ripetuto
buona parte della storiografia italiana della seconda metà del Novecento. Così come
appare sconcertante la presunzione di non rispettare le premesse scientifiche della
disciplina, ma di intervenire su fatti e comportamenti con una logica cronachistica o
peggio ancora da romanzo d’appendice.
Più di ogni tentativo revisionista, questo è il più grave abuso che si sta facendo della
storia, cui compete di ridefinire identità, giustificare interessi e legittimare aspettative
che siano fondamento per il senso comune e motivino strategie.
Il potere politico avverte l’esigenza di controllare la produzione storica e la
partecipazione alla vita civica e politica che da essa deriva. Già cinquecento anni
or sono Machiavelli forniva al Principe un’adeguata legittimazione e gli strumenti
concettuali per un progetto di espansione o conservazione del suo potere. Tale
correlazione era motivata allora come oggi dalla consapevolezza che nessuna strategia
politica è pensabile senza una base storica. E che lo sviluppo di una collettività non
201
può prescindere da un rigoroso senso della memoria.
Ciò che invece non trova alcuna giustificazione è che «si approvino leggi che
stabiliscano cosa si possa o non si possa scrivere in materia storica e una parte del
dibattito finisca nelle aule dei tribunali» oppure si creino commissioni parlamentari
che si arroghino il diritto di stabilire una verità storica, delegando ai servizi segreti la
definizione di vere e proprie operazioni storiografiche.
Questi comportamenti, eccedenti le regole della convivenza democratica, mettono
a repentaglio le basi dello Stato repubblicano. E costituiscono un vero e preoccupante
abuso della storia.
Carlo Pellacani
L. GUERZONI (a cura di), Quando i cattolici non erano moderati. Figure e percorsi
del cattolicesimo democratico in Italia, Il Mulino, 2009, pp. 292, 20 euro
D. MENGOZZI (a cura di), La «sinistra (cattolica) modenese». Cronache di una
singolare esperienza politica di base, Centro culturale Francesco Luigi Ferrari, Modena
2009, pp. 304, s.i.p.
I due volumi meritano una recensione congiunta per più motivi: intanto perché
indagano su un periodo di particolare effervescenza dei cattolici emiliani e modenesi
impegnati in politica, poi perché derivano ambedue dalle esperienze dirette di
protagonisti che hanno segnato in modo indelebile la storia dei partiti in Italia. Il
volume curato da Guerzoni riporta gli atti di un convegno di studi che ha potuto
contare su contributi di autorevoli studiosi e di esponenti dei movimenti cattolici del
dopoguerra: Guido Formigoni, Paolo Pombeni, Alberto Melloni, Giuseppe Tognon,
Fulvio De Giorgi, Valerio Onida, Giuseppe Ruggieri, Paola Gaiotti de Biase, David
Sassòli e Paolo Prodi. Il volume curato da Mengozzi appartiene, invece, al genere
cronachistico, riportando fatti e avvenimenti che l’autore espone sulla base del ricordo
personale e sulla scorta di un coinvolgimento diretto. Ambedue riguardano l’attività
della sinistra cattolica, e più specificatamente della sinistra cattolica modenese che si
è caratterizzata per essere un gruppo a forte valenza comunitaria e per aver influito
in modo significativo sull’evoluzione sociale e culturale locale. Tra la ricostruzione
degli avvenimenti effettuata dagli storici e l’esperienza diretta dei protagonisti sussiste,
talvolta, qualche sfasatura, sia per la difficoltà di censire il succedersi di iniziative
che si è sviluppato nel periodo indicato, sia per una comprensibile difficoltà di
memorizzazione dei diversi aspetti di una diaspora che – soprattutto a partire dagli anni
Sessanta del secolo scorso – ha interessato il mondo cattolico emiliano e in particolare
la sua componente più riformista. Una modificazione di assetti e di prospettive che si
realizza con molto anticipo rispetto allo sfaldamento della sinistra laica derivante dalla
caduta del muro di Berlino.
I due volumi, documentando lo svolgersi di un unico processo di cambiamento
e risarcendo un’inquietudine diffusa e motivata delle coscienze, rappresentano
comunque un’occasione importante per accostarsi senza infingimenti e per attribuire
la giusta portata alla ricerca di una presenza politica locale e nazionale che fosse
coerente con i principi di riferimento e con la storia della Democrazia cristiana e del
magistero ecclesiale.
202
Essi, tra l’altro, attestano che i protagonisti modenesi e reggiani di quella fase
storica hanno assunto un ruolo determinante nel multiforme procedere dei «gruppi
spontanei» e nelle scelte della dirigenza della Democrazia cristiana a livello nazionale.
