Firenze e l’Alchimia (terza parte) “Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste che contempleremo beati l’eccellenza del genere nostro”: così scriveva nel suo “De Immortalitate animorum” Marsilio Ficino facendo intuire quanto i suoi studi l’avessero portato vicino ai temi trattati nel “Corpus Hermeticum”. Il Ficino aveva capito fosse importante cercare di “catturare” le correnti astrali per aiutare l’anima a compiere un tale percorso. L’assioma “come in alto, così in basso”, così ben esposto da Ermete Trismegisto nel suo Manoscritto arrivato alla Corte Medicea nel 1460, riproponeva ancora una volta la stretta relazione che esiste tra macrocosmo e microcosmo, tra l’Alto e il Basso, tra il Divino e l’Umano. Quelle stesse argomentazioni furono esposte dal Ficino nel “De Vita”, tre libri composti in tempi diversi, ma stampati insieme nel 1489 e dedicati a Lorenzo il Magnifico. Le prime due opere mettevano in luce il principio su cui si basava la medicina medievale e cioè che i pianeti presiedono non solo ai temperamenti umani, ma anche ai minerali, alle piante ed agli animali e che, in base alla dominante planetaria di ciascun elemento, si poteva intervenire sul soggetto con metodi di cura adeguati. Nel terzo libro, “Come attingere la vita dal cielo”, il Ficino affiancò alle prescrizioni mediche anche oggetti materiali o talismani a forma di stella, capaci di mettere in contatto l’uomo con un universo fatto di corrispondenze armoniche: i talismani, sollecitando gli influssi planetari, operavano guarigioni dagli effetti sorprendenti. La Magia e l’Astrologia, strenuamente combattute dalla Chiesa Romana di quegli anni, ottennero una nuova dignità. La “magia”, esposta dall’insigne filosofo, consisteva nel sapiente uso e dominio di “forze” che sono nel cosmo e che - se 1 sapute sapientemente dirigere ed organizzare - potevano facilitare la “via al Paradiso”. Magia, dal greco “magheia” è la Scienza e arte dei Magi e per Mago s’intendeva il Sacerdote, vero depositario di tale Conoscenza. Marsilio Ficino, ricordato come il “maggior huomo che abbia avuto Fiorenza” fu anche il più grande traduttore ed interprete della Dottrina Ermetica e fondatore dell’Accademia Neoplatonica nella Villa Medicea di Careggi: qualifiche che testimoniano quanto la sua cultura spaziasse su tutti i campi. Tra le numerose Lettere da lui scritte, va ricordata l’“Epistola della prosperità fatale quale dalle stelle riceviamo”, indirizzata a Lorenzo il Magnifico, la quale riconfermò le sue profonde conoscenze in campo astrologico affrontando un tema nuovo che apriva ad ampie comprensioni: lo stretto legame esistente tra le virtù morali e l’influsso dei pianeti quando questi si dispongono favorevolmente. Che la Famiglia Medici tenesse in grande considerazione la scienza astrologica, lo conferma l’affresco eseguito sul soffitto a volta che sovrasta l’altare della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo. La cupolina absidale della Cappella, dedicata a San Giovanni Evangelista, riproduce la posizione esatta che i pianeti e le costellazioni avevano in cielo il giorno 4 luglio del 1442. Questa data è stata determinata “con assoluta certezza”- come riporta Gioia Mori nella rivista Art Dossier “Arte e Astrologia”- dopo gli ultimi restauri eseguiti intorno al 1986 con l’aiuto dell’Osservatorio astronomico di Arcetri. L’evento che si era voluto immortalare aveva a che vedere con la visita a Firenze di un personaggio che la storia non sempre ha saputo mettere ben in luce: il conte Renato d’Angiò, duca di Bar e di 2 Lorena, re di Napoli e di altri numerosi e prestigiosi titoli. Tra le sue qualifiche più importanti risaltano il titolo di re di Gerusalemme, “Guardiano del Santo Sepolcro”, Gran Maestro del Priorato di Sion e Gran Maestro dell’Ordine della Mezzaluna che fondò nel 1448. Quest’ultimo Ordine, aveva come emblema una mezza luna d’oro che pendeva da una collana dello stesso metallo composta