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ScripTAG Prima edizione – I dieci racconti finalisti
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Questi racconti sono di proprietà dei legittimi autori, pubblicati nel Forum del sito www.scriptavolant.org,
in licenza creative commons, per la partecipazione al concorso ScripTAG.
L‟e-book contiene i dieci racconti scelti, tra i 63 pervenuti alla prima edizione del concorso, dal
gruppo di lettura formato da:
Attilio Facchini
Eleonora Lo Iacono
Guido Oliva
Marco Caudullo
Mirko Floria
Tra questi verrà scelto il racconto vincitore, che sarà pubblicato in un libretto edito dalla casa
Editrice 18:30 Edizioni, distribuito in tutta Italia e nelle migliori fiere del libro.
E-book realizzato da Eleonora Lo Iacono
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Dicembre 2009
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Per contatti: [email protected]
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REGOLAMENTO DEL CONCORSO
1.ScripTAG è un concorso letterario per racconti, per partecipare al
quale è sufficiente la registrazione gratuita al Portale ScriptaVolant.org.
2. Il concorso è gratuito e viene organizzato una tantum da Scripta
Volant in collaborazione con la casa editrice 18:30 Edizioni.
3. I racconti devono inediti e devono avere la lunghezza massima di
11 cartelle (20.000 battute, spazi inclusi) e comunque non inferiore
alle 15.000 battute. Ogni autore potrà partecipare con un solo
racconto
4. Per partecipare al concorso, gli utenti, entro il 30 OTTOBRE 2009 dovranno inserire il proprio
racconto, all'interno del forum ScripTAG
5. A insindacabile giudizio della redazione, potranno non essere ammessi racconti che abbiano un
contenuto pornografico e/o offensivo (e quindi, eliminati dal concorso e dal Forum). Le verifiche
dei racconti vengono fatte durante tutta la durata del concorso. Allo scadere del termine per l'invio
dei racconti, la Redazione comunicherà eventuali squalifiche, per quei racconti che non abbiano
rispettato uno o più punti del regolamento.
6. I racconti pubblicati potranno essere letti e commentati da tutti gli iscritti al portale, che abbiano
partecipato al concorso e da tutti gli altri.
7. Gli utenti che abbiano partecipato al concorso sono tenuti a commentare gli altri racconti in gara.
8. I racconti dovranno essere letti e commentati con assoluta lealtà e schiettezza. La redazione si
riserva di annullare quei commenti che siano in contrasto con questi requisiti.
10. Il racconto vincitore verrà pubblicato a cura della casa Editrice 18:30, in un libretto della collana
TAG e distribuito nelle librerie fiduciare della casa editrice e promosso nelle migliori fiere del libro.
Partecipando al concorso gli autori acconsentono a cedere a titolo gratuito il diritto di
pubblicazione, riproduzione, diffusione e distribuzione al pubblico, all‟interno del libretto realizzato
da 18:30 Edizioni. A Scripta-Volant è riservata la scelta del tipo di veste grafica. Tale concessione
si intenda valida per tutto il periodo di distribuzione. Concede, altresì, ove lo ritenesse necessario, il
diritto di utilizzare estratti dal racconto a fini pubblicitari e promozionali, in qualsiasi modo e
forma.
11. Attraverso il portale Scripta Volant e altri mezzi, verrà comunicata la data di presentazione della
pubblicazione.
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9. Un comitato di lettura, composto dalla Redazione Scripta Volant e 18:30 Edizioni, sceglierà il
vincitore. L'esito verrà comunicato attraverso il portale http://www.scripta-volant.org e altri mezzi
pubblicitari. Verrà inoltre realizzato un e-book, con tutti i racconti partecipanti, scaricabile
gratuitamente dal portale http://www.scripta-volant.org, per facilitare la lettura agli utenti e alla
giuria che valuterà i racconti in gara
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12. Ogni autore dichiara che il proprio racconto è un‟opera originale di sua esclusiva paternità, che
non viola alcuna norma di legge e/o diritti di terzi e in particolare, non ha né forme né contenuti
denigratori, diffamatori o di violazione della privacy. In caso contrario, l'autore ne sarà l'unico
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13. Partecipando al concorso, gli autori accettano tutti gli articoli del Regolamento.
Tags è la loro prima collana.I Tags sono racconti di 16 pagine che contengono tre approfondimenti relativamente alle
tematiche trattate.
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18:30 pubblica con licenza Creative Commons
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I progetti legati a questo portale seguono il principio della condivisione libera e dell'elaborazione della scrittura,
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18:30 edizioni nasce come piccola casa editrice con l'intento di valorizzare scrittori esordienti e non,
attraverso la pubblicazione di racconti particolari, capaci di lasciare un segno nella memoria di chi li legge.
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Cafe Jan Neruda
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di Laura Ruzickova
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Praha, Novembre 1989
Mi piace venire a rifugiarmi qui, vicino a Vyšehrad, nei luoghi delle mie origini, lontano dalla
Grande Storia e dai palazzi che esibisco pochi chilometri più a nord, là dove la Moldava è stata
incoronata dalle impareggiabili arcate del Ponte Carlo. Qui ritrovo la mia antica magia selvatica, a
tratti animale, che mi rende capace di conoscere, se lo voglio, ogni particolare della vita, ed ogni più
recondito pensiero di chi riesce a stuzzicare la mia curiosità. La magia funziona poco in questo
mondo frenetico e triste, ma vorrei davvero che finisse bene, come le fiabe, questa storia che
comincia da molto lontano, da un‟epoca in cui il Café Jan Neruda aveva ancora l‟aspetto e la grazia
di una casa di bambole.
Lì, nel Giugno del 1929, si incontrarono Alena Vávrová, e Sandro Biagi. Lei era molto bella, anche
se aveva assassinato le sue chiome color miele bruno con un terrificante taglio alla garconne. Lui
era un giovane studioso di storia dell‟arte, e si trovava a Praga da due mesi, per una ricerca sulla
pittura boema minore del XIX secolo.
Alena notò l‟aspetto fascinosamente latino di lui. Sandro intercettò l‟occhiata di lei, e, con italica
prontezza, attraversò la sala, esordi, in un ceco quasi perfetto, con un
- Lei permette signorina? –,
e si sedette di fronte alla ragazza. Lei permise, e, da quel giorno, non si separarono mai più.
La palazzina Liberty dove si trova il Café Jan Neruda non è più color avorio. Decenni di
riscaldamento a carbone hanno stratificato sulla facciata una tinta grigia sporco.
Una figura femminile che entrando nel locale.
Ho già visto capelli simili. Ho già visto fiori simili. La ragazza tiene con entrambe le mani un vaso
di cristallo leggero come un soffio. Nel vaso, tre rose giallo pallido.
So che lei ha vent‟anni, e che il suo nome è Alena, lo stesso di sua nonna materna. So perché lei si
trova qui. So perché lei, seguita dallo sguardo lievemente incuriosito dello svogliato barista, si
dirige verso uno dei tavolini, occupato dall'unico cliente in sala.
E'uno studente, quasi di sicuro, ipotizza Alena, alla vista del grosso volume aperto sul tavolo, e del
blocco fitto di appunti dal quale lui alza uno sguardo neutro, che lascia trasparire un certo fastidio.
Stronzo, pensa Alena, mentre lui continua a fissarla in quella maniera indecifrabile.
Sembra nemmeno si sia accorto che sono una donna, pensa Alena, che si sente troppo bassa e
culona, e non si vede bella.
-Dovrei sedermi al tuo tavolo – butta là, dura e brusca come ogni volta che si sente in imbarazzo. Non ho bisogno di compagnia – risponde il ragazzo, seccato – sto studiando. –
Forse non era questa la risposta da dare, dubita subito dopo. Lei non ha detto “vorrei“, ma “dovrei“.
Forse si è sbagliata, perché parla ceco con una cadenza strascicata, piazzando un paio di accenti al
posto sbagliato. Straniera ?
- Veramente dovrei restarci da sola. – replica lei, e, questa volta, gli accenti sono giusti.
- Proprio qui. – fa lui, percorrendo con un‟eloquente occhiata il locale deserto.
Con fatica riesce a trattenere quel sorriso che rivelerebbe alla sconosciuta che lui si è accorto che lei
è piccolina, ed a lui, stangone, non sono piaciute mai, che ha fianchi opulenti, ed a lui, secche, non
sono piaciute mai, Con fatica riesce ad impedire al proprio sguardo di perdersi in quegli occhi
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Praha, Agosto 1979
mediterranei, che ora lo stanno apertamente sfidando. Senza proferire verbo, chiude il libro ed il
blocco, li mette in una specie di tascapane, si alza, riallinea la sedia al tavolo con diligente
precisione.
- Prego – scandisce, e, prima di andarsene, batte i tacchi, ed esegue un inchino impeccabile.
Alena vorrebbe pensare, nuovamente, “ stronzo “, ma, suo malgrado, pensa “ peccato “, mentre la
porta del locale si chiude dietro a Viktor.
La ragazza colloca il vaso con le rose al centro esatto del tavolo, ed ordina due caffè. Turchi,
specifica, non espresso.
Forse spera che il tipo ritorni, suppone il barista. Fossi in lui non me la lascerei scappare una così,
una che è meno che bella, perché è bassetta, e ha i fianchi un po‟ abbondanti, una che è molto più
che bella, perché, quando l‟hai guardata una volta, non riesci a toglierle gli occhi di dosso ….
In quel momento lei finisce il caffè, e gli chiede il conto. Paga anche l‟altra tazza, quella che è
rimasta lì, intatta, a perdere aroma e calore. Quando se ne va, si porta via anche il vaso di fiori .
“ Coglione “ pronuncia, fra i denti, il barista, rivolto a Viktor.
“ Coglione “ gli faccio eco, ma con classe, come solamente una dama come me sa fare.
Non è poi così coglione, mi correggo. Viktor ha approfittato di un portone lasciato aperto, e si è
appostato nell‟ombra. Quando Alena esce dal Café Jan Neruda e sale verso Vyšehrad, lui la segue a
distanza.
Lei entra nel cimitero monumentale dove sono sepolti i grandi artisti, ai quali devo molta della mia
gloria, ed una parte della mia anima. Sosta per qualche minuto accanto alla tomba di Jan Neruda, il
sommo scrittore che ha saputo raccontarmi così bene. Con la solennità di un‟antica sacerdotessa,
depone il vaso sulla lapide.
- Ecco fatto, nonna – sussurra, ed esce dal cimitero.
Alena gironzola lungo le rovine delle mura di Vyšehrad, poi si ferma su una piccola terrazza.
Guarda giù, verso la roccia dalla quale Horymír, in groppa al suo cavallo Šemík, saltò nella
Moldava, e, con quel balzo ben oltre i limiti dell‟impossibile, scampò ad un‟ingiusta condanna a
morte. Ricordo ancora com‟era bello, mentre, sghignazzando, riemergeva, illeso, dalle acque del
fiume, ricordo i suoi occhi azzurri, brillanti di gioia selvaggia, mentre lui fuggiva, incitando Šemík
al galoppo.
Viktor si avvicina, si blocca ad un passo da Alena. Non sa come attaccare discorso, esita. E‟lei che
gli rivolge la parola.
- Secondo te – domanda, indicando la roccia, - si è buttato davvero?
- Conosci la leggenda – constata Viktor
- Mia nonna me la raccontava sempre – lei risponde, assorta.
Lui tace.
- Allora? – insiste Alena – Ci credi, o non ci credi? –
I due giovani si sono avvicinati l‟uno all‟altra, le loro mani si sfiorano appena. I loro sguardi,
invece, rimangono avvinghiati.
- Se ascolto il mio istinto – risponde Viktor – ci credo. Poi, però, uso la ragione …
- Usi sempre la ragione? – mormora lei.
- No. Non sempre - ammette lui, seguendo l‟ovale del viso di Alena con una lentissima carezza.
Dovrei ritrarmi, ora, di fronte a quel primo bacio che sboccia quasi timidamente. Dovrei, ma la mia
vanità non resiste.
Sono stata cantata da poeti e dipinta da artisti ma nulla valorizza il mio fascino come gli sguardi
degli innamorati che, dopo essersi baciati, alzano gli occhi verso il mio cielo, e poi, tenendosi per
mano, camminano per le mie strade meravigliandosi di ogni mio angolo. Ad ogni loro passo io
rinasco, riacquisto la pura e spietata bellezza delle fanciulle, ad ogni loro promessa di eterno amore,
io ritrovo le speranze e le illusioni che la Storia mi ha tolto quasi del tutto.
- Perché tua nonna non è andata in Italia? – domanda Viktor, quando Alena finisce di
raccontargli il primo incontro dei suoi nonni, e i primi tempi del loro amore.
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- Mio nonno era un antifascista – risponde Alena – e i dirigenti della sua organizzazione gli hanno
fatto sapere che era ricercato, che rischiava la galera, o peggio. Così ha trovato lavoro in un museo,
ed è rimasto qui. Anche mia madre è nata qui. E‟ cresciuta perfettamente bilingue, ha fatto da
interprete a un gruppo di italiani, e ha conosciuto mio padre ~.
- Allora è stata lei a trasferirsi in Italia? –
- Sì, lei. Io sono nata a Milano, ma sono venuta a Praga ogni estate a trovare i nonni ~.
- Dove abitano i tuoi nonni? –
- Non ho più i nonni – risponde Alena – mio nonno è morto due anni fa, e la nonna … - la nonna tre
giorni fa.
Non sa che dire Viktor. Di fronte alla morte le parole giuste vengono a mancare.
- Tua nonna … ehm… ha a che fare con quel vaso? - Era il suo ultimo desiderio – risponde Alena – mi ha domandato di comprare un vaso e le rose, di
andare al Café Jan Neruda, sedermi al tavolino nell‟angolo in fondo a sinistra, mettere i fiori davanti
a me, e ordinare due caffè, in memoria del giorno in cui ha conosciuto mio nonno. Infine dovevo
portare i fiori sulla tomba di Jan Neruda.
- E come faceva tua nonna – domanda Viktor – a sapere che il locale esisteva ancora, e che c‟era un
tavolino nella stessa posizione? –
- Ha controllato, prima – risponde Alena – era un tipo preciso.
Grazie, signora tipo preciso, pensa Viktor. La storia della famiglia di Alena si è intrecciata con i “
t‟appartengo “, sussurrati prima di baciarsi ancora, e ancora, si è fusa con i “ per sempre” ripetuti
lungo il cammino che ha portato Viktor ed Alena dapprima fuori da Vyšehrad, poi verso quella
periferia, non più campagna, non ancora città che segna i miei confini.
I due giovani si fermano di fronte alla porta di una delle poche casette singole sopravissute fra file e
file di casermoni.
- Io abito qui – dice lui, e la voce gli trema, mentre aggiunge – I miei sono in vacanza.-.
- Non mi inviti a bere qualcosa? – risponde Alena, piano.
Riconosco all‟istante quei capelli anche fra la moltitudine che, in questi giorni gremisce le strade e
le piazze, agita mazzi di chiavi, coltiva l‟ennesima delle speranze che ho visto nascere e morire,
combatte, questa volta senza sangue, l‟ennesima delle battaglie che ho visto vincere e perdere.
La chioma, sciolta sulle spalle, è un poco più corta, un poco più ordinata, ma sempre di quel color
di miele di bosco. Alena è un poco dimagrita, ma molti uomini si dimenticano di essere protagonisti
di uno storico cambio di regime, e smettono di inneggiare a Václav Havel per scambiarsi commenti
su quei fianchi mediterranei.
