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Una cultura per l’Europa
Suggestioni, idee, fondamenti
per un diverso futuro
Sommario
Sommario ...................................................................................................................... 3
Introduzione................................................................................................................... 5
Primo intervento “Tramonto dell’Occidente e civiltà faustiana” di Stefano Vaj ...... 7
Secondo intervento “In cammino verso L’Imperium” di Adriano Scianca............ 19
Domande dal pubblico................................................................................................. 25
Conclusione ................................................................................................................. 35
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Introduzione
Buonasera a tutti a nome dell’Associazione Culturale Edera. Porgo innanzitutto il
benvenuto a tutti i presenti con una doverosa premessa: come non avrete sicuramente
potuto evitare di vedere al vostro ingresso, questo è per la nostra città un periodo
piuttosto teso. La difficoltà di tale situazione, provocata dai soliti noti che intendono
non permettere di dar voce ad iniziative altre da quelle incasellate in un preciso
stilema, ci costringe ad un’atmosfera “da barricate”, visto il massiccio dispiegamento
di polizia schierato qui fuori, ma non ci impedisce di essere qui questa sera.
Ma non mi dilungo oltre ed entro immediatamente nel vivo del convegno che, come
avrete avuto modo di leggere, ha titolo “Una cultura per l’Europa. Suggestioni,
idee, fondamenti per un diverso futuro”.
Innanzitutto il perché di tale argomento. L’Europa che tutti vediamo e viviamo oggi è
un’Europa creata su basi economiche, in continuo e profondo declino, asservita a
logiche internazionali che la rendono una schiava senza alcuna possibilità di
rivendicazione del proprio antico orgoglio e della propria identità culturale.
Ecco il motivo per cui questa sera ci incontriamo, in cerca, attraverso gli interventi
dei nostri due relatori e le suggestioni provocate da pensatori “fondamentali”, di
spunti per ridare una cultura originale ed originaria al futuro dell’Europa.
Vi presento subito i relatori che gentilmente hanno acconsentito a partecipare a
questo incontro, il Dottor Stefano Vaj ed il Dottor Adriano Scianca.
Prima di passare al primo intervento, ci tengo ad informarvi che i nostri due relatori
sono coautori del libro “Dove va la biopolitica. Intervista a Stefano Vaj a cura di
Adriano Scianca” appena uscito per le edizioni Settimo Sigillo e presente in sala al
tavolo dei testi qualora foste intenzionati ad averlo.
Finalmente mi avvio a presentare il primo intervento, che sarà a cura del dottor Vaj,
e verterà sull’argomento “Tramonto dell’occidente e civiltà faustiana”, cogliendo
l’occasione per ringraziarlo per la sua riconfermata presenza ai nostri eventi.
Buon ascolto a tutti.
Elisa Nobile
Associazione Culturale Edera
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Primo intervento
“Tramonto dell’Occidente e civiltà faustiana”
di Stefano Vaj
Siamo qui per parlare di "una cultura per l’Europa". Ora, la parola cultura
ordinariamente ha due significati. Il primo significato è quello per cui si parla ad
esempio di "industria culturale": in questo senso cultura è tutto quello che viene
prodotto da un’industria culturale di un dato paese, dal suo sistema educativo, dalla
sua accademia, etc. L’industria culturale è certo un aspetto interessante, politicamente
e metapoliticamente decisivo, in particolare sotto il profilo di quanto la sua
produzione in senso stretto va poi a retroagire sui valori concreti, sulle mentalità, sui
movimenti storici e su quello che alla fine definisce una certa società, la quale evolve
poi in una certa direzione piuttosto che in un’altra.
Ma c’è un significato più forte della parola cultura, che è quello poi che si usa per
esempio in campo antropologico, o che viene ripreso nella morfologia della storia
spengleriana, laddove si fa con esso riferimento alle civiltà, e in particolare al loro
stato nascente, siano esse quella cinese, quella faustiana, oppure quella cosiddetta
"classica", greco-romana. Cultura in questo senso, naturalmente, è tutto quello che fa
si che una certa civiltà, una certa comunità o insieme di comunità, connotate da una
geografia, da una identità etnica, da una storia, da una provenienza, si distinguano
dalle altre.
Ma da dove vengono le culture e che cosa sono? Credo che uno spunto interessante
per cercare di capire il nostro futuro, il nostro futuro più lontano, la nostra possibilità
stessa di avere un destino, che è poi quello di cui stiamo parlando, ed è poi quello che
ci interessa, deriva sempre dalla capacità di pensare e di costruire o raffigurarsi
quello che è il nostro passato, da quella che è in fondo una visione antropologica che
ci da una certa prospettiva su quello che è (o dovrebbe essere) la nostra specie, da
dove viene, che cosa sta a fare, come si è sviluppata, come sono le sue caratteristiche
specifiche e come vorremmo che continui ad essere presente - o eventualmente a non
essere più presente ma a lasciare dietro di se degli eredi di cui si possa essere fieri.
All’origine di questa riflessione antropologica, che io faccio mia - e che poi vado un
po’ a discutere in due o tre libri che ho pubblicato fino ad adesso - ci sono delle
suggestioni che vengono a maturazione grosso modo alla fine dell’800, prima metà
del ‘900. Per la prima volta in tale periodo si comincia davvero ad andare al di là di
quello che è il "muro della scrittura" che aveva sempre definito l’ambito della storia
rispetto ad un ambito di una preistoria poco nota, in cui tutte le vacche erano grigie,
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in cui non si sapeva esattamente che cosa succedesse. Si cerca e si riesce a superare
questo muro della scrittura perché si comincia ad avere degli strumenti che ci
consentono di ricostruire che cosa c’è stato prima e quella che è stata la storia che c’è
stata precedentemente.
Contemporaneamente si comincia anche a capire qualche cosa di più e meglio di
quello che è il punto di congiunzione tra la storia naturale e la storia in senso umano,
ovvero quello che è il percorso evolutivo che ha portato al panorama contemporaneo,
il panorama di periodi storici recenti che conosciamo abbastanza bene, rispetto a
quello che poteva essere un substrato naturale, intendendo come “natura” tutto quello
che non è di provenienza umana.
Nell’ambito di questa antropologia si trova innanzitutto l’ominazione di una certa
specie, di un certo gruppo di persone che si ipotizza che in certe fasi storiche fosse
davvero piccolissimo, o che sia passato da colli di bottiglia evolutivi molto stretti, che
abbiano visto, diciamo, non più di quattro o cinquemila esemplari vivi
contemporaneamente ed etologicamente e geneticamente interfecondi.
Questa specie con l’ominazione è cambiata, o si è messa a fare delle cose che erano
abbastanza diverse da quelle che fanno tutti gli altri appartenenti all’ordine dei
primati o alla classe dei mammiferi; e finisce per restare l’unica ed ultima specie
appartenente alla famiglia Homo, dato che tutte le altre finiscono una dopo l'altra per
estinguersi, sino all’Homo floresiensis che parrebbe essere giunto addirittura ad una
dozzina di migliaia di anni fa, quindi un battito di ciglia prima dell’inizio della storia
scritta; ma sta di fatto che noi siamo rimasti l’unica specie della famiglia Homo che è
sopravvissuta.
Questa specie ha iniziato a fare qualcosa di diverso e ad essere diversa sotto qualche
profilo; ha passato in particolare un certa soglia che l’ha resa in qualche modo una
sorta di “omnibestia”; in effetti quello che in qualche modo caratterizza proprio la
specie umana è la mancanza di specializzazione, ciò che Arnold Gehlen o Konrad
Lorenz definiscono come la sua incompletezza costitutiva; cosa che si innesta del
resto sull'assenza di prestazioni molto spiccate in un qualche campo specifico, dal
fiuto, alla velocità della corsa, alla lunghezza e robustezza delle zanne. Questa non
specializzazione di tipo fisico (che si accompagna d'altronde ad una notevole
"plasticità" in termini di adattamento e funzioni) si accompagna anche ad una certa
fragilità dal punto di vista etologico: in fin dei conti, mentre l’uccellino, piuttosto che
il pipistrello, la lince, la lontra, la tartaruga hanno dei modelli comportamentali
radicati e ben funzionali e adattati ad un certo ambiente, l’uomo-buttato-nel-mondo, il
Dasein heideggeriano, si trova semplicemente ad esistere e di per sé non sa molto sul
cosa fare e non sa come rapportarsi a quello che è la normale pressione selettiva e la
correlata esigenza di sopravvivere o di espandersi, o di lasciare una discendenza o di
organizzare il suo quadro di vita, di crearsi il suo Umwelt, il suo ambiente specifico.
Questo primo uomo riesce a trovare intorno a se dei modelli etologici tratti dal mondo
naturale e riesce, attraverso in particolare quello che Gehlen chiama la magia, ad
identificarsi con quelli che sono i modelli comportamentali del mondo naturale
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intorno a lui che possono permettergli di adattarsi a situazioni diverse ; e questo crea
anche il primo fondamento di una strutturazione della vita sociale della specie che si
organizza in modo diverso rispetto a quello che è la connotazione sociale degli altri
appartenenti all’ordine dei primati, che hanno delle strutture che sono indubbiamente
più semplici, più uniformi, più ripetitive.
Passano millenni, passano decine di migliaia di anni, centinaia di migliaia di anni, e
questo quadro di vita non cambia per niente. E questo è il quadro di vita delle società
di caccia e raccolta, piccoli gruppi, branchi, nuclei di 20, 50, 100 persone che si
portano dietro tutto quello che hanno, e cominciano certo a sviluppare ed utilizzare
utensili, strumenti etc, ma in fin dei conti sono completamente vincolati alla ricerca
del necessario per vivere, attraverso la raccolta dei frutti spontanei della natura e
attraverso la predazione.
Ad un certo momento però questo quadro di vita all’improvviso cambia.
Si verifica una rivoluzione gigantesca che distrugge, per una buona parte della
popolazione esistente sulla faccia della terra e per i loro discendenti, questo modo di
vita che già si era staccato da quello che era un’animalità precedente ma che in fondo
viene da molte culture, in parte sia pure in un senso parzialmente diverso anche dalla
nostra, ricordato come una sorta di età dell’oro.
Nasce qualcosa di nuovo, nasce l’agricoltura innanzitutto, che consente per la prima
volta e richiede una vita stanziale, perché, per sostenere una popolazione di centomila
persone dedite unitamente alla caccia-e-raccolta ci vuole un territorio grande come la
Lombardia: infatti quando io ho finito di mangiare gli animali che sono in grado di
catturare e ho finito di raccogliere le mele che crescono spontaneamente sugli alberi
mi devo spostare per andare a cercare un’altra zona non ancora spogliata. Ora,
invece,.si cominciano a seminare delle piante, ad avere dei raccolti: questo significa
vita stanziale, significa un’esplosione demografica assolutamente drammatica,
significa che si stabilisce una divisione del lavoro e che questa divisione porta ad una
strutturazione gerarchica della società in un senso radicalmente diverso da quello
dalla mera, traballante predominanza dei maschi alfa all’interno della società
paleolitica o preumana.
