Anno XIV - Numero 22 - 8 aprile 2008 Storia dell’Opera Dopo Madama Butterfly Puccini torna a Belasco A Pag. 4 Esotismo musicale La ricerca di nuove ambientazioni si sposta dall’est all’ovest A Pag. 6 Colt e Winchester Due protagonisti della epopea del West A Pag. 8 e 9 Un giallo alla vigilia di "Fanciulla" Il tragico suicidio della cameriera A Pag. 12 e 13 LA FANCIULLA DEL WEST di Giacomo Puccini 2 La Fanciulla del West L’intervento L’immortalità di Puccini Il Giornale dei Grandi Eventi Programma Stagione 2008 Teatro Costanzi TOSCA 22-27 Aprile di G. Puccini di Francesco Ernani Sovrintendente al Teatro dell’Opera di Roma Fanciulla del West”, diretta dal M° Gelmetti, con la regia ed il nuovo allestimento di Giancarlo Del Monaco, l’opera ebbe la sua “prima” italiana a Roma, nel nostro Teatro Costanzi, il 12 giugno 1911 e la sua partitura mostra la prodigiosa abilità tecnica del compositore. Si ricorda che alla prima del Metropolitan del 10 dicembre 1910, Puccini, dopo innumerevoli chiamate, fu incoronato con una corona d’argento adorna dei colori nazionali dell’Italia e degli Stati Uniti. Su questa opera, in questi giorni il regista Paolo Benvenuti, sostiene la tesi che Puccini “doveva” innamorarsi mentre scriveva un’opera, trovare una donna che gli ispirasse le note, il personaggio che inventava in musica, cosa che è avvenuta durante l’ideazione dell’opera “La Fanciulla del West”, che nel film di Anonimo (Leopoldo Metlicovitz?) Benvenuti diventa “La Manifesto per La fanciulla del West (part.) Fanciulla del Lago”. Officine Ricordi La terza produzione è “Madama Butterfly”, diretta dal M° Martinenghi, con realizzaIl G iornale dei G randi Eventi zione visiva, scene e Direttore responsabile costumi di Renzo Andrea Marini Giacchieri che sarà ripreDirezione Redazione ed Amministrazione sa alle Terme di Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma Caracalla dal 27 luglio e-mail: [email protected] al 3 agosto. Editore A. M. Il melodramma italiano, Stampa Tipografica Renzo Palozzi grazie anche a Giacomo Via Vecchia di Grottaferrata, 4 - 00047 Marino (Roma) Puccini, continua così a Registrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 dettare leggi immutabili © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore perché sa incidere nel Le fotografie sono realizzate in digitale campo della autentica con fotocamera Kodak Easyshare V705 verità sentimentale. In questo campo si esprime la parte immortale Visitate il nostro sito internet dell’umanità che sarà www.giornalegrandieventi.it sempre anche di tutti dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale i Paesi. I principali teatri d’opera del mondo, nel corso del 2008, celebrano il 150° anniversario della nascita di Giacomo Puccini. Il nostro compositore asceso nella sfera dei “legislatori” nel campo della musica, ha avuto con Roma un rapporto particolare, come dimostrato dal battesimo di “Tosca”, avvenuto il 14 gennaio 1900, nella città in cui è collocata la vicenda, nonchè nel centenario della battaglia di Marengo. L’Opera di Roma, quindi, non poteva non aprire – proprio nel giorno della ricorrenza della prima esecuzione - la propria attività del corrente anno che con “Tosca”, affidata alla regia e scene di Franco Zeffirelli, ai costumi di Anna Biagiotti sotto la bacchetta di Gianluigi Gelmetti. La partecipazione del pubblico alle recite di gennaio e le previsioni di esaurito per le prossime recite di Tosca di aprile, dal 22 al 27, dimostrano che la musica di Puccini ha valori che sanno rappresentare “veri” elementi dell’umana esistenza come ne era stato capace Shakespeare, ad esempio, con Iago e Falstaff. Altre due produzioni di Puccini sono nel nostro cartellone: la prima è “La ~ ~ La Copertina ~ ~ CARMEN 17-28 Giugno di G. Bizet AMICA 7-12 Ottobre di P. Mascagni 12-18 Novembre DER ROSENKAVALIER di R. Strauss OTELLO 6-14 Dicembre di G. Verdi Stagione estiva Terme di Caracalla AIDA 10-24 Luglio di G. Verdi LUCIA DI LAMMERMOOR 18-31 Luglio di G. Donizetti 27 Luglio - 3 Agosto MADAMA BUTTERFLY di G. Puccini ~~ La Locandina ~ ~ Teatro Costanzi, 8 - 15 aprile 2008 LA FANCIULLA DEL WEST Opera in tre atti Libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini dal dramma The Girl of Golden West (Pittsburg, 1905) Musica di Giacomo Puccini Prima rappresentazione: New York, Metropolitan Opera House,10.12.1910 Direttore:Arturo Toscanini Prima rappresentazione italiana: Roma,Teatro Costanzi, 12.6.1911 Direttore:Arturo Toscanini Maestro concertatore Gianluigi Gelmetti e Direttore Maestro del Coro Andrea Giorgi Regia, Scene e Costumi Giancarlo Del Monaco Disegno Luci Wolfgang von Zoubeck Personaggi / Interpreti Minnie (S) Daniela Dessì (8, 11, 13,15) / Janice Baird / Virginia Todisco Jack Rance, sceriffo (Bar) Silvano Carroli (8, 11, 13,15) / Mauro Buda Dick Johnson, bandito (T) Fabio Armiliato (8, 11, 13,15) / Nicola Martinucci / Renzo Zulian Ashby, agente comp. trasporti (B) Francesco Facini Nick, cameriere (T) Aldo Orsolini Larkens, minatore (B) Armando Caforio Ja ke Wallace, menestrello (Bar) Mario Bellanova Sid, minatore e baro (Bar) Danilo Serraiocco Sonora , minatore (Bar) Massimiliano Gagliardo / Piero Terranova Happy, minatore (Bar) Alberto Noli Joe, minatore (T) Claudio Barbieri Billy, pellirosse (B) Reda El-Wakil ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA Nuovo Allestimento Il Giornale dei Grandi Eventi U n paesaggio ed una storia ambientata nella lontana America. L’esotismo di Puccini, dopo l’orientalismo imperante a cavallo tra ‘800 e ‘900 che portò a Butterfly, guarda con La Fanciulla del West ad occidente, a quella America che cominciava ad essere un nuovo grande sogno e pure il nuovo grande mercato per le merci, ma anche per la musica. Strizza l’occhio al pubblico europeo e La Fanciulla del West soprattutto – con una storia tutta loro – a quello del Metropolitan di New York, teatro presso il quale già da anni il supertenore italiano Enrico Caruso aveva un contratto ed infiammava le platee. Lo fece con quest’opera che rappresenta un perfetto equilibrio tra teatro e musica. Per l’ispirazione Puccini tornò ad avvalersi di un lavoro di quel Davide Belasco autore del libretto di Madama Butterfly di sei anni prima. Il debutto, al Metropolitan il 10 dicembre 1910 con Enrico Caruso nei panni di Dick Johnson e la direzione di Arturo Toscanini, lo stesso che guiderà sei mesi dopo, il 12 giugno 1911 l’esordio italiano proprio al teatro Costanzi di Roma. Ora, “Fanciulla” torna all’Opera di Roma - dove debuttò, appunto, 97 anni fa - dopo vent’anni di 3 assenza. Lo fa come secondo titolo pucciniano della stagione del mercoledì 9 aprile, ore 20,30 150° anniversario della giovedì 10 aprile, ore 20,30 nascita del suo autore. venerdì 11 aprile, ore 20,30 Sul podio il maestro sabato 12 aprile, ore 18,30 Gianluigi Gelmetti che domenica 13 aprile, ore 17,00 manterrà un grande martedì 15 aprile, ore 20,30 rispetto, con un’essenziale aderenza, per la dito Johnson e da Silvano partitura originale. Sul Carolli in quelli dello palcoscenico, invece, sceriffo Rance. Daniela Dessì protagoRegia, scene e costumi di nista principale, affiancaquesto nuovo allestimenta da Fabio Armiliato nei to sono di Giancarlo panni dell’amante/banDel Monaco. Le Repliche “La Fanciulla” torna al Costanzi a 97 anni dal suo debutto italiano Ai piedi delle Montagne delle Nubi {Cloudy Mountains) in California. Un campo di minatori, nei giorni della febbre dell'oro (1848-1850). La Trama Atto I – La vicenda si apre nel bar “La Polka”, presso il campo dei minatori. Qui i cercatori d'oro vengono a bere, a ballare ed a far la corte a Minnie, la bella ragazza padrona del bar di cui tutti sono innamorati, ma che «il primo bacio deve darlo ancora». Gli uomini, presi dalla malinconia per quella vita difficile, attendono la sua venuta giocando a carte. La fanciulla arriva e si mette a leggere il salmo 51 dalla Bibbia. Ella ha con i minatori un rapporto particolare: legge loro passi delle scritture, li conforta quando la nostalgia della casa si fa sentire, placa le loro liti. Entra Ashby, agente della Compagnia Wells Fargo. Con lui Jack Rance, lo sceriffo, parla di Ramerrez, capo di una banda di fuorilegge, cui tutti danno la caccia. Rimasto solo con Minnie, Rance le dichiara ancora una volta il suo amore, ma ella lo respinge con dolcezza, parlandogli della sua infanzia. Entra uno straniero che si fa chiamare Dick Johnson, ma in realtà e Ramerrez, il quale secondo le leggi del campo non potrebbe star lì. Ma per lui garantisce Minnie, dopo averlo riconosciuto come l’uomo che un giorno incontrò sul sentiero di Monterey e del quale subito si innamorò. Incurante della gelosia di Rance, il nuovo arrivato riesce a conquistare Minnie. Mentre Johnson e Minnie ballano, i minatori lasciano la taverna per andare a cercare il bandito Ramerrez. Rimasti soli i due si dichiarano il reciproco amore e la ragazza invita l’uomo nella sua capanna. Atto II - Nella sua stanza, Minnie si fa bella in attesa di Johnson. Quando egli giunge, si scambiano baci e promesse d'amore. Ma l’idillio è interrotto dall’arrivo di Rance e dei ragazzi del campo. Johnson si nasconde. Minnie apprende, così, che l'uomo che ama è in realtà un fuorilegge, che ha un'amante, che forse è venuto proprio per rubare l'oro che i minatori le hanno affidato. Quando Rance e i suoi si allontanano, Minnie addolorata scaccia Johnson. Ma questi, ferito da Rance, torna però ben presto a rifugiarsi in casa di Minnie, la quale per amore lo nasconde nel solaio. Entra lo sceriffo alla ricerca del fuggiasco: una goccia di sangue che cade dall’alto gli rivela il nascondiglio. Minnie, allora, rischia il tutto per tutto avanzando una proposta disperata: giocare una partita a poker. Se Race vincerà avrà lei e la vita del bandito, altrimenti Ramerrez sarà libero. Giocando la partita, Minnie, quando vede che sta per perdere, bara e riesce a sconfiggere lo sceriffo. Ramerrez va via. Atto III - Nella grande selva californiana - Rance