A Modena e Reggio sono maturate e sono state elaborate molte indicazioni circa le
iniziative da adottare, come dimostra la ricostruzione del succedersi degli eventi e della
partecipazione di persone. Anche quando la consistenza della narrazione, in quanto
basata su fonti esterne o su memoriali, sembra sconfinare nell’agiografia, il periodo
che va dal 1968 al 1972 racchiude scelte e fatti che hanno determinato le opzioni di
quell’area d’impegno politico nei mesi successivi. E non soltanto dei cattolici. Basti
pensare ai prodromi del movimento studentesco che si erano sperimentati a Reggio;
agli incontri con i fratelli Dossetti; all’uscita di Corrado Corghi dalla Democrazia
cristiana; alla pletora di contatti e di prese di posizione che animano i gruppi del
dissenso, fino alle assemblee di Modena e di Reggio che ne sancirono il repentino
silenzio. Da queste premesse derivò il proliferare di incontri e di proposte che, senza
tenere conto di alcuna logica di schieramento, tentarono di dar vita ad una «nuova
sinistra» nella quale avessero voce paritetica le forze laiche e cattoliche. Senza esito,
come attesta l’analisi postuma degli eventi.
Mentre il volume di Guerzoni si dedica ad un’indagine sulla vitalità del cattolicesimo
democratico (rendendo omaggio all’autorevole e influente apporto di Pietro Scoppola),
il «diario» di Mengozzi rende conto dell’esperienza politica del movimento cattolico
modenese, guidato da Ermanno Gorrieri dagli anni del dopoguerra fino alla fine degli
anni Settanta, ed è dedicato alla memoria di Francesco Luigi Ferrari, a settantacinque
anni dalla sua morte a Parigi.
Per chi, come chi scrive, ha partecipato allo svolgersi dei fatti di cui si occupano le
due opere e ne ha già tentato una ricostruzione storica (Il sogno dell’alternativa, 2002),
i lavori di Mengozzi e Guerzoni, pur con una differente ottica d’indagine, costituiscono
una valida occasione di ripensamento e di stimolo per un approfondimento sistematico
di un periodo che è ancora poco conosciuto. Tra gli altri aspetti da considerare,
emerge l’esigenza di una miglior conoscenza del rapporto del cattolicesimo emiliano
con i mezzi di comunicazione, cui giustapporre l’analisi delle vicende di periodici
minori come «Ricerca politico-culturale», «Sinistra modenese», «Esperienze dell’EmiliaRomagna», «Sinistra DC di Reggio Emilia» e le ragioni del fallimento di un’impresa
editorialmente suggestiva quale quella del «Foglio» o i condizionamenti che derivavano
dalla disponibilità di risorse finanziarie.
Da questi due volumi si può partire per trovare spunti di riflessione per l’agire
dell’oggi e per effettuare il dovuto risarcimento a persone che hanno dedicato le
loro migliori energie ad un progetto politico. La disponibilità di testimonianze e
documentazioni attendibili su questo periodo, ancorché piuttosto recenti, può
offrire la dimensione del clima di collaborazione e di coesione che accomunava
forze appartenenti a province contigue nel perseguire un sogno di partecipazione
democratica e un’effettiva uguaglianza sociale nei rapporti di lavoro e nelle relazioni
con lo Stato.
Carlo Pellacani
203
E. HILLESUM, Diario. 1941-1943, con una prefazione di J.C. Gaarlandt, Adelphi,
Milano 2008, pp. 270, 11,50 euro
Quando ricerchiamo fonti di protagonisti della deportazione e della morte nei
campi di sterminio, siamo ormai abituati a riferirci al Diario di Anna Frank, pubblicato
e tradotto in molte lingue e trasposto in testi teatrali, film e fiction di successo, ed
in misura minore a Dal liceo ad Auschwitz di Louise Jacobson (L’Unità, 1996) o alle
Lettere da Auschwitz di James Pogonowski (Frap Books, 2004). Ancora poco noto è il
diario di Etty Hillesum che è stato pubblicato in Olanda e in Inghilterra all’inizio degli
anni Ottanta e che viene ora proposto dalle Edizioni Adelphi con una prefazione di
Gaarlandt.
Si tratta di un documento di rara efficacia, che consente di rivivere le emozioni e
le speranze di una donna di Amsterdam di ventisette anni nel periodo più cruento
della guerra e dell’oppressione da parte dell’invasore tedesco. Il diario raccoglie le sue
impressioni più intime ed è compreso tra il 10 novembre 1941 e il 13 ottobre 1942. In
calce al diario sono pubblicate alcune lettere che la giovane scrive ad amici e parenti dal
campo di smistamento nel 1943. Dopo la resa dell’Olanda, nel maggio 1940, i tedeschi
avevano iniziato ad isolare gli ebrei e dopo il febbraio 1941 (quando Amsterdam fu
teatro del primo sciopero anti-pogrom della storia europea) la repressione contro gli
ebrei fu inasprita: furono cacciati dal lavoro, fu loro vietato di fare acquisti nei negozi
normali e furono raccolti in ghetti e in campi di lavoro. Dal 29 aprile 1942 furono
costretti a portare la stella di David, iniziando di lì a poco le deportazioni di massa, che
avevano come prima tappa il concentramento a Westerbork, un centro di smistamento
posto nella zona orientale dei Paesi Bassi che era l’anticamera di Auschwitz.