Se solo, ieri sera, pensa Alena, se solo ieri sera che so, mi fossi alzata a rispondere al telefono, non
avrei visto il primo piano del viso di Viktor, in diretta da Praga sul tiggì nazionale, edizione delle
ore diciannove, ed il suo urlo - Aleeeenaaaa,!!!! Ti amoooo ! - Il “ ti amo “, a scanso di qualunque
equivoco, lo ha urlato in italiano. Se solo la mia amica Martina facesse, che so, l‟impiegata al
catasto, e non la giornalista in folgorante carriera per una testata nazionale, la mia immediata
telefonata si sarebbe risolta in un nostalgico sfogo, e lei non mi avrebbe detto – cavoli mi hai
beccata per un minuto, sto andando proprio a Praga, sta succedendo di tutto, là -, e io non le avrei
risposto – vengo anch‟io – ma buttandola lì, come uno scherzo. Se solo Martina non fosse un‟amica
vera, di quelle che ti capiscono più di quanto tu capisca te stessa, non mi avrebbe proposto:
- Se hai il passaporto in regola, e se ti spicci, passo a prenderti. L‟aeroporto è chiuso per nebbia, a
Praga ci vado in macchina, mica me lo perdo questo incarico, così ci diamo anche il cambio a
guidare. Per il visto un modo lo troviamo, intanto arriviamo almeno alla frontiera.
Il destino mi stava dando segnali impossibili da ignorare, perfino la nebbia ci si era messa, e ho
detto, - Ok, Martina, ti aspetto -, ho buttato due cose in uno zaino, ho arraffato il passaporto e tutto
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Praha, Novembre 1989
ScripTAG Prima edizione – I dieci racconti finalisti
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Ero restata con lui, mi ero fatta ospitare da una cugina di mia nonna, e all‟inizio mi sembrava tutto
meraviglioso, amavo Viktor, lui amava me. Mentre io mi perdevo nei sogni, lui aveva mosso un
pezzo grosso dell‟ufficio immigrazione, aveva convinto i suoi genitori a lasciarci la stanza che era
rimasta libera quando il fratello di Viktor si era sposato, mi aveva perfino trovato un posto in un
negozio di cristalleria.
Tradotto, dovevo fare la commessa, e vivere con i miei suoceri. La madre di Viktor aveva già
lanciato frecciate sulla mia inettitudine per i lavori domestici, e sulla mia italica passionalità,
probabile fonte di infedeltà coniugali.
Me la sono fatta sotto, lo ammetto, e sono scappata come una ladra, senza nemmeno avere il fegato
di dirglielo in faccia a Viktor, piantandolo dalla sera alla mattina con un biglietto “ Ti amo tanto, ma
devo rifletterci. Scriverò “.
E ho scritto, dopo tre mesi, il tempo di capire che non ce la facevo a vivere senza di lui, e per
fortuna che ho aspettato la risposta, prima di fare le valigie. Per poco non ci sono rimasta secca,
quando ho letto che lui aveva un‟altra, che la aveva messa incinta, e che stava per sposarla. Credo di
essere sopravissuta solamente grazie alla rabbia, e ho tirato avanti, per dieci anni ho tirato avanti,
ma che tipo attivo è Alena, dicono di me, perché da dieci anni mi invento ogni sorta di impegni,
perché da dieci anni, ogni volta che mi fermo, mi chiedo se mi appartiene davvero, questa vita.
Abbiamo fatto Milano –Praga in nove ore, dogane comprese, contro le normali dodici, tempistica da
Formula Uno, nonostante il nebbione nel tratto iniziale del percorso.
Al confine cecoslovacco sono stati velocissimi, un‟occhiata ai passaporti e via, i visti non li hanno
nemmeno chiesti. Il mondo intero, in questi giorni, vuole venire qua, a Praga, a vedere cosa stanno
combinando con questa Rivoluzione di Velluto.
Siamo arrivate in albergo alle cinque di mattina, meno male che la redazione aveva prenotato delle
camere, volevo partire subito alla ricerca di Viktor ma Martina mi ha imposto di dormire almeno
un‟oretta, e poi di mettermi un po‟ decente, mica ti fai vedere da Viktor conciata così, ha detto, e
aveva ragione, perché, guardandomi allo specchio, mi sono chiesta se quel rottame con borse da
mezzo metro sotto gli occhi fosse davvero la stessa donna che, ieri sera alle sei, era uscita
dall‟ufficio in cappottino sciccoso e tacco dodici, ed era corsa a casa a cambiarsi, perché alle otto e
mezza doveva uscire a cena in un locale trendissimo con il fidanzato debitamente strafico, e
debitamente danaroso, perfetto esemplare di gioventù rampante di questa fine anni ‟80.
Continuo a seguire Alena mentre lei si fa largo, ed esce da Piazza San Venceslao.
Non lo troverò mai, qui in mezzo, pensa lei. Ho fatto un casino, sono partita lancia in resta, mi sono
bruciata i ponti alle spalle, e, adesso mi ritrovo con il nulla davanti. Porca vacca, hai trent‟anni
Alena, è ora di crescere, forse, se trovi un qualunque mezzo per tornare a casa fai ancora in tempo a
rimettere tutto a posto, il tuo fidanzato ti perdonerà, il tuo capo, magari crederà che hai avuto, che
so, l‟influenza, cosa speravi, che Viktor fosse ancora lì da ieri sera, ad aspettare te, e adesso dove lo
cerchi? Al posto della sua vecchia casa hai trovato un altro di quei casermoni grigio tristezza,
sull‟elenco del telefono il suo nome non c‟è, e adesso, cosa fai? Ti metti ad urlare “ Viktor “ in
mezzo alla strada?
Alena arriva fino alla riva della Moldava, e cammina per un po‟ in direzione di Vyšehrad. Poi si
ferma, guarda l‟acqua, e, a mezza voce, per non farsi sentire, per non passare per matta, chiede a
quella pigra ed antica corrente:
- Tu, tu lo sai dov‟è ? –
Il fiume non le risponde.
- Tu, tu lo sai dov‟è ? – lei ripete.
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il contante che avevo. Almeno arrivo alla frontiera, come ha detto Martina, e se non mi fanno
entrare pianto un casino, altro che carri armati russi nel ‟68, io lo passo quel confine, costi quel che
costi, perché Viktor mi ama ancora, anche se l‟ho lasciato come una stronza, anche se lui, a ben
vedere, ha ricambiato alla grande.
Questa volta lo ha chiesto a me, ma nemmeno io posso parlarle, vorrei poterlo fare, vorrei che lei mi
sentisse, perché io so dov‟è Viktor, lo vedo, fermo nello stesso punto in cui lui ed Alena si sono
scambiati il primo bacio.
Sono pazzo, pensa Viktor, guardando la roccia, sono pazzo, ma in questi giorni siamo tutti pazzi, ci
viene da ridere e da piangere insieme, siamo tutti usciti dai nostri gusci, ci stiamo tuffando in questo
bagno di libertà, e tutte le regole sono saltate, così, quando ho sentito uno che parlava italiano, da
dieci anni mi giro quando uno parla italiano, l‟ho guardato, mi sono accorto che era uno speaker, e
che di fronte a lui c‟era una telecamera con su scritto Rai, Radiotelevisione Italiana, mi sono detto
che in giorni come questi tutto è possibile, che, magari, la vita ti può perfino rimettere in mano le
carte che hai sprecato, che, forse, Alena, in quel momento, lo stava vedendo quello speaker. Allora
mi sono piazzato dietro di lui, ho tirato fuori tutto il mio fiato, ed ho urlato – Aleeeenaaaa, Ti
amoooo ! – perché io la amo ancora, anche se sono stato un coglione.
Dovevo avere pazienza, adesso che ho trentaquattro anni lo capisco che per lei non era facile, era lei
che doveva cambiare vita, nazione, abitudini. Non ho compreso che lei ha avuto paura, a vent‟anni
si crede di spaccare il mondo, ma in realtà si è spaventati da tutto come conigli.
Dovevo saperla aspettare, invece si è fatta avanti Zuzana, era da anni che mi faceva il filo, ed ha
assunto il ruolo della consolatrice. Era bella, e un uomo non è fatto di legno, specie a ventiquattro
anni, specie se si sente preso in giro e ferito nell‟orgoglio.
La lettera di Alena è arrivata quando, da pochi giorni, Zuzana, aveva già scoperto di aspettare un
figlio da me. Ho scritto ad Alena qualche riga fredda, secca, un taglio netto. La mia vita doveva
prendere un‟altra direzione, sarei divenuto padre, la mia giovinezza è finita il giorno in cui ho
imbucato quella busta con un indirizzo italiano.
Tre anni fa, quando la mia ex moglie si è innamorata di un altro uomo, non sono stato capace di
portarle rancore. Non l‟ho mai amata, e lei ha diritto di essere felice. Ci siamo lasciati senza traumi,
da persone civili.
Sono arrivato qui quasi senza rendermene conto, senza sapere bene perché, forse per una specie di
riflesso pavloviano, o per nostalgia, o per semplice voglia di farmi del male.
Sì, sei davvero scemo Viktor, magari quello speaker non era in diretta, e hanno tagliato la mia
favolosa performance, oppure parlava in diretta ma Alena non stava guardando la TV, o, cosa più
realistica e probabile, mi avrà anche visto, ma non le frega più niente di me.
O forse sì, forse mi ama ancora, tu che dici, Horymír, tu che ti sei giocato il tutto e per tutto in un
secondo di grandiosa follia, e ce l‟hai fatta, amico, magari ce l‟ho fatta anch‟io, ieri sera, magari
Alena mi ha sentito, e tornerà da me, perché una donna razionale, non pianta baracca e burattini per
un urlo trasmesso in TV, una donna razionale non lo fa, ma Alena, Alena sì che ne sarebbe capace.
Sì, ma dove torna? La mia vecchia casa non esiste più, e da quasi due anni litigo con quelli dei
telefoni per fare mettere sull‟elenco il mio nuovo numero...
Calma, Viktor, calma, non sei sparito dalla faccia della terra. Se vuoi farti trovare da Alena, devi
fare qualcosa di più costruttivo di un grido attraverso l‟etere. Potresti tornare nel tuo vecchio
quartiere, molte persone che ti conoscevano sono rimaste lì, basta dare a qualcuno l‟indirizzo e il
numero di telefono. E, visto che sono da queste parti, perché non provare a lasciare un messaggio al
Café Jan Neruda? Sta cadendo a pezzi, quel posto, ma è ancora in attività, forse ad Alena verrà in
mente di tornarci.
Anzi, ci vado subito. E tu, Horymír, fai il tifo, mi raccomando.
Anch‟io faccio il tifo, vorrei dirgli.
Alena ha continuato a camminare verso Vyšehrad. Nei suoi occhi noto con piacere un lampo
battagliero.
Non sarà scomparso nel nulla, pensa Alena, adesso, bella mia, smetti di girare come una trottola
impazzita, e ti organizzi. Intanto torni dove abitava Viktor, forse qualcuno si ricorda di lui, e chiedi
in giro, invece di scappare in lacrime come stamattina, poi, visto che sei quasi a Vyšehrad, potresti
fare un salto al Café Jan Neruda, e lasciare un messaggio, chissà mai che lui, ogni tanto, non ci
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capiti, sempre che quel posto sia ancora aperto.
Se lo è, mi ci bevo un bel caffè e mi tuffo nei ricordi. Magari trovo Viktor oggi stesso, magari
proprio al Café Jan Neruda, ma sarebbe chiedere davvero troppo alla sorte.
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No, non sarebbe troppo Alena, vorrei dirle.
Avessi le dita, le incrocerei.
Avessi le dita, toccherei legno.
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Epiclesi, invocazione
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di Paolo Stelluti
°Commenta questo racconto
“L‟uomo che ha scritto quei nomi sul muro […], e che è morto già da una ventina d‟anni, non
fotteva per fottere: fotteva per scrivere…”
-Sebastiano Vassalli“I libri spostano le persone più dei viaggi, più degli anni”.
-Erri De Luca“Per lottare, c‟è bisogno di una nuova mitopoiesi, […] oggi ci occorrono mitologie aperte,
interattive, nomadiche, nuovi folk heroes, e waldgangers, ma anche inedite situazioni comunitarie.”
- Luther Blissett
“le cose che mi piacciono di più sono quelle nate dall‟errore”
-PuckI
Le sue dita sulla mia pelle. Le sue dita come magre zampe di ragno. Indipendenti l‟una dall‟altra.
Ho la debolezza delle similitudini, e mi piacciono le sue mani delicate su di me.
Mi chiamo Ginevra, ventisette anni, entomologa. Adoro fare fotografie.
Lui è esattamente come lo disegnavo sui vetri appannati dei treni per Milano: una sagoma
indefinita. Lui è un dio prigioniero in un sogno bidimensionale.
E‟ marzo, il mio silenzio mentre lo guardo dormire è un‟isola d‟inverno.
La mia casa prima di lui era una sacca stagnante, un‟ansa d‟intestino, l‟estrema periferia del
disordine. Ora vi convivono un cielo di velluto, biologia e jazz, e ponti sonori per avvicinare la mia
solitudine al mondo.
Abbiamo passato un‟intera serata a disegnare a memoria gli intrecci astratti e policromi delle
quattordici linee metropolitane di Parigi. Un‟ascesi geografica.
Come un cambiamento di pelle.
Dopo aver fatto l‟amore adoro sdraiarmi su di lui quando dorme a pancia in giù. Siamo due croci
sovrapposte.
Ora dorme, e in lui ora c'è sicuramente una foresta di abeti che ricopre una montagna, o forse un
bosco innevato.
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II
ScripTAG Prima edizione – I dieci racconti finalisti
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III
Lui è ingegnere del suono presso un piccolo studio di registrazione.
Una sera è tornato da me con in mano un paio di orecchini: due lunghe e sottili catene con
all‟estremità due piccole lune turche.
Mentre li indossavo, si è seduto sul tappeto accanto al letto ed ha inserito nel lettore cd una bozza
del lavoro che stava ultimando.
Mentre lui ascoltava assorto con la testa fra le mani, le dita delicate a coprire gli occhi, ho estratto
dall‟involucro del disco un foglio con degli appunti:
“Saturare i suoni, tutti i suoni, ognuna delle venticinque bande di frequenza governate
dall‟equalizzatore.
Saturare le urla, i bassi, gli assoli, in un impasto ai limiti della comprensibilità, dell‟intelligibile.
Comunicazione satura, un‟accusa alla non-comunicazione.
Saturare il concetto stesso di musica, riportando le melodie all‟essenzialità primordiale
(gregoriana/monodica) di un‟unica nota, al pulsare imbarazzante di un‟unica nota, come un SOS
ossessivo lanciato in morse dal marconista di una nave”.
Discorso fratturato, occhi rotti. Volti gonfi. Movimenti isterici e inerziali. Questo è l‟inferno del suo
mondo sonoro. Lui stermina sistematicamente ogni tipo di passato musicale.
In quello che produce ci sono soltanto suoni coniugati all‟indicativo presente. Il presente malato dei
suoi movimenti, del suo modo disinibito di percepire il presente. Il presente del suo corpo magro ma
deciso.
La nostra è una storia che non ha storia, che vive di silenziosi si, di quotidiani forse, e dei no resi
evidenti dall‟assenza.
La nostra storia è qualcosa di molto primitivo, come l‟urlo che esce spontaneo dall‟esofago quando
ci si sveglia da un incubo. Come la sua musica.
IV
Conosco quattro lingue, di cui tre apprese negli ostelli dell‟Europa del nord.
Le mie carte geografiche sono rappresentazioni parziali della realtà: prediligono certe zone,
riportano vuoti inspiegabili, hanno strade interrotte o troppo complicate, percorsi invertiti.
Esorcizzo le mie ansie attraverso la musica. La musica maestosa. La musica che spiazza. La musica
è per me la capanna dello sciamano in cui le angosce si tramutano in remote visioni, e vengono
relegate nei domini dell'onirico, dell'immaginifico.
Mentre ascolto il suo disco, mi scrivo insulti sulle piante dei piedi, sfrontati tatuaggi precari, per
mostrarli solo a chi mi vedrà dormire, o nuda, o morta.