ed i minatori sono riusciti a catturare Ramerrez e lo stanno per impiccare. Prima di morire, dichiarando di essere stato «ladro, ma assassino mai», egli chiede loro una sola grazia: Minnie deve crederlo vivo, sulla via della redenzione. Ramerrez ha già il laccio al collo quando giunge Minnie a cavallo, la quale, ricordando gli affanni ed i disagi condivisi con loro, riesce a commuovere i minatori, inducendoli al perdono. Ramerrez è libero. Minnie si allontana con lui, per vivere insieme una vita onesta. La Fanciulla del West 4 Il Giornale dei Grandi Eventi La storia dell’opera Perfetto rapporto tra teatro e musica L' inizio del ‘900 non fu per Giacomo Puccini un periodo molto facile. I rapporti con la compagna Elvira erano sempre più difficili. La donna soffriva di una gelosia asfissiante e i suoi sospetti erano probabilmente più che giustificati: il musicista, celebre ormai in tutto il mondo, poteva vantare schiere d’ammiratrici e non era certo insensibile al fascino femminile. Momento culminante della crisi fra i due coniugi, lo scandalo scoppiato a Torre del Lago in seguito al suicidio della ventenne Doria Manfredi, cameriera in casa Puccini, accusata ingiustamente da Elvira d’essere l’amante del Maestro. A rendere ancor più difficile l’avvio del XX secolo per Puccini arrivò anche, nel 1906, la morte del librettista Giuseppe Giacosa, uno dei più stretti e affezionati collaboratori del musicista in opere come La Bohème,Tosca, Madama Butterfly. Dal punto di vista lavorativo, invece, nonostante l’iniziale fiasco alla Scala di Madama Butterfly, (che fu, però, “riabilitata” a Brescia nel 1904), Puccini poteva dirsi all’apice della carriera: ricco e famoso, ma infelice e sempre insoddisfatto nell’animo. Forse anche per questo dall’estate del 1904 si mise alla ricerca di un libretto nuovo e originale, lontano dalle fragili eroine fin lì incontrate, perché «è necessario rinnovarsi o morire», visto che si era, ormai, nel nuovo secolo. Il compositore tornò così a pensare ad una Notre-Dame de Paris tratta dal romanzo di Victor Hugo, si occupò a più riprese di una Margherita da Cortona che gli era stata proposta da Valentino Soldati, soggetto di ambientazione medioevale che abbandonò però ai primi del 1906. In quell’anno il successo della Salome di Strauss lo portò a pensare ad un libretto da La femme et le pantin di Pierre Louys che avrebbe dovuto intitolarsi con il nome della protagonista, Conchita. Ai primi di febbraio Puccini si Emma Destin, Pasquale Amato ed Enrico Caruso (con il capo chino sul tavolo) ne La Fanciulla del West al Met il 10.12.1910 incontrò con d’Annunzio nel quale pensava di trovare il collaboratore ideale. Ma durò poco. Non si lasciò convincere dalla proposta di un’opera intitolata La Rosa di Cipro che il Vate gli propose. Così, rispondendo alle lettere che D’Annunzio inviava dalla villa “La Versiliana” sul mare di Pietrasanta, Puccini gli scrisse: «Io non voglio un realismo a cui Tu penosamente potresti accostarti, ma un “quid medium” che prenda possesso degli ascoltatori per i fatti dolorosi ed amorosi, i quali logicamente vivano e palpitino in un’aureola di poesia, di vita più che di sogno», il che voleva dire che aspirava a testi meno retorici, più concreti, fatti di immagini familiari più dirette. Più a lungo durò l’interesse per una Maria Antonietta, soggetto che stava molto a cuore ad Illica, ma che fu abbandonato – incrinando definitivamente anche i rapporti con il librettista – nel settembre del 1907 dalla scelta del libretto che Carlo Zangarini stava ap-prontando dal dramma di Belasco The Girl of the Golden West. La nascita di Fanciulla Risale al 1907 l’idea di scrivere un’opera ambientata nel West. Invitato, infatti, a New York per la messa in scena di alcune sue opere al Metropolitan, il compositore ebbe l’occasione di assistere a The Girl of the Golden West, di David Belasco (cui già doveva il successo di Madama Butterfly) in scena da tempo sui palcoscenici americani. A partire da questa «aspirazione verso un profondo rinnovamento di tutto lo stile, verso una forma più alta di poesia umana», Puccini iniziò a pensare a un soggetto diverso dal solito, dopo aver meditato oltre che sulla proposta dannunziana anche su Tartarine di Daudet ed addirittura su La Divina Commedia. La Fanciulla del West non costituì, però, un amore a prima vista. Il 18 febbraio 1907, infatti, egli scrisse a Tito Ricordi: «[…] L’ambiente del West mi piace, ma in tutte le piéces che ho visto ho trovato solo qualche scena, qua e là. Mai una linea semplice, tutta farragine e a volte cattivo gusto e vecchio gioco». L’allestimento di Belasco, infatti, presentava aspetti sensazionali e molto realistici, che non convinsero in pieno il compositore toscano. Tornato in Italia e chiesta copia del dramma al regista rimeditò sull’argomento ed a poco a poco se ne convinse, anche grazie all’intervento dell’amica e confidente Sybil Seligman, che promosse la traduzione italiana del testo americano. Puccini, ormai pienamente convinto, arrivò a scrivere, il 26 agosto, a Giulio Ricordi: «Carissimo signor Giulio, ci siamo! La Girl promette di diventare una seconda Boheme, ma più forte, più ardita e più ampia. Ho l’idea d’uno scenario grandioso una spianata nella grande foresta californiana cogli alberi colossali, ma occorrono 8 o 10 cavalli-comparse…». Il Libretto Per il libretto Puccini non poteva più contare sulla coppia ampiamente collaudata Giacosa-Illica: il primo, come si è detto, era scomparso, il secondo stava lavorando ad un’altra opera e del resto del solo Illica, il musicista lucchese probabilmente non si fidava: troppo avventuroso e “disordinato” nella sua genialità. Fu, dunque, chiamato Zangarini (figlio di un’americana e che, per questo, conosceva molto bene l’inglese), affiancato, con molte polemiche, da Guelfo Civinini, che aveva il compito di «frenare i voli di fantasia del collega». In realtà, il vero autore del libretto fu Puccini stesso, che controllò meticolosamente ogni decisione dei due autori. Il 14 settembre, invitato da Giulio Ricordi ad accelerare i tempi, Puccini rispose: «Non dormo né mi raffreddo sul West, tutt’altro, ci penso e son certo che riuscirà una seconda Bohéme se il cervello e le forze non mi fallano». Benché dovesse sopportare il peso della non facile situazione personale (il suicidio di Doria Manfredi risale al 23 gennaio 1909), la stesura dell’opera non subì particolari ritardi, anche se il genio musicale e la carriera di Puccini furono messi a dura prova: profondamente stanco e privo di slancio, egli doveva lavorare su Fanciulla, che sarà la sua soddisfazione più grande («La mia opera migliore» come dirà al-l'amica Sybil). Il debutto dell’opera ebbe luogo il 10 dicembre 1910, al Metro-politan di New York, interpretata da Enrico Caruso, Emmy Destinn e Pasquale Amato e diretta da Arturo Toscanini. Il pubblico - per la verità “preparato” precedentemente dai giornali orgo-gliosi di un’opera di ambientazione americana - apprezzò da subito il nuovo lavoro con 47 chiamate (14 alla fine del primo atto, 19 dopo il secondo e 14 al termine) ed anche la critica risultò entusiasta: «America orgogliosa della Fanciul-la del West!”», titolò la stampa newyorkese, ormai conquistata, come il ricco mercato americano, da quest’opera portata oltreoceano per il debutto assoluto. Fanciulla del West giunse in Italia l’anno successivo, il 12 giugno 1911 al Teatro Costanzi di Roma, ancora sotto la direzione di Arturo Toscanini con Eugenia Burzio come protagonista, affiancata dal tenore Amedeo bassi e dal baritono Amato. Il successo di pubblico fu caloroso, ma le recensioni dei critici ebbero un tono perplesso, soprattutto per quella “modernità” della musica pucciniana, pur riconoscendo nell’opera una nuova e raffinata maturità espressiva specialmente sotto l’aspetto del colore che certo non manca. Marta Musso Il Giornale dei Grandi Eventi La Fanciulla del West 5 Fabio Armiliato, Nicola Martinucci e Renzo Zulian Daniela Dessì, Janice Baird e Virginia Todisco Dick Johnson, bandito fuggiasco Minnie, in lotta per il suo amore P resteranno la voce a Dick Johnson Fabio Armiliato (8, 11, 13 e a voce di Minnie sarà quella di Daniela Dessì (nei giorni 8, 11, 15 aprile), Nicola Martinucci (9 aprile) e Renzo Zulian (10 e 12 13 e 15 aprile), Janice Baird (9 aprile) e Virginia Todisco (10 e aprile). 12 aprile). Fabio Armiliato, originario di Genova, si è formato Daniela Dessì è nata a Genova e si è diplomaal Conservatorio "Niccolo Paganini" della sua città. ta in canto e pianoforte al Conservatorio Nel 1984 ha debuttato col ruolo di Gabriele Adorno “Arrigo Boito” di Parma specializzandosi in nel Simon Boccanegra di Verdi con i complessi canto da concerto presso l’Accademia dell'Opera di Genova, seguito dal ruolo di Licinio ne Chigiana di Siena. Dopo aver vinto il primo La Vestale di Spontini al Teatro Pergolesi di Jesi, inipremio al Concorso Internazionale della Rai ziando una rapida carriera internazionale che lo ha nel 1980, ha debuttato con l’opera giocosa La condotto ad affrontare i ruoli più importanti del serva padrona di Pergolesi, costituendo un repertorio tenorile nei maggiori teatri d’opera del repertorio comprendente circa 70 titoli da mondo. Con una trionfale Madama Butterfly al Teatro Monteverdi a Prokofiev, passando dal repertoalla Scala di Milano, con Tosca all’Arena di Verona rio barocco alle sue straordinarie interpretazionell’estate 2002 ma soprattutto con Andrea Chénier a ni delle eroine mozartiane e verdiane, fino ad Torino e Venezia nel 2003 si consolida il sodalizio essere considerata oggi la miglior interprete artistico con Daniela Dessì, sua compagna anche del repertorio verista. Per la prestigiosa carrienella vita. ra artistica è stata insignita di importanti ricoNicola Martinucci, nato a Taranto, si considera noscimenti. E’ spesso sul palcoscenico del depositario della scuola di Mario del Monaco, avenTeatro dell’Opera di Roma. La sua stagione do intrapreso lo studio del canto