Etty Hillesum era ebrea e volle condividere ogni momento della sofferenza della
sua gente. Dall’inizio di agosto del 1942 (dopo aver trascorso quindici giorni come
dattilografa al Consiglio ebraico di Amsterdam) è a Westerbork, ove lavora all’ospedale
locale e ove dispone di una certa libertà, potendo tornare ad Amsterdam una dozzina
di volte e rendendosi utile nel trasferire informazioni ai gruppi resistenziali da parte
di prigionieri e raccogliendo medicinali per gli internati. Il 7 settembre 1943 viene
caricata, assieme ai suoi genitori, sul treno per Auschwitz. Dal finestrino di quel treno
getta una cartolina, raccolta e spedita da alcuni contadini, in cui scrive «Siamo partiti
dal campo cantando». Morirà ad Auschwitz il 30 novembre 1943.
I suoi diari, raccolti in otto quaderni fittamente ricoperti da una scrittura minuta
e quasi indecifrabile, sono stati conservati dalla sua amica Maria Tuinzing, alla quale
erano stati consegnati dalla stessa Etty con la convinzione di non avere scampo dalla
persecuzione nazista e per l’ambizione di lasciare una traccia di sé ai posteri. Si dovrà
attendere fino al 1980 per un’ipotesi di stampa, e grazie a Gaarlandt l’iniziativa si
realizza. Il successo è immediato, in Olanda e in diverse parti del mondo.
Il diario di Etty, d’altronde, si caratterizza per la sua grande trasparenza, franchezza
e intensità. Esso accoglie le «confessioni» di una ragazza che descrive i suoi rapporti
d’amicizia e d’amore, le vicende familiari, gli stati d’animo e le sensazioni, le sue
riflessioni sull’ebraismo, sulle donne, sulle passioni umane, e dedica spazi sempre
più rilevanti alla constatazione dello sfacelo del mondo che la circonda. La guerra e
la repressione razziale è costantemente presente, rappresentando un impedimento
costante alla normale esistenza. Il diario accoglie le ansie d’amore e il rapporto
204
particolare che Etty instaura con Julius Spier, un ebreo di 55 anni di età, esperto cultore
dell’arte della lettura della mano dopo aver svolto per anni l’attività di bancario. Oltre
allo sbocciare di una relazione passionale, Etty descrive nel suo diario la scoperta di
una religiosità nient’affatto convenzionale dalla quale trarrà lenimento e forza nel suo
difficile cammino.
Il diario si conclude il 13 ottobre 1942. Le ultime parole sono: «Si vorrebbe sempre
essere un balsamo per molte ferite».
Carlo Pellacani
G. D’ELIA, Riscritti corsari. Scritti per «L’Unità» 2001-2006. Epigrammi 2007-2009,
Effigie, Milano 2009, pp. 172, 15 euro
Che fare? Come opporsi? Negli anni Zero dell’Italia, che strada prendere per
conservare la possibilità di un antagonismo non complice rispetto al nuovo fascismo
che ci governa? Dove trovare un fondamento di fronte alla tracotanza dell’arbitrio e
dell’ambiguità con cui siamo «felicemente» governati?
Gianni D’Elia, da poeta, ha scritto per molti anni per «L’Unità» di Furio Colombo.
Questo volume raccoglie gli interventi pubblicati su quel quotidiano e dedicati con
ostinazione a un esercizio di «antropologia culturale sugli usi e i costumi» dell’Italia
berlusconiana (al di là della grigia parentesi del centrosinistra chiamato «Unione»).
D’Elia ha messo in pratica, da erede autentico di Pasolini (poeta, corsaro), una ricerca
appunto pasoliniana sulla storia italiana più recente. Marxismo eretico e nuovo
umanesimo sono richiamati per ricordare che una resistenza, tutta poetica e culturale,
è pur sempre possibile («mettiamo i versi sugli striscioni»); in questo senso, D’Elia
svolge una profonda riflessione critica rispetto alla «piega» che la contestazione ha
preso alla fine degli anni Settanta, specie a Bologna.
Quale è il male italiano più profondo? La continuità del silenzio del potere, l’uso
sistematico del «segreto politico». Proprio con l’ultimo Pasolini: «Forse Pasolini ci direbbe
che non basta la riforma dei servizi segreti di oggi, ma che occorre abolire il Segreto di
Stato di ieri, perché finalmente gli italiani sappiano la verità, o semplicemente perché
la dicano finalmente delle parole ufficiali: gli italiani non sanno ancora niente, né del
delitto Mattei, né del delitto De Mauro, né del delitto Pasolini, né delle stragi da piazza
Fontana a Bologna» (p. 148, corsivo nel testo). La storia politica italiana è ancora e
nella sostanza una storia criminale.