E questo porta anche ad una nascita di Gestalt, di forme, diverse, che a questo punto
non sono più soltanto biologiche, ma diventano in qualche modo pseudo-biologiche e
che rappresentano una sorta di equivalente culturale di quello che erano le specie nel
mondo naturale, dando luogo a quella che è appunto la molteplicità delle culture. In
altri termini, comunità diverse scelgono, ottengono, difendono, conquistano un
proprio territorio e una certa quantità di risorse naturali, e vanno progressivamente a
trasformarlo con la propria presenza stessa; a partire dal tipo di divisione del lavoro e
organizzazione sociale e psicologia collettiva che viene in esistenza all’interno di
queste società, ha luogo un fiorire di strutture mitiche, rituali, linguistiche, di stili di
vita, di costumi, di Weltanschauung, di visioni del mondo che vanno in sostanza a
divergere, e si verifica quello che viene ben rappresentato nel mito biblico della
Torre di Babele.
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Dalle porzioni dell’umanità si costruiscono in grandi insiemi, le culture appunto, che
mimano un po’ quello che le specie facevano e fanno in campo biologico, e diventano
il quadro di vita e di riferimento dei propri membri, il quadro che da un senso
profondamente diverso a comunità umane diverse e che attribuisce loro una capacità
di dare un senso e un destino alla vita degli individui che ne fanno parte.
Qui c’è un processo gigantesco, che viene riscontrato con reazioni molto diverse da
quelle che erano le comunità umane che esistevano e che sono esiste all’epoca, e che
si sono trovate di fronte alla rivoluzione neolitica, in cui si passa dall’uso di strumenti
che vanno poco al di là di quelle che sono anche in grado di ricavare ed utilizzare un
gruppo di scimpanzé, alla nascita vera e propria di quello che può già essere definita
una tecnologia.
Esistono così le culture che non "entrano" per niente nella rivoluzione neolitica,
qualche volta perché si trovano al di fuori di questa, pensiamo per esempio agli
aborigeni australiani, altre volte perché la rifiutano, per esempio la maggioranza di
quelle dell’Africa subsahariana subiscono in pieno il cambiamento di abitudini
imposto dal neolitico, ma ci sono i pigmei e i koisanche invece decidano di
continuare come prima nella foresta.
Poi ci sono le culture fredde, ovvero ci sono le culture che dicono “va bene, OK, è
cambiato il nostro modo di vivere, cominciamo a fare le cose nuove, questi nuovi
strumenti in pietra, cominciamo con la metallurgia, con l’agricoltura, creiamo
l’allevamento”; ma una volta che è stata fatta questa rivoluzione, dicono “basta,
adesso siamo a posto e continuiamo a vivere così”. Questo è il caso poi della
maggior parte delle culture africane, amerinde, e del sud-est asiatico.
Poi ci sono le culture tiepide, tra cui tornerò fra un secondo e poi esiste la nostra.
E' discutibile in senso spengleriano parlare con riguardo a certe radici di "nostra"
cultura, ma io credo che possa esser un tipo di cultura a cui noi oggi possiamo rifarci
se non altro innanzitutto rivendicandola come un'eredità specifica cui partecipiamo
non fosse altro che per il fatto di porsi anche da un punto di vista biologico e genetico
all’origine di quello che sono le popolazioni europee che oggi consideriamo
autoctone; in secondo luogo, credo che, proprio in termini di antropologia culturale
tale svolta ed eredità possa costituire un esempio di quella che potrebbe essere una
risposta, avvicinandoci più direttamente al tema del convegno, alle sfide che oggi ci
vengono poste di fronte nel mondo contemporaneo: e ciò cui mi riferisco è
ovviamente la cultura, la civiltà, la lingua, la comunità, il popolo indoeuropei.
Scoperta relativamente recente, è soltanto nell'ottocento che cominciamo a gettare le
basi di una comprensione di ciò che può avere rappresentato la rivoluzione
indoeuropea nel mondo post-neolitico ed è in sostanza soltanto con la Belle Époque e
con la fase successiva in cui davvero se ne tirano tutte le conseguenze.
Questo tipo di risposta alla "situazione" post-neolitca è la risposta di chi in fondo
accetta tragicamente, nel bene e nel male, quello che la rivoluzione neolitica viene a
portare, rivendica come propria scelta, come proprio nuovo quadro di vita questo tipo
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di cambio di paradigma che l’evoluzione anche tecnologica è venuta a comportare, e
ne ottiene anche da un punto di vista storico il successo che assolutamente gli
compete. Come dice Oswald Spengler in Ascesa e declino delle civiltà delle
macchine, prima nei millenni non succedeva in sostanza niente, tutti continuavano a
vivere come avevano vissuto i loro nonni, bisnonni e miliardesiminonni, come
centomila anni prima; invece, ecco che con la rivoluzione indoeuropea cominciano ad
esserci migrazioni, fondazioni di imperi, creazioni di sistemi costituzionali, nascita di
un etica, di una letteratura, di una vita culturale in senso proprio, di una visione, di un
immagine di un destino in cui poi in fin dei conti il senso della presenza umana sulla
terra o il senso della partecipazione umana alla propria comunità di appartenenza è
l’immortalità, è la "gloria-che-non-muore", è la sfida ai millenni, è la creazione di
qualcosa che lasci un segno e che cambi la faccia della terra, e che celebri quella che
è un’autodeterminazione umana e una capacità di costruzione di una capacità di
durata, un incandescente sogno di grandezza, che non avevano mai avuto un nessun
tipo di equivalente nel periodo precedente.
Questo va anche a cambiare definitivamente il volto di quelle cui abbiamo già
accennato come società tiepide, che forse sono un po’ tutte le altre: pensiamo alla
Cina, alle civiltà precolombiane, in buona parte alle civiltà del medio oriente che una
volta venivano poste all’inizio assoluto della storia. Queste sono civiltà che in fondo
hanno anche loro una storia, ma che in qualche modo sono in preda di questa storia
stessa. Queste civiltà poi tendono anche oggi, almeno una parte della storiografia
tende ad identificare questo tipo di costruzione, questo tipo di identità, (che sono
diverse dalla nostra e che sono altrettanto legittime, naturalmente, e funzionali e
capaci di definire un quadro di significati per i propri membri) come culture che in fin
dei conti si sono definite anche in vario modo o per imitazione o per
contrapposizione o per distinzione da quello che era poi una presenza indoeuropea
che è riuscita a far sentire la propria eco praticamente in quasi in tutti gli angoli del
pianeta, se è vero, che ci sono degli autori come Jacques de Mahieu che riescono ad
ipotizzare come non sia del tutto un caso che la civiltà azteca si raffigurava
Quetzalcoatl come un personaggio con caratteristiche oggettivamente vichinghe che
veniva da oriente, cioè nel loro caso dall’Europa e che in qualche modo nella stessa
mitologia azteca corrisponde ad un evento che ha contribuito ad interferire in un
certo modo con i miti fondatori di questo tipo di cultura.
Ecco allora abbiamo questo tipo di scenario generale che poi trova forse la sua
comprensione storica più importante in quello che poi è la grande costruzione
politica, amministrazione, giuridica, sociologica, etc, espressa dall’impero romano,
che poi andrà probabilmente a costituire il punto di partenza forse del prossimo
intervento.
Ma succede qualcos’altro nel frattempo. Si verifica un altro tipo di risposta alla fine
dell’Età dell’Oro, ricordata come un’età in cui nessuno aveva poi in fin dei conti tanti
pensieri, in cui non c’era il dominio dell’uomo sull’uomo, in cui non esisteva la
proprietà, la divisione del lavoro, la specializzazione, non esisteva in particolare
neanche l’angoscia della storicità (cfr. il legame concettuale tra Crono o Saturno e il
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"tempo che scorre immobile") per quanto ciò sia una sfida in un certo senso per
l’uomo; rispetto a questo tipo di situazione si crea un’altra tendenza storica rispetto a
quella dell’ideologia indoeuropea o a quello che dal punto di vista religioso
potremmo chiamare, in fin dei conti, pagana. Ed è la risposta che trova la sua origine
nel campo biblico, e che si traduce nel contesto culturale che poi sarà religiosamente
caratterizzato dal dualismo e dal monoteismo.
Inizialmente, è una risposta non di rifiuto, come per le società che sono rimaste di
caccia e raccolta rispetto alla rivoluzione neolitica, ma è una scelta di scissione, una
scelta di rifiuto non pratico, ma morale; la storia e il mutamento vengono cioè
percepiti come qualcosa che non rappresenta più una sfida nuova che consente
all’uomo di diventare più uomo, di portare più in là, ad un grado ulteriore quella che
è una sua capacità di autodeterminazione, ma diventano una maledizione. E qui c’è
tutto un contesto mitico che però è molto facilmente leggibile in chiave più generica,
indipendentemente dalle visioni del mondo, dalle interpretazioni letteralistiche, etc,
che va dall’Eden primordiale, alla cacciata dal paradiso terrestre, al lavoro come
maledizione, alla civiltà come maledizione, alla stessa separazione, divisione e
nascita delle culture come una maledizione (separazione, divisione e nascita delle
culture che nasce esattamente poi dallo spirito prometeico di coloro che vogliono
costruire la Torre di Babele come monumento a sè e alla propria gente, ai propri figli,
che vogliono raggiungere il cielo, che vogliono fare quello che non è mai stato fatto
prima).
Che cosa fa Jahvè? “Se ci riescono non potrò più dirgli niente, faranno quello che
vorranno, non avranno più limiti alle cose che potranno fare”, allora Jahvè scaglia la
maledizione delle diversificazione delle lingue.
E le lingue sono il vero fatto culturale primordiale. Noi sappiamo certo che tutti gli
esseri umani possono imparare più o meno qualsiasi lingua nel senso che chiunque di
noi viene allevato da una famiglia eschimese, maori, giapponese, etc, assume come
propria lingua quella del contesto in cui vive. Per cui la lingua non è programmata nei
nostri geni se non nel senso che è programmato nei nostri geni il fatto di averne una)
Nello stesso tempo, però, la lingua è quello che davvero è prima di ogni altra cosa, è
lo spazio linguistico in cui ci muoviamo, in cui viviamo, in cui pensiamo, che non è
quello del bolognese, neanche quello dell’italiano, forse neanche delle lingue
neolatine complessivamente intese, ma è per esempio quello delle spazio linguistico
europeo; è una cosa che proprio a livello assolutamente primordiale definisce quello
che sono gli elementi basilari, il quadro sintattico e semantico in cui poter pensare,
comunicare, esprimere i contenuti rispetto a chi ci sta vicino.
