46 Il Sole 24 Ore DOMENICA - 14 AGOSTO 2011 n. 221 In edicola con il Sole: Dave Brubeck Continua la serie «I miti del jazz». Dopo Thelonious Monk, Charlie Parker, Charles Mingus, giovedì in edicola con Il Sole 24 Ore al prezzo di € 9,90 (in aggiunta al prezzo del quotidiano) c’è Dave Brubeck, pianista e compositore statunitense nato nel 1920. Di formazione «classica», stupì il mondo del jazz scegliendo come luoghi favoriti per le esibizioni i campus universitari Musica musica a cura di Angelo Curtolo Benicassim Dal18 al 27 agosto si svolge il 18º Rototom SunSplashFestival, il più grande raduno reggae d’Europa (che fino al2009 richiamava 150mila persone a Osoppo, in Friuli). Ora sonoa 90 km da Valencia, sulmare. Lalineup inaugurale comprende Mr. Vegas, StephenMarley, Toots& The Maytals (www.rototomsunsplash.com). Cats Parte il 17-18 dall’Arena Giglio di Porto Recanati (Mc) il tour del musical Cats, con un atteso ritorno nelle Marche, sede della Compagnia della Rancia, che mette in scena il musical. Poi sono al Festival La Versiliana (Marina di Pietrasanta) il 20-21, quindi a Catona (24) e al Teatro di Verdura di Palermo (26-27 agosto). Finale il mese successivo, il 21 settembre all’Arena di Verona (www.compagniadellarancia.it). d’acqua (18). Info: www.veliateatro.it teatro Londra AlFestival Bbc Proms(www.bbc.co.uk/proms), concertisinfonicitutti igiorni con leOrchestre dellaBbce altregrandiformazioni,programmi ben pensati,finoal10 settembre.L’atmosfera informalee unica,con 5 sterline sientra senza necessitàdiprenotazioni.Nei prossimigiorni, ricordiamoil15 l’OrchestradelMariinskijdi S. Pietroburgocon ilsuo direttore V. Gergevnel Lago dei cigni; il17 laPhilharmoniaOrchestra conil suo direttore Esa-PekkaSalonen, in Sostakovic,Stravinskij,Caikovskij;il 23 Gergev conlaLondon SymphonyOrchestra. Ravello (Sa) a cura di Elisabetta Dente Marina di Pietrasanta (Lu) Casola Valsenio (Ra) È dedicata ai 150 anni dell’Unità d’Italia Italiani!, performance di Ivano Marescotti al Parco del Cardello il 14. Info: www.teatrodeldrago.it Elea-Velia (Sa) La rassegna di teatro classico nell’area archeologica prosegue con Miti di stelle (16), Demetra e Persefone (17) e Miti pesaro Rossini con la kefiah La versione di «Mosè in Egitto» di Vick ha suscitato sonore contestazioni al Rof Ecco dieci buone ragioni per rivalutarla di Carla Moreni C ari spettatori che avete fatto "buuh", questa volta il pezzo è solo per voi. Il teatro è luogo di libertà, non c’è nessun Dio che stabilisca a priori cosa sia bene o male, come accade invece nel libretto, dalla Bibbia, del "Mosè in Egitto" di Rossini. Però ci sono dieci buone ragioni pro-Graham Vick, regista dello spettacolo di punta dell’edizione n.32 del Rossini Opera Festival di Pesaro. Tanto che lo riteniamo valido come una edizione critica. Perché al pari di quelle, va a confrontarsi con le radici della partitura, racconta le note come una storia e spiega le invenzioni della scrittura rossiniana, sempre in funzione del teatro. E allora siamo al primo punto del nostro decalogo (viva Mosè): cari lettori che avete fatto "buuh", avete notato tra i vostri vicini, la sera della prima, contestatissima, in quel luogo orrendo che è l’Adriatic Arena, uno, uno solo che dormisse? È una ragione un po’ banale il nostro comandamento di partenza. Ma è cronaca: a teatro, oggi, si dorme molto. Guardatevi intorno. Non succedeva ai tempi di Rossini. Per lo più si contestava, in particolare alle prime. Se l’opera lasciava indifferenti, cadeva. Se in teatro succedeva il finimondo (poteva capitare anche che alcuni volessero picchiare il compositore, come al debutto del "Barbiere") l’opera restava sugli scudi. Dunque, "buuh" "buuh", questa è filologia: al Rof che l’ha inventata, d’obbligo. Punto