Andando avanti: quale può essere l’attualità di Pasolini? Il poeta di Casarsa è ad
esempio nella lotta del movimentono «no TAV»: contro lo sviluppo, per il progresso
democratico. Pasolini è stato un poeta civile (perduto però fuori della città), che
ha proseguito l’«avanguardia della tradizione», lungo una linea che va da Dante a
Leopardi. A che cosa servono, perfino oggi, i poeti? Servono a mantenere viva e
concreta la memoria, contro l’omologazione del nuovo fascismo (ossia: consumismo
e «governo dello spettacolo», oltre che violenza): «Con Pasolini, si riafferma quella
avanguardia della tradizione, che è il portato più vivo della nostra cultura umanistica.
Una resistenza della ragione contro l’“imperio dell’autorità”. La stessa, che mosse i
partigiani contro i nazisti e i fascisti. Di questa resistenza, la poesia è il cuore. E sono
205
proprio le antropologie poetiche di Leopardi e Pasolini, dal negativo della diversità,
a rispondersi, tra speranza ermeneutica e disperazione storica e cosmica. La materia
e la storia entrano definitivamente nel canto della poesia nuova» (p. 74). E invece
le accademie oggi producono (ad litteram) tanti idioti specializzati, per parafrasare
Flaiano.
C’è un tema che sostiene il volume: che legame c’è, che continuità è legittimo porre,
fra Mussolini e Berlusconi? È la continuità che va dal Duce al duce delle televendite:
«Anche oggi, la nuova ideologia italiana non può fare a meno del culto di un capo.
“Ecco Mussolini”. C’era Berlusconi in televisione in doppiopetto, che arringava gli
industriali. “Non vedi come si muove? Sembra proprio un Mussolini!”. Abbiamo tolto
l’audio, e il rosato di quella faccia catodica, confrontato col mascellone del Duce, mi
indicava l’evoluzione della razza, da contadino a piccolo borghese. È un fascismo
delle merci, con la calza dell’obiettivo. E tornano buone tutte le analisi di Adorno,
perché tra l’Italia di oggi e l’America degli anni 40 c’è un legame, ed è l’omologazione
consumistica» (p. 21, corsivo nel testo). L’evoluzione del grottesco, oggi sul trono di
un impero irresistibile.
Il nostro disastro generale, causato da un nuovo fascismo che è omologazione
eversiva, (profetizzato ancora come «senza volto» da Pasolini), ha bisogno del
linguaggio degli scrittori, di proseguire con Pasolini e Sciascia; oggi, nell’Italia ancora
fascista, non bisogna dimenticarsi di difendere autori come Antonio Tabucchi.
Francesco Paolella
AA. VV., Dall’Impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica,
Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 298, 24 euro
Lo scorso anno, in concomitanza con la ricorrenza del Giorno del Ricordo, nel centro
di Modena è apparsa una scritta: «Com’è bello far le Foibe da Trieste in giù». Più che una
qualche forma di protesta politica il graffito mi pare simboleggi il trionfo della cultura pop
sulla storia. Ma come ci si è arrivati? Come è stato possibile che in pochi anni un tema –
quello delle Foibe - del tutto escluso dalla memoria pubblica italiana sia diventato tanto
popolare da accostarsi alla fama imperitura di Raffaella Carrà?
Smaltita anche quest’anno la sbornia delle rimembranze, è tempo di tirare le
somme. Enzo Collotti – con lui altri studiosi di fama – ha più volte sottolineato il rischio
dell’appiattimento delle due giornate commemorative (Memoria e Ricordo) istituite dallo
stato italiano nei primi anni del Duemila. La vicinanza delle date facilita la confusione
nell’opinione pubblica meno avvertita e gli stessi amministratori «costretti» a celebrare tali
ricorrenze sembrano considerarle alle stessa stregua. Oramai la gita scolastica a Trieste
sembra stai diventando un obbligo curriculare e include la visita alla foiba di Basovizza
accostata a quella della risiera di San Sabba. La logica della par condicio ha sostituito
quella della verità storica: Stalin deve godere dello stesso numero di passaggi televisivi
di Hitler; i libri di testo devono contenere in egual misura riferimenti ai crimini fascisti e
a quelli comunisti. Val la pena di notare che si tratta ancora una volta di un meccanismo
autoassolutorio, perché noi italiani, barbaramente trucidati nelle foibe, siamo anche
sempre pronti ad addossare interamente ai tedeschi le responsabilità della deportazione
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ebraica. Memoria o Ricordo, si tratta sempre di una ricostruzione parziale, che non va ad
intaccare lo stereotipo nazionalpopolare per eccellenza, quello degli «italiani brava gente».
Mi è stato chiesto quest’anno se auspicassi l’eventuale istituzione di una giornata della
memoria dei crimini fascisti. Ho risposto che la memoria di un popolo non si costruisce
a colpi di commemorazioni completamente avulse dalla conoscenza della realtà storica.