Come la divisione all’interno della singola comunità in ruoli specifici, differenziati e
multiformi, così anche questa divisione verticale dell’umanità in culture diverse,
viene percepita come una maledizione.
Questa scelta di scissione può darsi che potesse di per sè essere concepibile soltanto
nel quadro di un mondo in cui ci fossero società che avessero fatto, in senso forte, la
rivoluzione neoltiica; un quadro in cui cioè c’erano alcuni che creavano una
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differenza e si "chiamavano fuori", ma che però convivevano e commerciavano con
chi fondava le città, creava progetti, aveva una politica, etc. Ed era una scelta in
fondo di piccole popolazioni che si separavano e vivano un po’ ai margini, geografici
o sociali, dalle società postneolitiche con esse coabitanti. Comunità che poi sono state
capaci di conservare questo tipo di differenziazione per millenni, anche
successivamente: questa è anche un po’ la storia di gran parte dell’ebraismo
tradizionale.
Ma succede ancora qualcosa di nuovo. Succede che nel momento di massima
potenza, espansione e rita (ma che è anche poi il momento di decadenza, di
"civilizzazione" in senso spengleriano) della rivoluzione indoeuropea, si verifica
storicamente una saldatura, che viene inizialmente presentata come un compromesso,
con questa tendenza storica di rifiuto. La tendenza storica in cui si incarna il suddetto
"rifiuto morale" in qualche modo conosce una sua evoluzione, conosce un suo
momento di rottura, nel momento in cui nello stesso periodo, per ragioni anche poi
politiche, si creano forti movimenti messianici al suo interno. Questi movimenti
dicono che “il momento di farla finita finalmente è arrivato”, che “Dio ci manda suo
Figlio” , “il suo messaggero”, “il suo capo religioso”, “il re che dovrà riscattarci
dalla presenza” o “dalla sudditanza del peccato di questo modo di vivere”, di questo
tipo di situazioni. Queste forti correnti messianiche, almeno in un caso, riescono a
raggiungere, in particolare con il compromesso costantiniano, un punto di sintesi, o
riescono ad infiltrare o riescono, se vogliamo usare una parola meno neutra, a
corrompere quella che è la cultura europea dell’epoca e a trasformarla in qualcosa di
profondamente diverso, che disegna tutto l’arco più che millenario, un po’ più di
millecinquecento anni, dell’"avventura occidentale".
Avventura occidentale che vede da un lato quello che è la cultura indoeuropea
compromessa, adulterata, infiltrata, trasformata, cambiata rispetto a quella che era
prima, in una chiave che non è necessariamente da vedere in chiave positiva, ma che
forse proprio grazie anche a questa adulterazione, che del resto si verifica in modo
molto graduale, vede anche contemporaneamente l’esplodere di una dimensione
ulteriore, diversa, di storicità, o di capacità espansiva o di capacità per esempio di
mettere in moto dei meccanismi diversi a livello epistemologico e a livello di
conoscenza, penetrazione, investigazione dei meccanismi naturali e a livello di
capacità di definire e anche di gettare le basi e i germi di una rottura tecnologica
ulteriore; rottura su cui adesso mi intratterrò brevemente per poi concludere il mio
intervento.
Che cosa succede infatti? Esiste, come dicevo, questa specie di repressione
dell’inconscio collettivo europeo originale, che si accentua, anziché diminuire, nel
periodo che dall'alto medioevo giunge sino alla controriforma. A fronte di questo tipo
di repressione (che corrisponde anche al disincantamento e alla desacralizzazione del
mondo, in vista invece dell’onnipresenza assoluta ed incombente di un essere
supremo del tutto trascendente e fuori-dal-mondo) si crea poi un percorso di
emancipazione della cultura europea, che comincia con l’Umanesimo, che rimette in
discussione questo teocentrismo dualista, e che e che si snoda nelle coscienze
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collettive, e procede a fasi alterne con Rinascimento, Riforma, Controriforma e poi
secolarizzazione, “morte di Dio”, ateismo, etc., tutte tappe di un percorso che
convergono in fondo sul percorso del nichilismo. Nichilismo che, se da una parte,
secondo Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e secondo altri, era già iscritto
strutturalmente nella metafisica monoteista, nello stesso tempo rappresenta anche un
momento appunto di emancipazione che vede, per esempio, gli esponenti
dell’Umanesimo o del Rinascimento, e poi della scienza del ‘600, del ‘700 e dell’
‘800, acquisire una capacità e un grado di penetrazione nella loro indagine dei
meccanismi naturali, ripresa anche in chiave di ispirazione di quella che era la
tradizione filosofica o scientifica classica, ma in una forma inevitabilmente
trasformata proprio da questo passaggio attraverso il cristianesimo religioso e le sue
forme secolarizzate, sulla falsariga del "veleno che rafforza".
Ecco che così si creano i presupposti per una visione storica diversa, i presupposti
delle scienze fisiche, i presupposti che poi vanno a sfociare nell’800 in due fenomeni
fondamentali, che sono la rivoluzione industriale e la nascita di quella che potremo
considerare, semmai con un po’ di virgolette (in quanto non è forse un mondo così
separato), come la scienza moderna. D’altro lato, il fondo pagano dell’anima europea,
che è passato attraverso questi millecinquecento anni di egemonia cristianea, di
progressiva penetrazione delle categorie mentali, filosofiche, etiche, etc, del
monoteismo, vede la nascita di qualcosa di nuovo e di diverso. Da un lato c’è la
secolarizzazione, che comporta la crisi del giudeo-cristianesimo religioso, ma vede
ormai le categorie di questa visione del mondo che sono completamente
interiorizzate, ma d'altro canto poi si crea anche, per la prima volta, la capacità di
pensare oltre queste categorie e non tanto di ritornare a quello che era una ripetizione
meccanica dell’ideologia, della rivoluzione indoeuropea o del mondo pre-cristiano,
classico-pagano, chiamatelo come volete, ma della capacità di vedere o di pensare un
destino nuovo, una cultura nuova, un diverso destino per le popolazioni che fanno
parte di un certo ambito storico-culturale, etc.
Anche perché viene poi a maturazione, a partire dalla rivoluzione industriale, dalla
rivoluzione scientifica e da quella tecnologica, che passa dalla rivoluzione delle
culture piriche tipiche del neolitico, la rivoluzione in senso propriamente biologico, in
chiave di capacità non solo di vedere o di considerare quello che è la nostra storia
naturale, ma di incidervi direttamente attraverso a delle misure di tipo pratico, che
vengono consentite e vengono ipotizzate prima sulla base delle acquisizioni delle
genetica, della medicina moderna, delle acquisizioni delle tecniche che poi vengono
sempre più raffinate nel campo dell’allevamento animale, dell’agricoltura, nel campo
della comprensione di questo tipo di meccanismi biologici.
Si arriva così alla soglia di un’altra frattura, di un altro cambiamento epocale, in cui
per esempio una delle cose che sono state notate e che fa oggi una grande differenza,
è che oggi siamo non in un mondo, ma su un pianeta, nel senso che non c’è più
nessun posto sulla faccia della terra che in qualche modo non sia, non dico sotto
controllo dell’umanità, ma che non sia in qualche modo influenzato dalla nostra
presenza come specie.
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Contemporaneamente, che lo si voglia o no, la nuova grande ulteriore espansione
demografica, di un altro ordine di grandezza rispetto a quella che potevamo aver
conosciuto dalla rivoluzione neolitica alla caduta dell’impero romano, la quantità di
risorse che noi impieghiamo, la trasformazione dell’ambiente che comporta la nostra
presenza, l’alterazione dei meccanismi fisici, qualsiasi cosa succeda è divenuto nostra
responsabilità.
Non esistono più delle cose che siano davvero "naturali", perché se io faccio un
parco, o un palazzo, sia il fatto di fare un parco o un palazzo, è comunque una mia
scelta. E anche il parco esiste solo perché io faccio in modo che il parco ci sia, perché
io faccio sì che vengano protette (o reintrodotte!) le specie vegetali o animali che ci
stanno dentro e perché io faccio sì, per esempio, che il parco non venga preso
d’assalto e trasformato in una spianata di cemento, come sarebbe “naturale” che la
nostra specie facesse se non decidesse per ragioni culturali, per ragioni di
progettualità a lungo termine, etc, di non volerlo fare.
Questo disegna un tipo di situazione che richiede un nuovo balzo di tipo culturale.
Martin Heidegger, commentando l’articolo “Chi è lo Zarathustra di Nietzsche”, dice
che il vero centro, il fulcro di questa nuova tendenza storica, di questa nuova capacità
di pensare le cose in un modo che non è più quello pagano ma è un modo che va al di
là di quello che è stata la tendenza umanista che oggi afferma la sua egemonia
praticamente su scala planetaria, il punto nodale di questo nuovo modo di pensare è
che noi praticamente abbiamo ereditato la Terra, stiamo ereditando la Terra. È
l’uomo degno, in grado, capace di rivendicare questa eredità e di saper cosa farsene?
La risposta naturalmente è no, in linea di massima. Non lo è l’uomo come lo è oggi.
E questo apre la questione che si lega inestricabilmente all’aspetto del nostro potere
in generale sul nostro ambiente planetario. “Planetario”, dato che non è che incidiamo
molto sull’ambiente marziano, e dato che in questo momento viviamo e siamo qui,
secondo la metafora degli ecologisti, sulla "nave spaziale Terra," e in questo
momento siamo noi che abbiamo il timone di comando. Timone che possiamo o
inchiodarlo e dimenticarlo, e lasciare che la nave vada dove vuole tenendo le dita
incrociate e sperare che non succedano casini troppo gravi; oppure. alternativamente,
se dobbiamo effettivamente rivendicare questo antico legato per cui l’uomo oggi
effettivamente eredita la Terra, probabilmente questo è possibile soltanto se dopo il
primo uomo, e poi il secondo uomo nel postneolitico, si passa oggi ad un terzo uomo.
Terzo uomo che in fondo è anche già "qualcosa di più di un uomo", qualcosa di
postumano; ed è qualcuno che ormai si trova ad autodeterminarsi attraverso la
determinazione del proprio ambiente (perché naturalmente l’ambiente è anche
quello che governa le spinte evolutive) prevedendo il fatto che vi sia o non vi sia per
esempio una selezione di certi tratti, che via sia o meno una segregazione che
comporta il mantenimento o l’affermarsi di certi tratti all’interno di una certa
popolazione, etc, per cui già il controllo del nostro ambiente comporta un controllo su
noi stessi. Come per esempio (ne avevamo accennato in un incontro passato) per la
famosa questione del potenziale
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Ma al di là di questo ci ritroviamo ormai in mano anche alcune cose che ci portano
comunque a cambiare noi stessi non soltanto dal punto di vista fenotipico o
darwiniano, dal punto di vista dell’alimentazione, della medicina, delle pratiche
sportive, degli stili di vita, etc, ma in un senso più profondo.