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V
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15
VI
Lui invece odia la musica. Si immerge ininterrottamente e per giorni interi nei pruriti sonori dei
sorprendenti personaggi che frequenta. Riesce a tramutare ogni loro suono in qualcosa di mai
sentito, qualcosa che ti lascia sempre con la fronte corrugata come ad esprimere un dubbio, o uno
stupore indefinito, e con un commento impastato nella bocca, che non puoi pronunciare né
deglutire.
Ogni volta che termina un lavoro, ha bisogno di rifugiarsi fra le montagne del Piemonte, fra quelle
genti gioviali e rispettose, ma che all‟occorrenza sanno essere brusche o silenziose.
Un pezzo di pane morsicato insieme ad un avanzo di toma aromatizzata al ginepro. Il rumore
dell‟ultima neve fresca dell‟anno che si posa sulla neve calpestata, ereditata dall‟inverno e, grave
come un accordo d‟organo, il rumore del vento che attraversa le pietre antiche e impregnate di fumo
di questi muri a secco.
Lui è così: ama questi sapori aspri, queste assenze, questi stralci di esistenza essenziale.
In queste valli i dialoghi sono bruschi monosillabi dialettali, infarciti di risate improvvise,
esclamazioni e di dieresi.
VII
Sono spettri catodici
quelle facce che non dormono
o che dormono male.
Può uno psicanalista spiegare
il perché delle stagioni
e della meteoropatia
l‟amalgamarsi degli elementi,
la poesia dell'acqua
l‟intercambiabilità delle parole?
Mi piace la sua densità, mostruosamente maggiore della mia.
Mi piace il guizzare improvviso dei suoi bicipiti nervosi quando decide di abbracciarmi.
Mi piace fare l‟amore con lui, perché dopo l‟amore, mentre io dormo, lui scrive poesie.
Ora lui sta scrivendo, io fingo di dormire e fra questi freddi muri di pietra c‟è odore di mandarino…
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Nuove sensibilità fotografiche,
nel luogo fisico
dove avvengono le idee,
dove si formano i desideri.
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16
VIII
Scendendo lungo questo sentiero poco battuto, verso il fondovalle, cerco con gli occhi i passi
dell‟andata, sapendo l‟impossibilità di ricalcare proprio le mie orme fra le tante che increspano la
superficie della neve.
Mi fermo a riprendere fiato su un pianoro che tra qualche mese sarà pascolo: da qui si possono
vedere distintamente i profili rannuvolati della Malfatta, e del Ludwigshoe.
Lui mi aspetta sorridendo, qualche passo più a valle.
Mentre cammino ripenso ai suoni di parole come "articolazioni": parole crepitanti di r, l e t, come
fuochi da campo, fuochi estivi accesi in radure sole e silenziose. Mi piace immaginare forme inedite
per disegnare i suoni, e non i significati delle parole. Nessuno ha mai fotografato le parole.
Canticle: Lips of Foam
Drinking wine,
eatin‟ delikatessen…
my painful loneliness
because of your loneliness
because of the painful drawning
of your foamy soul.
Ginevra I drive
like a camel in the desert,
my smile like its ever-chewin‟ mouth.
Talvolta mi chiedo se sia innamorata dell‟idea che ho di lui, piuttosto che della sua persona. Da
qualche giorno non lo vedo, e stranamente non mi manca la sua fisicità, ma i suoi pensieri. I suoi
pensieri stupiscono ogni volta: lo capisco dal suo sguardo, che mi dirà qualcosa che assolutamente
non esisteva prima nel mio orizzonte.
Talvolta lui sembra vivere in un mondo geometrico, in cui contano le traiettorie che spingono le
persone l‟una verso l‟altra, o le allontanano, in cui le persone non hanno un peso, un odore, un
sapore, ma possiedono solo traiettorie nello spazio con le loro intersezioni matematicamente
determinabili, e velocità.
Ecco il suo vero tormento: la velocità. La velocità delle persone, del loro conoscersi, del loro
annusarsi animale, del loro modo incurante di lasciarsi…
La sua musica è veloce, come i suoi pensieri, sempre oltre un limite diverso.
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IX
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17
X
Tornata in città, ho cercato di risolvere il problema, scomponendolo in problemi sempre più piccoli,
e ancora più piccoli, tanto che infine non ne è rimasto nulla.
Forse il problema era proprio questo vuoto, quest‟assenza.
XI
Ogni tanto rincaso, e lo trovo sdraiato sul letto, lo sguardo fisso in alto, quasi l‟espressione
inconscia di un‟esigenza.
E non si accorge dei miei occhi azzurri che ridono, e che hanno riso per tutta la strada del ritorno
aspettando di vederlo, e non si accorge del mio spogliarmi, e dei miei piedi nudi, veloci e leggeri sul
pavimento.
E finalmente mi guarda, con quel suo sguardo di sale, ma è come se guardasse oltre me, oltre le
pareti, la città, oltre il cielo.
E allora avrei bisogno di una musica triste, ma forse non basterebbe. E allora mi rintano nella mia
metà del letto, senza nemmeno sciogliermi i capelli, e tutto ciò che voglio è dormire, e rubare un
po‟ di calore alle coperte.
E lo sento, dietro le mie spalle, che non si accorge, e si arrotola una sigaretta lentamente, e
l‟accende distratto.
E ho freddo, non riesco a scaldarmi. E non so a cosa stia pensando, non so nemmeno se stia
pensando o se fumi solamente.
XII
XIII
Gli piace il mio collo, talvolta lo vedo che armeggia con la mia macchina fotografica per cercare di
fissarlo sulla pellicola.
E‟ un‟altra delle sue ossessioni, il culto dei dettagli.
Spesso si fissa sui particolari: quando mi bacia un ginocchio, o i capelli, tutto il resto non conta più.
Sembra che non ami me, ma i dettagli che mi compongono.
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Lui mi sembra voglia vivere in quel suo mondo bidimensionale, quel suo mondo fondato sulla
sopravvivenza a tutti costi di quella rabbia indefinita e pronta ad esplodere alla prima occasione,
cosa che lo trasformerebbe in un potenziale terrorista, se solo fosse meno pigro, meno refrattario ai
cambiamenti.
Il problema – mi dice – è che abbiamo troppi vincoli, troppi legami.
Talvolta vorrei non possedere nulla, non conoscere nessuno, per non avere niente e nessuno da
perdere.
Questo è il motivo della mancanza di eroismo in quest'epoca.
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18
Oggi siamo stati insieme sotto il tiglio accanto all‟università.
Mi chiedeva, per te l‟amore è qualcosa di fisico o... "o di
metafisico?", ho continuato io. Gli ho detto che per me è qualcosa di metafisico. Lo credo davvero.
È celeste, è l‟Ideale, poesia, Dio, meraviglia infinita.
Ha sorriso, sicuramente ha capito ciò che intendevo, ma il suo sorriso voleva banalizzare le mie
parole.
XIV
In fondo questo è il mio diario, e mi rendo conto ora di aver parlato quasi solo di lui.
Mi piacciono i suoi gesti economici e precisi mentre guida, i suoi sorpassi calcolati.
Della persona con cui fai l‟amore, dovresti riuscire a prevedere ogni mossa.
Quando gli ho detto di andarsene ha indossato quel suo sorriso sarcastico e se n‟è andato. Mi ha
lasciato quasi tutta la sua roba. L‟avevo previsto. Per lui contano solo la sua rabbia nichilista, e le
sue strane mitologie.
Stare con lui era un‟esistenza senza trama, un minimalismo fatto di dettagli slegati, momenti,
immagini, suoni, negazioni.
Un diario è un‟epiclesi, un‟invocazione, una preghiera pagana al nume protettore dei propri
desideri.
E i miei desideri li teneva in ostaggio lui.
XV
Flebile,
il dubbio d‟esserci
nel nostro racconto
fumoso e sbiadito
un‟entropia di molecole.
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Ho scritto decine di storie tutte simili tra loro, quasi volessi inconsciamente perfezionare un‟idea
che ho dentro, l‟idea di bacio, di libro, di tragitto, l‟idea di amore, l‟idea di geometria, l‟idea di
vuoto, l‟idea di separazione.
Chi ha letto le mie storie mi ha risposto “scrittura entomologica”.
Che abbia ereditato da lui l‟idea che una trama non possa esistere, e che le vite siano soltanto
somme di momenti, un‟accozzaglia di atomi di elementi diversi aggregatisi casualmente?
E allora, di tutte queste persone, queste storie apparentemente diverse l'una dall'altra, cosa resta?
Forse il silenzio sospeso dei libri.
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Ho vinto al superenalotto
19
di Enrico Tordini
Era una notte di settembre, ma pareva luglio. Aria appiccicosa ed umidiccia che ti avviluppa e ti
prende alla gola, come se un invisibile psicopatico volesse strangolarti. Chiaramente è in una di
quelle serate che ti accorgi di aver finito la birra. Apri il frigorifero, poi lo chiudi e poi lo apri
ancora, come se in quei dieci secondi potesse essersi materializzata una bottiglia che prima non
c‟era, scuoti la testa sconsolato, poi sbatti lo sportello della credenza, controlli ancora e mandi
un‟ultima, sanguinosa bestemmia: è proprio finita, inutile insistere.
Allora afferri il coraggio a quattro mani e prendi atto di doverti recare presso il circolino Arci,
l‟unico locale aperto nei paraggi per cui non ci sia bisogno di prendere l‟auto. Infili un paio di
scarpe da tennis, dei calzoncini da mare tutti spiegazzati, una maglietta lurida, ti alzi dal divano del
tuo bel soggiorno con l‟aria condizionata e ti immetti nella calura estiva. Per la strada gente che si
muove come fosse al rallentatore: vecchietti a frescheggiare, gente che porta il cane a fare la
pisciatina serale, volti che portano stampati l‟aria stravolta di chi è tornato dalle ferie ancora più
stanco e nevrotico di quando era partito. Solo i cinesi, fanno eccezione, e corrono e ridono, paiono
personaggi di Alice nel paese delle meraviglie.
Il circolo Arci è all‟inizio di una via senza sfondo. Si trova lì da sempre, che io ricordi. Insegna
sfondo bianco, scritta in rosso, manifesti di dibattiti e sagre paesane attaccati alla bacheca esposta
fuori, accanto alla porta, scritte oscene sulle attitudini orali ed anali di Tamara e Barbara sul muro,
numeri di cellulare, cicche sul marciapiede, auto parcheggiate di traverso, motorini in ogni dove,
olio sull‟asfalto ancora caldo, proveniente dall‟officina dei fratelli Conti, che si trova dall‟altra parte
della strada. Due casermoni ai lati, finestre aperte, luci al neon, uomini in canottiera sul balcone. Un
quartiere popolare, nel senso peggiore del termine.
Dietro a circolo c‟è un campo, un canneto ed un ruscello che scorre e che porta un po‟ di gracidio
delle rane. L‟unico segno che “qua una volta era tutta campagna”, come dicono i vecchietti
rincoglioniti. Guardo l‟ora: le 23,50, mancano giusto dieci minuti a mezzanotte, faccio appena in
tempo. Le sedie di plastica rossa sono vuote, i pensionati sono già andati via. I motorini
appartengono ai ragazzi del quartiere, ma adesso saranno tutti nel parco a farsi qualche canna. Entro
e sbatto gli occhi: la luce è accecante.
Il mobilio è nuovo e sfavillante, il bar lo hanno riammodernato lo scorso anno. Peccato, c‟era quella
bella aria da anni ‟70 che lasciava un bel gusto in bocca, dai tavolini in moplen alle sedie in
similgiunco. Adesso sono solo tavoli Foppa Pedretti ,sui quali c‟è una copia della Gazzetta dello
Sport, sparsa qua e là, ed una dell‟Unità che sembra intonsa. Si vede che non la leggono più
neppure qui, ti vien da pensare. Dentro ci sono solo Fernando, il banconiere, ed il Razzoli, un
pensionato di zona. Non si sente volare una mosca.
“Ciao Enrichino, hai finito la birra? Eheheheh”. Il buon Fernando, mi conosce da quando sono nato.
Sarò sempre “Enrichino”, per lui. Continua a trattarmi come quando avevo quattro anni e mio
nonno mi portava lì a prendere il leccalecca. Adesso dovrebbe essere sulla settantina, forse il
prossimo anno lascerà l‟incarico, si sente dire. Nel corso dei decenni sono cambiati soci, presidenti,
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amministratori, ma Fernando, l‟unica istituzione, è sempre rimasto al suo posto. Da quando è
rimasto solo, cioè da quando sua moglie è morta, e sono più di dieci anni oramai, il ruolo di
banconiere non è mai stato portato all‟ordine del consiglio. C‟era Fernando, e basta, di cosa si
doveva parlare?
Fernando che, quando lo metti all‟angolo e gli fai notare le incongruenze della linea del PD ( già DS
e già PDS ), se la cava sempre dicendo: “oh te, D‟Alema unn‟è mica un bischero, se fa ccosì un
motivo ci sarà…”. Non è convinto nemmeno lui, ma da buon vecchio soldato rimane fedele alla
causa.
Altri tempi quando quello a non essere un bischero era tale Enrico Berlinguer. Allora Fernando
lanciava le fiamme dagli occhi, ed anche qualche bottiglia, se era il caso. Ma i tempi cambiano.
“Senti, m‟è rimasto la Peroni, la Nastro Azzurro. La Ceres l‟ho finita, e anche la Heineken” mi dice
la sua voce da sotto il bancone. Rispondo che la Nastro Azzurro va benissimo, e lui riemerge, con
quell‟espressione inebetita da nano di Biancaneve.
“La Ceres ne n‟hanno portate dù casse stamani ma l‟ho già finita, con questo caldo berrebbero
anche il piscio. Poi c‟è què ragazzi che la fanno fori come nulla”. Eh si, basta andare a fare una
passeggiata nel parco la mattina, per vedere dove finisce la Ceres. Anzi, dove finiscono le bottiglie
della Ceres, perlomeno quelle che non spaccano e usano a mò di chilum.
Il Razzoli, intanto, è sempre sbracato sulla sedia, a leggere l‟allegato della Gazzetta. Oramai deve
pesare ben oltre un quintale. E‟ sempre stato robusto e alto, ma negli ultimi tempi è ingrassato a
dismisura. Lo ricordo ancora quella sera di Giugno del 1984, quando morì Berlinguer, mentre
organizzava il pullman per partecipare ai funerali. Nonostante avesse più di sessanta anni, già
allora, passò tutta la notte attaccato al telefono con l‟agenzia di viaggio e la sede del PCI di Tivoli,
laddove c‟era da lasciare il bus per prendere il treno, dato che in centro era interdetto causa
eccessivo traffico.
“Razzoli, Razzoli… beato te, che tra un po‟ tu muori e tu smetti di tribolare”, gli sparo sul grugno,
tanto per farlo incazzare.
“T‟ha ragione, mi levo di culo e la smetto di patire, almeno”, mi rispose mesto.
Silenzio totale. Mi aspettavo, ci aspettavamo, la solita sfuriata, specialità in cui il nostro eccelle, da
sempre. Roba del genere scongiuri e corna, e una risposta tipo: “Tu morirai te, io sto proprio bene”,
ma anche “vaffanculo te e la maiala che la ti mise al mondo”. Ci guardammo perplessi, io e
Fernando, senza sapere che dire. Fu lui a rompere il ghiaccio.
“Che scherzi o fai sul serio? Che hai qualche cosa?”
“Certo che ho qualche cosa”, rispose l‟omaccione.
“Sta tranquillo, oggi si curano, aspetta a disperarti. Eppoi tu sei anziano, le cellule le si riproducono
con minore velocità…”
“No… ma i „cche v‟avete capito? E un ce l‟ho i canchero, almeno per ora”
“Allora icchè tu hai?”, gli chiesi.
“Ho vinto ai Superenalotto”, sospirò.
Ci guardammo perplessi per la seconda volta in meno di un minuto.
“T‟ha vinto ai Superenalotto?”, chiese Fernando.
“Si”
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“Aspetta. Enrichino, tira giù la saracinesca, io abbasso le luci, un voglio rompicoglioni proprio ora,
fammi capire icchè bolle in pentola”.