Mi sono domandato, con alcuni colleghi, quale può essere il ruolo dello storico di fronte
al maggior peso, anche emotivo, che hanno le testimonianze dirette rispetto alla fredda
ricostruzione storica. Mi pare necessario, da parte nostra, uno sforzo per far sì che la
ricerca storica incontri le esigenze delle amministrazioni e dell’opinione pubblica, che
fornisca loro gli strumenti, non per smentire la verità soggettiva dei testimoni, ma per
dargli forza attraverso l’evidenza fattuale, per offrire una cornice scientifica che consenta
di superare le reciproche diffidenze, le rispettive contrapposizioni e costruire una
memoria davvero condivisa.
Numerosi autori hanno negli ultimi anni pubblicato studi sulle responsabilità criminali
dei sistemi di occupazione fascisti in Europa e Africa, e lo stesso può dirsi sulle sofferenze
subite dagli italiani del confine orientale alla fine della seconda guerra mondiale. Ma
che ricaduta hanno queste nuove prospettive sull’opinione pubblica? I crimini fascisti
rimangono fuori dalla prima serata televisiva; il discorso politico, l’immaginario collettivo
rimangono ancorati a vecchi stereotipi, a slogan privi di legami con la verità storica.
Se lo sforzo degli storici è notevole, è difficile comprendere, fra le numerose
pubblicazioni sul tema, quali possano avere un utilizzo anche didattico. Esistono alcuni
prodotti multimediali, come ad esempio Una sottile linea bianca prodotto dall’Istoreto di
Torino o AestOvest dell’Osservatorio Balcani, ma la ricerca storica su questi temi è ancora
purtroppo confinata a un ambito specialistico.
L’opera collettanea che ha visto la luce lo scorso anno (Dall’Impero austro-ungarico
alle foibe) è forse una delle migliori e più pacate sintesi degli studi esistenti sul tema
dell’esodo istriano e delle foibe. Non tutti gli storici che si occupano di questi argomenti
vi sono rappresentati, ma la selezione è fra le migliori possibili. Spicca la presenza fra di
essi di due autrici slovene, che contribuiscono, almeno in parte, a offrire al lettore anche
il punto di vista sloveno e jugoslavo della vicenda.
Il volume ha un pregio evidente fin dall’indice: la scelta di contestualizzare gli eventi
allargando lo sguardo sia nello spazio che nel tempo. Innanzitutto le violenze commesse
nell’area giulio-istriana nel periodo 1941-1945 rappresentano l’apice di un conflitto di
lungo periodo fra nazionalismo italiano e slavo (sloveno, croato, jugoslavo). A questo
lungo scontro sono dedicati i saggi di Vanni d’Alessio, Fabio Todero e Anna Maria Vinci.
In secondo luogo tali drammatiche vicende vengono giustamente inserite, grazie ai tre
saggi di Enzo Collotti, in un contesto internazionale segnato da guerre e spostamenti
forzati di popolazione. In particolare l’area centro-orientale d’Europa (cui appartengono
geograficamente Trieste e l’Istria) subisce devastazioni, stragi e mutamenti socioeconomici
epocali, tanto da riemergere dal quindicennio 1941-56 del tutto trasformata da un punto
di vista politico, sociale e nazionale.
Alla specifica questione delle guerra, delle foibe e dell’esodo sono dedicati due saggi
che offrono punti di vista antitetici sulla resistenza nella Venezia Giulia (Gian Carlo
Bertuzzi e Nevenka Troha), quello di Franco Cecotti e soprattutto i tre interventi di Raoul
Pupo, che sintetizzano in maniera chiara e analitica temi tanto dibattuti e politicamente
manipolati.
207
Un accenno al destino dei profughi istriani in Italia nel secondo dopoguerra viene
infine fornito da Enrico Miletto (con una prospettiva di storia socioculturale attraverso
l’utilizzo dell’intervista come fonte privilegiata) e Alessandra Algostino (da un punto
di vista prettamente giuridico).
Il grande valore di questo volume è quello di fornire un quadro, seppur parziale,
di un tema tanto malamente conosciuto, sgombrando il campo da una serie di assunti
errati. Innanzitutto viene proposto un calcolo, certo non definitivo ma perlomeno
verosimile, delle cifre delle vittime dell’esodo: tra i 200 e i 250.000 «italiani», contro i
350.000 che vengono normalmente citati in tutti i contesti pubblici. In secondo luogo,
e questo è forse l’aspetto più importante, viene del tutto rifiutata l’idea di un tentativo
di genocidio contro le popolazioni italiane e di una volontà di espulsione di massa
da parte del governo jugoslavo. Gli arresti e le uccisioni che vengono solitamente
definite col termine di «foibe» furono essenzialmente una forma di epurazione, in
taluni casi «preventiva» (cioè contro individui ritenuti pericolosi per l’instaurazione di
un regime socialista jugoslavo), che si pone, in termini numerici, a metà strada fra le
violenze commesse da alcuni singoli partigiani italiani nei giorni successivi al 25 aprile
e le decine di migliaia di vittime delle purghe repressive jugoslave nelle altre regioni
occupate dall’esercito di Tito alla fine del conflitto. Infine l’esodo dall’Istria non fu il
risultato della precisa volontà politica jugoslava di allontanare la popolazione italiana,
ma la somma di una serie di fattori, interni e internazionali, che comportarono di fatto
la scomparsa della minoranza italiana come entità culturale, e quindi un impoverimento
del tessuto sociale istriano.