col fratello di questi 2008 si è aperta in gennaio con un debutto di Marcello. Si è, quindi, perfezionato in teatro con i grande rilievo per riconoscimenti della critica e maggiori direttori e registi, proseguendo gli studi pubblico, al Forum Grimaldi di Montecarlo con Gianfranca Ostini. Nel 1966 è risultato vincitore con La forza del destino. Fra le numerosissime Daniela Dessì e Fabio Armiliato del concorso As.Li.Co. in seguito al quale avvenne il incisioni, segnaliamo il recentissimo “Dessì suo debutto operistico con Il Trovatore. Del suo repertorio ricordiasings Verdi” (etichetta Decca). mo Aida, Turandot, Andrea Chenier, Tosca, Pagliacci, Norma, Fanciulla Janice Baird è una dei principali soprani drammatici di oggi, del West, Manon Lescaut, Madama Butterfly, Trovatore. E' stato inoltre soprattutto nell’interpretazione delle grandi eroine di Wagner e apprezzato interprete di opere quali: I Lombardi, Francesca da Rimini, Strauss. Tra i suoi ruoli prediletti, ci sono Brunhilde, Elektra, Gioconda, Lorely, Iris. Salome, Arianna a Nasso, Ortrud (Lohengrin) a www.abao.org" Tra le esibizioni di Renzo Zulian si distinguono Conchita di Bilbao. Cantante e attrice carismatica, Janice Baird ha ottenuto granZandonai al Wexford Opera Festival, Turandot per l’acclamato de successo anche come Isolde, come Leonora (Fidelio), come debutto sul palcoscenico del Festival Puccini di Torre del Lago; Il Turandot, Minnie (La Fanciulla del West) e come Lady Macbeth. Trovatore al Teatro Regio di Parma, al Teatro di San Carlo di Napoli, Virginia Todisco, nata a Torre del Greco, ha studiato canto e perfezioal Teatro Verdi di Trieste, al Teatro de La Maestranza di Siviglia, alla namento con il Maestro Nunzio Todisco e si è diplomata in canto presPhiladelphia Opera Company e allo Staatstheater di Stuttgart. Più so il Conservatorio di Salerno. Ricordiamo brevemente l’avvio della volte invitato all’Opera di Vancouver, vi ha proposto opere come sua carriera: il debutto è avvenuto nell'agosto del 1998 nell'opera Don Aida, Turandot, La fanciulla del West. Di particolare rilievo, inoltre, le Carlo presso il Teatro Municipale di Rio de Janeiro. Ha cantato molte recenti interpretazioni di Adriana Lecouvreur al Teatro Bellini di volte, in vari teatri, nel ruolo di Minnie, personaggio a lei caro. Catania, Andrea Chénier al Teatro Verdi di Trieste, I vespri siciliani (Arrigo) all’Opéra di Toulon. Renzo Zulian si è perfezionato sotto la Mozart, Rossini, Donizetti a Verdi, guida di Franco Corelli. Meyerbeer, Gounod, Saent Saens sino a Zandonai e Puccini. Tra i ruoli Silvano Carroli e Mauro Buda che ha interpretato ci sono Jago, Macbeth, Nabucco, Ezio, Renato, Simone, Germont, Rigoletto. Mauro Buda, dopo una carriera giovanile come attore, ha iniziato lo studio del canto a Napoli, città natale, con il soprano Carmen Lucchetti; ack Rance sarà interpretato sul palcoscenico da Silvano Carroli (8, si è perfezionato poi con il baritono 11, 13 e 15 aprile) e Mauro Buda (9, 10, 12 aprile). Silvano Carroli Giuseppe Taddei a Roma e a è nato a Venezia, dove ha iniziato la sua carriera. Ha studiato con Londra, al Royal College of Music, Marcello Del Monaco e si è perfezionato poi con il celebre tenore sotto la guida di Graziella Sciutti. Mario Del Monaco. Ha vinto il Concorso per giovani cantanti lirici Ha debuttato nel 1989 con La Mauro Buda promosso dal Teatro La Fenice di Venezia, partecipando così alla Cecchina, ossia la buona figliola di scuola di avviamento al teatro con i maestri Mario Labroca, Piccinni a Milano. Il successivo trasferimento a Londra ha coinciso Francesco Siciliani e Floris Ammannati. Nel 1963 ha debuttato giovacon l’avvio della carriera internazionale, legata a un repertorio che nissimo nel ruolo di Marcello ne La Bohéme di Puccini al fianco di spazia dall’opera del ’700 a quella dei primi del Novecento. Mirella Freni e G. Aragal. Subito è iniziata una importante carriera, che lo ha portato, ad esempio, nel 1966 a cantare il ruolo di Ezio in Pagina a cura di Diana Sirianni - Foto Corrado M. Falsini Attila di Verdi al fianco di B. Christoff. Il suo repertorio spazia da Jack Rance, sceriffo innamorato di Minnie J L La Fanciulla del West 6 Il Giornale dei Grandi Eventi Il nuovo esotismo d’Occidente Il Salmo 51, letto da Minnie ai minatori nel primo atto E l’America conquistò l’opera Il Cantico di Davide Penitente E ' il più noto del salmi, il «Miserere» pieno di squisito senso religioso, divenuto giustamente il canto classico della penitenza (quarto fra i Salmi penitenziali) nella liturgia cattolica e nell'uso dei fedeli. I primi due versetti sono presi dal titolo, che lo attribuisce a Davide, dopo il peccato con la maglie d'Uria ed il famoso colloquio di Natan profeta (2 Sam 1,15). Il contenuto del salmo risponde, infatti, benissimo al titolo, meno i due versi ultimi, aggiunti al salmo nel tempo dell'esilio, con ogni probabilità ad uso liturgico. F ra l’Oriente e l’Occidente gli operisti europei hanno preferito per lungo tempo il primo. Le cosiddette “turcherie” risalgono già al Set-tecento. Allora bastava qualche scampanellio, un triangolo e dei piatti per “imitare” (così si pensava) l’esotismo orientale. E l’interesse era incentrato, specialmente nel teatro comico, sulla contrapposizione fra le due culture. Si pensi al Ratto dal serraglio mozartiano o, arrivando all’Ottocento, all’Italiana in Algeri, al Turco in Italia e anche alla Pietra del paragone di Rossini (con il celebre finto turco che urla “sigillara” e requisisce ogni bene). Più avanti all’Oriente ci si accostò con maggiore consapevolezza e l’esotismo si colorì di atmosfere, umori, timbri più appropriati: si pensi a Lakmé di Delibes, ma anche ai Pescatori di perle di Bizet e, venendo in Italia, a Iris di Mascagni o Madama Butterfly di Puccini. Contribuì alla conoscenza, l’Esposizione Uni-versale di Parigi del 1900 che portò alla scoperta di usi, costumi, merci, culture extraeuropee. L’Occidente, meno esotico Rispetto all’Oriente, l’Occidente esercitò una minore attrattiva. Inizialmente l’attenzione era posta sulle grandi conquiste europee. Così fu ad esempio per Fernando Cortez in cui Spontini esaltando il grande avventuriero celebrava in realtà Napo-leone. E così fu per Cristoforo Colombo, spesso protagonista del teatro musicale, a partire dal tardo Seicento (Il Colombo ovvero l’India scoperta, probabilmente di Bernardo Pasquini) per passare al primo Ottocento (Colombo di Morlacchi, 1828), al tardo Ottocento (Cristo-foro Colombo di Franchetti, 1892) e finire nel Novecento con Milhaud (1928) e Glass (1992). In questo caso, naturalmente, l’attrattiva era il personaggio, lo scopritore del nuovo continente, più che il continente stesso, visto in vari casi come una terra selvaggia e ignota. A parte poi titoli fondamentali della cultura americana come West side story (Bernstein, 1957) o Porgy and Bess (Gershwin, 1935) o, ancora, AI capocoro. Salmo. Di Davide, Quando venne a lui Natan profeta, dopo il peccato con Betsabea. Gilda della Rizza nel ruolo di Minnie al Teatro Alla Scala 1930-1931 Treemonisha (Joplin, 1915), del grande repertorio italiano, vale la pena ricordare solo “Un ballo in maschera” che come è noto si svolge nel Massachusetts. Ma Verdi fu costretto ad “esportare” fuori Europa la vicenda per non incorrere nei veti della censura, per cui in realtà, la vicenda potrebbe essere ambientata ovunque. E infine merita una segnalazione Il Guarany di Antonio Carlos Gomes, compositore brasiliano trapiantatosi in Italia all’epoca della Scapi-gliatura e autore di un teatro che seppe arricchire il nostro di colori e situazioni genuinamente “esotiche”. La fanciulla del West si può comunque considerare la più autorevole esplorazione da parte di un compositore europeo del mondo americano. Puccini che aveva appena “assaggiato” il nuovo continente nell’atto finale di Manon Lescaut (ma anche lì, la terra arida che accoglie la morente protagonista potrebbe essere ovunque) nella “Fan-ciulla” celebra con ritmi e drammaturgia quasi cinematografica l’epopea dei cercatori d’oro creando un’opera unica, non solo per la genialità della struttura narrativa e musicale, ma anche per l’idea dell’ambientazione. R. Iov. O Dio, pietà di me per la tua clemenza; nella tua gran bontà tergi il mio fallo, Dalla nequizia mia lavami a fondo, e dal peccato mio rendimi puro. Poiché le mie colpe io riconosco, e il mio peccato sempre mi sta innanzi. Contro di te soprattutto io peccai e commesso ho il male nel tuo cospetto. Così che giusta appare la tua parola, irreprensibile è la tua sentenza. Ecco, ebbi nella colpa il nascimento, nel peccato mi generò mia madre. Ecco, tu ami un amico sincero, nell'occulto m'insegni la tua sapienza. Aspergimi con 1'issopo, e sarò puro, lavami, e sarò bianco più che neve. Mi sazierai di gioia e d'esultanza, esulteranno l'ossa che tu spezzasti. Rivolgi il viso tuo dal mio peccato e detergi tutte le mie colpe. Un puro cuore in me ricrea, o Dio, un fermo e santo spirito in me rinnova. Non rigettarmi via dal tuo cospetto, non ritogliermi il tuo spirito santo. La gioia rendi a me del tuo riscatto; d'un generoso spirito mi rinfranca. Insegnerò ai perversi le tue vie, e a te ritorneranno i peccatori. Dal sangue. mi salva, o Dio, mio scampo, e la mia lingua esalti la tua pietà. O mio Signore, schiudi le mie labbra, e la mia lingua annunzi le tue lodi. Poiché non t'è gradito il sacrificio, nè olocausto ch'io offrissi avresti caro, mio sacrificio, o Dio, sia un cuor contrito; un cuor contrito e affranto tu non sprezzi. In tua bontà sii tu benigno a Sion, rialza le mura di Gerusalemme. Allora ti saran grati i sacrifizi di giustizia, le oblazioni, gli oIocausti, e torneran sul tuo altare i giovenchi. 1) L’ossa tu spezzasti - Le terribili pene comminate avevano sconvolto e come infranto il re il colpevole. Qui «le ossa» stanno per tutto l'organismo. L'espressione è usuale in ebraico. 