Così afferrammo due sedie, ci piazzammo di fronte a lui, e Fernando lo incalzò:
“Ci dici come le stanno le cose? Quanto tu hai vinto? Che hai fatto sei?”
“No, cinque più uno. Comunque ho preso quasi 800.000 euro”.
“E tu vorresti morire invece che essere contento?”, dissi.
“Dovrei essere contento secondo voi?”
“T‟ha vinto de bei soldi, non capisco perché tu voglia morire”.
“Vero, perché tu vorresti morire?”
Ci scrutò come se fossimo bestie rare. Sospirò. Prese il pacchetto delle Nazionali senza filtro, ne
accese una, ed iniziò a parlare:
“Cominciai a giocare alla Sisal nel 1948, appena l‟inventarono. Sessant‟anni fa. Ho sempre giocato,
poco ma ho sempre giocato. E anche la lotteria di Capodanno. Qualche volta anche il Totip. Mai
vinto nulla, mai. E si che facevo l‟operaio in filatura, quante volte ho sognato di averci quattrini per
comprarmi le macchine e mettermi per conto mio. Mannò, sempre senza una lira. E compra la casa,
e compra la macchina.. sempre a firmà cambiali. E ora? Ho 86 anni e avrò fiato pé altre tre caàte, e
ti vo a vincere 800.000 euro. Un miliardo e mezzo. Ora. Me lo spieghi icchè me ne fo, ora?
Potevo vincerli sessanta anni fa? O anche cinquanta o quaranta? Ma anche trenta o venti… fossi
andato in pensione con un bel conto in banca mi potevo levare qualche soddisfazione, ma ora?
Icchè me ne fo, ora? Direte voi: e allora perché tu giochi? Non lo so nemmeno io, ecco…..”
“Oh bimbo, tu c‟ha sempre dù figlioli e dù nipoti, almeno ti levi la soddisfazione di sistemare loro,
no? Se tu sai che c‟hanno un conticino tu crepi più tranquillo, no? Sperando che succeda tra altri
venti anni, sia chiaro”, osservò Fernando, quasi riflettendo a voce alta.
“Ma quanto tempo è che tu hai vinto?”, gli chiesi.
“Più d‟un mese.. a metà luglio, più o meno..”.
“ E in casa cosa t‟hanno detto? Saranno contenti, almeno loro, no?”
“In casa? Un sanno nulla. S‟immaginano qualche cosa, ma un gli ho detto nulla per ora. Siete i
primi a saperlo, voi due”
“Nemmeno alla tù moglie?”
“No”
“E perché?”
“Perché l‟è rimbambita. Non regge nulla, se glielo dicessi il giorno dopo lo saprebbero anche le mì
figliole e i nipoti”
“Che hai paura vengano a tagliarti la gola mentre tu dormi per prenderti l‟eredita?”, chiesi.
“Te, Enrichino, un tu n‟hai idea di che belve siano quelli lì. A cominciare dalle mì figliole, alla
nipote e al nipote. Credano che sia rincoglionito, e mi garba anche farglielo credere, ma ho sentito
di quelle cose io…”
Fernando si alzò, andò dietro al bancone, si versò un Fernet con due cubetti di ghiaccio, ne preparò
uno anche per noi due e gli domandò: “Icchè tu avresti sentito, scusa?”
“A primi di giugno vennero a cena a casa mia, tutti e cinque, quei manfani”.
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Quando diceva “tutti e cinque”, il Razzoli si riferiva alla sua figlia maggiore, Rita, e a suo marito
Piero, insieme ai due nipoti, Paola e Stefano. La figlia minore, Franca, non si era sposata e prestava
servizio in parrocchia come spigolatrice, cioè suora laica. L‟è bona solo a leccare il culo al prete,
come diceva sempre suo padre.
“E allora?”, chiesi.
“E allora dopo cena andai nell‟orto e mi misi a prendere il fresco sulla poltrona. E feci finta di
appisolarmi. E li sentivo parlare, sai? Loro credevano che il vecchio rimbambito dormisse, invece
un mi scappava una sillaba”.
“E icché dicevano?”. Fernando era incuriosito. Anche io, in verità.
“Parlavano della casa, insieme alla mì moglie. E di cosa farne quando io son morto. E sembrava
anche gli avessero una certa urgenza, sai?”, aggiunse con una punta di rammarico.
Silenzio. Per un po‟ nessuno seppe cosa dire, finché Fernando, sempre lui, cercò di mettere un po‟
di zucchero: “Sai, di certe cose se ne parla, gli è naturale, se tu ci pensi, bene. Però da qui a dire che
gli sperano che tu muoia ce ne corre, eh? In fondo t‟hanno sempre voluto bene, e anche i nipoti
vengano sempre a trovarti, no?”
Il Razzoli lo guardò, come un insegnante può guardare un alunno semideficente: “Vengano a
trovarmi? Certo. Come no? Per natale, per pasqua e quando c‟è il su compleanno, perché sanno che
alla mì moglie gli scappa sempre 100 euro di mancia. Prima venivano anche quando finiva la
scuola, se gli erano stati promossi. Oppure se dovevan comprare qualche cosa. E vengono, vengono.
Quando sanno che casca quattrini vengono sempre.”
“Son tutti uguali dai, non essere pessimista. Se tu hai bisogno su di loro tu puoi contare, lo sai….”
“Certo. Anche l‟ultima volta sono andato dal cardiologo son tornato a casa con il pullman delle
9,30. Eppure la patente ce l‟hanno tutti e cinque, e lo sanno che io non guido più, da quando m‟è
calata la vista. Che l‟ha sentito te uno che t‟abbia telefonato per chiederti se mi poteva
accompagnare? Io no. Ma nemmeno m‟hanno telefonato il giorno dopo per sapere come m‟aveva
trovato il dottore, se la visita l‟era andata bene… su di loro ci posso contare, certo.. sai quando ci
posso contare? Per quando ci sarà il mì funerale. Allora verranno tutti, e piangeranno anche. E
diranno che mi volevan tanto bene, specie quella beghina della Franca, Dio voglia la trovi un
marocchino che se la trombi, un giorno o un altro.”
Espressione fissa nel vuoto, il Razzoli stringeva tra le mani il bicchiere con il Fernet. Gli erano
quasi sbiancate le nocche. Fernando e io ci scambiammo l‟ennesima occhiata. Soffocai un accenno
di risata, anche perché Fernando mi rivolse uno sguardo omicida.“Dai Razzoli, stà tranquillo. Son
così oggi i giovani specialmente. Ma lo sai che il Fransceschini, il guardiano del Palasport, mi
diceva che a Maggio ci fu una conferenza sui cambiamenti climatici di Malvasi, uno scienziato, un
professorone che lavorava nello staff di Rubbia, e che c‟erano 55 spettatori su mille ne poteva
contenere? Ed eran tutta gente dè circoli qui dè dintorni, tutti della nostra età, anno più anno meno,
di giovani ce ne sarà stati cinque o sei. Ora, dimmi te se a noi c‟importa una sega di come sarà il
clima tra trent‟anni che siamo belli stecchiti da un pezzo. Però due settimane dopo c‟era il pulmino
di Canale 5 a cercar gente per Stranamore e il Palasport gli era pieno, c‟era la fila fuori. Dimmi te,
questa l‟è la società in cui si vive, specie giovani un c‟hanno valori, forse l‟è anche colpa nostra…”
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Quando c‟era una situazione d‟impasse Fernando iniziava a parlare, casomai saltando di palo in
frasca, e non la smetteva più. Quella caratteristica gli aveva consentito di evitare tante risse, specie
quando c‟era da votare qualche mozione o da rinnovare il consiglio dei soci.
“Dai, Razzoli… prendila bene, tanto le cose non le cambi”, gli dissi, calandogli una pacca sulla
spalla.
“ E le cambio, Enrichino, le cambio. Anzi, l‟ho già cambiate”.
“Come tu l‟hai cambiate?” Ci aveva presi alla sprovvista. Eravamo fermi come statue.
“Sono stato dall‟avvocato, quando muoio i soldi se li prendono Amnesty International, Medici
senza frontiere e l‟associazione per i bimbi dell‟Ospedale Meyer di Firenze. Se la mi moglie l‟è
ancora viva allora la banca gli riconosce un vitalizio di 1000 euro al mese. Gli lascio la casa, la su
pensione, la reversibilità sulla mia e mille euro al mese, problemi non ne avrà”.
“E le tù figliole?”
“La casa. Quando siamo morti io e la mì moglie. E i soldi che rimarranno in banca, se ne
rimarranno. Altrimenti le fischiano”.
Fernando assunse l‟espressione seria, quella da discorsi solenni:
“Razzoli, le son sempre sangue del tù sangue. Che sei sicuro di quello che tu hai fatto?”, sfiatò,
scandendo le sillabe accuratamente.
“ Le vadano a prenderselo nel culo tutte e due. La bigotta, e quell‟altra, con quel cretino del su
marito. Vota per Berlusconi, lo sai? Tutte le volte vengano a cena comincio a dirne peste e corna, e
lo vedo che mi vorrebbe ribattere, ma non lo fa… vedessi che faccia che fa… e come mi guarda
male”
“Perché gli sta zitto? Non ha il coraggio di discutere?”
“Macchè. L‟è quella stronza della Rita che la gli dice di non prendere discussioni con me. Mi par di
sentirla. Se parla male di Berlusconi lascialo dire, gli è vecchio e scemo, sai… tante le volte gli
frullasse male e casomai trovasse il modo di lasciare la casa alla Franca, e a noi ci rimane un pugno
di mosche, alla fine..”
“Capito”
“Capito? Nemmeno la forza di discutere c‟hanno. Vivono aspettando che crepi per metter le mani
sulla casa, ecco che gente che sono. Ma glielo ho detto ai Magnolfi, che glielo dica, sai? Mi dispiace
solo che sarò morto e di non poter essere presente alla scena”.
Il Magnolfi è un notaio di zona dove, evidentemente, il Razzoli aveva depositato il testamento.
“Cosa deve fare il Magnolfi?” Fernando era ammutolito.
“Quando apre il testamento deve dirgli della vincita e soprattutto che di quei soldi a loro non gli
tocca nulla. Gli rimarrà la casa. Varrà si e no 150.000 euro, oggi come oggi. L‟è vecchia e
bisognosa di lavori, quando la vendono se gli rimane 50.000 euro per uno gli è grasso che cola, te lo
dico io….”
Scoppiai a ridere. “Enrichino, chetati…”
“No, lascialo ridere, gli ha ragione… meglio riderci sopra va…”, sbottò alzandosi ed
incamminandosi verso l‟uscita. “Buonanotte, ci si vede domani”.
“Ciao Razzoli, buonanotte”, rispondemmo ad una voce.
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Quando si fu allontanato dissi: “Vo a nanna anche io, s‟è fatto quasi l‟una. Bona, Fernando”.
“Buonanotte, Enrichino.”
Nessuno di noi aveva voglia di commentare. E, del resto, che c‟era da dire?
Uscii fuori che la calura era molto meno opprimente. L‟aria si stava rinfrescando, decisamente. In
compenso le Nastro Azzurro, a tenerle fuori dal frigo, erano diventate calde come piscio di mulo.
Affanculo, le rimetto in frigo, quando torno a casa.
“Tu m‟ha rotto i coglioni porca p……” L‟urlo spezzò il silenzio. Mi voltai verso l‟alto, doveva
provenire dalla finestra del Bonacchi. Stava litigando con la moglie, come al solito.
Vabbè, passerà la nottata, come diceva quel tale……
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Il primo caso casuale del dottor Porcello
Al funerale di Lina Armenti c‟era pochissima gente, una decina di persone in tutto; talmente
vecchie che faceva fatica a credere che non sentissero la voglia di sdraiarsi lì, accanto alla povera
Lina, e darci un taglio una volta per tutte con funerali, pensioni e malattie. „Ché a una certa età tutto
diventa piuttosto prevedibile e di cattivo gusto‟ pensava.
Non aveva voluto vederla prima che chiudessero la cassa, preferiva ricordarla viva, come ai tempi
della sua infanzia quando, venendo a trovarlo dal paese, gli stringeva le guance grassocce fino a
fargli lacrimare gli occhi di dolore e, con la sua voce roca di sigarette, sibilava: “Bello nipotino
della zia... bello! E che vuole fare da grande questo mio nipote?”.
“Il commissario voglio fare!”.
“Ah, ah, ah” rideva Lina allora, e rideva così forte che a volte cominciava a tossire, quasi
strozzandosi per il catarro.
“Sbrigati! Porta un bicchiere d‟acqua a tua zia, non vedi che soffoca?” gli gridava sua madre,
accorrendo a batterle sulla schiena, e poi: “Lina non dovresti fumare tanto... guarda come ti sei
ridotta... ti verrà un tumore!”.
“Tiè!” faceva allora la zia, mettendole davanti alla faccia un paio di dita gialle e avvizzite di
catrame, ben dritte in foggia di corna scaramantiche.
Mentre il treno correva, riportandolo alla sua vita di sempre, lui pensò che alla fin fine le corna della
zia avevano fatto effetto: li aveva sotterrati tutti, giovani e vecchi, fumatori e salutisti; della famiglia
non erano rimasti che loro due, anzi lui solo adesso. Si accese una sigaretta guardando fuori, la
campagna sfilava squallida, priva di attrattive; lo scompartimento era vuoto, il vagone era vuoto,
anche il suo cervello pareva vuoto. Decise di dormire, tanto per passare il tempo, ma qualcosa lo
infastidiva...
La risata della zia sembrò echeggiare tra i sedili: “Il commissario, ah ah ah!”.
„Fanculo!‟ pensò; non era stata forse colpa della zia se aveva rinunciato al suo sogno? Non era stata
lei e quel suo maledetto ridere che l‟avevano convinto dolorosamente dell‟impossibilità di diventare
commissario? “Fanculo!” ripeté schiacciando la sigaretta con rabbia. Ma si fece subito il segno
della croce, ché la zia era appena morta, in fondo, e... Si alzò, indispettito dal suo aggrovigliarsi su
se stesso; lo specchio di fronte lo inquadrò per un attimo mentre si dirigeva in corridoio. Tornò
indietro e si guardò a lungo, alla luce giallastra della lampadina. Chiunque avrebbe avuto un aspetto
spettrale con quella luce, ma lui no! Anche così era l‟immagine della salute e del benessere: roseo,
paffuto, straripante e con un‟aria allegra e bonacciona.
“Il commissario Porcello!” disse, con un tono sinistro, e poi scoppiò in una fragorosa risata, finendo
col tossire rumorosamente. „Accidenti, come zia Lina‟ si rimproverò dirigendosi alla toilette. “Il
commissario Porcello” sussurrò ancora, camminando, senza più ridere però.
I cognomi della sua famiglia erano bizzarri, da adolescente aveva accarezzato l‟idea che fossero un
residuo di qualche animalesca reincarnazione: Armenti, Passeri, Gatto e poi il suo, il peggiore:
Porcello.
Nato il giorno d‟ognissanti si era beccato anche l‟innovativo e originale Santo come nome di
battesimo. L‟insieme, Santo Porcello, era un buffo connubio di mistico e blasfemo. Con l‟aggiunta
del suo corpo tondeggiante era stato fonte di sofferenze infinite, soprattutto ai tempi della scuola. Porcello, alla lavagna – lo interrogavano gli insegnanti, tra le risa indisciplinate dei compagni;
oppure all‟appello: - Santo Porcello – chiamavano e invariabilmente qualcuno aggiungeva - Prega
per noi – grugnendo subito dopo. E poi c‟erano le battute che correlavano il suo aspetto al cognome
e che, come un‟equazione matematica, risolvevano che solo Santo potesse essere un poveraccio
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di Cinzia Pierangelini
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combinato così.
Ma anche al di fuori della scuola quel cognome era stato un impaccio indecoroso; ormai ci aveva
fatto l‟abitudine però.