Noi oggi stiamo diventando, siamo già, dei cyborg. Io indosso delle lenti a contatto,
indosso un orologio, mi muovo mediante un treno che mi ha portato a Bologna,
alcuni di voi hanno delle otturazioni dentali, altri potrebbero avere dei peacemakers,
etc; e in ogni caso siamo già comunque dei fyborg, dei functional cyborg, nel senso
che il nostro fenotipo esteso, il nostro corpo, in qualche modo è adattabile,
intrecciato, immerso in un insieme di strumenti, di tecnologie, di quadri di vita
totalmente artificiali, che vanno a cambiare intrinsecamente quello che siamo.
E anche la nostra stessa componente biologica è qualcosa che è destinata comunque a
cambiare perché è qualcosa che progressivamente risulta sempre messa più a
disposizione delle nostre scelte, da quelle che sono tecniche che già cominciano ad
essere oggi banali, come la diagnosi prenatale piuttosto che non invece la possibilità
di alterare la dinamica demografica di certe caratteristiche attraverso il controllo
delle nascite, che comportano una certa libertà, una scissione tra la scelta del partner
sessuale e la scelta del partner produttivo. Ma poi naturalmente andiamo oggi verso
una radicalizzazione estrema di questo tipo di cose, nel senso che un giorno sì e un
giorno anche, come dico per esempio nel libro Dove va la biopolitica? in cui sono
intervistato dal mio brillante correlatore di stasera, Adriano Scianca, leggiamo o
sentiamo qualcosa di nuovo nell’ambito dell’ingegneria genetica, della possibilità che
le nanotecnologie vengano ad incidere anche sulla capacità di estendere
drammaticamente la nostra aspettativa di vita o che possano in qualche misura
rimpiazzare alcuni nostri organi sia in relazione alla loro usura naturale sia in
relazione a funzionalità del tutto diverse, nel fatto che funzionalità umano-simili, sia
in senso generico sia a fini di specifica emulazione di una persona precisa, possano
essere riprodotte su supporti non-biologici, tipicamente digitali, o si mischino con le
funzionalità di cui già ci provvede il nostro corpo.
Pensate per esempio che cosa vuol dire avere un collegamento, essere collegati con
Internet non attraverso uno schermo, una tastiera, un mouse (che poi comunque non
sono poi così male, perché il tatto e la vista sono stati selezionati come meccanismo
di input cerebrale per milioni di anni) ma attraverso una connessione neurale. diretta.
Cosa che ad esempio rende drammaticamente meno importante, per esempio in
questo quadro da un punto di vista culturale, sapere o ricordarsi alcune cose quando
per esempio le stesse sono immediatamente a nostre disposizione più o meno negli
stessi termini in cui sono a disposizione le nostre memorie a livello celebrale.
Questo tipo di situazione disegna un quadro nuovamente rivoluzionario, e nell’ambito
di questo nuovo quadro, ancora una volta abbiamo di fronte due scelte fondamentali:
la scelta del rifiuto, la scelta di cercare di scendere dal treno, o di bendarsi gli occhi e
di lasciare che il treno vada dove vuole e sperare che la cosa non generi situazioni
troppo catastrofiche; oppure vedere questa mutazione, questa metamorfosi come un
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ulteriore balzo in un processo che è cominciato con l’ominazione, e che è continuato
in particolare anche con la nascita della nostra civiltà. E ancora oggi, infatti,
potrebbero esserci, e ritengo ci saranno, degli uomini, delle comunità, dei popoli che
scelgono di farsi carico pienamente di questo tipo di trasformazione anche in vista
non di una fine di una storia, ma di una trasfigurazione della storia, di una
riorganizzazione del mondo mentale e fisico della nostra specie in una chiave di tipo
diverso.
Quello invece che sicuramente non può succedere, e non succederà, è che "si vada
avanti così." Alcuni processi sono finiti; per esempio, qualsiasi cosa succeda, la
guerra nucleare, la crisi economica etc, la civiltà dei trasporti non se ne va, non se ne
va la tecnologia della comunicazione, non se ne vanno i portati della rivoluzione
industriale per cui un certo tipo e livello di popolazione non potrebbe comunque
essere sostentato attraverso dei mezzi di conduzione più primitivi o più tradizionali
che porterebbero soltanto ad un’economia di spoglio che sarebbe ancora e molto più
insostenibile per l’ecosistema di quanto non lo sia quella attuale.
Allora che cosa c’è dall’altra parte? C’è la scelta per esempio della possibilità di fare
uso di queste cose o di immedesimarsi in questo tipo di trasformazioni partendo dal
punto di vista che se una volta esistevano le specie che erano "una cosa naturale", poi
sono nate le culture che erano qualcosa di pseudo-biologico perché si comportavano
come una specie che nasceva, viveva, si sviluppava, poi decadeva e qualche volta si
estingueva; noi oggi siamo di fronte ad una cosa ancora un po’ più umana (o forse
sovrumana): ancora un po’ più nel senso dell’autodeterminazione, ancora un po’
meno nel senso dell’ automatico e del (para-)biologico.
Perché se noi oggi, per esempio, vorremo ancora avere delle lingue diverse per una
scelta morale, affettiva, arbitraria, ideologica, a favore della differenza, anziché a
favore dell’entropia e dell’uniformità, queste lingue non potranno più mantenersi
perché ci sono quelli che vivono al di là delle Alpi che parlano francese in quanto per
la difficoltà di attraversarle loro non vengono (quasi) mai da questa parte e noi non
andiamo (quasi) mai dall’altra, per cui per segregazione e deriva le due lingue si
producono e si mantengono. Oppure c’è una certa razza o una certa cucina perché
quelli vivono al di là dal Mediterraneo, e per cui pochi vanno di là, pochi vengono di
qui, non ci mischiamo, e poi parlando anche lingue diverse ci si sposa molto meno di
là dal mare. Perché tutte queste cose sono finite, non ci sono più, non ci saranno mai
più. L’unico modo possibile in cui sarà preservata una diversità, una possibilità di un
destino differente e proprio ad un gruppo specifico, sarà se certe cose sarannovolute
in quanto tale, deliberatamente scelte e progettate.
Una comunità non sarà più semplicemente un gruppo di persone che esistono su un
certo territorio, ma sono un gruppo di persone che vogliono, scelgono di appartenere
ad un insieme qualificante ed oggetto di una loro fedeltà primaria, che scelgono per
esempio di disegnare il proprio futuro biologico in una certa direzione, una
direzione del resto potenzialmente divergente da quello che fanno invece altre
comunità; o un gruppo di persone che sceglie di parlare una lingua come per
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esempio hanno fatto i gallesi che hanno resuscitato una lingua che era più che
moribonda, o per esempio gli israeliani (l’ebraico, lingua già morta all'epoca della
predicazione paolina, oggi è la lingua madre del 40-50 per cento della popolazione
dello stato di Israele).
La possibilità, la voglia, o la capacità di prendere in pugno quello che è il proprio
avvenire e di scegliere quello che si vuole essere, di "divenire ciò che si è", diciamo
così, questa è una delle possibilità che ci vengono offerte dalla rivoluzione
biopolitica, dalla rivoluzione del terzo uomo, da questo tipo di crisi che oggi invece si
dibatte nella globalizzazione, nella entropia, bene o male nella fine della storia, in cui
esistono certo scossoni dal punto di vista politico tutti i giorni, etc ma che in fin dei
conti io non credo possano fondare una continuazione della vita come ha
caratterizzato lo scenario mondiale dal 500 dopo Cristo al 2000.
Questi sono dei dolori del parto, sono degli scossoni, sono delle convulsioni che
possono o spegnersi asintoticamente, e vivremo nel sistema per uccidere i popoli,
come nell'omonimo libro di Faye, o nel Mondo nuovo di Huxley in cui siamo a parte
varietà di casta e specializzazione siamo tutti uguali, parliamo tutti inglese, abbiamo
razzialmente tutti tratti identici, in cui è assolutamente vietato il fatto di fare qualsiasi
cosa che possa destabilizzare la situazione che idealmente dovrebbe riportare appunto
alla famosa Età dell’Oro, ma che in realtà è un percorso di disumanizzazione, oppure
alternativamente, ripeto, ci saranno delle comunità che prenderanno in mano il
proprio destino e che lo porteranno a risultati e ad obiettivi più lontani; e io, oggi
come ieri, continuo a contare, credere e sperare che questa comunità sia quella che
noi oggi chiamiamo con la parola Europa.
Grazie.
Stefano Vaj
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Moderatore:
Ringrazio Stefano Vaj per il suo interessante intervento. Non rubo tempo al secondo
intervento e passo a presentare il prossimo relatore. Giornalista e scrittore, Adriano
Scianca è il responsabile culturale di Casa Pound Italia; il suo intervento verterà sul
tema “In cammino verso L’Imperium”.
A conclusione del suo intervento ci sarà spazio per le domande del pubblico ad
ambedue i relatori.
Secondo intervento
“In cammino verso L’Imperium”
di Adriano Scianca
Buonasera a tutti. Spero di essere all’altezza dell’intervento di Stefano, che tra le altre
cose è stato anche un mio punto di riferimento importante per giungere a pensare fino
in fondo, in modo più radicale, ciò che ovviamente già avevo in testa.
Per me è un onore essere qui accanto a lui e anche una prova di un certo livello.
Dicevamo “In cammino verso l’Imperium”, un titolo in qualche modo straniante
perché, come diceva Elisa in apertura, ciò che oggi viene definita con il nome di
Europa non sembra assolutamente un Imperium, un impero, non sembra nemmeno, al
limite, un qualche tipo di proiezione imperialistica. Per cui ho scelto un titolo che
potrebbe sembrare addirittura ottimista. Ma in realtà non è questione di ottimismo o
pessimismo, è questione di scelte che ci vengono poste dai tempi in cui viviamo e a
cui dobbiamo rispondere nel modo più adeguato e secondo un determinato progetto
culturale.
“In cammino verso l’Imperium” si rifà al titolo di un libro di Martin Heidegger, che è
“In cammino verso il linguaggio”, ed anche in quel caso il titolo era abbastanza
straniante. Sappiamo bene infatti, che il linguaggio è qualcosa che possediamo noi
tutti da sempre, da quando nasciamo. Quindi non si capisce perché si debba andare
avanti verso il linguaggio, si debba raggiungere il linguaggio per conquistarlo, come
se fosse qualcosa che non abbiamo. Il discorso di Heidegger era ovviamente
abbastanza complesso e c’entra anche poco con quello che stiamo dicendo. Per
questo motivo no lo riproporrò.