2) Dal sangue: L'omicidio recava con sé la pena del taglione, sangue per sangue (2 Sam 11,15; Num ~ 35,1821). Vi poteva sfuggire Davide re; ma restava c il grido del sangue innanzi a Dio (Gen 4,10). Il Giornale dei Grandi Eventi La Fanciulla del West 7 Analisi dell’opera Puccini e le melodie del vecchio West “L a fanciulla del West” rappresentò una delle operazioni commerciali più coraggiose e “moderne” all’epoca di Puccini: la conquista del ricco mercato d’oltreoceano con un’opera “americana” portata nel nuovo continente per il debutto assoluto. Ma a stimolare l’interesse del musicista non c’erano solo questi aspetti, certamente cari all’editore Ricordi: c’era anche la possibilità di abbandonare il mondo delle fragili eroine che aveva finora assorbito interamente l’estro pucciniano. Protagonista assoluta dell’opera è naturalmente Minnie che Belasco descrive così nella prefazione al suo dramma: «La sua estrema franchezza le toglie qualsiasi traccia di vizio, mostrando come sia senza macchia, felice, disinteressata, non tocca dalla vita che la circonda. Tuttavia ha una piena coscienza di ciò che gli uomini che le sono attorno di solito desiderano. E’ avvezza all’adulazione, sa esattamente come trattare con gli uomini, è molto intelligente, ma pienamente capace di essere una buona amica per i ragazzi dell’accampamento». Minnie, insomma, è una donna ricca di contraddizioni, sa maneggiare il revolver e servire il whisky, tiene a bada gli uomini, ha pensieri puri, legge libri colti, crede nell’amore puro. Non meno improbabili sono gli altri due personaggi principali: Johnson, il bandito gentiluomo, dietro la cui apparente eleganza si nasconde il bandito di strada Ramerrez e lo sceriffo Jack, «un giocatore freddo, deciso, impassibile», innamorato di Minnie, ma non falso e inaffidabile come Scarpia. Puccini ed il libretto Più che la coerenza dei personaggi, a Puccini interessava la vicenda in sé, l’insieme di passioni forti, l’ambientazione originale per il teatro italiano. Come ha testimoniato il librettista Zangarini, Puccini intervenne direttamente nel libretto. Fu lui ad esempio a ricavare da un semplice accenno di Belasco la caccia all’uomo nella foresta e ad inventare la scena nella quale la dea ex machina Minnie arriva a cavallo (una Walkiria del West) per salvare Johnson dall’impiccagione. E fu ancora Puccini a inventare la commovente scena di addio di Minnie ai cercatori. Il dramma di Belasco, in 4 atti, prevedeva il processo di Johnson nel terzo, mentre nel quarto si vedevano solo i due amanti in cammino verso la libertà. Puccini pensò di fondere i due ultimi atti, poi inventò la caccia all’uomo e trasferì la scena del linciaggio nella Foresta della California. Quanto ai personaggi principali, come ha scritto il biografo M o s c o C a r n e r , «Puccini resta fedele al suo vecchio principio di dare una mano di bianco sugli amanti e di annerire il cattivo». Il che significa esaltare le qualità positive dei buoni ed estremizzare l’efferatezza dei cattivi, per accentuare i contrasti, anche a costo di rendere ancora più improbabili i caratteri (il che gli avrebbe procurato qualche problema nella Turandot). Perfetto rapporto tra teatro e musica “La Fanciulla” appare sul piano musicale meno “lirica”, meno commovente, meno generosa in melodie d’effetto rispetto ai titoli pucciniani precedenti e la stessa Minnie risulta quasi estranea alla galleria di eroine femminili impalpabili e sensibili cui ci ha abituato il compositore lucchese. In realtà il valore della “Fanciulla” sta soprattutto nel perfetto rapporto fra teatro e musica, fra gesto teatrale e gesto sonoro. E’ opera nella quale la “coralità” ha una forza espressiva indubbia, nella quale la virilità delle voci è preminente e nella quale il colore locale (la barbarie dei cercatori d’oro, la violenza dei rapporti ecc.) è risolto da Puccini con mano magnifica, ancora una volta (come aveva fatto in Butterfly e come avrebbe fatto in Turandot) andan- do a cercare melodie popolari, in questo caso americane. E’, ancora, opera di forte tensione scenica. Si prendano tre scene come esempi. Innanzitutto la prima. Nel Saloon arrivano i vari personaggi e Puccini crea con estro la giusta atmosfera intersecando dialoghi, interventi solistici, passi corali. E’ una potente scena di massa che ha il pregio di trascinare lo spettatore nel vecchio West non introducendolo immediatamente nella vicenda centrale (che rimane ancora sconosciuta agli spettatori), ma calandolo invece con efficacia nelle giuste atmosfere di un saloon animato da uomini rozzi tenuti amabilmente a bacchetta da una donna coraggiosa. Il secondo atto è costruito con maestria. Prima l’idillio amoroso, poi il crescendo passionale cui fa da contraltare il crescendo della tempesta di neve all’esterno e ancora il colpo di scena con l’irruzione di Rance. Segue, nel finale dell’atto, la scena maggiormente straordinaria sul piano drammaturgico, la partita a carte in cui Minnie mette come posta se stessa e Johnson. Qui Puccini (grande giocatore di carte) inventa una delle scene forse più geniali del suo teatro nella quale la musica cadenza la crescente tensione del gioco con efficacia. Infine, nel terzo atto, da segnalare l’arrivo di Minnie a salvare ancora una volta Johnson dal capestro. Altro momento spettacolare in cui Puccini tratta Minnie un po’ da Walkiria, un po’ da pura predicatrice (ma non aveva lei barato nella partita per salvare, in fin dei conti, un bandito?), inserendo nel discorso musicale reminiscenze popolari come la canzone nostalgica del minstrel ripresa dal primo atto. Happy end Da notare l’happy end. Se sul piano drammaturgico, il riferimento può essere a Tosca (la spettacolarità, la complessità dei rapporti in gioco, la crudeltà del rivale, ecc.) manca qui la conclusione tragica. Tutto si stempera nel perdono e i due amanti possono partire verso un’altra vita in una sorta di idillico “vogliamoci bene”. Il bene insomma trionfa sul male non attraverso la morte, ma grazie all’amore. Il che sembra preludere a Turandot, anche se qui la drammaturgia appare più coerente e logica nel condurre lo spettatore verso l’esito conclusivo. Sottolineati gli aspetti teatrali dell’opera, non si può, infine, ignorare il valore della partitura musicale. Se non ci sono gli slanci lirici pieni e trascinanti che altrove hanno decretato il successo di Puccini (ma alcune pagine sono giustamente famose: si ricordino, ad esempio, “Che faranno i vecchi miei” di Wallace, “Minnie dalla mia casa son partito” di Rance, “Laggiù nel Soledad” di Minnie, “Ch’ella mi creda” di Dick Johnson) c’è tuttavia una condotta armonica (elementi esatonali, richiami a Debussy, ma anche a Strauss), un’orchestrazione solida e ricca, un modo di fondere elementi folclorici che fanno della nuova fatica del Lucchese un’opera perfettamente calata nel contesto europeo del suo tempo, confermando il ruolo che Puccini ormai da tempo ricopriva nella cultura italiana, di leader abilmente aperto a recepire le istanze più aggiornate e ad inserirle nel proprio linguaggio teatrale. Roberto Iovino 8 La Fanciulla del West Il Giornale dei Grandi Eventi Due protagonisti dell’ Colt e Winchester, fedeli ed inseparabili compag C' era una volta il West, spazzato dal vento di terre lontane, lacerato dalle deflagrazioni leggendarie delle pistole Colt e dei fucili Winchester. Armi «giustiziere» o «portatrici di eguaglianza», ma in ogni caso fedeli compagne di un giovane popolo teso alla conquista del suo spazio vitale. Fin dalle prime bocche da fuoco del XIV secolo, le pistole hanno svolto un ruolo importante nell'evolversi della storia. Tra i marchi più famosi ha un posto d'onore la Colt: fin dalle prime prove sul campo, nel 1873, passando alle azioni di frontiera in Texas e Florida; dalla Guerra civile, poi al fianco dei soldati americani con il mitico modello 1911, (che rimase in servizio fino al 1985 quando fu sostituito dalla Beretta 92 F), le armi Colt hanno avuto un seguito entusiasta tra cacciatori, tiratori e intenditori. Soprattutto, sono entrate nella storia per la geniale innovazione tecnica apportata dal loro inventore, fondatore di una fabbrica che sarà legata a doppio filo al progresso industriale americano. Nasce il «revolver» Samuel Colt, figlio di un piccolo uomo d'affari attivo nel campo della seta, era quello che si dice un ragazzino sveglio, naturalmente portato per le scienze, la meccanica e l'avventura. Appassionato di armi fin da piccolo, all'età di sedici anni, durante una traversata per mare, forse ispirato dal sistema di spinta della ruota del piroscafo, maturò l'idea dell'arma da fuoco a rotazione. Fino ad allora il numero di colpi di un'arma coincide- va con quello delle canne: generalmente era una sola, spesso due, al massimo tre, salvo alcune esagerazioni poco diffuse, come le cosiddette «pistole a piede d'anitra» (con quattro o più canne disposte a ventaglio su di un piano orizzontale che sparavano contemporaneamente) o il fucile a sette canne, dell'inglese Manton. Samuel Colt disporre una nuova cartuccia pronta allo sparo. Il modellino di tamburo di Colt era però ad avancarica e le camere di scoppio dovevano essere caricate ancora con i vari elementi separati (capsule, polvere e pallottole). Il ragazzo mostrò il progetto ai parenti, che lo indussero a presentare la domanda di brevetto provvisorio ed a tentare addirittura il deposito dell'invenzione. Per finanziare la costruzione dei primi prototipi, Sam Colt dedicò i quattro anni successivi a un'insolita attività: girava in lungo e in largo tra gli Stati Uniti e il Canada tenendo conferenze dimostrative sugli effetti del gas esilarante, che era utilizzato come analgesico e aneste-tico. Con i guadagni sul gas esilarante fece realizzare dai migliori armaioli di Hartford e Baltimora i prototipi di almeno nove carabine e sedici pistole. Nel 1832 la prima pistola «Colt» era completa, ma al collaudo esplose al primo sparo: la fiammata di ritorno aveva fatto scoppi- La Colt Dragoon; Third Model, la Pocket Mod. 1849 (al centro) e la Army are anche le altre