Parzialmente in controtendenza col resto del volume, ma per questo particolarmente
affascinante, è il saggio introduttivo di Marta Verginella, che mette in dubbio il senso
dell’utilizzo del paradigma nazionale nell’area prettamente multietnica e multiculturale
presa in esame. A suo modo di vedere è arbitrario tracciare un confine netto fra italiani
e sloveni, fra «italianità» e «slovenità» in tale regione; si tratta di un’argomentazione che
mette di fatto anche in discussione il valore dei calcoli statistici sulle vittime delle foibe
e dell’esodo, basati sempre sull’appartenenza univoca ad una nazionalità specifica.
Secondo il parere dell’autrice il testo redatto dalla Commissione storico-culturale
italo-slovena – che ha condotto i suoi lavori dal 1993 al 2000 e il cui testo viene
riprodotto a fine volume – non è altro che una giustapposizione di due separate
memorie storiche nazionali. Si sarebbe dunque persa la grande occasione di andare
oltre una visione nazionalista della storia di questa regione, inglobando e valorizzando
le realtà sfumate, le identità fluide, le zone grigie. Se questa obiezione è del tutto
condivisibile, sarebbe comunque un passo in avanti verso la comprensione reciproca
se quel testo, con tutti i suoi limiti, venisse letto e diffuso, ad esempio in ambito
scolastico, in occasione delle celebrazioni ufficiali. Contribuirebbe perlomeno a limitare
l’immagine distorta che i media forniscono e a sgombrare il campo da alcuni cliché
ormai assimilati dall’opinione pubblica, ma che niente hanno a che fare con la realtà
storica. Bandire le parole «genocidio» e «pulizia etnica» dalle commemorazioni ufficiali,
fare uno sforzo di comprensione di un punto di vista «altro», potrebbe rappresentare
un primo passo nella prospettiva di una riconciliazione storica non solo fra noi italiani
ma soprattutto fra noi e gli altri, fra noi e i nostri ex nemici.
Eric Gobetti
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L. VILLARI, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, Laterza, Bari 2009, pp. 360,
18 euro
Ha tutte le carte in regola per fungere da introibo ideale ai 150 anni del Regno
d’Italia. Sotto certo aspetti è una lettura «leggera»: il lettore non è oppresso da superflui
indugi su questioni storiografiche per iniziati o su dettagli cari ai cultori, per usare il
linguaggio di Nietzsche, della storia antiquaria. Gli è proposto invece il racconto
appassionante di un’epoca di passioni – letterarie, morali, musicali oltre che politiche
– vissute da personaggi in gran parte giovani. È allo stesso tempo una lettura «seria»,
perché non si risolve, giornalisticamente, in una serie di isolati medaglioni di quei
protagonisti, ma li situa nel robusto quadro di un’epoca di grandi aspirazioni e di esiti
repentini e sorprendenti (si pensi al fortunoso e travolgente biennio 1859-61). Quanti,
ormai decenni or sono, hanno avuto la fortuna di incontrare queste vicende nei primi
grandi manuali scolastici dell’Italia repubblicana (basti fare i nomi di Giorgio Spini e
di Armando Saitta) saranno lieti di trovare ricordi, conferme, arricchimenti. Ma pure
tutta la fascia più giovane dei cittadini di media cultura (accontentiamoci: chi legge
più di un libro all’anno e più di un quotidiano alla settimana) sarebbe confortata nel
ripercorrere la storia di uno dei rari momenti del nostro passato di cui essere fieri,
a dispetto dei giudizi riduttivi e liquidatori che, temiamo, saranno sempre più merce
corrente, in epoca di mode revisionistiche e di pulsioni politiche illiberali. Da par suo,
Villari documenta infatti con grande efficacia il carattere di movimento nazionale del
nostro Risorgimento, magari ricordando, semplicemente, la composizione sociale
del popolo delle barricate e dei corpi volontari, o illustrando il convergere (anche in
forma di concordia discors) di tante teste pensanti.
A scanso di equivoci, va precisato che Bella e perduta non è un libro d’occasione
e tanto meno è reticente sui limiti della «conquista regia» o sulla miope gestione
dell’Italia unita da parte degli epigoni di Cavour (peraltro l’arco temporale considerato
si conclude nel 1870). Al lettore è fatta grazia, con un taglio gordiano, della vecchia
questione del terminus a quo: il disgusto per la Restaurazione nasce soprattutto
dal constatarne la miseria dopo aver fatto le esperienze di rinnovamento dell’età
«giacobina» e napoleonica. Anche qui parlano decisive citazioni dai testi: su questo
almeno democratici e moderati (D’Azeglio in primis) non divergono.