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Allo stesso modo, dicevo, anche nel nostro caso, “In cammino verso l’Imperium” è
un titolo che vuole far pensare. A questo punto noi dobbiamo stabilire coordinate che
ci consentano di tracciare questo cammino. Un aiuto in questo tentativo possiamo
rintracciarlo in molti autori.
Se ci pensiamo bene forse l’Europa è uno dei pochi temi che quasi tutti gli autori a
cui noi facciamo riferimento hanno affrontato: ne hanno parlato tutti ed esso
costituisce il patrimonio comune di tutta la nostra tradizione culturale. Penso a
Giorgio Locchi, piuttosto che ad Alain de Benoist, piuttosto che a Julius Evola,
piuttosto che a Jean Thiriart, e a tutta una serie di altri pensatori che hanno affrontato,
ciascuno da vari punti di vista, ciascuno a seconda delle proprie coordinate
filosofiche, questo tema.
L’autore che invece ho scelto io per affrontare il tema di una cultura per l’Europa
esula dall’ambiente che prima delineavo. È Peter Sloterdijk, un filosofo tedesco, un
accademico, non un pensatore border line, non un reietto della cultura. È un
pensatore che ha scritto diversi libri, alcuni abbastanza insignificanti, al mio
modestissimo parere, ma che talvolta ha gettato nella cultura ufficiale delle perle che
hanno un po’ sconvolto tutto il mondo del “politicamente corretto”. Ad esempio ci fu
una sua famosa conferenza tenutasi tempo fa, intitolata “Regole per il parco umano”,
in cui si affrontavano tutta una serie di tematiche che andavano esattamente nel senso
di ciò che ha appena detto Stefano, e che già nel titolo annunciava un’impostazione
abbastanza estranea rispetto a tutti quelli che sono i dogmi del “politicamente
corretto”. In quella conferenza Sloterdijk affrontava il tema delle biotecnologie alla
luce di Friedrich Nietzsche e di Platone: in un ambiente culturale conformista come
quello tedesco parlare di biotecnologie, più Nietzsche, più Platone, dà luogo ad
un’equazione il cui risultato è abbastanza scontato.
Un ’altra sua perla particolare è il libretto che ho portato qui con me, il cui titolo è
“Se l’Europa si sveglia”, un libro, che io sappia, non tradotto in italiano. Io ce l’ho
qui in traduzione francese.
Questo libro contiene delle tesi che io ritengo rientrino assolutamente nell’ordine di
idee che oggi qui dibattiamo.
Dunque che cosa dice in particolare Sloterdijk in questo libretto?
Dice che l’epoca che va dal 1945 al 1989, è l’epoca dell’assenza dell’Europa dal
panorama storico mondiale. Ovviamente il 1945 è uno spartiacque abbastanza chiaro
e non c’è bisogno di spiegare nulla a proposito.
Sloterdijk dice una cosa molto interessante. L’Europa è sempre stata il punto di
partenza di tutte le “crociate” (possiamo poi riflettere sul fatto che l’idea di crociata
nasce in un contesto mentale non europeo, ma questo è un altro discorso), a
cominciare quelle partite dall’Europa per liberare il Santo Sepolcro in epoca
medievale. Ebbene, quella che c’è stata tra il 1939 e il 1945 è stata in qualche modo
una contro-crociata per liberare il “Santo Sepolcro dei Diritti dell’Uomo” in Europa.
Dopo il 1945 l’Europa si incammina verso una fase di assenza dal panorama storico
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mondiale. Quest’epoca è ovviamente un’epoca, per quel che ci riguarda, di decadenza
assoluta, in cui Sloterdijk dice che il concetto di decisione viene totalmente obliato
dall’orizzonte concettuale europeo. Si è passati da una sorta di esistenzialismo debole
al consumismo più sfrenato e, in tutto questo, ciò che ne ha fatto le spese è stata
l’idea di destino, di decisione.
Sloterdijk dice che l’unica cosa che in tutti questi anni gli europei si sono trovati a
dover decidere era quale tipo di salsa mettere sull’insalata fra le quattordici possibili;
il che peraltro per noi, che sull’insalata la salsa nemmeno ce la mettiamo, è
abbastanza drammatico.
Quest’epoca termina, abbiamo detto, nel 1989, con la caduta del comunismo, che per
Sloterdijk, che scrive nel 1994, è abbastanza vicina. Cosa avviene in questo
momento? Avviene che di fronte all’Europa si dispiega di nuovo la possibilità di
ritornare a se stessa. In che modo il continente europeo può riguadagnare quel
protagonismo che per tanti secoli le è appartenuto?
Ciò è possibile attraverso l’idea di “Imperium”, di Impero.
L’Impero è la forma propria dell’essenza europea, di ciò che è tipicamente europeo:
la storia ci mostra che l’Europa o è una potenza o non è, l’Europa o fa grande politica
o non fa politica, l’Europa o pensa in grande o non pensa. Quindi nel momento in cui
l’Europa vuole riappropriarsi di se stessa, la forma concettuale a cui deve attingere è
necessariamente quella dell’Impero, che è, come dice Sloterdijk, con un’espressione
bellissima, “l’idea mitomotrice” dell’Europa, è ciò che in ogni epoca ha messo in
movimento l’Europa.
L’Europa è stata se stessa nella misura in cui è riuscita ad essere e a pensarsi come
Impero. Ovviamente anche qui Sloterdijk non sa prefigurarsi gli esatti contorni
dell’Impero prossimo venturo. Egli ci dice che si apre un bivio di fronte al cammino
dell’Europa, che l’Europa può tornare ad essere se stessa. L’Europa deve fare uno
sforzo, concettuale innanzitutto, e politico, spirituale ed etico poi, per ritornare ad
essere se stessa; ma Sloterdijk non sa indicare ovviamente quali possono essere i
contorni di questo cammino di riappropriazione di se stessa.
Come ho detto, egli scrive nel 1994, il comunismo è tutto sommato caduto da poco, e
tutto è ancora in divenire. Dal 1994 ad oggi ovviamente è successo di tutto. Abbiamo
i “fatti” dell’11 settembre, la crisi finanziaria che stiamo vivendo in questi giorni, e
tutta una serie di alti accadimenti. Il panorama politico è in continuo mutamento e le
occasioni che si offrono all’Europa per ripalesarsi come potenza geopolitica vengono
continuamente frustrate senza che si riesca a raccogliere il “testimone” della migliore
tradizione europea che si potrebbe far rivivere.
Eppure l’Impero, dice Sloterdijk, fa parte della drammaturgia della storia europea.
Questo concetto di drammaturgia è particolarmente interessante.
L’Europa riesce a giocare il suo ruolo storico nella misura in cui riesce a pensarsi
come Impero, e quindi occorre suscitare in noi stessi - anche qui cito una bella
espressione del filosofo tedesco - un “sogno autogeno”. Bisogna riuscire a
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trasformare innanzitutto noi stessi, e a pensare innanzitutto l’Impero dentro di noi per
poi riuscirgli a dare una forma concreta, politica, storica.
Ovviamente tutto questo è molto più facile a dirsi che a farsi.
Però, secondo me, questa idea dell’Impero in interiore homine, ossia dell’idea
imperiale che sorge all’interno dell’uomo e che muta innanzitutto l’uomo stesso (che
poi a sua volta informerà l’ambiente circostante), è esattamente il punto di partenza
su cui dobbiamo situarci.
Perché poi, parliamoci chiaro, qualsiasi trasformazione avvenga a livello
internazionale non dipenderà da noi che siamo in questa sala, dalle migliori forze
europee, ma dipenderà da Tremonti piuttosto che da Putin, piuttosto che da questi
personaggi, che vengono tutti dall’ufficialità politica, economica e culturale e che poi,
con una loro evoluzione, possono anche sicuramente giungere a conclusioni e a
proposte che ci paiono particolarmente interessanti; e non a caso ho citato Tremonti
ma ancor più Putin, che è sicuramente la novità di maggior rilievo nello scacchiere
politico internazionale.
Tuttavia l’ufficialità cui facevo riferimento prima si pone a un livello per noi
assolutamente inarrivabile. Quindi che senso ha stare qui oggi a parlare di Imperium?
Ha senso esattamente nell’accezione in cui dicevo prima. Ha senso nella misura in
cui riusciamo a fare dell’Impero un’idea mitomotrice e mitopoietica, ovvero un’idea
in grado di creare un nuovo mito, a cominciare da noi stessi.
A questo proposito è molto interessante il concetto di unità imperiale. Questo
concetto – citato anche da Gabriele Adinolfi piuttosto che dal gruppo di rock non
conforme Zetazeroalfa – venne formulato in forma organica su un vecchio articolo
della rivista Orion a firma di Flavio Nardi, un ragazzo di Roma che si occupa di
musica non conforme. Quest’ultimo propose il concetto di unità imperiale riferendosi
al discorso evolvano di Cavalcare la Tigre.
Essere unità imperiale significa interiorizzare l’idea di Imperium e farla agire su noi
stessi. Voglio portare due esempi che, a mio modo di vedere, testimoniano
storicamente la realizzazione di questo concetto.
Il primo è tratto da una famosa pagina di Oswald Spengler, ne “L’Uomo e la
macchina”, libro citato prima anche da Stefano, incentrata sulla storia del famoso
legionario romano a Pompei che, non avendo avuto la consegna di abbandonate il suo
posto di guardia mentre era in atto la catastrofe, rimase al suo posto. I calchi delle sue
gambe vennero trovate davanti al posto di guardia. Quel soldato aveva interiorizzato
in maniera così profonda il suo ruolo di sentinella a servizio dell’Imperium tanto da
arrivare a sacrificare la sua stessa. Estremo sacrificio che in una mentalità
secolarizzata ed egualitarista risulta assolutamente insensato, ma che nell’ottica in cui
affrontiamo il dibattito di assume un significato paradigmatico, archetipico, perché
quel soldato, in realtà, come diceva peraltro Giorgio Locchi commentando quella
stessa pagina di Splenger, è riuscito ad incarnare l’immagine che lui stesso aveva di
sé, di una sentinella imperiale, proprio nel gesto dell’estremo sacrificio. E questo, vi
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dicevo, è un esempio particolarmente pregnante di che cosa può voler dire essere
unità imperiale, tenere la consegna e tenere il proprio posto.
Un altro esempio che mi viene in mente, anche questo particolarmente evocativo, fa
invece riferimento alla storia un po’ più recente. Mi viene in mente una pagina del
diario di Giuseppe Bottai. Facendo questo esempio, mi riferisco a questa epoca
storica senza scendere nel dettaglio, è un esempio, diciamo, più che altro tecnico.