cartucce. Le carabine invece andarono decisamente meglio. Le prime pistole Colt sparavano in «singola azione» (si doveva cioè armare il cane con il pollice prima di ogni colpo). Con l’affermarsi della «doppia azione» (il cane è riarmato dalla stessa pressione del dito sul grilletto) il revolver raggiunse una stabilità evolutiva, rima- Il giovane Colt gia durante il viaggio diede subito corpo alla sua geniale intuizione intagliando nel legno un modellino di quello che sarà il primo meccanismo a tamburo: un elemento cilindrico che ruota attorno ad un asse centrale, solidale con l'intelaiatura dell'arma. Il tamburo, inserito tra la canna e il cane è provvisto, sulla sua circonferenza, di fori passanti longitudinali per l'alloggiamento delle cartucce. Il movimento manuale di armamento del cane faceva ruotare il tamburo nei cui alloggiamenti si era precedentemente preparata la capsula di innesco, la polvere e la pallottola. In questo modo la pistola poteva rapidamente pre- Dall'alto: Henry n.9. Sotto due preziosi Winchester incisi da Gustav Young nendo sostanzialmente inalterato fino ai nostri giorni. Nel 1836, Colt aprì una linea di produzione a Paterson da cui uscì il modello che portava questo nome, mod. «Paterson», appunto. Il primo contratto di fornitura al governo degli Stati Uniti si sarebbe firmato però solo dieci anni dopo, il 4 gennaio 1847, per il modello «Walker», arma di grandi dimensioni in calibro .44. Nel 1846, a conclusione della guerra messicana, un catena di eventi in rapida successione fece crescere la domanda di armi. La corsa all'oro in California, l'espansione pionieristica verso Ovest, la crescente inquietudine sulla questione degli schiavi, il banditismo diffuso e un'organizzazione sociale totalmente indisciplinata, furono circostanze che favorirono la dif- Il Giornale dei Grandi Eventi La Fanciulla del West 9 epopea del West gni della corsa all’oro fusione commerciale delle Colt. Oltre ai due modelli Walker e Dragoon, Colt volle diversificare la produzione con altri modelli tascabili. Taluni modelli erano decorati ad incisione in modo elegante e venivano molto apprezzati dalla miglior società americana ed europea. Preziosi esemplari «da regalo» erano conservati in astucMod. 1860 ci in palissandro foderati di velluto, con finiture in alpacca e ottone argentato. Tra i modelli più importanti prodotti dalla Colt's Manufacturing Company figura la Colt Single Action Army del 1873, che fu, insieme alla carabina Winchester, una delle armi tipiche del Far West. Il mito del Winchester Ideale pendant della Colt, questa carabina fu progettata dal famoso costruttore d'armi Oliver Winchester. La sua industria fu la prima a produrre fucili a ripetizione con un meccanismo di ricarica a leva da azionare con la stessa mano che premeva il grilletto: tirando in basso e in avanti la leva, si arretrava l’otturatore per cui il bossolo della cartuccia appena sparata veniva espulso ed un'altra cartuccia immessa in canna. Il primo modello fu il Winchester 1866, ispirato al similare fucile Henry, della «Henry Repeating Rifle Company». Fabbricato in circa 13.000 esemplari, l'Henry era stato adottato in alcuni esemplari nella Guerra di Secessione. Per quanto un fucile a ripetizione, in guerra, fosse un grande vantaggio rispetto ai fucili a colpo singolo allora in dotazione, venne giudicato dalle autorità militari troppo delicato e costoso. Aveva alcuni difetti: primo fra tutti una certa tendenza ad incepparsi, a causa del sistema di caricamento non ancora perfezionato. Inoltre era privo di un'astina guardavano, per cui dopo un certo numero di colpi era impossibile da sorreggere, a causa dell'eccessivo surriscaldamento della canna. Oliver Win-chester rilevò l'azienda produttrice dell'Henry e, pur mantenendo l'esteriorità del vecchio fucile, apportò alcune fondamentali modifiche, come l'adozione di un guardamano in legno, l'abolizione della fessura del serbatoio, l'adozione di una finestrella di caricamento sul lato destro del fucile e l'uso di cartucce a percussione centrale. Quest'ultima modifica sortì anche l'effetto di migliorare le prestazione dell'arma. Il mod. 1866 fu, insieme al 1873, protagonista della conquista dei territori occidentali: appena due anni dopo l'inizio della sua produzione era già noto con il nomignolo di «Yellow Boy» per il colore giallo dell’ottone del castello. Gli indiani lo chiamavano «Grande fuoco» o «Molti colpi» e fu tra le armi che i guerrieri Sioux impugnarono nella famosa battaglia di Little Bighorn, in cui furono massacrati i 268 uomini del generale Custer, che si difendevano sparando a colpo singolo con lo Spriengfield in dotazione alla cavalleria. La miriade di varianti delle Colt Single Action, tutte dotate di canna da 7,5' pari a 19,05 tive e cacciavano essenzialmente per nutrirsi e vestirsi. Con l’arrivo dei «visi pallidi» l’equilibrio si spezzò e gli indiani cominciarono ad intensificare la caccia per scambiare pelli con i manufatti europei, soprat- tutto fucili Winchester. Nel sud ovest degli odierni Stati Uniti, gli animali preferiti dai cacciatori indiani erano il cervo, l’antilope, il coniglio, il tacchino e nelle zone orientali il grosso bisonte. Sotto i colpi del Roosvelt e Buffalo Bill, due grandi cacciatori Prima dell’arrivo dei bianchi i cacciatori indiani utilizzavano armi primi- Il colonnello William Cody detto Buffalo Bill in una fotografia scattata a Parigi nel 1889 Winchester, caddero centinaia di migliaia di bisonti, cacciati spietatamente dai bianchi anche per privare gli indiani di una loro importante fonte di nutrimento. In numero di questi passò in pochi anni da sette milioni a 40.000 capi. Solo il colonnello William Frederick Cody, alias Buffalo Bill, si vantava di averne abbattuti oltre 4000; egli fu un fanatico ammiratore dei Win-chester e ricordava come uno di essi gli avesse salvato la vita da un orso inferocito. Il presidente americano Theodore Roosvelt (18581919), grande appassionato di balistica e di caccia, scriveva : «Il Winchester è senza dubbio l'arma migliore che io abbia mai avuto. E' comodo da portare, sia a piedi sia a cavallo, e si porta facilmente alla spalla come un fucile a pallini; è assolutamente sicuro e il rinculo non scuote e non interferisce con la mira, mentre riesce a sparare tanto lontano quanto si può mirare». Andrea Cionci 10 La Fanciulla del West Il Giornale dei Grandi Eventi Per la musica nuovi grandi mercati d’inizio secolo L’America, nuova Mecca dell’opera italiana «I eri di mattino ho provato la “Wally” in orchestra […] iersera alle 9 prova generale di “Ballo in maschera” che va benissimo. Ora vado alla prima generale di “Wally” e stasera première. Domani generale di “Traviata” e domenica matinée di “Ballo” e prima di “Bohème”… ». Scriveva così il direttore d’orchestra Gino Marinuzzi ai familiari l’8 maggio 1912 da Buenos Aires. Un tour de force notevole che non era tuttavia un caso isolato. L’anno prima, ancora da Buenos Aires, Pietro Mascagni informava i suoi di aver messo su Aida, Lohengrin, Bohème e Trovatore in otto giorni! Ai primi del Novecento l’America (del nord come del sud) rappresentava la nuova Mecca per i musicisti non solo italiani. Un significativo “spostamento” geografico rispetto al passato. Se nel Settecento il centro musicale per tutta Europa, in campo operistico era stata Napoli con i suoi quattro Conservatori, punti di riferimento essenziale per qualsiasi musicista (e non a caso, il piccolo Amadeus vi era stato condotto dal padre in uno dei suoi tre viaggi in Italia), dalla fine del XVIII secolo capitale del teatro musicale era divenuta Parigi. Lì occorreva andare per conquistarsi fama internazionale. E lì andarono Cherubini, Rossini, Donizetti, Verdi, lo stesso Wagner. Se prima autori stranieri scrivevano opera in italiano (Mozart, ma anche Gluck e, più indietro, Haendel), adesso occorreva usare la lingua francese e adeguarsi alle strutture formali dell’opera-comique o del grand-opera. Parigi fu l’incontrastato centro teatrale europeo per tutto l’Ottocento e per il primo Novecento (si pensi ancora ai primi decenni del XIX secolo con la vulcanica attività dell’avanguardia, da Ravel a Stravinskij, da Satie ai Cinque, con il contorno di Picasso, Cocteau, Diaghilev, Massine), ma sul piano più propriamente economico l’interesse degli editori cominciò a spostarsi oltreoceano, dove esistevano grandi teatri (il Colon di Buenos Aires, ad esempio) in grado di offrire affari vantaggiosi e dove si stavano ingrandendo le comunità europee (e quella italiana in particolare). Così le navi che dall’America portavano le esperienze jazz, dall’Italia trasportavano interi complessi teatrali per tournée di mesi destinate a segnare un nuovo capitolo nella storia dell’opera italiana. Direttori come Toscanini e Marinuzzi raccolsero trionfi mettendo su stagioni d’opera con velocità sorprendenti. I lunghi viaggi per mare servivano come periodi di prove intense, i cantanti passavano da un titolo ad un altro senza alcun problema. Anche Mascagni visse l’esperienza di Marinuzzi e di Toscanini e anticipò Puccini nel portare un’opera oltreoceano in prima assoluta. Il 2 giugno 1911 al Coliseo di Buenos Aires debuttò infatti Isabeau su libretto di Illica con due grandi nomi della lirica del tempo come Maria Farneti e Carlo Galeffi. R. Iov. Il teatro sede della prima rappresentazione di “Fanciulla” Metropolitan Opera, tempio newyorchese del melodramma L a fanciulla del West di Giacomo Puccini fu rappresentata per la prima volta il 10 Dicembre 1910 al Metropolitan di New York diretta da Arturo Toscanini. Puccini in quel teatro farà debuttare otto anni dopo, il 14 dicembre 1818, anche le tre opere che compongono Il Trittico (Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi). Fondato nel 1880, il primo Metropolitan Opera House, nato su disegno J. Cleaveland Cady, fu inaugurato il 22 Ottobre del 1883 ed era situato tra la 39ma e la 40ma strada a Il vecchio Metropolitan Theatre e Brodway Avenue a New York