Sarà dunque un best seller quest’opera utile ed avvincente? Il dubbio è lecito. Il
tramonto di un senso comune storicistico – pienamente giustificato su un astratto
piano teorico – ha reso debole la ricerca dell’identità collettiva nei processi che
l’hanno generata («il vero è risultato», diceva il vecchio Hegel). Oggi l’identità conviene
inventarla, quando non se ne faccia addirittura un orrido feticcio, miscuglio di rozzi
istinti di esclusione e di particolarismi dal fiato corto.
E i libri che «tirano» sono quelli ispirati al punto di vista del maggiordomo, delle
cose vista dal buco della serratura. Farà fortuna chi parlerà male di Garibaldi (avviene
già, del resto). E le radici illuministiche, anche da alte cattedre, sono additate come
fonte dei mali odierni. Aspettiamoci, per il 2011, un’onda di cinica ipocrisia nelle
celebrazioni ufficiali e un fiorire (coazione a ripetere, dopo le prove fatte sulla
Resistenza) di lacrimose storie dei «vinti».
Ettore Borghi
209
M. FIORAVANZO, Mussolini e Hitler. La Repubblica sociale sotto il Terzo Reich,
Donzelli, Roma 2009, pp. 216, 16 euro
Per una scelta editoriale che ha precedenti anche illustri, il titolo è suggestivo,
ma il proposito e l’ambito di questo lavoro è indicato dal sottotitolo, con quella sua
formula inequivocabile, «sotto il Terzo Reich», che dichiara da subito la conclusione (il
punto d’orientamento) della ricerca. Un libro a tesi, dunque? L’argomentazione serrata
e puntigliosa, netta nel respingere le ben note teorie apologetiche della letteratura
filofascista, così come nel denunciare alcune non trascurabili negligenze della storiografia
«seria», potrebbe legittimare questa affrettata etichetta. Più correttamente, conviene
parlare di un libro «a tema», solidamente basato sull’attento uso delle fonti (molto ampio
e puntuale, ad esempio, il ricorso ai diari di Goebbels) oltre che, non occorre dirlo, sulla
conoscenza dell’ormai ampia ed esaustiva bibliografia riguardante la RSI.
Ma proprio l’aver tematizzato la questione se, ed eventualmente entro quali limiti, la
RSI possa considerarsi uno stato sovrano, consente alla studiosa di fornire un libro nuovo,
capace di gettare luce sull’intera vicenda saloina, e soprattutto sulla assolutamente
singolare situazione giuridica e politica in cui, nei mesi che vanno dal settembre 1943
all’aprile 1945, viene a trovarsi la popolazione dell’Italia occupata.
La decisione, da parte nazista, di costituire uno stato fascista vassallo segue di
pochissimi giorni l’8 settembre, tanto che è fissata in termini ultimativi la data (23
settembre, ore 12) entro cui annunciarne la costituzione. La liberazione di Mussolini
dal Gran Sasso e il suo ritorno alla leadership politica aggiunge senza dubbio elementi
simbolici di continuità, da esibire agli occhi dell’alleato giapponese e di altri minori
(Ungheria, Finlandia…), ma non cambia in alcun modo la preesistente volontà di
salvaguardare un patrimonio di risorse (impianti, forza lavoro, comunicazioni) disponibili
nell’Italia centro-settentrionale e «predabili» per il sostegno bellico. È pure evidente che
la delega a personale italiano, in forma subordinata, di attività amministrative e di
controllo del territorio, corrispondeva al disegno razionale di risparmiare il più possibile
l’affidabile materiale umano tedesco, riservandolo ai compiti strettamente militari o di
polizia politica. Pertanto il rischio di una «polonizzazione» dell’Italia come conseguenza
del suo tradimento, col conseguente «sacrificio» del Duce per placare l’inferocito
alleato, si rivela una malaccorta invenzione ex post, oltretutto in contrasto col carattere
di Mussolini, la sua stessa documentatissima volontà di rivalsa e la sua convinzione,
espressa sino all’ultimo, di un possibile rovesciamento delle sorti belliche grazie alle
mitiche armi segrete (o, nel caso peggiore, di una lunga resistenza nei «ridotti» alpini).
Per il suo stesso funzionamento, tuttavia, l’insieme delle attività delegate esigeva
almeno la finzione della sovranità (ministeri, apparati periferici amministrativi e
repressivi, comunicazioni, finanze pubbliche, esercito, annona). Si trattava, per usare
la terminologia di Fioravanzo, di una «messa in scena», ma tuttavia essa si poteva
reggere soltanto su un certo grado di agibilità effettiva e sulla capacità soggettiva
di difenderla, fosse pure per banalmente comprensibili ragioni di prestigio o per
l’indispensabile mantenimento di una residua credibilità agli occhi della popolazione.