Nel diario di Bottai c’è una pagina in cui si parla del suo ritorno dalla guerra
d’Africa. Bottai va a ricevimento da Mussolini, con cui aveva un’estrema
confidenza, e trova un Mussolini trasformato. Questi lo liquida con poche parole,
dicendogli che aveva fatto il proprio dovere e lo congeda. Bottai per questo è
assolutamente disperato e scrive nel suo diario che Mussolini è cambiato, che si è
indurito, che è diventato di pietra. Ora, al di là degli psicodrammi di Bottai,
l’episodio riportato mostra anche qui l’interiorizzazione del proclamato Impero e mi
sembra assolutamente evocativo di quello che può essere un concetto di unità
imperiale.
Ovviamente replicare tutto questo oggi è abbastanza problematico e la differenza
balza subito agli occhi: in entrambi i casi abbiamo a che fare con due esempi in cui
c’è un contesto generale votato all’Impero. Essere unità imperiali oggi è invece un
compito assolutamente lasciato all’individuo perché non c’è un contesto generale che
ci può aiutare in tutto questo.
È un cammino che si confronta col concetto nietszcheano di Nichilismo e con ciò che
Evola definiva la necessità di “cavalcare la tigre”. È un percorso che ognuno di noi
deve affrontare in solitario innanzitutto per poi riconnettersi con altre unità imperiali.
Ed è questa la vera sfida che ci si presenta oggi.
Essere unità imperiali significa riuscire ad incarnare i propri valori in ogni istante
della propria vita, qualsiasi cosa si faccia, sia che ci si trovi magari in piazza, sia che
ci si trovi a mantenere una linea politica, significa saper essere sempre al proprio
posto, e saper fare ciò che deve essere fatto in ogni situazione. Questa secondo me è
quella che è la vera sfida per noi, il nostro vero compito. Tutto il resto è al di là di
quella che può essere la nostra capacità di azione sulla realtà.
Come ho detto, l’Impero prossimo venturo, se mai verrà, se mai avrà a breve una
reale consistenza politica, non dipenderà certo da noi, dipenderà da meccanismi che
sono assolutamente più grandi, sopra le nostre teste, al di là di qualsiasi nostra
possibilità d’azione, perlomeno ovviamente nel breve termine. Questa purtroppo è
l’attuale situazione europea.
Adesso è “comparso” Barack Obama, che è stato festeggiato paradossalmente non
solo a sinistra ma anche in alcune parti della destra, come se potesse generare un
reale cambiamento nello scacchiere internazionale. Se ci sarà un cambiamento, in
realtà, sarà secondo me assolutamente devastante per quella che è ogni politica di
indipendenza e di auto-realizzazione europea, perché si diffonderà, e si sta già
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diffondendo, una ventata di americanismo di ritorno. Di quella che era stata la
prospettiva di multipolarismo dell’epoca Bush, innescata dalla sua stessa goffaggine e
arroganza a livello internazionale, non vi è più traccia.
La situazione è pertanto quella che è e non c’è assolutamente, in questo senso, da
sorridere. Sappiamo che c’è una speranza per quella che è la situazione in Russia, che
anche se non è il mio governo ideale (se mai ne dovessi indicare uno), sta comunque
seguendo una politica di indipendenza da un punto di vista politico, culturale ed
economico. Una Russia che va assolutamente lodata anche da un punto di vista
mediatico perché, se qui si sorride spesso degli stratagemmi di Putin per accattivarsi
il consenso del popolo russo, poi tutto sommato le sue strategie mediatiche non sono
più ridicole di quelle dei politicanti occidentali.
Però tutto questo, lo ripetiamo ancora, è assolutamente sopra le nostre teste. Per
quello che ci riguarda possiamo fare soltanto una cosa: cercare di essere unità
imperiali, di mantenere la consegna e di “fare ciò che deve essere fatto”.
Grazie.
Adriano Scianca
24
Domande dal pubblico
Per il Dottor Vaj:
Negli ultimi dieci anni, soprattutto parlando di biotecnologie, quindi di influenza
della scienza sulla vita e sulla formazione della vita stessa, abbiamo assistito al
ritorno della religione soprattutto con il movimento definito da alcuni politologi,
forse impropriamente, dei neoconservatori, come protagonista del dibattito politico
anche sulle questioni scientifiche.
Lei ritiene che sia finito questo periodo oppure che le religioni organizzate possano
dare degli ulteriori colpi contro la scienza e quindi contro l’uso della scienza per la
formazione della vita?
Risposta:
Io penso che ci siano due ruoli importanti che malgrado la secolarizzazione facciano
sì che le componenti propriamente religiose di un certo schieramento abbiano ancora
un peso notevole. In primo luogo in Italia, parlando della Chiesa Cattolica, abbiamo
delle strutture che, seppure superate e con dei ruoli ridimensionati rispetto a quello
che poteva sussistere nel Medioevo crociato, gestiscono tuttora un potere culturale,
politico e di influenza immenso. Lo schieramento che io invece definisco “umanista”,
frazionato in partiti, correnti, tendenze, ideologie o meglio semplicemente in comitati
d’affari, pur possedendo un’ortodossia a causa di questo frazionamento finisce per
subire il potere immenso della Chiesa Cattolica, pur anche ammettendo che oggi
questa rappresenta a livello sociale una minoranza all’interno della società italiana.
Inoltre c’è un fattore molto importante da considerare: lo schieramento umanista è in
un certo senso il prodotto della secolarizzazione che in parte avviene in opposizione
alla visione del mondo monoteista, e in questo caso si porrà all’origine e alla nascita
di quello che è la tendenza storica di cui ho parlato prima e che è stata definita in vari
modi come sovrumanista, superominista, transumanista, romantica, faustiana, quello
che volete. Dall’altro lato rappresenta anche l’affermazione egemonica nelle
coscienze e nel linguaggio di quello che sono i valori della tendenza monoteista
giudeocristiana, che diventano ovvie, per cui non hanno più bisogno di una
fondazione religiosa o di una fondazione mitica; perché tanto è ovvio che per
esempio esiste solo l’Individuo, l’Umanità, è ovvio che il Bene è una certa cosa e il
Male una cert’altra, etc.
Ma questa ovvietà, pur essendo penetrata nelle coscienze, viene meno nel momento
in cui si trova sfidata dal fatto che si creano delle linee di frattura dal punto di vista
dell’evoluzione pratica, dal punto di vista di quella responsabilità di
autodeterminazione che dicevo prima e dal punto di vista della nascita di tendenze
storiche politiche, metapolitiche, filosofiche che rivendicano questo tipo di
autodeterminazione.
25
Ecco allora che a un certo punto un bioetico o l’altro, per esempio il Rodotà1 della
situazione, professa che c’è l’ingegneria genetica buona, che è quella che toglie le
malattie, e c’è quella cattiva, che fa il superuomo… ovvio, no!?!
Poi ad un certo punto salta fuori Watson2 (prima che venisse coinvolto nello
scandalo) che, in un convegno del 1986, si chiede, pur sapendo che non è politically
correct, perché noi non potremmo programmare arbitrariamente le caratteristiche
della nostra discendenza? perché mai noi dovremmo astenerci, nel momento in cui
miglioriamo queste caratteristiche, dal fare semplicemente quello che ci piace?
Che differenza c’è tra avere un sistema immunitario che resiste al 30% in più dal
raffreddore, essere più alti di un centimetro e avere un quoziente di intelligenza di 30
punti maggiore?
Rodotà a ciò non risponde, perché alla fine il suo discorso si situa all’interno dei
valori condivisi che stanno in piedi fino a che sono ovvi. Quando cessano di essere
ovvi lui non ha più il bagaglio mitico, religioso, spirituale che in un certo senso
giustifica il perché vada bene l’ingegneria genetica negativa e non quella positiva.
Naturalmente si ritrova dalla sua parte chi invece fa parte del bioluddismo, del
neoluddismo, dell’umanismo religioso; si ritrova in prima linea, perché loro sono
quelli che non hanno dubbi, che sanno tutto, perché è chiaramente spiegato nella
Bibbia, e la Bibbia non è una cosa che possa essere messa in discussione perché è
parola di Dio, e la fede nella parola di Dio è un dovere addirittura morale, per cui loro
sotto questo punto di vista non hanno problemi.
E questo credo che sia il secondo grande ruolo, oltre il fatto che la chiesa cattolica,
rispetto ai comitati d’affari che sono i partiti politici, è una grandiosa organizzazione
metapolitica con una sua ideologia e filosofia precisa, cosa che nessun altro
movimento attualmente, in Italia per esempio, mi sembra possa vantare.
Oltre a questo c’è anche il fatto che loro traggono forza dalla ferma convinzione che
pensare diversamente da loro non è impossibile ma semplicemente vietato.
1
Stefano Rodotà (Cosenza, 30 Maggio 1933), politico e giurista.
2
James Dewey Watson (Chicago, 5 aprile 1928), biologo statunitense, scoprì la struttura della
molecola del DNA insieme a Francis Crick e Maurice Wilkins con i quali ha ricevuto il Premio
Nobel per la medicina nel 1962 per le scoperte sulla struttura molecolare degli acidi nucleici e il suo
significato nel meccanismo di trasferimento dell'informazione negli organismi viventi.
Nell'ottobre 2007 The Independent pubblicava una sua dichiarazione secondo la quale «I neri sono
meno intelligenti dei bianchi» e che l'idea che «l'eguaglianza della ragione condivisa da tutti i
gruppi razziali si è rivelata una delusione», tanto che «chi ha a che fare con dipendenti di colore
pensa che questo non sia vero».
Successivamente Watson è stato costretto a ritrattare pubblicamente questa sua affermazione.
26
Domanda per Stefano Vaj:
Si è parlato di una concezione circolare, sferica della storia; quindi non sarebbe
impossibile pensare a un ritorno indietro nella storia. Mi potrebbe spiegare meglio
cosa si intende?
Risposta:
La risposta è quella nietzcheana, sovrumanista, che poi è quella che è stata più
estesamente spiegata, illustrata e forse compresa anche da Giogio Locchi3. Si sono
confrontate ad un certo punto due visioni della storia sul volgere della storia stessa.
La prima è una visione ciclica, per cui, come ci sono le stagioni che poi ritornano,
così come c’è il giorno e la notte, così come c’è il ciclo biologico dalla successione
delle generazioni alla nascita, alla crescita, alla decadenza alla morte, così anche la
storia seguirebbe dei cicli. E questa è la prima visione, che è quella più
tradizionalmente europea, pagana, classica, etc.
Poi esiste invece l’altra visione, che è quella della tendenza umanista e monoteista,
che dice che la storia non è un cerchio ma qualcosa che ha un inizio e ha una fine, in
cui la fine , in un certo modo, si riconduce un po’ a quello che era l’inizio, ad uno
stato edenico. Rappresenta soprattutto la fine anche del divenire storico, il suo
compimento; perché la storia è una vicenda umana che in primo luogo non sarebbe
mai dovuta neppure esserci.