Broadway. Ma ebbe vita breve, solo piazza ubicata all’incrocio tra Broadway e nove anni, poiché il 27 Agosto 1892 fu disColumbus Avenue, si demolì un intero vectrutto da un incendio, cosa frequente nei chio quartiere popolare dell’Upper West teatri dell’epoca. Dopo ampi rifacimenti Side. La costruzione iniziò nel 1959, sotto la continuò a essere utilizzato fino al 1966, direzione generale dell’architetto Wallace K. quando si spostò nell’attuale moderna sede Harrison e proseguì nel corso degli anni del Lincoln Center. Sessanta e Settanta. Finanziamenti pubblici Il Lincoln Center for the Performing Arts, vennero erogati solo per l’acquisto del terubicato a Manhattan, nell’Upper West Side, reno, mentre la costruzione fu finanziata da tra Broadway, la Amsterdam e la Columbus privati (tra cui il magnate John D. Rockfeller Avenue, è il più grande centro culturale di III, presidente del comitato per la realizNew York dedicato alle arti drammatiche zazione). I singoli edifici che lo compon(teatro, opera, danza e concerti) e può gono, la cui pianta è ispirata al disegno di ospitare nelle numerose sale contempoMichelangelo per la piazza del raneamente 15.000 spettatori. Vi lavorano Campidoglio a Roma, furono disegnati da 6.000 persone ed ogni anno si tengono 3.000 progettisti diversi anche se, grazie al loro manifestazioni che richiamano oltre 5 milaspetto classicistico, riuscirono a fondersi in ioni di spettatori (dei quali il 50% proveniun insieme architettonico omogeneo. Per il enti da fuori New York e il 15% dall’estero). rivestimento delle facciate degli edifici è Per edificare questo complesso, che deve il stato utilizzato il travertino italiano, giudisuo nome alla Lincoln Square, una piccola cato il meno sensibile agli effetti di smog e polvere. Il Metropolitan Opera, anche chiamato Met - progettato come altri edifici da W. K. Harrison - è stato inaugurato nel 1966. L’auditorium interno, decorato in legni africani, dispone di 3.800 posti e si caratterizza per le sue cinque alte arcate. Il proscenio è largo 16 metri e alto 16 ed il sipario principale, damascato d’oro, è il più grande del mondo. Il palcoscenico è altamente tecnologico, tanto che ogni settimana possono essere rappresentate 4 o 5 produzioni differenti. Il vasto foyer è decorato da due grandi pitture murali di Marc Chagall, Les sources de la musique e Le triomphe de la musique, visibili di notte anche dall’esterno. Al Met, che è senza dubbio il più famoso teatro lirico americano, indimenticabili sono state le 374 esibizioni, dalla Tosca alla Bohème, da Elisir d’Amore a La Figlia del Reggimento di cui Luciano Pavarotti è stato protagonista dal 1969. Ma quel palcoscenico ha decretato anche la fine della sua carriera dopo il suo forfait per una leggera influenza in Tosca, annunciato – come tre giorni prima - 50 minuti prima dello spettacolo l’11 Maggio 2002, giornata di chiusura della stagione. Ma fu soprattutto il rifiuto di presentarsi sul palco per scusarsi, ad essere accolto da disapprovazione in sala e da un titolo cubitale di un quotidiano americano: “Vergogna!”. Al. Mo. Il Giornale dei Grandi Eventi La Fanciulla del West 11 Per lui Puccini scrisse il ruolo di Dick Johnson Enrico Caruso, ovvero la perfezione del Belcanto italiano L a Fanciulla del West fu in qualche modo scritta da Giacomo Puccini per lui, già idolo dei teatri della lontana America e del Metropolitan di New York in particolare, con il quale aveva un contratto dal 1903. Parliamo del tenore dei tenori: Enrico Caruso (Napoli, 25 febbraio 1873 – Napoli, 2 agosto 1921), colui che seppe esprimere, come nessun altro, lo struggimento sensuale e la passionalità dei personaggi pucciniani e veristi. Dotato di una voce eccezionale, che univa alle solari vibrazioni tenorili un'inconfondibile brunitura baritonale, Caruso possedeva a fondo l'arte del fraseggio che riluceva particolarmente nel repertorio verdiano. A Milano l'11 aprile del 1902 incise dieci dischi con arie d'opera per conto della casa discografica inglese Gramophone & Typewriter Company. Fu il primo cantante a cimentarsi nella nuova tecnologia, fino ad allora snobbata da molti altri suoi colleghi e questo determinò il suo successo e quello della casa discografica. Di lui lo scrittore austriaco Joseph Roth disse: «Sarebbe diventato cantante anche se fosse venuto al mondo senza corde vocali». Infatti, sebbene fosse stato generosamente dotato da Madre Natura, il suo successo fu dovuto soprattutto ad uno studio intelligente e critico, da autodidatta. Agli inizi la vocalità di Caruso era poco potente, facile all'incrinatura sugli acuti e decisamente “corta”, sì che, a volte, un semplice la naturale poteva causargli delle difficoltà. Tuttavia, con l'applicazione e una ferrea volontà, arrivò a sviluppare una personale tecnica vocale ispirata ai dettami dell'antica scuola italiana del Belcanto, una tecnica di canto virtuosistico caratterizzata dal passaggio omogeneo dalle note gravi alle acute e da agilità nell'ornamentazione e nel fraseggio. Ancor oggi rimane fondamentale quanto egli ci ha lasciato sulla didattica e sulle caratteristiche tecniche ed artistiche del canto italiano. La sua evoluzione canora partì inizialmente da un repertorio di tenore leggero. Tuttavia si sentiva stretto nel modello di tenore di grazia che a fine '800 faceva furore, tanto che gli altri allievi del suo maestro, lo chiamavano “tenore vento” per gli artificiosi, leziosi schiarimenti timbrici a cui cercava di adeguarsi, ma che pesavano a una voce di spessore drammatico come la sua. Caruso dimostrò in modo definitivo come la tecnica belcantistica non obblighi il cantante a una limitazione delle proprie potenzialità vocali o alla ghettizzazione all'interno di un ristretto repertorio, un falso mito che ancor oggi nonostante il suo esempio - resiste. Al contrario, l'adozione dell'antica tecnica italiana portò Caruso a quello che è stato definito «il felice ossimoro di un verismo belcantistico». Le possibilità di questa impostazione vocale, rispettosa della natura e in armonia con il corpo umano furono portate all'estremo - o forse sarebbe meglio dire, a compimento - da Caruso, consentendogli di spaziare senza problemi da ruoli molto «spinti» come Otello o Canio dei Pagliacci, al Don Ottavio, del mozartiano Don Giovanni, e perfino alle canzoni napoletane, di cui fu un sensibilissimo interprete “di madre lingua”. La sua tecnica gli consentì inoltre di riprendersi pienamente dopo alcune crisi vocali e persino dopo un'operazione alla laringe. L'impostazione belcantista conduce soprattutto al suono di “libera risonanza” che crea un senso di stupore, quasi mistico, nel pubblico; come avveniva, del resto, per gli spettatori di Caruso, ogni volta rapiti da suoni e inflessioni che sembravano provenire da un altro mondo. Il dilemma secondo cui certa musica sia nata per l'inarrestabile evoluzione tecnica degli strumenti o se invece sia stata la fantasia dei compositori a richiedere ai costruttori nuove tecniche e nuovi mezzi espressivi, sembra non trovare una risposta univoca. Certo è che i due aspetti si sono da sempre influenza- Enrico Caruso nel 2° atto Fanciulla del West al Met nel 1910 ti reciprocamente. Mentre, (soprattutto nel Nord Europa), volenterosi organologi hanno indagato scientificamente l'evoluzione tecnica degli strumenti in relazione all'evoluzione del gusto musicale, questo è avvenuto in forma molto minore nella musica vocale, poiché risulta molto difficile mettere su carta quegli ineffabili meccanismi di muscoli per la maggior parte involontari e quel mondo di sensazioni che rimangono per larga parte patrimonio intuitivo e soggettivo del cantante. Sensazioni che vengono tramandate secondo un codice spesso immaginifico ed enigmatico: pochi punti fermi, peraltro in certi casi ferocemente dibattuti (pensiamo ai concetti tradizionali di appoggio, sostegno, maschera etc.), con un florilegio di metafore, a volte persino ridicole, tutto per indurre un naturale perfetto equilibrio pneumofonico conquistato intuitivamente dal cantante, solo, (e non sempre) dopo molti anni di studio. Tutti i tentativi di scientizzare la didattica del canto hanno fallito miseramente. L'insegnamento del canto rappresenta forse la soglia metafisica dell'organologia. Del resto, la voce umana è l'unico strumento che non è stato costruito dall'uomo… Non possiamo comunque immaginare che Puccini avesse scritto la parte di Dick Johnson solo per un unico cantante miracolato dal Cielo. Evidentemente anche lui, come altri intelligenti autori coevi, aveva compreso che l'antica arte del belcanto italiano, avrebbe potuto spingersi a sostenere ruoli così impegnativi, come Caruso aveva confermato e dimostrato. Andrea Cionci 12 La Fanciulla del West Il Giornale dei Grandi Eventi La vicenda a tinte fosche che La brutta storia del Elvira Bonturi Puccini S trettamente legate alla composizione di Fanciulla del West, sono le vicende sentimentali di Puccini nei primi anni del nuovo secolo. Continuavano le ripetute crisi con la moglie Elvira per la gelosia di questa, che il compositore aveva conosciuto subito dopo la morte della madre il 17 luglio 1884. Puccini aveva 27 anni e lei 25. Elvira Bonturi (1860 – 1930), anche lei lucchese, all’età di diciannove anni aveva sposato il commerciante in coloniali Narciso Germignani, da cui ebbe due figli, Fosca nata nel 1880 e Renato (18851957). Con Puccini iniziò una storia passionale fino a quando la donna nei primi mesi del 1886 rimase incinta. Da qui la fuga nell’estate 1886 quando lo stato di gravidanza cominciava ad essere evidente, poi la nascita di Antonio (23 dicembre 1886) e la decisione di convivere. Dopo una serie di vicende, nel Corinna). In quei primi mesi del 1903, proprio per far fronte alla malattia del Maestro, venne assunta dai Puccini una nuova cameriera, la diciottenne Doria Manfredi (1885 – 1909). Un vero dramma in famiglia Il rapporto con la moglie Elvira si stava disgregando, soprattutto per la pressante gelosia divenuta