di gigli e stelle. Sulla mezzaluna vi era impressa la scritta “Loz”, un’antica parola francese che racchiudeva in sé la frase ermetica “loz en croissant” cioè “lode crescendo in virtù e in meriti”: un cavalierato speciale che si basava sul combattere “per l’amore di Dio”. Questo suo impegno Renato d’Angiò l’aveva già dimostrato quando nel 1428 si batté al fianco di Giovanna d’Arco, la giovane Pulzella d’Orléans che per niente diversa dai Cavalieri Templari, si fece eroica paladina di Cristo per riportare sul trono di Francia Carlo VII suo erede legittimo. Renato d’Angiò affiancò Giovanna nella sua “missione divina” accompagnandola nel castello di Chinon per incontrare il futuro re, combattendo con lei a capo del suo esercito e presenziando alla consacrazione del Delfino di Francia avvenuta il 7 luglio 1429 nella Cattedrale di Reims. Il “Bon Roi René”, così chiamato per la grandezza del suo animo e la forza della sua fede, lottò al fianco di Giovanna d’Arco in nome della “croce” di Cristo, che entrambi portavano con orgoglio sul loro cuore. Doveva essere ben forte l’amore che lo legava a quella croce perché di lì a pochi anni volle introdurla nell’emblema della sua Casata. Accanto ai gigli d’oro in campo azzurro, simbolo araldico di purezza virginale, incorruttibilità e Forza Divina, volle porre la Croce patriarcale o a “doppia traversa”: una croce rossa bordata d’oro formata da un’asse verticale e da due orizzontali. 3 La piccola traversa superiore voleva ricordare il “titulus crucis” - INRI l’iscrizione fatta porre da Pilato sul capo di Gesù al momento della sua crocifissione, mentre la seconda più grande centrale riconduceva al momento in cui Gesù Cristo - morendo per la salvezza dell’Umanità - distese le braccia su quel legno, in un ultimo supremo abbraccio. Le conoscenze ermetiche di Renato d’Angiò però andavano oltre a quelle del mondo dell’Araldica, perché la sua appartenenza al Priorato di Sion, assimilato all’Ordine Templare, lo avevano preparato ad un Sapere profondo che spaziava dalle lettere alla musica e alla pittura. Roi René venne ricordato oltre che come coraggioso condottiero, anche come mecenate illuminato, scienziato, economista e fine letterato, conoscitore di ben sei lingue, tra cui il greco e l’ebraico. Qualità che non meravigliano più di tanto visto che nell’elenco segreto di coloro che parteciparono a quel Priorato di Sion appaiono “membri distinti” appartenenti all’Antico Ordine Mistico Rosae Crucis e nomi di alchimisti famosi come Jean de Gisors e Nicolas Flamel, ai quali in seguito si affiancarono Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci e tanti altri personaggi del mondo culturale italiano ed europeo. Cosimo il Vecchio doveva essere dunque a conoscenza del valore morale e culturale di Renato d’Angiò per commissionare a Giuliano d’Arrigo, detto Pesello, quel gioiello di “ E m i s f e ro c e l e s t e ” c h e riproduceva la sua data d’arrivo a Firenze. Lo spaccato di cielo che si riflette sulla piccola cappella absidale sottostante, sembra mettere in evidenza non solo la sacralità del momento, ma anche la seg retezza del luogo. Durante gli ultimi restauri è stata rivelata una minuziosa preparazione dei tracciati sui quali furono posizionate le costellazioni: una precisione di calcoli astronomici e 4 matematici che solo un grande astronomo come Paolo dal Pozzo Toscanelli poteva eseguire. La tenda arrotolata e tenuta stretta da nastri dorati, posta intorno a quel pezzo di volta celeste, rende ancora più pregevole l’affresco e fa pensare ad un sipario che si apre inaspettatamente verso il Cielo permettendone una visuale che va al di là dell’ordinarietà: la proiezione verso un mondo Divino che ricorda quanto le stelle possano interagire con determinati eventi. La pregevole realizzazione di quella pittura a secco su fondo di azzurrite e rifiniture in foglia d’oro, fa capire l’importanza del momento che si era voluto ritrarre ed immortalare. Fu