due: cosa ha dato fastidio? Non è piaciuto il realismo dell’allestimento, il presente, ebrei e palestinesi. Ma Rossini qui come altrove, sempre, racconta una storia. E quello che ci tiene legati alla seggiola a teatro non è seguire in astratto una bella melodia, ma attraverso quella bella melodia farci prendere da una storia. Altrimenti si finisce per dire, come ha detto Muti al suo ultimo "Moïse" a Roma, che in quest’opera non succede niente. Perché è un oratorio. Che non è forte | Sonia Ganassi nei panni di Elcia e Dmitry Korchak nel ruolo di Osiride nel «Mosè in Egitto» di Graham Vick vero, e anche il Maestro lo sa, perché anzi proprio negli oratori succedevano gesuiticamente le azioni più cruente e toccanti. Punto tre: Mosè non usava il mitra. Sì: anche a noi è preso un sussulto al vederlo con l’arma puntata, al terzo atto. Là in alto, sul piano diroccato di quella specie di residenza reale bombardata, come nelle città di guerra del Mediterraneo. Riprodotta fedel- Il patriarca con il fucile, la telecamera e il muro di Gaza al posto dell’apertura del mar Rosso sono elementi di attualità che rendono viva l’opera mente, nella scena di Stuart Nunn, con una scala dorata divelta, troncone sospeso in aria, per andare nel nulla. Ma ancora più effetto ci ha fatto Mosè che nei proclami si filma con una telecamera. Da solo. Modello Bin Laden. Mai sentiti così veri quei Recitativi, mai così chiaro il libretto ostico di Tottola. Quattro: e non si apre il mare, per il passaggio nel mar Rosso. Cadono invece due lastroni del muro da striscia di Gaza, che cinge oppressivo la scena. È giusto, è coerente in una lettura che traspone al presente Mosè e il Faraone. È una scelta, sempre fare musica vuol dire scegliere. Vick ha cambiato il libretto? No, gli effetti a teatro, da quando nel Seicento è nato, sono sempre simbolici, metafore. L’importante è che vadano all’anima. E qui, mare o muro, ci andavano. Se c’è una regia - punto cinque - i cantanti cantano meglio: perché fanno teatro, come vuole la musica. Sono aiutati. Lo dimostrava la compagnia del "Mosè", dove tutti erano straordinariamente nella parte: come giganti Alex Esposito, Sonia Ganassi, Dmitri Korchak, ma anche il giovane Yijie Shi, bel colore compatto, anche Riccardo Zanellato, rimasto un po’ afono eppure così sempre credibile. Sei: anche Roberto Abbado, inappuntabile concertatore, andava oltre il limite, in un Rossini mai così osato nelle emozioni. Sette: anche l’Orchestra, il Coro del Comunale di Bologna avevano la serietà, il rigore, la bellezza delle grandi formazioni sinfoniche. Ultimi tre punti, i più importanti. Otto: c’era una forzatura di fondo sul libretto: Vick vuole il nemico negli uomini, non negli dei. La pioggia di fuoco sono gli ebrei kamikaze, con la luce rossa della bomba-uomo che lampeggia mettendo in fuga gli egizi. Il figlio del Faraone non muore colpito dal fulmine, ma da un lampadario, che qualcuno ad arte gli fa cadere in testa. Sono gli uomini che fanno i miracoli, nel bene e nel male. Quanto condivisibile, quanto verificabile. Nove: c’era una mini storia aggiunta, il dettaglio di un bimbo egizio scampato alla strage finale, col soldato di Israele che scende dal carro armato, la tavoletta di cioccolata in mano. Già visto? Ma mai sentito così sulla musica del finale pacificato e sospeso di Rossini. E - dieci, da 10 e lode - mai sentiti così bene i concertati: quell’invenzione rossiniana pazza, dove in quattro o in sei cantano le stesse parole, sulle stesse note, a intervalli sfasati e fanno teatro. Qui davvero, ciascuno uguale, ma con passioni opposte, per fondersi in miscela esplosiva. © RIPRODUZIONE RISERVATA «Mosè in Egitto» di Rossini direttore Roberto Abbado regia di Graham Vick Adriatic Arena, Pesaro fino al 20 