soffocante, soprattutto da parte di una donna che voleva stare a fianco di un grande uomo, apprezzato in tutto il mondo. In effetti Puccini non si era mai lasciato sfuggire alcuna occasione con le donne, da lui sempre elevate a specchio del bello e della passione. Elvira cominciò ad essere gelosa della giovane bellezza di Doria fino a licenziarla, affermando di averla colta in flagrante con Giacomo. Arrivò ad accusarla pubblicamente diffamandone la reputazione con chiunque le desse ascolto: il parroco, il droghiere, i barcaioli. Doria in realtà aveva solo tenuto sporadici contatti tra il Maestro e la propria cugina Giulia Manfredi, con la quale poi, negli anni successivi, Puccini intratterrà un rapporto dal quale, si dice, sia nato nel giugno del 1923 - diciassette mesi prima della morte del Maestro – Alfredo, morto in povertà nel 1998. Doria, però, diventò lo zimbello del paese, la meretrice di Torre del Lago, finché il 23 gennaio 1909 ingerì alcune pastiglie di sublimato. Nell’apprendere la notizia, Puccini, che si trova a Roma, ne è sconvolto: «Se si arriva in tempo! questo pensiero è tremendo - vedo distrutto tutto per me famiglia pace - addio mio Torre 1891 si trasferirono a Torre del Lago. I suoi viaggi cominciarono a far nascere la gelosia in Elvira. In effetti Giacomo, che iniziava a divenire famoso, non si risparmiava qualche piccola relazione, come quella con la c.d. Corinna, conosciuta il 19 febbraio 1900 mentre si recava a Torino per una rappresentazione di Tosca. Relazione che dovette interrompersi – con uno strascico legale di rivendicazione di una promessa di matrimonio – a causa della forzata immobilità di Puccini dopo l’incidente automobilistico del 25 febbraio 1903. Il giorno successivo giunse la notizia della morte del marito di Elvira, la quale diveniva così formalmente libera di sposare Giacomo (cosa che avverrà il 3 gennaio 1904 nella chiesa di Torre del Lago suscitando le ire della Puccini dopo l’incidente automobilistico del 1903 del Lago per sempre! ... tutto è sfacelo - e i rimorsi prenderanno tutti. ..ma gli altri non hanno anima. ..Io sarò il più infelice di tutti - Povera Doria così buona così dolce e affezionata!» (a Bettolacci, 26 gennaio 1909). Ma non si arrivò in tempo e Doria morì il giorno 29 dopo terribili sofferenze. Nei giorni successivi Carlo Marsili, figlio della sorella maggiore di Puccini Nitteti, raggiunse lo zio a Roma e ne informò la zia Ramelde in una lunga e accorata lettera: «Povero Giacomo! che pena mi faceva. La mattina che lo vidi, non lo avrei riconosciuto. Pareva un vecchio! E per tutto quel giorno si diede a mangiar dolci e paste per morire. La mattina mi svegliavano i suoi sospiri e i suoi pianti. Girava per camera come un matto. Mi raccontò poi che il giorno innanzi, appena ebbe la notizia telegrafica da Emilio [Manfredi] della morte, se non fosse stato in compagnia si sarebbe ammazzato. E quella [Elvira] a Milano che rise insieme con la figlia all’annunzio della morte di quella povera disgraziata!!!» (C. Marsili a Ramelde Franceschini, 9 febbraio 1909). Puccini uscì distrutto dalla notizia, lui che aveva preferito viaggiare dietro alla sue opere pur di stare lontano dalle smanie ossessive della moglie, veniva colpito dal braccio assassino delle angosce. Così scrisse alla sua amica londinese, Sybil Seligman: «Elvira ha seguitato a perseguitare quella povera ragazza impedendole persino di passeggia- Il Giornale dei Grandi Eventi La Fanciulla del West 13 precedette ed influenzò “Fanciulla” la cameriera suicida re, diffamandola per tutto il paese: colla madre, coi parenti, col prete, con tutti. Tutti i parenti e gli amici miei e io compreso le dicevamo di farla finita e che si calmasse. Le non ha ascoltato nessuno. (...) Incontrò la Doria - la offese pubblicamente in strada in presenza di altre persone (...) insomma la povera Doria aveva l’inferno in casa, il disonore fuori ancora le offese di Elvira nelle orecchie; in un momento di grande sconforto ingoiò tre pastiglie di sublimato e morì dopo cinque giorni fra atroci spasimi (...)». Puccini non ne poteva più. La moglie era diventata per lui una persona da temere, una minaccia anche fondata visto che la brutta storia montata da Elvira finì con il colpire la reputazione dell’uomo ed anche del compositore, al punto di meditare persino di separarsi, azione che non porterà mai a compimento non amando dare forti scossoni alla sua vita. Così scriveva all’amico Antonio Bertolacci: «(...) Io sono la stessa anima persa - e triste - forse inguaribile! - tu sapessi che momenti passo! Alla sera mi sembra di non poter durare mi addormento a forza di sonniferi! di lavorare non se ne parla - Ma è vero che a Torre s’è cambiata l’opinione per me? così me lo scrive Caselli! Penso che siano parole scritte da mia moglie da informazioni dei sui spioni (...)» (G. Puccini a A. Bertolacci, 13 febbraio 1909). Poiché a Torre del Lago si sparse la voce che la cameriera era morta in seguito a un aborto, per evitare spiacevoli equivoci Elvira partì subito per Milano, mentre Giacomo, sempre da Roma, si rivolse all’avvocato Nasi che, da Torre del Lago, gli scrisse: «Non ti nascondo che era per me una grave preoccupazione la voce corsa (e di cui mi parlava una lettera che ti mostrerò) che si trattasse di aborto ecc., ormai ogni dubbio anche lontano è svanito ed è rimasta ormai assodata la integrità assoluta di quella povera creatura». Elvira aveva esagerato a punto tale che un’autopsia fatta sul corpo della giovane Doria rivelò che la ragazza era vergine. Nasi poi rassicurava Puccini sul benevolo atteggiamento del paese nei suoi confronti, e invece sui «sentimenti ostilissimi» nei confronti di Elvira; annunciava come inevitabile «un sacrificio di denaro» in vista della prevedibile invece restarci dopo un certo lasso di tempo. Continuare a vivere col veleno quotidiano è impossibile. Non sistemare le cose solennemente sarebbe una follia» (Nasi a Puccini, 31 gennaio 1909). II 1° febbraio 1909 Rodolfo Manfredi, fratello di Doria, querelò per diffamazione Elvira. Il processo venne fissato per il 6 luglio 1909 presso il Tribunale Penale di Lucca. Puccini non risparmiava Elvira, alla quale rivolge lettere durissime: «Non ho voglia di polemicare Mi scrivi una lettera che non meriterebbe neppure una risposta tanto è ingiusta e falsa - falsa per le cose che dici a mio riguardo - Io riparare al male che ho fatto? questa è enorme! Tu colla tua gelosia morbosa col tuo entourage mi hai avvelenato l’esistenza e Doria Manfredi azione giudiziaria per diffamazione da parte dei parenti di Doria contro Elvira, e soprattutto consigliava «una separazione legale [. ..]. Ormai la moglie tua non può più tornare giù. Tu devi pretendi che io mi prostri chiedendoti scusa, sei Pazza! E bene fa come credi - io parto dolente di aver trovato in te la medesima creatura fatta di puntigli superbi e infarcita di Giacomo Puccini a Torre del Lago cose false tu sai la verità su tutto ma la nascondi non puoi convenirne e cerchi caricarmi le spalle di cose che io non ho commesse per coprire altri Se vuoi tornare con me, dopo il processo, sarò sempre pronto riprenderti - e se vuoi difenderti come tu dici fallo pure io non ho nulla a Temere nulla! 1000.000 persone son lì, ad attestare l’onestà e la probità e la sincerità della mia vita d’uomo e di artista». (G. Puccini a Elvira Bonturi, 12 giugno 1909). Forse mal consigliata dai suoi avvocati, anche di fronte al giudice Elvira continuò ad accusare implacabilmente Doria e, non avendo alcuna prova da addurre, venne condannata per diffamazione, ingiurie e minacce a 5 mesi e 5 giorni di prigione, a 700 lire di ammenda e al pagamento delle spese processuali. I suoi avvocati ricorsero in Appello, che venne fissato per il 21 luglio seguente, ma nel frattempo Puccini ebbe un incontro con i familiari di Doria e, dopo aver versato la somma di 12.000 lire, ottenne il ritiro dell’accusa. Il 2 ottobre la Corte d’Appello archiviò il procedimento. Puccini si rifugiò a Torre del Lago lasciando Elvira a Milano. Lentamente riprenderà la triste routine di un falso ménage di coppia, proprio come scriveva lo stesso Puccini confessandosi con l’amico Bertolacci: «(...) ormai siamo qui, noi due, sposati per sempre. Siamo qui con questo cattivo amore che non tornerà più quello di prima e chissà che anche prima non fosse cattivo». Andrea Marini La Fanciulla del West 14 Il Giornale dei Grandi Eventi Fenomeno esplosivo nella California di metà Ottocento Quella “febbre dell’oro” creò un Paese ma distrusse molte vite alifornia, gennaio 1848: per la prima volta in quella terra lontana viene alla luce un filone aurifero. La notizia rimbalza di paese in paese stuzzi- C (Sacramento è un tipico esempio di centro urbano nato sulle fondamenta di un campo base dei pionieri), e ancora banche, uffici e locali di divertimento come i cando la fantasia e l'ingordigia di migliaia di persone, che accorrono in massa da ogni angolo d’America ed anche da altri continenti, alla ricerca di un rapido e facile arricchimento. Purtroppo le cose non andranno per tutti come sognato: a fronte di pochi fortunati che troveranno effettivamente discrete quantità dell'agognato metallo, la maggior parte dei pionieri ne trovò tanto quanto bastava per sopravvivere alla giornata, senza migliorare le condizioni di vita precedenti. Spesso si trattava di operai che lasciavano un duro ma sicuro lavoro in fabbrica. Si era, infatti, nel pieno della Rivoluzione industriale. La grande massa di persone che in quel periodo giunse in California, diede un forte impulso alla colonizzazione alle terre di quello Stato. Sorsero nuove città famosi Saloon ed i bordelli, tutto in mezzo al deserto. Conseguenza ne fu che più dei cercatori veri e propri furono fornitori e commercianti ad accumulare grandi fortune, dando luogo ad un importante sviluppo economico di quelle zone fino allora emarginate. Le origini della “Febbre dell’oro” Tornando alle origini del fenomeno della c.d “febbre