Ci aveva fatto l‟abitudine?
“Signor Porcello, l‟ha cercata una signora un paio d‟ore fa...”. Il portiere gli tende un foglietto
spiegazzato e un lampo maligno fa capolino in fondo all‟unico occhio buono, l‟altro è chiuso per
metà come una saracinesca lasciata mezza aperta distrattamente. Ogni volta che il portiere lo vede
sottolinea signor Porcello con una sorta di godimento, come se il trovar un altro che soffre
altrettanto, per una colpa non sua, gli dia una maligna soddisfazione.
- Caro dottore - c‟è scritto sul foglietto, - Fuffy ha di nuovo la diarrea, la prego di telefonarmi
subito, appena torna -.
“Se ripassa le dica che non sono ancora arrivato” bofonchia Santo, tendendo il foglio al portiere e
aggiungendo cinque euro di silenzio connivente.
“Come dice lei, signor Porcello, a disposizione”.
-Ci aveva fatto l‟abitudine? Non era anche per questo che aveva deciso di laurearsi in veterinaria?
Per aver a che fare poco con gli uomini? O era un retaggio che si trascinavano dietro i cognomi
della sua famiglia? Un altro passo in un ridicolo processo di purificazione? Ma alla fine avrebbe
raggiunto uno stadio divino o sarebbe diventato maiale? - si chiese, denudandosi nel bagno, per una
doccia, e osservando le sue molli carni ripiegate in rotoli odiosi. Pensieroso si accese un‟altra
sigaretta e si sedette, nudo com‟era, sulla tazza chiusa. Riflettendo.
Neanche a farlo apposta il suo studio era situato in via Cagna 4; quando l‟aveva comprato, era stato
tentato di porre un limite alla massiccia presenza di nomi bestiali nella sua vita, ma il prezzo era
talmente basso e il locale così perfetto all‟uopo che alla fine aveva ceduto con un sorriso di
rassegnazione.
In fondo, poi, poteva essere anche un richiamo simpatico per l‟ambulatorio „L‟amico Vet per il tuo
Pet, in via Cagna 4‟ e in definitiva gli aveva portato bene: la sua clientela era formata per la
maggior parte da cani, animali che lui adorava indiscriminatamente, prescindendo da razza, età o
carattere. Spesso aveva pensato che, se proprio avesse dovuto trasformarsi in un altro essere, in una
vita futura, avrebbe scelto un cane; sebbene le ultime ricerche dimostrassero senza ombra di dubbio
la superiorità intellettiva dei maiali...
Allo studio stava bene, il lavoro era gratificante, i suoi pazienti lo ringraziavano sbavando e
uggiolando d‟amore come a nessun collega medico era concesso di ottenere e lui aveva tatto con i
padroni: quelli disgraziati e quelli troppo protettivi; come con la signora di Fuffy, per esempio, che
ingozzava il suo piccolo coker di caramelline e dolcini e poi si lamentava per la colite che lo
affliggeva. Con calma olimpica gli prescriveva disinfettanti e diete, ogni volta come fosse la prima.
E poi, piuttosto spesso a dir il vero, arrivava la signorina Barbara...
La prima volta che l‟aveva vista non credeva ai propri occhi: una divinità!
Era stato un sabato uguale a tanti altri, quasi all‟ora di chiusura. A lui dispiaceva andar via
dall‟ambulatorio: lo aspettava un fine settimana vuoto e noioso. Se ne stava seduto in anticamera, a
fumare, aspettando che il tramonto cedesse all‟oscurità, gli piaceva rincasare col buio, a giornata
definitivamente conclusa, quando non c‟era più qualcosa da attendere, qualcosa che comunque non
sarebbe arrivato. Lei era passata davanti al negozio e aveva guardato dentro, facendosi schermo con
le mani: gambe lunghe, nude sin sopra il ginocchio, capelli mossi e scuri, uno sguardo da araba e
labbra... “Oh, le labbra”, ogni volta che se le raffigurava gli si appannavano gli occhiali. Quel
sabato stava ancora riprendendosi dalla visione che l‟apparizione era tornata indietro, entrando.
“Buonasera” aveva sussurrato. “Mi scusi, so che non è orario... Avrei bisogno d‟aiuto, posso
pagarle il disturbo”.
“Ma la prego, mi dica”.
“In realtà non è una cosa urgente, ma mi son trovata a passare e ho pensato” chinandosi tanto da
mettergli davanti agli occhi due piccoli seni sodi e liberi nella camicetta di seta. “Ho pensato che
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magari poteva darmi una mano”.
“Ma anche tutte e due” aveva bofonchiato Santo, avvampando.
“Mi chiamo Barbara”.
“Dottor Porcello, cioè Santo. Santo Porcello” aveva blaterato il dottore, augurandosi di scomparire
all‟istante, fulminato a partire dalla lingua.
“Che nome grazioso” aveva sorriso Barbara, senza battere ciglio.
Avevano parlato per una mezz‟ora buona senza che Santo capisse bene di quale aiuto avesse
davvero bisogno la signorina; in realtà aveva chiacchierato soprattutto lui: del suo lavoro, dei cani,
dell‟ambulatorio, della sua vita triste e solitaria. L‟unica cosa che ricordava avesse detto Barbara era
che le piacevano i cani forti e pericolosi: mastini, rottweiler, dago, pitbull.
Da quella prima volta l‟aveva incontrata frequentemente e in compagnia di grossi cani; li portava in
ambulatorio per visite di controllo e spesso per escoriazioni o ferite più profonde.
Alle sue richieste di chiarimento, timide e gentili, lei rispondeva evasivamente.
“Barbara, ma di chi sono tutti questi cani?”.
“Faccio la dog-sitter, non te l‟avevo detto?”.
“Ah forse, mi pare” rispondeva Santo, cercando nella memoria, ma veniva subito distratto da una
carezza o una moina debitamente elargita dalla dea.
“Ma è pericoloso portare un pittbull in giro senza museruola” l‟aveva rimproverata una volta.
Mentre visitava, aveva udito un guaito penoso e poi le urla disperate di una donna, in sala d‟attesa.
Il pittbull di Barbara aveva cercato di assalire Fuffy: si era mosso in silenzio, approfittando del
lungo guinzaglio e gli era ormai quasi addosso quando quello, con un sesto senso, aveva avvertito il
pericolo e si era messo a strillare come fosse scannato, dando il la anche alla sua padrona. Il tutto si
era risolto con molta paura, molta diarrea di Fuffy e una minaccia di denuncia che subito lui era
riuscito a far abortire.
“Il pittbull non è un cane come gli altri: è pericoloso, è stato inventato per essere pericoloso”.
“Ma questo è il mio cane, mi ubbidisce” aveva ribadito la dea offuscandosi.
“Il tuo cane? Ma non mi avevi detto che era di un signore che”.
“Ti sbagli: questo è mio! Non vorrai saperlo meglio di me?”.
“Va bene, allora fa in modo che ti ubbidisca e non portarlo più, qui, senza museruola, per piacere”.
“Bene!” aveva reagito, con uno sguardo rabbioso e sconosciuto, Barbara.
Da allora era sempre venuta con lo stesso cane, quel pittbull.
Quel pittbull?
Si stava chiedendo questo mentre, accanto alle lunghe, abbronzate gambe della divinità, osservava
un pittbull che gli pareva diverso dall‟ultima volta che l‟aveva visitato. C‟era qualcosa che non
quadrava. Anche il cane lo guardava, fissandogli senza timore gli occhi negli occhi, intimidatorio.
„Sei cattivo‟ pensò; in risposta un brontolio lieve, un‟ipotesi di ringhio.
“Salve” cinguettò Barbara.
“Buongiorno cara, il cane mi pare nervoso”.
“Non sta bene”.
“Buck, qui, vieni Buck” provò a chiamarlo, provocando un consistente aumento del ringhio. “Ma
perché non mi puoi vedere oggi, eh?”.
“Te l‟ho detto: non sta bene”.
“Okay, vediamo cos‟ha questo birbante, mettiamolo sul tavolo, è stretta bene la museruola? Ehi
mica ti ricordavo così feroce!”.
“Sarà per la ferita”.
“Dove?”.
“Lì, all‟interno della zampa”.
“Un morso, è un morso. Chi l‟ha morso?”.
“Cosa posso saperne?!”.
“Ma non è il tuo cane? Non sai chi l‟ha morso?”.
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“Senti, sta in giardino, non lo so chi l‟ha morso...”.
“Be‟ ti comunico che il tuo giardino è mal frequentato: questo è il morso di un grosso cane, forse un
mastino, guarda che lacerazione”.
“Curalo!”.
“Tutto qui?”.
“Ti pagherò, no?”.
Quella era stata la prima volta che l‟aveva vista davvero, l‟aveva vista dentro: gli occhi scuri di
Barbara avevano lampeggiato d‟ira repressa e, dovendo scegliere da chi farsi azzannare, Santo
avrebbe di certo scelto Buck.
Ma era poi davvero Buck? Avrebbe scommesso di non aver mai visto quella macchiolina bianca
alla base del petto; però visitava tanti cani ogni giorno, non ci avrebbe giurato, e poi Barbara ne
aveva portati cinque o sei diversi negli ultimi mesi, eppure...
“Comunque volevo avvertirti che presto cambierò veterinario”.
“Cosa? E perché?”.
“Perché, perché mi trasferisco in un‟altra zona della città, ecco!”. E per la prima volta Santo sentì
una nota di insicurezza nella voce di Barbara, come se avesse dovuto cercare per un attimo la
risposta corretta. „Sta mentendo‟ pensò. „L‟ho fatta arrabbiare con tutte le mie stupide domande;
sono proprio un deficiente‟.
Da quell‟ultima visita la dea non era più tornata.
Per giorni e settimane Santo si ritrovò a sbirciare ingordo tutte le gambe femminili che
ticchettavano sul marciapiede, inutilmente. Pian piano il pensiero, quello sciocco innamoramento
infantile, scemò e lui la dimenticò del tutto. Tornò alla vita di sempre: ai Fuffy, alle orecchie e alle
codine da tagliare, alle leismanie, ai cimurri, ai noiosi vaccini, a stomaci torti, eutanasie e
gastroenteriti. Il tutto condito da sigarette, caffè, pasti mal cucinati, e libri gialli: unica compagnia
eccitante, nel letto freddo, a sera.
La sua vita era talmente vuota che decise di adottare un orario non stop, si rese disponibile, per casi
urgenti, in qualsiasi giorno e orario; questo gli rubava un altro po‟ di quel tempo residuo che gli
avanzava alla chiusura dell‟ambulatorio e che ormai lo avvelenava. Gli capitava così di essere
svegliato in piena notte per soccorrere cani investiti, gatti moribondi o semplicemente padroni
ansiosi e insonni con tanta voglia di chiacchierare. In fondo non gli dispiaceva, il sonno mancava
spesso anche a lui e quattro ciance nel cuore della notte o alle fredde luci dell‟alba lo mettevano in
uno stato d‟animo allegro; si sentiva più utile e meno solo accanto a quelle persone in giacca da
camera, in vestaglia, arruffate e piangenti, che lo attendevano sulla soglia come un salvatore.
Fu proprio uscendo da una di queste visite fuori orario, che incontrò Barbara.
Mancava qualche minuto alle cinque del mattino e la luce chiara era appena spuntata rendendo tristi
i lampioni ancora accesi per la notte. Santo si sentiva sveglio e pimpante a causa dei quattro caffè
che una vecchiettina gli aveva fatto ingollare, durante la lunga flebo che aveva fatto al suo gatto.
Stava per risalire in macchina quando aveva sentito un ticchettio, a qualche metro di distanza.
Scarpe di donna. Col tacco. Alto.
Considerata l‟ora, la minigonna, quel metro di gambe pazzesche, se non avesse avuto un pittbull al
guinzaglio, e senza museruola, Barbara sarebbe di certo sembrata una puttana.
Aveva già aperto la bocca, Santo, per chiamarla, per salutarla, per sapere, chiedere ma la timidezza
aveva ripreso piede in quei mesi d‟astinenza e poi sentiva una sorta di arrabbiatura anche, per essere
stato abbandonato così, all‟improvviso. Lei non lo vide: proseguì oltre, a testa alta.
Aveva appena aperto lo sportello, quindi, scornato come sempre, quando cambiò idea. Altro che
andare a fare la doccia per l‟ambulatorio: l‟avrebbe seguita! Questo sì gli pareva oltremodo
eccitante.
Le si mise dietro, a distanza di sicurezza, caracollando, goffo e grasso, dietro quegli arti perfetti,
misurando il passo con quello sbilenco del pittbull che le trotterellava a lato. „Ma dove andava a
quell‟ora? Portava a spasso il cane? Alle cinque? E vestita così?‟. Via via che la luce fugava i fumi
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della notte, Santo si sentiva sempre più confuso. La vide infilarsi dentro l‟angusta apertura ritagliata
in una recinzione; in quello che pareva, da fuori, un cantiere. Indeciso, aspettò un paio di minuti e
poi la imitò... con qualche difficoltà a causa della giacca che s‟impigliava nel filo spinato. “Ma dove
diavolo va?” borbottò, tirando con tutte le forze la stoffa e strappando un bel pezzo di giacca. La
vedeva da lontano, doveva aver aumentato l‟andatura, si stava dirigendo verso una specie di
capannone: c‟era un uomo ad aspettarla davanti alla porta. Barbara entrò e la porta si chiuse dietro
di loro.
Santo era rimasto fuori, decisamente. Fuori.
Si guardò la giacca strappata, era tutto sudato per la camminata, sconvolto dalla notte insonne; si
vide come dall‟esterno: ma che aveva fatto? Mettersi a inseguire una vecchia cliente? E se l‟avesse
visto? Che razza di figura! Perché, poi? Perché quella signorina gli piaceva? Perché quelle gambe e
quelle labbra se le sognava, ancora, la notte?
“Sei un porco, Porcello” si rimproverò, tornando sui suoi passi.
Ci andò quasi a sbattere contro, ché se ne stava a testa bassa, ridicolo a se stesso: erano due brutti
ceffi, gentaglia.
“Sta attento! Che sei cieco? Cazzo, non mi dire che hanno già fatto? Il primo è finito?E tu perché te
ne stai andando? Sbrighiamoci, dài, che devo ancora puntare!”. L‟avevano investito di domande,
affrettandosi, senza aspettare risposta. Ma chi erano? Dovevano averlo scambiato per uno di loro.
„Devo sembrare un mascalzone, ridotto così‟ pensò, dirigendosi all‟apertura sulla recinzione. Si
impigliò di nuovo nel filo spinato, con l‟altro lato della giacca stavolta; si agitò fino a rimanere del
tutto bloccato e per un attimo l‟idea di ridicolaggine, che quella scena gli suggeriva, gli tolse la
voglia di lottare. Si fermò a considerarsi: stolto, buffo, imprigionato in ciccia e fil di ferro. Si
sentiva vicino al pianto: persino quei due l‟avevano scambiato per un malvivente, un poveraccio. E
quella Barbara che l‟aveva illuso ed era sparita, che razza di gente frequentava?
“Già” esclamò, come risvegliandosi dal torpore. Tirò con tutte le forze, lasciando mezza giacca
appesa alla recinzione e rientrò nel cantiere. Correndo percorse la strada già fatta, appressandosi
però alla porta chiusa. Appoggiò l‟orecchio al legno, ancora umido per la notte, all‟interno si
sentivano urla, risate, abbai, guaiti. Si allontanò dalla porta come fosse quella dell‟inferno, le parole
del brutto ceffo gli tornarono vivide alla mente: “Devo ancora puntare!”.
Incontri di cani, ecco cosa. Combattimenti. I cani di Barbara, il suo scomparire quando le domande
si erano fatte più pressanti. L‟avevano scelto apposta per curare le bestie ferite senza troppi
problemi? gli avevano mandato lei per innamorarlo, distrarlo? O era stata un‟idea di Barbara? Forse
lavorava in proprio, forse voleva entrare nel giro e non sapeva ancora a chi rivolgersi, di chi fidarsi;
dovevano infine averle trovato un veterinario con meno pretese se se ne era andata, forse.