E uno degli aspetti più interessanti del volume è appunto la ricostruzione della lunga e
sempre perdente «lotta per il riconoscimento» ingaggiata dal Duce e dai suoi maggiori
collaboratori nella fitta corrispondenza col plenipotenziario Rahn o attraverso diretti
210
contatti diplomatici coi vertici di Berlino, meno disponibili delle stesso Rahn a tutelare
«la parvenza dello stato sovrano» (atteggiamento per lo più condiviso dalle autorità
militari occupanti).
Lo scarso entusiasmo, da parte tedesca, per la effettiva costituzione dell’esercito di
Salò, e l’orientamento a usare piuttosto gli italiani come forza lavoro in gradi diversi
coatta, rappresenta certo la più cospicua frustrazione subita da Mussolini, solo che
si tenga conto delle sue convinzioni circa il ruolo essenziale e altamente simbolico
di una propria forza armata per l’identità dello Stato. Ancor meno però il Duce, che
come si è visto continuò a coltivare sino a ora molto tarda la speranza della vittoria,
poteva illudersi sulla conservazione – in questo improbabile caso – della sovranità
territoriale sulle zone di operazione delle Prealpi e del Litorale adriatico. Nato anche
sullo sfruttamento del combattentismo e sugli slanci dell’irredentismo, il fascismo al
tramonto paradossalmente vedeva profilarsi all’orizzonte l’irrimediabile perdita delle
terre «irredente», proprio come conseguenza dell’eventuale successo militare del
regime con cui si batteva da «fedele» alleato.
Ettore Borghi
M. OMBRA, La bella politica. La Resistenza, «Noi donne», il femminismo, con la
collaborazione di Ilaria Scalmani, prefazione di Anna Bravo, Istituto Piemontese per
la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea «Giorgio Agosti», Editore SEB
27, Torino 2009, 12,50 euro
Entrare nel racconto di Marisa Ombra è entrare nella storia di un’evoluzione: la sua
vita è un concatenarsi di eventi che la porterà a essere un punto di riferimento per la
politica «al femminile».
Sin dall’inizio è evidente l’influenza della famiglia d’origine, che l’avvicina alla
musica, ai libri, alla cultura in generale pur trattandosi di gente modesta; l’adesione
all’antifascismo è un processo naturale, dettato più dal buon senso che da una reale
preparazione politica.
A Marisa viene trasmessa l’idea dell’ordine come perfezione di vita, necessario al
raggiungimento delle proprie ambizioni per cui è necessario dare il massimo.
L’ingresso nella Resistenza, insieme a tutta la famiglia, la scuote dalla crisi in cui è
caduta dopo la morte dell’amata nonna, e determina il passaggio dall’infanzia all’età
adulta, in cui la vita torna finalmente ad avere senso: libertà e responsabilità sono i
sentimenti che l’accompagnano per tutto questo periodo.
Inizia la sua attività nei Gruppi di difesa della donna che aprirono la strada alla
presa di coscienza delle donne di poter aspirare ad una vita anche al di fuori della
casa, provocando una rottura nel senso comune dell’epoca.
Successivamente diventa staffetta, incarico che consisteva soprattutto nel
camminare, spesso in solitudine, correndo enormi rischi, dimostrando che anche le
donne possedevano non meno capacità e tenacia degli uomini.
Alla fine della guerra, quando la condizione della donna regredisce nuovamente
nella normalità ritrovata, diventa irrinunciabile per Marisa continuare la vita politica:
definì l’iscrizione al partito comunista come il momento più felice della sua vita.
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Sono anni in cui il PCI è davanti a tutto, una «passione senza misura», poiché frutto
di una scelta maturata in un’esperienza totalizzante come quella della Resistenza.
Il 1956 segna l’anno di svolta per Marisa, sia a livello ideologico, sia di partito:
la sua situazione sentimentale irregolare è la causa del suo licenziamento, dovendo
ancora sacrificare il suo ruolo politico all’essere donna.
A questo punto Marisa torna alle origini della sua esperienza politica, diventando
funzionaria dell’UDI, il luogo ideale in cui mettere a frutto la sua scelta di vita; gli
anni trascorsi nell’UDI sono caratterizzati dal forte senso di appartenenza, di identità,
ma anche dalla gerarchia, dal timore del giudizio, dalla necessità di rinnovarsi come
associazione, dal confronto, spesso difficile, con il neonato movimento femminista.
I due interrogativi conclusivi che Marisa ci lascia, sulla natura dell’amicizia tra donne
e sul continuo, inevitabile cambiamento del mondo, ridimensionano le ambizioni, i
sogni, le speranze dei vent’anni ma ribadiscono la necessità di non restare indifferenti,
di far sì che ogni mutamento porti sempre a qualcosa di meglio.
Giulia Cocconi
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