dell'oro”, fu un contadino, James W. Marshall, che inconsapevolmente innescò questa frenetica ricerca. L'uomo era un dipendente dell'imprenditore agricolo John Setter, il quale aveva già realizzato una discreta fortuna con l'allevamento del bestiame e la coltivazione di frutta e vegetali. Marshall stava ispezionando un canale presso la segheria sul South Fork del fiume American, quando notò un luccichio nell'acqua: raccolto l'oggetto, non più grande di un pisello, scoprì che si trattava di una particella d'oro. Ne informò subito il padrone, il quale però si fece promettere dallo scopritore di non rivelare il segreto. Lo spargimento di una v o c e simile avrebbe causato presto l'invasione del suo territorio da parte di pionieri provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti. La segretezza sul ritrovamento durò poco tempo: quando la notizia fece capolino dalle parti di San Francisco, legioni di improvvisati cercatori d'oro abbandonarono la città per recarsi sui luoghi della scoperta. Per dare un'idea dell'effetto epidemico della «soffiata», tra il 12 maggio 1848, (giorno in cui trapelò la notizia), e il 15 dello stesso mese, la popolazione di San Francisco si ridusse da 600 maschi adulti ad appena 200; entro giugno divenne una città fantasma. Persino i giornali furono costretti a chiudere. In seguito, altri cercatori arrivarono da tutti i punti cardinali, persino dal Messico e dalle Hawaii, mentre dall'est, giunsero solo un anno dopo. In effetti, le condizioni di vita di operai e braccianti giustificavano il rischio di un lungo viaggio senza certezze: un operaio di fabbrica guadagnava un solo dollaro al giorno, mentre un artigiano appena 50 cents in più. Il lavoro di un cercatore era altrettanto faticoso: ci si spezzava la schiena stando ore e ore curvi a setacciare montagne di terra, con l’occhio pronto ad individuare ogni singola pagliuzza, ma un colpo di fortuna poteva significare la svolta per tutta la vita. Alcuni cercatori trovarono vene d'oro del valore di centinaia o migliaia di dollari, molti altri si rovinarono a causa di commercianti senza scrupoli che speculavano indegnamente sulle forniture ed i servizi. Un pasto preparato per un minatore poteva costare anche 25 dollari, tori provenienti da paesi diversi, come la Cina, il Perù, il Messico ed il Cile, giungendo ad omicidi e saccheggi. In breve tempo tutto quello che poteva essere scavato a mano venne alla luce, per il resto si cominciarono ad utilizzare pesanti macchinari. Coloro che avevano trovato l'oro poterono saldare i loro debiti ed iniziare una nuova vita una volta tornati a casa. Quelli che rimasero iniziarono lucrose attività commerciali o coltivarono le fertili valli. I più sfortunati morirono di malattie come il colera od a causa di incidenti nei campi auriferi. Nel 1855 dopo sette anni, si pone il termine convenzionale dell'ultima corsa all'oro californiana. Già nel 1851 John Sutter era pesantemente indebitato a causa dei danni provocati dai pionieri un prezzo assolutamente sproporzionato per l'epoca. nelle sue terre. Ormai in rovina fu costretto a lasciare la sua attività e la California, il suo impero agricolo. Marshall, lo scopritore dell'oro, ebbe anche lui poco successo e morì in povertà nel 1885, destino tragico comune a molti di coloro che erano stati preda della “Gold Rush”, la Febbre dell'oro. Livio Magnarapa Una lotta spietata La competizione raggiunse livelli pericolosi: vennero a crearsi dei clan che reclamavano ognuno a proprio favore il diritto di scavo sulle terre, a volte anche in modo violento. Si accesero dispute con mina- Il Giornale dei Grandi Eventi Dal mondo della musica 15 Al Teatro Verdi di Salerno Una stagione di grandi appuntamenti S i alza il sipario sulla nuova stagione di grande musica al Teatro Verdi di Salerno, da alcuni anni in pieno rilancio. Una sfida importante già premiata con il ritorno della lirica d'autore nella città campana. Quella musica e quell’imponenza scenica apprezzata sia dai neofiti sia dagli appassionati melomani e prescelte dal Maestro Daniel Oren al suo secondo anno di Direzione Artistica del Teatro, faranno da cassa di risonanza ad alcune tra le più conosciuti titoli melodrammatici. In cartellone cinque grandi opere. Ad inaugurare la stagione il 9 aprile l’imponente Tosca, firmata dal regista e scenografo argentino Hugo De Ana, con il soprano cinese Hui He, diretta da Miguel Gomez-Martinez. Sarà poi la volta de La Sonnambula (14 maggio) con Annick Massis per la regia di Riccardo Canessa e de La Bohème il 9 ottobre affidata a Lamberto Puggelli, queste ultime dirette dallo stesso Daniel Oren. Il 10 dicembre sarà sempre Oren sul podio per la fastosa Traviata, firmata da Franco Zeffirelli, interpretata ancora dal soprano Annick Massis assieme al baritono Renato Bruson. Infine, il 21 dicembre l’originale e discussa Vedova Allegra, con la regia e la partecipazione di Vincenzo Salemme, che ha chiuso fra molte polemiche la scorsa stagione del teatro dell’Opera di Roma. Recital e concerti Tre gli appuntamenti con musicisti di livello internazionale. Dapprima quello con il violoncellista Mischa Maisky, che sul palcoscenico del Teatro Verdi duetterà il 20 aprile con il pianista russo Pavel Gililov. Sarà poi la volta di Fazil Say (25 maggio) eccezionale pianista e compositore turco e quindi del tenore peruviano Juan Diego Florez che si esibirà il 9 dicembre sulle più famose arie operistiche. In cartellone due grandi concerti, quello diretto da Salvatore Accardo (direttore e solista) - previsto per il 6 giugno - con l’Orchestra da Camera Italiana dedicato alle quattro stagioni di Vivaldi e quello dedicato a Beethoven (5 ottobre) della Symphonica Toscanini diretta da Lorin Maazel, per la prima volta sul palco del Teatro Verdi di Salerno. Il 10 novembre, invece, l’appuntamento è con lo straordinario violino di Uto Ughi accompagnato al pianoforte da Alessandro Specchi. I balletti Un evento molto atteso è poi sicuramente il Gran Gala Roberto Bolle & Friends, appuntamento con la danza d’autore. Talento, presenza scenica ed impeccabili esecuzioni tecniche i punti di forza racchiusi in un unico nome: l’etoile Roberto Bolle affiancato da primi ballerini internazionali provenienti dai maggiori teatri del mondo (3 Maggio). Mi. Ma. Filatelia musicale Novità in libreria Un francobollo per i duecento anni di Casa Ricordi Una nuova collana per guidare lo spettatore d’opera Q D uesta volta è il caso di dirlo: un francobollo per celebrare un mito. Ed il francobollo è quello che è stato emesso il 7 marzo per commemorare il bicentenario di fondazione della Ricordi, la casa editrice musicale forse più famosa al mondo, sicuramente quella più legata all’opera italiana, dal Belcanto ai giorni nostri. Un “dentello” del valore di 0,60 euro, stampato in rotocalco con una tiratura di tre milioni e mezzo di esemplari, che riproduce in primo piano il logo realizzato in occasione di questo bicentenario, mentre sullo sfondo è raffigurato l’edificio del Teatro Alla Scala di Milano, che ospitava la sede storica del negozio della Casa editrice. La Ricordi fu fondata a Milano nel 1808 dal ventitreenne Giovanni Ricordi (1785 – 1853). La sua storia e le sue fortune sono state legate nell’Ottocento preminentemente al melodramma ed alle opere di Bellini, Donizetti e quindi ed in particolar modo di Verdi e successivamente Puccini. Nel corso degli anni venne ampliata, anche con l’acquisizione di case editrici concorrenti, da Tito I (1811 –1888), Giulio (1840 – 1912) e Tito II (1865 – 1933) che mantenevano anche con i compositori della “scuderia” un rapporto molto diretto e personale. In pratica Casa Ricordi finì per controllare e condizionare tutta la vita musicale italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento. Con il mutare dei tempi, l’azienda, guidata dal 1919 da vertici estranei alla famiglia, si allargò in varie parti del mondo, divenendo nel 1956 società per azioni ed affiancando alla classica attività editoriale nuovi settori, come la musica leggera e la produzione di dischi. Nel 1995 l’azienda, pur mantenendo il suo nome, è stata acquistata dal gruppo tedesco BMG. Mi. Ma. a Rossini a Verdi. Inizia con il grande melodramma ottocentesco italiano un nuovo viaggio nel mondo dell’opera. Si tratta di una iniziativa dei “Fratelli Frilli editori” di Genova che ha varato una collana di sei volumi, curata dal critico musicale e nostro collaboratore Roberto Iovino (con l’ausilio di vari collaboratori) e dedicata, appunto, al teatro musicale, italiano e non. In un momento in cui la lirica registra un confortante incremento di pubblico, l’obbiettivo è offrire una guida di consultazione rapida, tanto agli appassionati melomani, quanto ai neofiti. Ogni libro, incentrato su un delimitato periodo storico, propone un’antologia di autori inseriti in ordine alfabetico. Per ogni compositore vengono analizzate le opere più significative affrontando la trama e alcune considerazioni storico-stilistiche. Uno strumento agile da portare con sè anche a teatro. Il primo volume, ora in libreria, è dedicato, appunto, al momento più importante del nostro teatro, l’Ottocento e porta la firma di Iovino e di Giorgio De Martino. Tratta di 27 musicisti (Apolloni, Bellini, Boito, Bottesini, Catalani, Coccia, Donizetti, Faccio, Gobatti, Gomes, Manfroce, Marchetti, Mayr, Mercadante, Morlacchi, Pacini, Paer, Pedrotti, Petrella, Ponchielli, i Ricci, Rossini, Spontini, Vaccaj, Verdi) per un totale di circa novanta titoli. Il secondo volume (a firma Iovino e Francesca Oranges) uscirà in autunno e affronterà il Novecento italiano. Di successiva redazione gli altri quattro volumi: “Da Auber a Wagner: i capolavori stranieri dell’Ottocento”, “Da Monteverdi a Mozart: l’opera fra Seicento e Settecento”; “Strauss, Gershwin e il primo Novecento straniero”, “Da Berio a Lloyd Webber: il secondo Novecento”. “All’Opera – Da Rossini a Verdi: il grande ‘800 italiano” di Roberto Iovino e Giorgio De Martino – Pag. 175 - € 11,50. Fr. Pic.