Che importanza aveva?
Compose il numero al cellulare: “Sono il dottor Santo Porcello, sono un veterinario, vorrei
segnalare un probabile combattimento clandestino di cani. No, non è uno scherzo: mi chiamo
proprio così: Santo Porcello, già; vi do l‟indirizzo, se vi sbrigate li beccate in pieno”.
Finita la doccia, seduto sul bidet, Santo si accese una sigaretta, era tardi ormai per andare allo
studio, avrebbe aperto nel pomeriggio; si diede una sbirciata allo specchio: certo che era grasso.
Però soddisfatto: li avevano arrestati tutti, una decina di mascalzoni, con quei poveri cani; anche lei,
alta e bella tra loro, sui tacchi a spillo, con quel metro di splendide gambe.
La voce di zia Lina riecheggiò beffarda nel bagno: “Vuole fare il commissario, vuole fare, ah ah
ah”.
“Fanculo, zia” borbottò, gettando la cicca nel gabinetto e tirando lo sciacquone.
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Il sole a mezzanotte
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di Mauri77
Le strade del centro si rincorrevano come a farsi i dispetti, sovraccariche di turisti desiderosi solo di
fare fino in fondo il loro lavoro. Guardare, fare shopping, fotografare.
Hermont (tavola B5 pag. 16, secondo le guide turistiche del luogo, praticamente un punto indefinito
tra il niente e il nulla) era fatta così; taciturna per tutto l‟arco dell‟anno, si popolava - come
d‟incanto - durante le feste natalizie.
Prendeva vita ogni giorno di più che si avvicinava al Natale, ma lentamente, a poco a poco, come lo
scemare della luce durante il giorno.
Non era questione di luci - mille sfavillanti luci ancorate ai vecchi cornicioni dei palazzi, come
fossero fari puntati sull‟antichità - né tanto meno di addobbi.
Non era un trucco. La gente era diversa, pur essendo la stessa, l‟aria respirata era diversa, pur
essendo la stessa aria, i palazzi erano diversi, pur costruiti con gli stessi mattoni.
Hermont (tavola B5 pag. 16, secondo le guide turistiche del luogo) era magica, ma solo a Natale.
Janet imboccò una stradina secondaria, come a prenderne le distanze, per poi immettersi sulla
Madison congestionata. Aveva l‟aria di chi non si concedeva un sonno da numerosi giorni, il passo
affrettato, camminava al ritmo del suo cuore, ma il vestitino rosso che le scendeva sulle gambe
sottili sembrava disegnato per lei.
Questo non era una novità. Qualsiasi idea avesse avuto in mente lo stilista mentre disegnava,
prendeva corpo nel suo.
Andava incontro al suo destino. Non importa quanto impieghi a raggiungerlo, il destino non ha
fretta.
È lì che ti aspetta.
Janet si stava incamminando verso l‟unico uomo che avesse mai amato, l‟unico, tra l‟altro, che
avesse avuto la pazzia di contraccambiarlo, quell‟amore.
E lo avrebbe fatto per sempre. Glielo aveva promesso, con parole semplici come solo le parole vere
sanno essere.
“Ti amo, e ti amerò per sempre.”
“Per sempre?”
“Sì, per sempre.”
Edouard era un uomo che manteneva le promesse.
Sempre.
Entrò nell‟atrio dell‟Harminton Hospital, lasciandosi alle spalle una cittadina in overdose da festa.
«Buongiorno, Janet.»
«Buongiorno, Desy» le rispose con un sorriso.
Desy era l‟infermiera del piano terra, novanta chili alimentati da una disfunzione ormonale. In dote
dal marito, portava sulle spalle un tragico trascorso di violenze familiari. Storie dure, cattive come
neve nera, storie che non interessavano a nessuno, tranne che a Janet.
«Il rosso ti dona» disse Desy, pensando che tutto le donasse, non solo il rosso.
«Sei troppo gentile, se non la smetti di farmi i complimenti sarò costretta a crederti.» Percorse il
lungo corridoio che portava all‟ascensore.
Intorno a lei miliardi di generi professionali, quasi tutti in bianco, si davano una mossa per
aumentare il numero di vivi presenti in città.
Prese l‟ascensore che si fermò a ogni piano prima del suo.
Primo piano, Dermatologia, secondo, Ortopedia, terzo, Malattie Infettive.
Se ad Hermont i medici erano tutti bravissimi - e specializzati - i pazienti lo erano ancora di più, ad
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ammalarsi.
Al quarto piano salirono due medici, di cui uno solo anziano, insieme a una signora, la linea
appesantita, l‟età imprecisabile.
Poteva avere dai quaranta ai sessanta anni, con le stesse identiche probabilità.
Janet aveva imparato che era impossibile decifrare con esattezza l‟età di chi soffre. Poi,
velocemente, l‟ascensore divorò il quinto e il sesto piano, come mosso da una fretta improvvisa.
Janet scese al suo piano, il settimo. Terapia Intensiva.
Il piano dove era diretta ogni mattina, da quasi 15 mesi a questa parte.
Il piano di mezzo, lo chiamava lei, pur essendo l‟ultimo. Sotto a loro, tutti vivi, magari sofferenti e
malconci ma vivi. Sopra no. Non erano vivi, ma neanche morti. Era il piano più alto, il settimo, il
più vicino al cielo, l‟ultimo prima di Dio.
Quasi un peccato stare lì, a pochi metri dal principale, per poi ridiscendere tra i comuni mortali. Era
come andare a Parigi senza vedere la Torre Eiffel.
A quel pensiero, a Janet rivenne in mente quella breve vacanza.
L‟aveva proposta al marito durante una cena, modificando ad arte il tono di un paio di ottave, in
quella stridente vocina da cartone animato che le donne usano per non farsi dire di no.
«Tu non hai mai visto la torre Eiffel» gli disse per convincerlo.
«Perché, sta lì?» le rispose Edouard con un sorriso che aveva il sapore di una decisione già presa.
Lui non sapeva dirle di no.
Avevano mangiato francese, parlato francese, dormito francese, respirato francese e riso, riso tanto,
come fossero loro due gli unici al mondo a conoscere quella strana lingua chiamata felicità. Fu
durante quei giorni che parlarono per la prima volta della crociera. Janet, esaudito il principale di
trovare un uomo come Edouard, aveva in panchina sogni minori. Uno di questi era fare una crociera
ai fiordi.
Lo sognava sin da bambina, quando ogni anno il padre prometteva di portarcela e ogni anno
rinviava la partenza al prossimo. Era un viaggio costoso e se la nave navigava tra i fiordi ghiacciati,
la famiglia di Janet ondeggiava in acque altrettanto fredde, ma molto più umili.
Adorava il mare, l‟unico posto dove poteva perdersi senza l‟ansia di doversi cercare. A volte le
capitava anche in altre situazioni, di perdersi.
Si impausava e dovunque fossero - a cena, in ufficio, in un museo - Edouard sapeva che stava
guardando il mare.
«Dobbiamo prenotare» gli disse Janet.
«Certo, amore» rispose Edouard.
«Non vorrei fossimo in ritardo» insistette lei.
«Noi siamo sempre in perfetto orario» rispose Edouard.
Poi alzò il bicchiere del vino in alto, lo bevve tutto d‟un sorso, lui che era un filino astemio, per poi
usarlo come aratro sulla tovaglia, come volesse tracciare la scia di una nave.
«Fiordi, arriviamo!»
Janet sorrise, ma di un sorriso strano.
Era il sorriso di un bambino che aveva sentito una barzelletta sporca senza capirla del tutto.
Edouard l‟aveva promesso e lui manteneva le promesse.
Insieme avevano girato il mondo.
Ma quel sorriso strano le rimase appiccicato sul viso per tutta la sera come un calco.
L‟ascensore si arrestò senza preavviso al piano prescelto.
L‟odore formicolava imperterrito, un odore diverso da quello degli altri piani, come se tutti i
pazienti del reparto trattenessero il respiro per la paura di morire.
«Buongiorno, Greta» salutò l‟infermiera del piano.
«Buongiorno, Janet, stai benissimo oggi, il rosso ti dona», le rispose Greta.
Janet sorrise. Più conosceva il personale di quell‟ospedale e più si convinceva che gli eroi stavano
tutti sulla terra e tutti, nessuno escluso, lavoravano lì dentro.
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«Vado da Edouard.»
Aprì la porta con fare sicuro, ed entrò.
Qualsiasi cosa gli avesse detto il prof. Dickens, primario di Neurologia - riesci a comprendere un
idraulico mentre parla, un medico no - Edouard era vivo.
A quel pensiero, l‟uomo attorcigliato da mille tubicini che gli coprivano il corpo, la persona
smagrita e pallida che non aveva paura di nulla tranne che di morire, l‟imprenditore di successo che
detestava i cavoli, contrasse il viso in maniera buffa. Janet gli prese la mano, bianca come un fiocco
di neve prima che tocchi terra, ricambiando il sorriso senza il minimo sforzo.
La mattina dell‟incidente di Edouard era il 12 Settembre e lo sarebbe stato, inconsapevolmente, fino
alla mezzanotte.
Pioveva, quel giorno lì.
Ad Hermont pioveva due volte l‟anno; la prima volta per cinque mesi, la seconda per sei.
Si svegliarono presto, Edouard aveva un appuntamento di lavoro a Saratona e quando gli capitava,
di lavorare, anche Janet si alzava di buon‟ora.
Le piaceva fare colazione con il marito.
Si incontrarono in cucina, come fosse per caso.
«Buongiorno, amore.»
«Giorno», bisbigliò Janet.
Poi, dopo aver addentato qualcosa - un biscotto, una fetta di pane, un cracker, difficile distinguerli
all‟alba - bisbigliò di nuovo.
«Mi raccomando vai piano e ricordati di metterti le cinture. Sai quegli strani lacci che ti spuntano
dai bordi quando sono eccitati…»
«Non preoccuparti, prima delle cinque mi avrai di nuovo tra i piedi», rispose Edouard.
«Che macchina prendi?»
Questa per Janet era una domanda fondamentale.
Avevano tre macchine in garage, due delle quali in uso a Edouard.
Una Porsche targa bianca e una Volvo Station Wagon, lunga quanto il loro amore e usata spesso per
i viaggi.
Janet detestava la Porsche, l‟unica macchina nella quale non riusciva a nascondersi tra i sedili. E poi
consumava tantissimo, provocava un rumore assurdo e sedersi su quei sedili era comodo come
dormire su un materasso fatto con i foratini.
La risposta giusta era, quindi, la numero due.
In ogni matrimonio ce n‟è una, a prescindere dalle opzioni proposte.
«Prendo la Porsche» disse cercando di alleggerire le parole come fossero di cristallo. «Ma non ti
piace proprio la Volvo? Non sembra che voglia dirti, con quei due occhioni grandi come fanali,
prendimi… non ti deluderò?»
«Amore, vado pianissimo» la rassicurò Edouard.
«Come un bradipo?»
«No, come una tartaruga.»
Poi, mentre prendeva la borsa adagiata sul comò dell‟ingresso, chiese:
«A quanto va un bradipo?»
«È più lento della tartaruga» rispose Janet.
«Allora andrò come un bradipo.»
Si abbracciarono a lungo.
«Lo sai che ti amo?» le chiese Edouard.
«Lo so» rispose Janet.
Non aveva bisogno di vederla per sapere che sorrideva.
Edouard arrivò a Saratona alle dieci e dodici minuti.
Parcheggiò la Porsche nei posti riservati ai dipendenti comunali, dietro il grande palazzone grigio
che li ospitava come a fargli una cortesia.
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Erano 16 mesi che Edouard era in coma e i medici le avevano concesso pochissime speranze di
risveglio, ma Janet si comportava come se le loro parole fossero friabili come zucchero filato. Lo
andava a trovare tutti i giorni, non ne saltava neanche uno, e invece di parlargli molto, come
consigliano in casi del genere, lei preferiva ascoltare. Si metteva ai piedi del letto, la nuca
appoggiata sullo schienale, le gambe conserte, come quando era bambina, e si metteva ad ascoltare.
Gli aveva, per un paio di volte, perfino tagliato i capelli, pettinandoli come a lei sarebbe piaciuto
che li portasse.
Quella mattina era il cinque febbraio e pioveva senza fare rumore.
Nevicava, quel giorno. A Hermont nevica sempre il cinque Febbraio.
La leggenda narra che quel giorno morì Merida, la dea dell‟inverno.
La neve che scende copiosa sono le lacrime gelate del cielo.
Le piaceva il cinque, un numero che portava fortuna, piuttosto ricorrente durante la sua vita con
Edouard. Era un cinque la prima volta che si videro, ed era sempre un cinque il giorno che Edouard
firmò la sua prima compravendita immobiliare.
Era un 23 il giorno che si sposarono, ma era un cinque il giorno che Edouard glielo chiese
ufficialmente.
Andò in ospedale molto presto, le luci dell‟alba pigre stentavano a dire la loro.
Come era solita fare, si fermò al secondo piano, Pediatria.
Era diventata molto amica di una bambina di nome Esperanza, una bellissima bambina indiana
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Finì la riunione alle 13 e 12.
Routine, per un imprenditore navigato come lui.
Janet, a casa, si apprestava a innaffiare le adorate gardenie.
Riprese la macchina e dopo un paio di giri a vuoto intorno al paese, rimboccò la Statale 46 che lo
avrebbe riportato a casa.
Alle 14 e 20 si fermò a una stazione di servizio per mangiare un panino con la salsiccia, condito con
ogni tipo di sottaceti, ma senza senape.
Edouard odiava la senape.
In quel grande spiazzo c‟erano pure due negozi e una pompa di benzina.
Uno dei due ragazzi addetti al rifornimento carburante indossava una maglietta con su scritto “Per
favore non mi fate incazzare”.
Aspettò il suo turno e fece rifornimento. Uscì da quella stazione dopo otto minuti, il quattro cilindri
Boxer non si fece pregare per catapultarlo sulla statale che lo riportava sulla via del ritorno.
Janet, a casa, aveva appena finito di sorseggiare il suo caffè.
Herbert Hunterry aveva un cane, un bulldog nero.
Aveva deciso di rimanere con lui dopo il divorzio e l‟ex moglie non aveva protestato più di tanto.
Il suo pick-up nero, una fiancata danneggiata precedentemente e un paio di adesivi religiosi sul
cofano, procedeva in senso contrario alla Porsche di Edouard.
Herbert spiluccava nervosamente delle patatine, bagnandole di tanto in tanto con un bicchiere di
coca cola, diligentemente riposta nel portabicchieri.
La sua vita procedeva spedita, per quanto potesse essere veloce una vita di merda.
Poi, in un unico momento di distrazione, forse causato dal movimento del cane che voleva seguire il
padrone nei posti nobili, quelli inferiori, Herbert Hunterry, l‟inutile uomo che mangiava e beveva
come fosse un lavoro, l‟uomo che non chiudeva gli occhi la sera per paura di non riaprirli la mattina
seguente, perse il controllo del suo pick-up nero, la fiancata precedentemente danneggiata, un paio
di adesivi religiosi sul cofano, investendo in pieno la Porsche di Edouard, imprenditore e marito di
successo - cinture saldamente allacciate - che procedeva lenta come un bradipo.
Dopo il violentissimo urto, l‟orologio della Porsche di Edouard segnava le 15 e 22.
A Herbert Hunterry fu riscontrata nel sangue una presenza di alcool quasi doppia del consentito.
Janet, a casa, aveva appena cominciato a cucinare la cena.
malata di un male che nessun savio di mente riuscirebbe mai ad accostare a una bambina.
Esperanza aveva una vitalità tipica della sua età, con due grandi occhi neri che dopo averti
accarezzato il viso, ti colpivano dritto allo stomaco.