in quegli anni che Cosimo il Vecchio cominciò ad inviare in tutto il mondo alcuni suoi fedeli uomini di corte con il compito di ricercare antichi manoscritti. La ricerca a quanto pare risultò molto felice perché già nel 1444 fu fondata la prima biblioteca di Firenze, la Biblioteca San Marco, nella quale vennero raccolti testi astrologici ed ermetici che condensavano la “summa” del pensiero pitagorico e neoplatonico. Di lì a pochi anni sarebbe arrivato anche il “Corpus Hermeticum” a rendere più feconda quella Conoscenza. Il legame della Famiglia de’ Medici con Renato d’Angiò si fece ancora più stretto quando il nipote del conte angioino fu inviato a Firenze affinché potesse apprendere la tradizione ermetica presso l’Accademia Neoplatonica di Careggi. Quindi, un’amicizia profonda che portò tra la Casata de’ Medici ed i dignitari Angioini non solo buoni rapporti, ma anche pregiati doni. Infatti nel 1465, in un inventario di gioielli e rarità collezionate da Piero de’ Medici nel Palazzo di Via Larga, venne resa nota la presenza di una reliquia di grande valore, il Reliquario del Libretto: “una sorta di piccolo polittico con una parte fissa centrale e due 5 triplici ante laterali che si aprono a libro”, contenenti le sacre reliquie della Croce della Passione di Gesù Cristo, contornate da una serie di perle alternate a rubini. Sul retro, un’iscrizione in francese che ricorda il nome di Re Carlo V che dona a Luigi d’Angiò, suo fratello, il Reliquiario. Anche in questo caso vi è un richiamo alla sacralità della Croce di Cristo ed al valore della Casata d’Angiò che riuscì ad entrare in possesso di quei preziosi frammenti. Secondo la Tradizione cristiana la croce di Cristo fu ritrovata a Gerusalemme nel IV secolo, grazie ad un intervento di scavo ordinato dalla Regina Elena, madre di Costantino, nell’area del Golgota. Dentro ad una grotta furono rinvenute tre croci insieme ai chiodi della Passione ed al “titulus” INRI impresso su legno: Gesù Nazareno, Re dei Giudei. Teodoreto di Cirro del V secolo, r a c c o n t a ch e f u i l ve s c ovo d i Gerusalemme Macario a stabilire quale delle tre croci fosse quella di Gesù Cristo adottando un metodo semplice, ma sicuro. Macario - narra Teodoreto - “fece sì che una signora di rango, che da lungo tempo soffriva per una malattia, fosse toccata da ognuna delle croci, con una sincera preghiera, e così riconobbe la virtù che risiedeva in quella del Signore. Poiché nel momento in cui questa croce fu portata accanto alla signora, essa scacciò la terribile malattia e la guarì completamente.” Da quel momento la Regina Elena fece porre la Croce in un reliquiario d’argento, custodito nella chiesa del Vescovo di Gerusalemme ed esposto periodicamente ai fedeli seguendo una ritualità che prevedeva d’inchinarsi davanti a quel “sacro legno”, toccarlo con la fronte e con gli occhi, poi baciarlo ed allontanarsi senza averlo sfiorato con le mani. Purtroppo la Croce nei secoli successivi subì varie vicissitudini e dopo il suo trafugamento, avvenuto nel 614, riapparve a Gerusalemme intorno al 1009 6 al tempo della prime Crociate e da quel momento fu gelosamente conservata nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Ma non mancarono nemmeno episodi in cui la Croce veniva portata al di fuori di quella Basilica. Infatti si racconta che Arnolfo di Malecorne, patriarca latino, prima di ogni battaglia solesse marciare alla testa del suo esercito portando con sé la “sacra reliquia”, simbolo di immortalità e di vittoria. Secondo fonti storiche, prima che la Croce subisse nuovi trafugamenti, ne vennero staccati dei frammenti ed alcuni di questi giunsero anche in Occidente. Nel 1241 fu Luigi IX, re di Francia, ad entrare in possesso di quelle reliquie ed a far costruire a Parigi la Sainte Chapelle per custodirvi quella preziosità. Nella seconda metà del XIV secolo Carlo V di Francia commissionò ad un valente orafo il Reliquiario del Libretto, che doveva