Il paradiso terrestre, o la sua versione secolarizzata della società senza classi,
andavano benissimo così com’erano: da questi “peccati” e da questa “valle di
lacrime” c’è un percorso di redenzione o un percorso dialettico o di lotta di classe,
etc. che porterà alla conclusione in cui ci sarà restituito uno stato preistorico e
extrastorico con in più l’abbondanza, in cui il paradiso celeste sarà più bello di quello
terrestre, etc.
Questo secondo tipo non è un ciclo, non è la volontà di ritornare all’“età dell’oro”,
non è il pensiero che c’è stata una volta una cultura nascente e di culture nascenti ce
ne saranno altre in futuro, ma è l’idea che prima c’era un mondo fuori dalla storia e a
quel mondo dobbiamo tornare.
A queste due visioni se ne aggiunge una terza, che Giorgio Locchi definisce visione
sferica. Con questa visione innanzitutto accettiamo la storia, che è un qualcosa in cui
si vuole restare, che è cominciata e non è destinata nella nostra volontà ad
interrompersi e finire; ma nello stesso tempo questo ciclo non è una ripetizione, o non
può più essere una ripetizione, perché quella visione ciclica, o questa sorta di
immagine di come le cose potessero continuare a funzionare, in qualche modo, è
finita.
3
Giorgio Locchi, più noto come giornalista e corrispondente del Tempo a Parigi, è stato uno dei più originali e meno
conosciuti pensatori sovrumanisti del dopoguerra, nonché autore e co-autore tra l'altro de Il male americano
(Akropolis), Nietzsche, Wagner e il mito sovrumanista (Akropolis), L'essenza del fascismo (Il Tridente). e Das
unvergängliche Erbe (Thule-Seminar); ed ha largamente influenzato Guillaume Faye, Pierre Vial, Pierre Krebs, Robert
Steuckers, Stefano Vaj, nonché, specie nel periodo intorno alla fine degli anni settanta, Alain de Benoist. Tra gli scritti
sul pensiero di Locchi e sulla sua perdurante attualità, cfr. la "Introduzione a 'Espressione politica e repressione del
principio sovrumanista' di Giorgio Locchi" di Stefano Vaj, la "Introduzione" di Santiago Rivas alla versione spagnola
dello stesso testo, "Hommage à Giorgio Locchi" di Gennaro Malgieri, "Il cantore del mito nuovo" di Adriano Scianca e
(marginalmente) "Between metapolitics and apoliteia" di Roger Griffin.
27
E’ finita perché c’è stato il cristianesimo che ha sancito una frattura dello spazio
psicologico e storico.
Spengler4 stesso dice che sono finiti i cicli delle culture spengleriane, che non ci sarà
più la nascita di culture nuove, vuoi con la parte civiltà (Kultur) vuoi con la parte
civilizzazione (Zivilisation), perché la Terra è finita, perché non c’è più la
segregazione, non ci sono più degli spazi aperti, non ci sono più delle cose che
possono morire lasciando però complessivamente intatta la scena planetaria e altre
culture possono nascere. Allora che cosa può esserci soltanto?
Può esserci il fatto che la storia non è destinata a finire, perché ormai il meccanismo
storico diventa qualcosa che non è più pseudo o para biologico, ma diventa qualcosa
che è nell’intero controllo di colui che la rivendica e che la fa sua. E qui la storia è un
qualcosa in cui esiste “l’eterno ritornare” di qualcosa, tutto quello che è il nostro
passato. Ma anche il nostro passato stesso continua a cambiare perché viene sempre
ridefinito da una prospettiva di un presente, che è la scelta di che tipo di destino
vogliamo per il nostro futuro.
Non è una cosa facilissima da spiegare, in un certo senso, perché il nostro linguaggio
e la nostra mentalità sono proprio ordinati secondo una visione invece lineare della
storia.
Ma la visone sferica rappresenta un gradino in più appunto della libertà storica
dell’uomo e rappresenta un momento in più per cui, se una volta la storia non c’era,
poi la storia è cominciata ma è andata avanti a cicli, oggi un nuovo inizio è un inizio
su una scala più cosmica. E questo inizio è in qualche modo simile a quello che è
l’entrata stessa della storia con la rivoluzione neolitica.
Domanda di Stefano Vaj per Adriano Scianca:
Spesso il concetto di Imperium viene anche riferito al modello di organizzazione
politica che in un qualche modo rappresenterebbe il pendant dialettico di quello che
è il sistema attuale.
Si dice che gli stati-nazione, il modello francese dello stato-nazione, è un qualcosa
che si costituisce sulla base di un predominio della nazione franca che non
organizza intorno a se uno spazio di comunità e di una ricchezza di civiltà, tradizioni
politiche e culturali diverse, ma che tende a piallare, uniformare e burocratizzare
sostanzialmente tutto; e questo in un certo senso prefigura l’evoluzione mondialista.
D’altra parte invece l’Impero dovrebbe essere la forza e la coesione nella differenza;
questo forse potrebbe essere un modello di organizzazione planetaria diversa, come
alternativa al mondialismo e alla globalizzazione.
4
Oswald Spengler (Blankenburg am Harz, 29 maggio 1880 – Monaco di Baviera, 8 maggio 1936, filosofo, storico e
scrittore tedesco. Autore de "Il tramonto dell'Occidente" (titolo originale "Der Untergang des Abendlandes", tradotto in
italiano da Julius Evola).
"Il Tramonto dell'Occidente" (1918-1922), accolto da un enorme successo di pubblico, è un tentativo di elaborare un
compendio di una morfologia della storia universale. In quest'opera Spengler sosteneva che tutte le civiltà attraversano
un ciclo naturale di sviluppo (Kultur), fioritura e decadenza, e che l'Europa, vittima di un angusto materialismo e del
caos urbano, si trovava nell'ultimo stadio, l'inverno di un mondo che aveva conosciuto stagioni più fruttuose
(Zivilisation). L'Europa, a meno di riuscire a purificarsi e ripristinare i suoi valori spirituali e il suo ceppo originario,
sarebbe caduta preda di politiche selvagge e di guerre di annientamento.
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Risposta del dott. Scianca:
La risposta ovviamente è già nella domanda.
Nel ricostruire il contesto storico e concettuale faccio sicuramente riferimento alle
coordinate che mi vengono dal discorso di Giorgio Locchi.
Del resto il modello dell’Imperium, come concreta proposta per il mondo
contemporaneo, deriva anche dalla speculazione di quello che è un altro discepolo di
Locchi, Alain de Benoist5. Questi, qualche tempo fa, scrisse un libro, “L’Impero
interiore”, in cui proponeva appunto il modello dell’Imperium in senso federale,
rifacendosi soprattutto al modello di Johannes Althusius6 e contrapponendolo
esattamente al modello dello stato-nazione.
Ovviamente la risposta alla tua domanda è sì. Il modello imperiale può sicuramente
essere un modello da contrapporre all’omogeneizzazione globale a cui stiamo
assistendo e un modello per organizzare le differenze salvaguardandole e mettendole
in forma.
La regione, il paese, la nazione non vengono umiliate nel loro essere comprese in un
progetto imperiale. Non solo è così, ma la regione, il paese e la nazione, svincolate da
un progetto imperiale finiscono per fare fondamentalmente il gioco, nella situazione
attuale, di quella che è la potenza che vuole uniformare tutte le identità locali,
comprese il paese, la regione, la nazione. Qualsiasi tipo di irredentismo,
indipendentismo, regionalismo, in quanto rivendicano delle identità, hanno
sicuramente una parte di quella che può essere la nostra simpatia, però, a loro volta,
quando vogliono fare questo in contrapposizione a tutto ciò che hanno intorno, e
senza pensarsi in un orizzonte più ampio, finiscono inevitabilmente per essere
sfruttati da quello che è il grande nemico di tutte le identità, comprese le loro.
Questo è vero, basta guardarsi intorno, in Cecenia, in Kosovo. Perché non è che i
sostenitori di Putin, come possiamo essere sicuramente noi, credono che i ceceni non
abbiano diritto alla loro identità e alla loro economia, è che oggettivamente, allo stato
attuale delle cose, fare una politica indipendentista contro Mosca significa fare il
gioco di Washington.
Quindi ogni regionalismo è positivo perché rivendica un’identità, ma se svicolato da
un progetto imperiale è nocivo a se stesso innanzitutto, e comunque a qualsiasi
progetto di salvaguardia delle differenze.
Il concetto di Impero, come organizzazione delle differenze, ci deriva esattamente dal
modello romano.
5
Alain De Benoist, (Saint-Symphorien, 11 dicembre 1943) scrittore francese, fondatore del movimento culturale che la
stampa internazionale definì Nouvelle Droite (Nuova Destra), del quale è stato animatore insieme a Guillaume Faye,
Pierre Vial, Giorgio Locchi; rimane da sempre principale punto di riferimento del GRECE (Gruppi di ricerca sulla
civilizzazione europea). Notizie molto estese e numerosi suoi scritti (ad esclusione purtroppo della sua produzione più
interessante, quella a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta) sono resi disponibili in varie lingue dal sito Les Amis
d'Alain de Benoist. In italiano sono disponibili altresì due studi in volume sull'autore, e precisamente La destra degli
dei. Alain de Benoist e la cultura politica della Nouvelle Droite di Francesco Germinario, e Sulla Nuova Destra.
6
Johannes Althusius (Diedenshausen, ca 1563 – Emden, 12 agosto 1638), giurista, filosofo, teologo calvinista tedesco.
29
Un modello in cui le diverse identità e i diversi popoli venivano sicuramente ripresi
in un progetto di più grande portata, ma restavano se stessi.
Ma il vero discrimine non è tanto quello di fare adesso dell’“angelismo” per quello
che riguarda la politica internazionale. Il vero discrimine è tra una forza che voglia
convertire, omogeneizzare e uniformare tutte le differenze, i popoli, le culture, le
religioni, le lingue, e una forza che tutte queste differenze le lascia esistere, le vuole
far esistere e crede che il fatto che esistano sia un valore.
Lo spartiacque fondamentale è non tanto il ricorso o meno alla forza, ma è la volontà
di convertire o meno i popoli con cui tu, in un modo o in un altro, pacificamente o
meno, entri in contatto. Quello è lo spartiacque fondamentale e la grandezza del
modello imperiale, che è romano, e che potrebbe un domani essere un modello e una
concreta proposta politica per l’Europa.