La sua voglia di vita era un accecante contrasto con il suo destino, come un clown che si droga.
Aveva il talento di fortificare chiunque le si avvicinasse.
Esorcizzava la malattia, ridendone.
Era solo in quel momento che la bambina gravemente malata tornava sana, in quella risata
contagiosa che si sparpagliava per le pareti come pulviscolo colorato.
«Buongiorno, Janet.»
«Buongiorno, signorina» rispose Esperanza.
Poi le si avvicinò furtiva, un movimento di una molto più grande di lei.
«Il dottor Henry non vuole che mangi le uova di mattina, tu credi mi faccia male mangiarle?»
«Io so solo che il dottor Henry vuole solo il meglio per te» rispose Janet.
Poi, per convincerla.
«Ma tu lo sai che le uova escono direttamente dal sedere delle galline?»
«Certo che lo so, ma sono buone lo stesso.»
Esperanza si fece seria, un‟espressione cupa che Janet non aveva mai visto nei quasi due anni che la
conosceva.
«Ho visto Edouard, l‟altra sera.»
Janet la guardava, senza parlare.
«Era per le scale, io - come al solito - non avevo voglia di dormire e così sono andata a fare una
passeggiata. Era lui, sono arcisicura, aveva in dosso quell‟orribile maglione giallo della foto.»
Janet le aveva fatto vedere una foto qualche giorno prima, lui sorridente con indosso un maglione
giallo, regalo del papà.
«Sai, non l‟ho detto prima perché di me già dicono che sono precoce, di te un pochino strana, non
sapevo se fosse il caso...»
Poi risfoderò quello sguardo, quello per cui aveva un talento naturale.
«Io sono piuttosto malconcia. Qui nessuno ha il coraggio di dirmelo, ma i miei valori sono così
sballati che non si capisce da che verso guardarli. Ma sono viva. Tu credi che un vivo abbia la
capacità di vedere un morto?»
Janet non rispose. Aveva voglia di piangere, ma le sue emozioni non se ne accorsero.
Si continuarono a guardare, lontane miliardi di miglia marine da quelle fredde pareti di un inutile
ospedale.
Erano in campagna, a bere il tuorlo delle uova direttamente dal sedere delle galline, erano in un
immenso prato senza confini, con i girasoli pazzerelli che gli ballavano attorno, erano in alto mare,
sospese dalle onde che gli solleticavano i piedi.
Erano in ogni luogo, tranne che lì.
Janet si ripresentò in ospedale nel tardo pomeriggio.
Aveva dovuto sbrigare delle commissioni in paese.
La mezza vita che le era rimasta, era comunque zeppa di incombenze.
Entrò nel parcheggio dell‟ospedale che erano quasi le otto di sera.
Era serena e canticchiava, solo se era felice cantava sul serio.
Stava canticchiando “The Sound of silence”, una canzone di qualche anno fa che le ricordava in
rima la superfluità delle parole.
Prese l‟ascensore, settimo piano, e percorse il lungo corridoio.
Sulla mostra della porta della camera di Esperanza c‟era appeso un grande fiocco turchese. In quel
reparto erano soliti appendere un fiocco turchese per ogni bambino che lasciava l‟ospedale, ma per
andare in cielo.
Nessuna distinzione di colore, a differenza del viaggio di andata.
Sempre turchese. Gli angeli non hanno sesso.
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Janet entrò nella stanza.
Il lettino di Esperanza campeggiava nel mezzo, come fosse il protagonista.
Alcuni suoi disegni, fissati con delle puntine rosse sopra la spalliera, si erano accasciati,
adagiandosi dolcemente sul cuscino, come liberati da un peso.
Su quel lettino, breve come una bugia d‟amore, non c‟era nessuno che dormisse sogni da bambino.
Rimase per tutta la sera in silenzio, seduta per terra lungo il corridoio del piano di Edouard. Le
infermiere del turno di notte la lasciavano lì, con il suo dolore, nessuno la voleva disturbare. E
nessuno la disturbava. Poi, una delle due chiamò a gran voce l‟altra, quella che aveva attaccato il
turno da pochi minuti.
Janet si alzò intorpidita, le formicolava tutto il corpo come quando assumi posture innaturali per
ore. Si affacciò nella stanza del marito.
Una delle due infermiere era in ginocchio, salmodiava sul freddo pavimento della stanza.
L‟altra teneva entrambe le mani del marito.
Janet rimase paralizzata sull‟uscio della stanza.
Riuscì solo a girare il capo verso destra, dove erano posizionati i monitor, movimentati come i
grafici di un‟azienda in ottima salute.
Edouard fece un cenno all‟infermiera per farsi consegnare un piccolo specchio poggiato sul
comodino.
Si guardò un istante, poi guardò la moglie, rimasta immobile all‟altezza della porta.
«Amore, chi mi ha pettinato così?»
Erano le 11 e 57, all‟orologio bianco accanto al Crocefisso.
Sarebbe stato ancora il cinque, per altri tre lunghissimi minuti.
Dopo alcuni mesi di riabilitazione, che volarono via come piume sospinte dal vento, Edouard aveva
ripreso a lavorare, più frenetico di prima.
Sembrava volesse recuperare il tempo perduto in ogni cosa che faceva.
Naturalmente partirono per i fiordi, la sospirata vacanza che Janet sognava da sempre. Edouard lo
aveva promesso e lui, lui sì, manteneva sempre una promessa.
Si imbarcarono per Amsterdam, mulini e canali, dove i giovani arrivano da tutto il mondo per
dimenticarsi dove sono. Atterrarono dopo 14 ore di volo.
Con la faccia diversa da quella che avevano sul passaporto, sbarcarono stanchissimi e si
trascinarono dentro un pullman diretto al porto.
La nave era lì, migliaia di persone tra equipaggio e passeggeri, ma era tutta per loro. Quindici giorni
di meritata vacanza. Janet era in lista d‟attesa da più di trent‟anni.
Il programma prevedeva le seguenti tappe.
Tromsø - Janet non vedeva l‟ora di comprarsi uno di quegli orribili maglioni con le alci - il
ghiacciaio Briksdal a Olden - uno dei più belli al mondo - e dopo tre giorni di navigazione
avrebbero fatto tappa alle Svalbard, isole ghiacciate tutto l‟anno, natura selvaggia come ogni natura
rispettata, appena sotto il Polo Nord.
Naturalmente sarebbero passati per Capo Nord e avrebbero visto il famoso sole di mezzanotte - che
cominciava subito dopo Bergen, verso le dieci di sera.
A Capo Nord si sarebbero trattenuti alcuni minuti nella cappella di St. Johannes, il luogo di culto
religioso più a nord del pianeta. Il posto più vicino a Dio, se non fosse che Dio è dappertutto, lo
sanno tutti.
Janet si mise a pregare, come se si stesse confidando con se stessa.
Poi guardò il marito.
«Grazie, amore, di tutto» gli disse.
Edouard sorrise.
«Sai quella canzone che dice “l‟amore non lo puoi delimitare in un confine”?»
Edouard sorrise di nuovo. La moglie conosceva le canzoni più strane del mondo.
«Adesso so che è vero.»
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Accanto a loro i fiordi gentili si ergevano maestosi, senza far paura ad anima viva.
Conobbero diverse persone durante quella splendida vacanza.
Non avevano certo problemi a socializzare. Come quel tale, Jerry Stempter, una delle migliaia di
persone che lavoravano nelle Torri Gemelle.
Una sera alla cena di gala - sì, quella cafonata in ghingheri per compiacere il capitano - raccontò la
sua storia. Lui, impiegato di una compagnia assicurativa morta tra le fiamme, che portava a spalle
diverse persone, giù per le scale.
Intorno solo fuoco. Gli occhi si fecero lucidi, nel raccontare.
«Ebbene, l‟unico pensiero che mi ronzava per la testa era “ma siamo sicuri che i miei genitori
sappiano quanto gli ho voluto bene?? Mi interessava solo quello. Che lo sapessero.»
O quell‟altro simpaticone di Antony, un cognome impronunciabile, difficile come la donna che
aveva accanto.
Aveva salvato un bambino caduto in un pozzo, tre anni prima.
Era riuscito a incanalarsi nel fango a oltre quaranta metri di profondità, sfruttando il suo coraggioso
corpo esile e minuto.
Persone speciali, persone stupende.
Tutto intorno, solo mare, a perdita d‟occhio.
Tornarono a casa con una luce negli occhi difficile da spegnere.
Hermont si preparava di nuovo al Natale. Quella cittadina degli Stati Uniti era sempre in anticipo,
se la guardavi in un certo modo.
Rientrarono a casa molto tardi, era quasi mezzanotte.
Fuori, uno splendido sole riscaldava la casa, molto più di quanto riuscirete mai a immaginare.
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L‟ultima crociata
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di Alessandra Raiti
La mia dura giornata di lavoro volgeva al termine e la stanchezza infilzava le mie membra come
una spada. In una piazza sconosciuta di una cittadina non lontana dalla mia, attendevo il pullman
che mi avrebbe portato finalmente a casa. Unico pensiero, il fallimento della mia campagna
pubblicitaria. Era sera inoltrata e la fermata si trovava in uno spiazzale distante dai palazzi, tranne
che per una villetta, al cui muro della recinzione mi ero appoggiato. Doveva essere appartenuta a un
nobile perché all'ingresso del cancello si ergeva un appariscente stemma dall‟aria antica. Il pullman
si faceva attendere. La città di notte era bella ma si provava un po‟ d'inquietudine essere solo ad
aspettare in quella zona buia, avvolto in un gelido soffio di vento. Le luci notturne della città
davano un'atmosfera nevrotica alla statua del cavaliere al centro della piazza e attorno si respirava
un'aria strana, cospiratrice. Mi parve pure che le luci dei lampioni si stessero abbassando
prendendosi gioco di me. A un tratto sentii un respiro sulla parte destra del collo, soffocai
prontamente un urlo accorgendomi che un gatto si era appostato sulla grata del cancello e dal
muretto mi alitava col suo muso randagio.
"Porca vacca" - pensai - "con questi nervi tesi potevo restarci secco." Lo avvicinai con facilità
quando gli mostrai un pezzo di wafer, avanzo del mio triste pranzo di grafico. Ecco una luce
lontana, il pullman. Arrivò stridendo i freni, si aprì la portiera e l'autista mi guardò serissimo con
due occhi spenti. Ero l'unico passeggero.
Il sedile freddo mi scosse, facendomi passare anche il piccolo bagliore di sonno che avevo. Mi
stupii quando trovai il gatto vicino ai miei piedi. In fretta lo presi e lo nascosi sotto la giacca e lui
non oppose resistenza.
- C'è sempre così poca gente a quest'ora in questa zona?
- Dove abita?
- A circa 30 chilometri da qui.
- Ah, capisco.
A un tratto la vettura si fermò, probabilmente per un guasto.
- L'avevo detto alla mia società che questi pullman sono ormai vecchi. Non ho nemmeno il telefono
interno per avvertire del guasto ma credo che qui fuori ci sia una cabina telefonica, arrivo subito.
Scese dalla vettura con fare lento e vi riconobbi gli occhi spenti di un attimo prima. Era un uomo
grassoccio, sulla cinquantina, grossi baffi su un viso lungo e dalle guance cadenti. Uscì dirigendosi
verso la presumibile cabina che non riuscivo a vedere dalla vettura. Da lontano mi farfugliò
qualcosa che non capii, interpretai solo il gesto di stare lì ad aspettare. Il gatto, coperto dalla mia
giacca, iniziò ad agitarsi e a un tratto mi balzò fuori dal petto per fuggire via.
Rimasi solo, cosa che mi angosciava non poco. Ero di solito un tipo coraggioso, ma quella notte,
dopo quella sfortunata giornata, nemmeno l'immagine del santino che portavo nel portafoglio
sarebbe riuscita a mettermi un po‟ di ottimismo. Dopo cinque minuti dell'autista non vi era nessuna
traccia e decisi di scendere dalla vettura. Scesi il primo gradino. Fuori faceva un freddo tremendo e
l'aria sembrava essersi fermata. Eccomi al secondo gradino. Sentivo che più scendevo e più le mie
gambe si facevano dure, non solo per il freddo.
Mi parve di sentire un miagolio e corsi verso un'aiuola ma mi ritrassi indietro di scatto e non so
come, poiché le mie gambe stavolta erano impietrite. Trovai l'autista che giaceva per terra. Mi
avvicinai per tastargli il polso, non sono un medico ma l'uomo era certamente morto. Sconvolto
cercai di chiamare la polizia col cellulare, anche se la batteria era quasi scarica.
- Pronto, mi chiamo Arturo De Mestris, ero su un pullman... l'autista è morto... sono fuori dalla
vettura... mi trovo in una piazza...
- Signore la sento male. Ha detto una piazza? Sa il nome?
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- Aspetti (dallo shock non ricordavo il nome della città), c'è la statua di un cavaliere... - Rimasi
sbigottito mentre la descrivevo, era la statua del cavaliere che avevo lasciato in piazza accanto alla
fermata. Ma che faceva qui a distanza di almeno cinque minuti di strada da dove l'avevo lasciata? Il
poliziotto mi urlava dal cellulare che avevo appena scostato dall'orecchio per lo stupore. A un tratto
la batteria si scaricò del tutto. Ancora incredulo mi avvicinai alla statua, il cavaliere guardava avanti
fiero, la spada in mano. Improvvisamente vidi un bagliore arrivare dall'alto e una luce accecante
colpirmi il volto. Da lì in poi non ricordo più nulla, so solo che mi risvegliai in una stanza
d'ospedale circondato da un medico e due infermiere. Cercai di alzarmi ma un forte dolore alle
tempie mi fece ricadere sul cuscino.
- Dottore si sta svegliando.
- Buona sera signor De Mestris... finalmente si è risvegliato...
Ci vollero un paio di giorni prima che mi riprendessi del tutto dallo shock di quella notte. In
ospedale mi dissero che mi avevano trovato a terra senza sensi. L'autista era morto d'infarto.
Due mesi più tardi trovai un lavoro e stavo per trasferirmi in campagna. Non tornai più in quella
città, mi convinsi che la stanchezza aveva fatto dei brutti scherzi alla mia immaginazione. Ma
durante il trasloco accadde un fatto singolare, un uomo anziano con un elegante abito blu, mi si
fermò accanto e disse: "Il timore nell'uomo lo avvicina a misteri più grandi di lui". Poi si dileguò
dietro un palazzo lasciandomi confuso a riflettere. Come un flash rivissi gli attimi di quella sera e
mi recai immediatamente in biblioteca dove scoprii che gli eredi del nobile che abitava la villa, vi
rimasero fino a qualche decennio prima. Da una vecchia mappa catastale del terreno su cui era
edificata la costruzione, seppi che anni addietro sorgeva una piccola chiesa. I suoi sotterranei
ospitavano le spoglie degli uomini illustri della zona era dunque luogo di culto ma solo alcuni
personaggi potevano accedervi. Questi erano l'abate Mazzarino e il conte Serra, unici possessori
della chiave dell'imponente portone. Fotocopiai la mappa per poterla leggere con calma a casa. La
mattina seguente mi recai alla villa che di giorno appariva di una bellezza straordinaria, ma cercavo
di scorgere qualcosa di sinistro.
Decisi d'impulso di suonare alla porta, senza sapere ancora cosa dire. La porta si aprì e ne sbucò
fuori una signora anziana con un bastone bianco e un cagnolino che le stava alle calcagna e mi
osservava guardingo.
- Buongiorno - balbettai.
- Ah, finalmente, ma... l'hanno mandata in anticipo di un giorno... ecco Pacho, gli faccia fare il suo
giretto giornaliero e i suoi bisognini - sorrise.
Era cieca. Presi la palla al balzo e ne approfittai per farmela amica. Chiuse la porta e mi ritrovai un
guinzaglio azzurro in mano e all'altra estremità un volpino, un batuffolo di pelo bianco che mi
fissava con la lingua di fuori.