agosto danza sullo scaffale Quel che conta è il semplice passo di Marinella Guatterini O gni settore artistico ha i suoi outsider: se davvero illuminati, sanno e possono dire ciò che ad altri è precluso. Il caso dell’ottantenne Dominique Dupuy, «nobile dilettante», come è stato definito, è emblematico. Padre fondatore, nientemeno, della danza moderna francese autoctona, per aver fondato, nel 1955, i Ballets Modernes de Paris (dopo un severo apprendistato con l’espressionista tedesco Jean Weidt e l’americano Jerome Andrews), dagli anni Ottanta, il parigino Dupuy si è auto-nascosto nelle retrovie di una ricerca considerata anacronistica, perché nomade e poco visibile a teatro. Ha tuttavia continuato a rimuginare sul senso e la peculiarità dell’essere un danzatore, sull’opera coreografica, sul rapporto con allievi e pubblico. Ed è diventato, con l’inseparabile moglie-musa Françoise, più che maestro, guru di genera- zioni di danzatori contemporanei. Oggi svela la lungimiranza del suo pensiero in Danzare oltre - Scritti per la danza; la raccolta di vari interventi, amorevolmente tradotta dal francese, vanta una scrittura zampillante. Dupuy difende a spada tratta il ruolo del danzatore, identificato con la sua stessa danza, e spesso schiacciato da un "coreografo-re" che non lo riconoscerebbe come mediatore indispensabile, conduttore di energia, pensiero... Sostiene la necessità di raggiungere un corpo «vuoto», in grado di ascoltare con la pelle («l’orecchio del danzatore») anche lo spazio che lo circonda. In molti capitoli del testo, che raccoglie oltre a un dvd, anche testimonianze di danzatori connazionali, l’autore si sofferma sul tempo e l’istante, sull’importanza del respiro («alchimia del soffio»), sul corpo «meravigliato» e su quello del maestro «principe dei dilettanti», poiché «come maestro all’opera ma senza l’opera (ossia senza testo, musica, o altra stampella ndr) apprende da se stesso e dagli altri». Riservando una speciale importanza ai cinque sensi, al silenzio, a un artigianato refrattario alla tecnologia (video, registratore), per una ecologia sensoriale che eviti «consumazioni passive», Dupuy punta all’essenza pura della danza («arte del pensiero») agita e osservata, con un elogio smisurato del camminare e del semplice passo. «Mi piace, del passo, la sua capacità di dare e ridare senso alla nostra relazione con la terra e con il tempo... mi piace che ci porti a compiere i due atti maggiori della nostra arte: entrare in scena e uscirne». Come dire nascere e morire, possibilmente tardi... e oggi si danza sino a tarda età. Come? Il giocoliere Dupuy, che maneggia con cura Deridda, Jean-Luc Nancy, Bachelard, Artaud e il prediletto Valéry, ha una risposta meravigliosa: «Indossando l’estenuazione, l’erosione e il proprio invecchiamento». © RIPRODUZIONE RISERVATA «Danzare Oltre - Scritti per la danza», Dominique Dupuy, a cura di Eugenia Casini Ropa e Cristina Negro, Edizioni Ephemeria, Macerata, pagg. 262, € 28,00 il disco del sole cenerentola di rossini Direttore Carlo Rizzi; 2 cd Warner DaLondra, ecco una"Cenerentola"frescadi riedizione:voci,orchestrae corodel Covent Gardenoffrono aRossiniunpassoricco, fastoso,solenne.Fintroppo grassoperò: mancadeltutto ilguizzofrizzante.Jennifer Larmoreè unaprotagonistaprestigiosa,di solidecolorature,mal’italianoincespicaeCarlo Rizzinon lacorregge. Tempi lenti,lenti,lenti. C.M. Alla Versiliana, il 16, Sogno di una notte di mezza estate, adattamento e regia di Andrea Battistini. Info: www.laversilianafestival.it «Ravello Festival»: il 17, all’Auditorium Niemeyer, Il tempo di Gustav Mahler, scritto e interpretato da Massimiliano Finazzer Flory e con la partecipazione di Quirino Principe e di Gilda Gelati. Info: www.ravellofestival.com Monticchiello (Si) Stasera, in piazza della Commenda, ultima replica di Argelide, 45º autodramma ideato, scritto e realizzato dall’intera comunità del borgo. Info: www.teatropovero.it Tagliolo e Cassinelle (Al) «Vino e poesia», serate all’insegna dell’abbinamento fra sapori e versi a cura di Gianni Masella, rispettivamente il 16 e il 27. Info: www.agriteatro.it gommalacca di Christian Rocca degni di nota di Quirino Principe Grazie ragazze indie Lettere dagli evangelisti A L lla fine il 2011 sarà ricordato come l’anno musicale delle ragazze. Non per merito di Lady Gaga. E nemmeno a causa della morte improvvisa e annunciata di Amy Winehouse. Sul serio. Anna Calvi, Joan as Policewoman, Sarah Jarosz, Amy LaVere, Gillian Welch, Jesse Sykes. Mai come quest’anno sono state loro, queste splendide ragazze e grandi musiciste, a guidare la nuova scena rock, alt-country, indie e anche pop di qua e di là dell’Oceano. C’è il fenomeno Adele, innanzitutto, o dell’arte di sintetizzare in modo sublime pop commerciale e musica di qualità. Ci sono il meraviglioso folk contemporaneo di Sarah Jarosz (Follow me down), il country sinfonico di Alison Krauss (Paper Airplane), la classe superba di Lucinda Williams (Blessed) e tante altri esempi a sottolineare la tendenza. Tra i migliori dischi del 2011 non possono mancare Anna Calvi della debuttante chitarrista italo-britannica Anna Calvi e The Deep Field della quarantenne americana Joan as Policewoman. Con le loro canzoni eleganti e raffinate, black e soul, epiche e appassionate, Anna e Joan sembrano aver involontariamente inaugurato un nuovo filone musicale, ora che al gruppo si è aggiunta inaspettatamente anche Amy LaVere. Nata in Louisiana, ma cresciuta musicalmente a Memphis, Tennessee, la contrabbassista Amy LaVere è uscita dai confini confortanti dell’alternative country con un’inaspettata opera rock e soul, dai toni dark ma illuminati da una chitarra western alla Bill Frisell. Stranger Me è un progetto molto più ambizioso rispetto ai primi due dischi, tanto che in questo caso il produttore è Craig Silvey, lo stesso di Suburbs degli Arcade Fire. In Stranger Me, Amy LaVere racconta la fine di un amore, la rottura di una collaborazione professionale, la scomparsa di un amico e mentore, in una confezione musicale dolce e ruvida non molto diversa da quella creata da Anna Calvi e Joan as Policewoman. C’è anche l’attesissimo ritorno di Gillian Welch, dopo otto anni di assenza discografica. The Arrow and the Harvest è un gioiellino nella tradizione della musica rurale cara a Welch, ma in fondo troppo monocorde per raccomandare un ascolto ripetuto (l’eccezione è la ballata The way it will be, meravigliosa e straziante nel trasmettere all’ascoltatore il dolore incomprensibile di un amore finito). La sorpresa più entusiasmante è un’altra. L’autrice si chiama Jesse Sykes. Nel 2004 aveva stupito con Oh, my girl, con la sua voce vellutata e con l’aspetto carismatico di una Joni Mitchell dai capelli corvini. Arriva da Seattle, accompagnata come in passato dai The Sweet Hereafter, i Dolce Aldilà, guidati dal suo ex fidanzato. Il nome del gruppo fa intuire subito che siamo musicalmente in territorio Grateful Dead, in quella zona di contaminazione lisergica tra folk e rock tipica degli anni Sessanta. Marble Son di Jesse Sykes & The Sweet Hereafter è un disco formidabile, sulla scia di altri due lavori etichettati 2011 e osannati su queste colonne per gli stessi motivi, Helplessness Blues dei Fleet Foxes e Circuital dei Morning Jacket. A pensarci bene, forse il 2011 non sarà ricordato soltanto come l’anno della ragazze, ma anche come il momento cruciale del revival di una stagione irripetibile, quella della controcultura californiana, quella dei Grateful Dead, di Crosby, Still, Nash & Young, dei Jefferson Airplane, quella di un rock progressivo e psichedelico che nel caso di Jesse Sykes e dei Sweet Hereafter non è affatto oltraggioso chiamare rock sykedelico. eannate 2009, 2010 e 2011 hanno dato straordinaria evidenza a quattro compositori che nel pensiero, nell’immaginazione e nelle passioni dello spirito occidentale hanno lasciato un segno incancellabile, traccia di un’eruzione vulcanica. La loro arte ci parla con voce penetrante e talora sotterranea (così i due d’annata 1810, Fryderyk Chopin e Robert Schumann, fratelli di sangue, talvolta tanto simili da illuderci di un reciproco travestimento), oppure con eloquenza che ha eco, risonanze e colori nel mondo, nella Natura, nella civiltà del vivere e delle relazioni umane (così il più anziano Felix Mendelssohn, classe 1809, e il più giovane Franz Liszt, nato nel 1811). Ai due consanguinei, nati nell’anno centrale della terna, si associano i due collocati agli estremi di un aureo progetto: la bellezza, la visione del sublime. Ma le aggregazioni e distinzioni tra i quattro evangelisti della «romantic generation», come l’ha chiamata Charles Rosen, sono molteplici. Schumann e Liszt furono entrambi fertili in ambito epistolare, diaristico, saggistico, critico (Schumann, anche in ambito poetico e narrativo), mentre Chopin e Mendelssohn ci hanno lasciato quasi soltanto lettere, poche e quanto mai sobrie il primo, più numerose ed effusive il secondo. Studioso solitario e autentico, Claudio Bolzan osserva da molti anni i quattro compositori, e li collega secondo un’altra, ennesima variante d’aggregazione: Schumann e Mendelssohn, legati in difficile sodalizio nel segno di Dresda e del Gewandhaus, poi una coppia femminile parallela,Clara Schumann e Fanny Mendelssohn, e due amici dal destino più in penombra, Bargiel e Burgmüller. Eccellente ricercatore, Bolzan cura una generosa scelta di lettere e di documenti mendelssohniani. Rispetto al poco (sia pure prezioso) edito in Italia, fra cui spiccano i Diari 1843-1844 di Robert e Clara Schumann, la scelta di Bolzan è un cospicuo e intelligente contrappeso. I 74 testi, allineati lungo la biografia di Felix Mendelssohn (Amburgo, venerdì 3 febbraio 1809, Lipsia, giovedì 4 novembre 1847) sono raggruppati dal curatore in tre blocchi, a suggerire la struttura formale di un II tempo di sonata: Preludio ed esposizione (viaggi, incontri, amicizie, 1816-1830), Intermezzo (dall’Italia a Lipsia, 1830-1835), Ripresa (tra Lipsia e Berlino, 1836-1847). La prima lettera della raccolta (Berlino, 6 febbraio 1816) è di Lea Salomon, madre di Felix, al diplomatico e scrittore svedese Carl Gustav von Brinkman, e dà ragguagli sui progressi scolastici del fanciullo prodigio. La seconda (Weimar, 6 novembre 1821) è del dodicenne Felix al padre, e narra, con rapimento controllato e limpida raziocinante prosa, del primo magico incontro con Goethe (Felix scrive "Göthe"). La penultima (Thun, 7 luglio 1847) è anche l’ultima di Felix, che raffrena, scrivendo alla sorella Rebecka, il proprio infinito dolore per la morte di Fanny, uccisa da un ictus il 14 maggio di quell’anno, e alla cui memoria Felix avrebbe composto tra agosto e settembre quella sorta di eccelso Requiem che è il Quartetto in Fa minore op. 80. L’ultima lettera del volume (Lipsia, 25 novembre 1847) è di Ferdinand David (1810-1873), dedicatario del Concerto in Mi minore per violino, al musicista inglese William Sterndale Bennett (1816-1875), e parla della morte di Mendelssohn, ancora una volta in seguito a un ictus, e degli atroci dettagli della sua agonia. © RIPRODUZIONE RISERVATA Felix Mendelssohn Bartholdy, «Tendere alla perfezione», lettere scelte e documenti, introduzione, traduzione e cura di Claudio Bolzan, Zecchini, Varese, pagg. 196, € 20,00.