Domanda per Andriano Scianca:
Nell’ambiente della” destra” ci sono fin troppe diversità di posizione, molto spesso
vere e proprie contrapposizioni, su quelle che dovrebbero essere le politiche di
alleanze dell’Europa e sull’allargamento dei suoi confini (per esempio
sull’inclusione della Turchia, su cui si dichiara favorevole il gruppo di Eurasia). Mi
può dire qualcosa a proposito?
Risposta:
Concordo per quel che hai detto circa la schizofrenia dell’ambiente della “destra”.
Ritengo tuttavia che l’approccio vada un attimo invertito. Metterci adesso a stabilire
quali devono essere i confini della futura Europa e quale debba essere la sua politica
estera e di amicizia e inimicizia secondo me lascia un po’ il tempo che trova. In
realtà tanto i confini quanto le politiche di alleanze di amicizia e inimicizie le
stabilisce la storia, non si stabiliscono mai a tavolino, tanto meno avrebbe senso che
le stabilissimo noi oggi.
Per quanto riguarda il fatto specifico della Turchia, che hai citato richiamando il
gruppo di Eurasia, che ha fatto una forte campagna per l’ingresso della Turchia in
Europa, con tutta una serie di argomentazioni, io sono abbastanza scettico, anche se
sono tutte proposte abbastanza bene argomentate e sono disposto a prendere in
considerazione questo tipo di argomenti.
Però i vantaggi di una Turchia in Europa sono abbastanza dubbi e soprattutto,
qualsiasi cosa ci si voglia inventare a livello etno-culturale, religioso, etc, la Turchia
viene genericamente percepita come non europea; la percepisco così io ed è percepita
così dalla quasi totalità degli europei.
Forse se c’è questa percezione diffusa un motivo ci deve pur essere.
Poi ha poco senso adesso stabilire quali debbano essere i rapporti tra un futuro
Impero e un altro futuro Impero, perché queste cose non si stabiliscono a tavolino, è
sempre la storia concreta che stabilisce questo tipo di rapporti tra potenze; prima
sarebbe il caso di avercelo questo impero europeo.
30
La mia visione del mondo è sicuramente multipolare e il fatto che ci sia un Impero
europeo che abbia a che fare con un Impero ottomano o con qualsiasi altra forma di
un grande spazio, nel senso schmittiano del termine, è sicuramente qualcosa di
positivo ed è la visione del mondo futuro che ho in mente.
Domanda del moderatore ai relatori:
Pongo ad ambedue i nostri relatori la medesima domanda. Sono fermamente
convinta che per recuperare “una cultura per l’Europa” si debba passare solamente
attraverso comunità “coese” e radicate nel proprio territorio e nella propria cultura,
così come traspare dai vostri interventi.
Si parla spesso di radici culturali dell’Europa e a tal proposito noi riconosciamo che
la matrice dell’Europa va necessariamente recuperata nell’identità culturale
indoeuropea. Molti hanno fatto interessantissimi studi sugli indoeuropei (Georges
Dumézil7, Adriano Romualdi8, cui peraltro abbiamo voluto dedicare il titolo di
questo convegno, Alain de Benoist…), però volendo sintetizzare: che cosa dovremmo
recuperare di questa identità culturale indoeuropea per poter pensare di ricreare
una cultura veramente alternativa per l’Europa?
Risposta di Stefano Vaj:
L’omogeneità delle comunità è un omogeneità sempre nella visione tridimensionale.
Nella visione sferica della storia, è un omogeneità in un senso convergente, cioè nel
senso che parte da persone che rivendicano o si riallacciano a certe radici, o che
hanno una certa provenienza, e che in funzione di questo vogliono continuare a
restare diverse e a diventare sempre più diverse, non ad omogeneizzarsi gradualmente
ad un panorama circostante.
Questo da un punto di vista culturale, linguistico, tradizionale, ma poi anche etico,
biologico, perché no.
L’altra questione è in che cosa consiste davvero il retaggio indoeuropeo. Io penso che
un elemento per esempio qualificante di questo discorso sia proprio l’idea di
un’organizzazione del cosmo umano come organizzazione delle differenze. Anche
nel Neolitico il mondo in qualche misura si globalizza, perché cominciano i traffici
commerciali, gli scambi, cambia la tecnologia dei trasporti. Nell’ambito di questo
7
Georges Dumézil (1898 – 1986), filologo e linguista francese, massima autorità nell’analisi comparata della visione
del mondo delle società indoeuropee. Sua la teoria, ormai ampiamente accreditata in ambito accademico, della
tripartizione (giuridico-sacrale, guerriera, fecondità-abbondanza) come modulo interpretativo del “reale”, tipico delle
genti indoeuropee.
8
Adriano Romualdi (Forlì, 9 dicembre 1940 – Roma, 12 agosto 1973),storico, saggista politico e giornalista italiano.
Figlio del presidente del M.S.I., Pino Romualdi.
Laureatosi con una tesi sulla rivoluzione conservatrice tedesca, discussa con il professor Renzo De Felice, inizia sin da
giovanissimo a occuparsi di tematiche storiche e politiche. Fortemente influenzato dal pensiero di Julius Evola, si
occupa in articoli e libri di Platone, Friedrich Nietzsche, Oswald Spengler, Pierre Drieu La Rochelle, del fascismo,
interpretato quale fenomeno prettamente europeo, e della seconda guerra mondiale. Dedica inoltre ampi studi agli
Indoeuropei, che gli valgono il plauso di Giacomo Devoto. Assistente di Storia contemporanea all'Università di Palermo
nella cattedra di Giuseppe Tricoli.
Grande e lucido ideologo, muore all'età di trentatré anni in un incidente stradale.
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tipo di discorso si può decidere di dare una risposta come quella del sistema egizio. I
faraoni: questa sorta di sovranità identificata in una figura epocale che, ammazzata o
mangiata, è una sorta di predatore Dio, o qualcosa del genere. Intorno a lui tutta la
popolazione riceve un’identità dal rapporto con questo personaggio o dalla casta
sacerdotale che ne amministra i riti.
La risposta indoeuropea in questa situazione è diversa, nel senso che esistono delle
popolazioni, che in realtà sono molte piccole ma portatrici di una visione di estremo
dinamismo storico. Esse vedono viceversa la partecipazione di tutti, la mobilitazione,
il senso comunitario, l’identificazione in un destino collettivo, come ciò che da
significato all’esistenza dell’uomo. La costruzione del monumento (che non è la
piramide, cioè una cosa molto stabile che starà lì per un certo numero di anni) è la
costruzione di una civiltà che è destinata a sfidare i secoli o a lasciare una traccia o ad
esprimere una visione del mondo o a ricordare gesta compiute rispetto a cui il
contemporaneo vuole mostrarsi degno e a cui contemporaneamente vuole aggiungere
qualcosa che sia degno del suo passato e anche di un futuro che vuole lasciare dietro
di sè.
Credo che questi siano gli esempi forti e le cose a cui possiamo ricollegarci e che
fanno parte veramente della nostra specificità essenziale, genetica, diciamo così.
Poi ci sono alcune cose che invece sono finite per sempre, come dice Nietzsche,
“non tornano i greci”: il cristianesimo non è una cosa che possiamo rimuovere
psicologicamente perché se no diversamente saremmo per sempre condannati a
riviverlo. È vero che quando noi oggi usiamo per esempio la parola prometeico la
usiamo in senso positivo. Prometeo per i greci è un simbolo negativo e non positivo,
perché per i greci rappresentava la religiosità tellurica pre-indoeuropea delle
popolazione dominate, perché esisteva sempre la possibilità o che si ribellassero
politicamente o che soprattutto andassero ad inquinare in qualche modo quello che
invece era la cultura, lo spirito, o il tentativo degli indouropei di tutelare la propria
identità. Tentativo che ha avuto episodi veramente epici e anche tragici al contempo:
pensate all’India, in cui una manciata di migliaia di indoeuropei hanno conquistato un
continente che già all’epoca aveva centinaia di milioni di abitanti e hanno cercato,
con una grandissima produzione culturale e organizzazione sociale, di resistere ad un
assorbimento che poi inevitabilmente nella storia si è anche verificato.
Oggi l’indiano io posso miticamente consideralo come “fratello”, ma da un punto di
vista etico e culturale si è divaricato parecchio dalla nostra cultura.
Gli indoeuropei hanno tentato di fare questo, e di mantenere questo tipo di identità, e
questo è un messaggio e un esempio che noi possiamo in qualche modo prendere,
come per esempio il tentativo di organizzare la struttura sociale con la sola
tripartizione funzionale, cioè i sacerdoti, i governanti, i guerrieri e la classe
produttiva: questo è un modo di interpretare il mondo e di dare un significato e una
struttura alla società.
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Risposta di Adriano Scianca:
Una cosa che mi viene in mente a proposito dell’eredità indoeuropea è il concetto di
fondazione di città. L’indoeuropeo, particolarmente nell’“accezione” romana, è per
natura fondatore di città.
Viceversa nella Bibbia, che è il libro di una tradizione culturale portatrice di valori
completamenti diversi, il fondatore di città è il maledetto per eccellenza. Uno dei
primi fondatori di città è Caino, e questi non ha precisamente un ruolo positivo nella
Bibbia.
Al contrario nella tradizione indoeuropea, a cominciare da Romolo ovviamente, il
fondatore di città diviene eroe archetipico, perché in qualche modo fondando una
città, fonda un mondo, un universo di valori, traccia un solco per terra e decide che da
oggi in poi qui c’è Roma, un’istituzione, un Impero, una legge, un diritto e oltre c’è
non-Roma, c’è tutto il resto, la natura ferina, il “kaos”.
E’ fondamentale riprendere questo tipo di insegnamento e di eredità, cercando di
attualizzarlo.
A me ad esempio è capitato spesso di mettere in relazione questo tipo di ordine di
idee con l’esperienza delle “occupazioni”, che come sappiamo, da tempo non è più
patrimonio esclusivo della sinistra. Perché anche nelle città attuali, in cui il potere
politico rinuncia a se stesso e per forza di cose è dimissionario perché non sa più
governare la polis, si possono ricreare degli spazi in cui si rida in qualche modo vita a
ciò che è stato abbandonato da una politica criminale.
Secondo me questo tipo di insegnamento ci deve portare a riflettere su tutti i
significati intrinseci dell’idea di fondazione di città, che è uno degli aspetti cruciali
dell’eredità indoeuropea su cui noi oggi dobbiamo riflettere.
33
34
Conclusione
Ringrazio i relatori per la loro approfondita analisi da cui credo emerga chiaramente
che la possibilità di avere un futuro che non snaturi la nostra essenza si incarni nella
volontà di osare. La fortuna aiuta gli audaci.
Ringrazio il pubblico per la presenza e vi do appuntamento alla prossima iniziativa
dell’Associazione Culturale Edera.
Elisa Nobile
Associazione Culturale Edera
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di Stefano Vaj