contenere quei sacri frammenti, per regalarlo al fratello Luigi duca d’Angiò. Sembra che intorno al 1382 il conte Luigi abbia portato quel sacro cesello di oreficeria in territorio italiano, ma stranamente di quel Reliquiario se ne persero le tracce fino a che non ricomparve nella seconda metà del XV secolo, presso la Casata de’ Medici e precisamente sull’altare della Cappella di Palazzo Medici Riccardi. Piero de’ Medici seppe proseguire nel fastoso mecenatismo iniziato dal padre, attingendo da quella stessa aria umanistico-ermetica che si respirava a corte. Si devono a lui le più antiche collezioni medicee di gioielli, pietre dure e la commissione di opere d’arte di grande raffinatezza. Le sue capacità politiche e culturali lo portarono ad ottenere grandi onorificenze che dettero ancora più lustro alla casata Medicea. Tra queste si ricorda quella concessagli nel 1465 da Luigi XI, Re di Francia. 7 Il monarca francese accordò a Piero de’ Medici il privilegio di introdurre nella stemma di famiglia il “bisante” azzurro caricato di tre gigli oro, originariamente appartenuto ai d’Angiò. Chissà che non sia stato in quell’occasione che la famiglia Medici ricevette anche il prezioso Reliquiario del Libretto, oggi conservato nel suo pregiato involucro nel Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore? Lo stemma mediceo da quel giorno si avvalse di questa nuova e prestigiosa acquisizione carica di una simbologia ermetica che ben si sposava con il numero dei “bisanti” (così nominati perché ricordavano le monete d’oro dell’Impero bizantino) presenti nello stemma di famiglia. Passeggiando per Firenze non deve meravigliare se si scorgono stemmi medicei con numero diverso di “palle” (il nome con cui i “bisanti” vennero poi chiamati). Cosimo il Vecchio ne adottò otto, il figlio Piero sette e Lorenzo il Magnifico sei e quello posto alla sommità dello stemma fu caricato con le insegne reali di Francia. Non dimentichiamo che siamo in un periodo storico in cui la Dottrina Ermetica aveva validi riferimenti nella numerologia pitagorico-kabbalistica e nella simbologia, quindi anche quei numeri e quella forma sferica trovavano una precisa identificazione secondo quel Sapere. In seguito a questa considerazione, possiamo adesso comprendere che il vero significato delle “arme medicee” non può trovare relazione con le ipotesi poco credibili che fino ad oggi sono state formulate su questo argomento. Intanto invece che di “palle” medicee si potrebbe parlare di “sfere” medicee. La sfera è un solido geometrico che i Greci conoscevano bene e che nei secoli è stato arricchito di importanti simboli metafisici. Parmenide paragonò il mondo ad una sfera e la stessa cosa fecero i pitagorici, caricandola di simbolismi che riconducono al concetto di totalità e di perfezione. La scuola Neoplatonica sapeva conservare quelle intime, mistiche conoscenze ed ogni simbolo velava un importante messaggio da trasmettere. 8 Nel Corpus Hermeticum, Ermete Trismegisto quando parla della risalita dell’anima verso il Regno Divino, accenna ad un progressivo “spogliamento” della sua veste terrena, per innalzarsi di “sfera in sfera” verso stati di coscienza sempre più perfezionati. La strada per realizzare tutto questo è sempre la stessa: crescere in amore e virtù e trovare una “guida” che può condurre alle porte della vera Conoscenza. “La sola salvezza per l’uomo è la conoscenza di Dio” afferma Ermete Trismegisto nelle prime pagine del suo Trattato. Parole vere che trovano la loro conferma e spiegazione nella risposta che Gesù Cristo dette ai suoi discepoli durante l’ultima cena: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.”(Giov.14:6) Un’ulteriore testimonianza per far capire al mondo che solo portando Gesù Cristo nel cuore si possono vincere tutte le battaglie e salire “di sfera in sfera” verso il Regno del Padre. “Cristo solleva Adamo ed Eva dalle tombe” Basilica di S. Salvatore in Chora a Costantinopoli 9 10