- Pacho... e adesso dove si va? Ritornai dopo circa mezzora. Suonai e quando la porta si aprì, un uomo stava per uscire. Salutò la
signora con uno "ciao", mi guardò un momento perplesso poi si allontanò.
- E‟ un cagnetto intelligente. – dissi
La donna sorrise. - Entri, le offro un caffè. L'ho appena fatto per mio nipote ma lui è sempre di
fretta. Il profumo di caffè aveva invaso ogni angolo del corridoio che portava in cucina. C'erano orologi di
ogni tipo appesi alle pareti, compreso un vecchio orologio a cucù. Mi accomodai su una sedia di
legno con sopra un cuscino ricamato. La signora si muoveva benissimo e a proprio agio e quasi
dimenticai che fosse cieca.
- Mi ha chiamato l'agenzia stamane.
Il caffè mi rimase in gola.
- Ho detto che volevo lei per il mio Pacho, e di non mandarmi più quel giovanotto di prima, un
adolescente sempre raffreddato. Mi hanno risposto che non avevano mandato ancora nessuno.
Deglutii.
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- Alla loro ennesima insistenza ho riattaccato. Probabilmente l'avrà mandata un'altra agenzia non è
vero? Ne vengono tanti come lei qui... la zona è piena di animali domestici... - rise. Iniziò poi a
parlarmi del povero marito venuto a mancare qualche mese prima, lasciandola sola in quella grande
casa. Fu una chiacchierata lunghissima ed estenuante, o meglio una sorta di logorante monologo.
Incrociai le braccia sul petto, e un po‟ annoiato, per stare più comodo scivolai sulla sedia
appoggiandomi meglio alla spalliera. Qualcosa m'infastidì facendo spessore sotto. Era la fotocopia
della mappa che avevo lasciato nella tasca posteriore dei pantaloni, la estrassi e mi misi a
osservarla. La chiesa mostrava un paio di punti in comune con l'attuale costruzione: il pozzo in
giardino, il cancello esterno e un particolare ancora da accertare, quello che oggi doveva
corrispondere a uno scantinato, ossia il luogo d‟entrata per le catacombe.
Con una scusa chiesi alla signora di indicarmi il bagno. Mi alzai con la mappa ben spiegata e iniziai
a far combaciare i punti conosciuti.
- Dunque - pensai - se il pozzo è a circa cinque metri da questo punto, lo scantinato dovrebbe più o
meno trovarsi qui. - Ancora qualche passo e mi trovai davanti alla porta di una stanza. Alzai la
mano un po‟ tremante e la poggiai sulla maniglia che pian piano abbassai. Improvvisamente
l'orologio a cucù sopra la mia testa produsse un suono così frastornante che mi costrinse a tappare le
orecchie. Col cuore in gola abbassai la maniglia ma la porta era chiusa. Feci qualche passo indietro
osservando la mappa per capire se avevo fatto male i calcoli. Sentii qualcosa toccarmi la gamba, mi
voltai di scatto spaventato, l'anziana signora vi aveva poggiato il bastone.
- "Si è perso?" Tornammo in cucina immersi nel silenzio e nel tepore del termosifone.
- (Ho i nervi un po‟ tesi) - pensai.
La signora ricominciò il suo racconto con più enfasi di prima. Mi sedetti sulla stessa sedia in attesa
della fine del sermone. Lei parlava ma io ero immerso nei miei pensieri di detective da quattro
soldi... lei parlava del marito... ed io ascoltavo distratto... lei parlò dell'abito blu con cui aveva dato
l'ultimo saluto al marito prima di seppellirlo, ed io balzai dalla sedia come illuminato.
- "Come ha detto? Un abito blu?"
Mi avvicinai alla donna per ascoltare chiaramente le sue parole ma inciampai su qualcosa e se non
fosse stato per la presenza del tavolo, sarei certamente caduto a terra. Mi venne un colpo. Quello su
cui inciampai era il gatto di quella sera. Miagolò.
- "Vieni amore, vieni dalla mamma" - disse la signora mentre il gatto le salì sulle gambe. - "Lui è
Patritius, il gatto di mio marito. Ho chiesto a mio nipote di portarmi una medaglietta con l'indirizzo
da mettergli al collo... sa, si perde sempre”.
Uscii dalla villa con l‟animo agitato e sconcertato. Il marito dell‟anziana signora, deceduto qualche
mese prima, era lo stesso uomo che mi aveva avvicinato durante il trasloco? E come poteva trattarsi
di lui non essendo più in vita? Aprii nuovamente la mappa cercando di studiarla con un‟altra logica.
D‟improvviso osservai una spaccatura in una parete laterale della villa e mi avvicinai per guardarvi
attraverso. Era tutto buio, ne usciva solo uno spiffero d‟aria fredda. Cercai di staccare qualche pezzo
della crepatura e mi meravigliai di quanto fosse sfaldabile. Ancora qualche frammento di muro e
potevo vedere meglio all‟interno. Così fu e l‟aria fredda, trovando uno spiraglio maggiore, uscì più
lentamente ma m‟inondò per intero il viso. Sgranai gli occhi, si trattava di una doppia parete.
Tornerò stanotte - pensai - quando nessuno passa da queste parti, ed io ne so qualcosa. - Così feci,
arrivando armato di blocco per appunti e torcia elettrica. Pioveva, ma per fortuna ero munito
d‟impermeabile con cappuccio, altrimenti avrei dovuto trascinarmi dietro anche l‟ombrello. Mi
sentivo un po‟ ridicolo ma ormai ero lì e dovevo andare fino in fondo alla storia. Davanti alla
fenditura ringraziai il cielo per il fragore della pioggia che mi permetteva di agire indisturbato.
Riuscii a realizzare lo spazio giusto per passarvi attraverso ed entrai. Finalmente mi trovavo
all‟asciutto, accesi la torcia ed estrassi il mio blocchetto con gli appunti. Illuminai il pavimento e mi
accorsi di un tombino rettangolare con sopra forgiato un cerchio e delle lettere all‟interno: L e S.
Sollevai il tombino grazie ad una maniglia che estrassi da un lato dello stesso e lo poggiai
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lentamente sul pavimento. Uno strano odore di cera mescolato a umidità si sprigionò all‟improvviso
dal sotterraneo. Il mio cuore era già tornato indietro nell‟auto mentre la mia mente mi bloccava lì
davanti e m‟incitava a scendere. Allungai una gamba dentro il tombino fin quando col piede toccai
qualcosa di stabile. Scesi anche l‟altra gamba e stavo per scivolare per via delle suole bagnate. Mi
prese un attimo di panico: rimanere su a respirare aria fresca e sicura o scendere in un baratro
oscuro e gonfio di un‟aria malsana? Era meglio non pensarci troppo, puntai la torcia verso il basso e
dissi addio allo squarcio sulla parete. I gradini non erano molti e toccai subito il pavimento. Il lungo
corridoio che mi si affacciò davanti trasudava acqua alle pareti e finiva con un‟apertura che mi fece
accedere alla parte più bassa del sotterraneo. Attraversai un uscio ricavato nella pietra e mi trovai in
una camera illuminata da candele poste alle pareti, doveva trattarsi della cripta.
- Come pensavo - esclamai guardando innanzi a me due sarcofagi in pietra, l‟uno parallelo all‟altro.
Mi avvicinai, su uno di essi era raffigurata una croce e la scritta "Qui giacciono le spoglie dell‟abate
Mazzarino", sull‟altro era raffigurato un falco e la scritta "Qui riposano le spoglie dell‟Illustrissimo
Conte Serra, sostenitore e promulgatore della "Lega Santa", il sacro ordine templare votato alla
ricerca e alla custodia delle sante reliquie". In fondo, dietro ai sarcofagi, vidi una teca poggiata su
una roccia sagomata. All‟interno era custodito un oggetto di ferro, un‟antica croce con uno spazio al
centro, una specie di piccola ampolla contenente un minuscolo frammento forse di osso. Aprii il
blocchetto con i miei appunti e trovai un‟informazione che ancora oggi mi sa d‟incredibile. Se
quell‟oggetto all‟apparenza un po‟ macabro, si fosse trattato della reliquia, avevo davanti qualcosa
che solo in pochi avevano avuto la fortuna di vedere. Nei miei appunti avevo scritto che la reliquia
di lì a poco sparì dall‟archivio della polizia, dove giaceva in attesa di essere portata al museo
arcivescovile, sua giusta destinazione. In ricordo del ritrovamento, su quel terreno fu edificata una
Cappella con funzione solo di cripta. Tornai a guardare il sarcofago dell‟abate Mazzarino e vidi
accanto alla croce, sul coperchio, il segno di una stella a quattro punte e altre quattro che
spuntavano dai lati.
- Questo segno lo conosco! Mio nonno aveva un libro con un segno uguale sulla copertina. - Scattai
qualche foto col cellulare e mi diressi all‟uscita. Risalii la rampa di scale, riattraversai il corridoio e
uscii dal tombino col cuore finalmente libero da un peso. Richiusi il coperchio in modo quasi
maniacale, mi alzai il cappuccio e mentre mi dirigevo in auto, lanciai uno sguardo furtivo alla statua
del cavaliere.
La mattina seguente mi svegliai di buonumore con la sensazione di portare a compimento un
puzzle. Davanti alla villa era posteggiato un furgoncino e tre uomini parlavano con l'anziana signora
sull'uscio. Guardai la parete dove mi ero aperto il varco la sera prima. Il nipote della signora, per
quel che ricordavo doveva essere lui, stava davanti l'enorme fenditura con un atteggiamento quasi
furtivo. La signora mi licenziò dicendomi di non preoccuparmi, per una volta era stato il nipote a
portare Pacho a spasso e lei era troppo impegnata con gli scarichi dell'abitazione intasati che quella
mattina avevano traboccato acqua. La salutai e mi diressi verso la mia auto. Da lontano vidi un
uomo con un maglione verde uscire dalla fenditura e in mano teneva qualcosa coperta da un panno.
L'uomo si unì al nipote della signora e insieme si diressero verso un'auto parcheggiata un po‟ più
avanti. Salii nella mia auto e aspettai. Misero in moto allontanandosi ed io li seguii tenendomi a
dovuta distanza. Arrivammo in un vecchio casolare e i due scesero dall‟auto ed entrarono in casa.
Lasciai la mia auto in un angolo della strada e mi diressi lentamente verso il casolare. Mi avvicinai
alla casa col cuore in gola e mi accostai alla finestra guardandovi dentro. Tre uomini stavano
parlando e passeggiavano da un punto all'altro in fondo oltre l'entrata di un'altra stanza. Mi spostai
un po‟ più avanti dove una scala di legno era poggiata su una parete. Vi salii, scavalcai il parapetto
e scesi giù da quattro scalini in pietra trovandomi faccia a faccia con un'altra finestra. Stavolta dava
proprio sulla stanza, dove i tre stavano discutendo animatamente. Grazie anche al silenzio del posto,
riuscii ad ascoltare ciò che dicevano.
- L'importante adesso è farla sparire, domattina prenderai il primo aereo per Vienna e andrai a
trovare Klaus, lui saprà cosa fare.
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- Ed io è meglio che resto qui per stanotte, non è raccomandabile farsi vedere in paese. La croce la
metto in questa credenza dentro il beauty di mia moglie, sarà lei stessa a salirlo sull'aereo come
bagaglio a mano. Domani sveglia all'alba.
- D'accordo, io vado. Ti aspetto domani in aeroporto.
L'uscio si aprì e da lontano scorsi l'uomo col maglione verde allontanarsi con l'auto. Mi diressi in
città e andai a trovare mia madre che mi confermò l‟esistenza del libro con la croce in copertina,
una vera ossessione per mio nonno, convinto di esser riuscito a interpretare un enigma con cui
l‟autore, per gioco, incuriosiva i lettori portandoli a scoprire un luogo che celava un oggetto
prezioso e unico. Il ricordo di mio nonno era sempre legato a quel libro, al suo capo chino sulla
scrivania, sopra quel maledetto libro che lo portava via dai miei giochi. Quando si fece sera, tornai
al casolare. Due finestre erano accese, una al pian terreno e l'altra al primo piano. Non pioveva ma il
freddo entrava nelle ossa. Attesi che la luce della finestra del pian terreno fosse spenta, poi risalii
per la scala di legno e mi trovai nuovamente dinanzi la finestra della seconda camera. Portai con me
qualche attrezzo per aprire la finestra dall'esterno. Mi comportavo da folle ma qualcosa mi spingeva
a fare quella pazzia. Le finestre dei vecchi casolari sono tutte un po‟ scassate e quello doveva essere
un casolare inabitato, usato solo come deposito attrezzi. Riuscii ad aprirla con mani tremanti e un
pizzico di fortuna. La luce della luna piena illuminava il pavimento. Aprii lentamente un'anta della
credenza che fece un rumore stridente e per qualche secondo mi bloccai con l'orecchio teso ad
ascoltare eventuali rumori provenienti dal primo piano. Tutto taceva. Estrassi il beauty come fosse
una gemma preziosa e lo aprii estraendo la croce dalla sua nuova "teca". La osservai nell'oscurità
della stanza e un brivido mi scese giù per la schiena. Cinque lunghissimi minuti mi portarono via
dal casolare e finalmente, salito in auto, i miei polmoni sembravano essersi aperti e respiravo con
più forza. Partii senza meta, l'importante adesso era allontanarsi da lì. Dopo circa mezzora ero
abbastanza lontano da potermi fermare sul ciglio della strada con la fronte appoggiata allo sterzo e
abbozzando un sorriso soddisfatto.
- Il racconto è finito, adesso bimbi è ora di andare a nanna. Babbo Natale non vuol trovarvi svegli
quando porterà i vostri regali.
- Papà, che fine ha fatto la croce?
Arturo sorrise.
- Si trova in un museo, il posto giusto dove dovrebbe stare un oggetto così importante. -Attraverso
la finestra, pigri fiocchi di neve scendevano giù cullati e ricoprivano i tetti delle case di campagna.
Dentro, il tepore del camino con la sua luce scintillante, illuminava le pareti e gli addobbi di natale.
Nella stanza accanto adibita a studio, un antico orologio a cucù scandiva le ore. Il tepore del camino
riscaldava anche il cuore della vecchia credenza in noce che ogni tanto scricchiolava sotto il peso
dei suoi anni. Gremita di libri di ogni misura e colore, conteneva una scatola nera in legno che
custodiva un oggetto a forma di croce con un panciotto di vetro, una piccola ampolla.
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L‟uomo del piano di sopra
Non è possibile.
Riguardo l‟ora: sono le due e quaranta e non la smette.
Ma chi è? Vuoi vedere che la signora Petrelli ha venduto l‟appartamento senza dirmelo? Certo che è
una bella stronza, non si fa così, prima mi dà le chiavi pregandomi con mille salamelecchi di
accogliere gli eventuali possibili acquirenti e di mostrare loro la casa, eccetera eccetera, e ora
scopro che lo ha venduto senza farmi neppure uno straccio di telefonata, almeno un “La ringrazio
della sua gentilezza e disponibilità, ma ho già trovato chi compra l‟appartamento del mio povero ex
marito…” No, niente. Certo mi sembra ben strano che una signora così perbene possa comportarsi
in questo modo, ma tant‟è, non ci si può più meravigliare di nulla al giorno d‟oggi. E comunque è
un bel maleducato quel tipo, chiunque sia, non può camminare tutta la notte su e giù per le stanze,
senza un attimo di tregua, e disturbare così il sonno del suo condomino al piano di sotto, che sarei
poi io.
E‟ un rumore di tacchi davvero fastidioso, passi pesanti, cadenzati, lenti, pensierosi, di una persona
forse oberata da un peso che la opprime, può essere una storia d‟amore finita male, o la perdita del
lavoro, oppure la morte di una persona cara. Posso capire che un uomo o una donna in queste
condizioni non riesca a prendere sonno, ma il rispetto per gli altri deve in ogni caso prevalere. Che
cosa succederebbe se anch‟io andassi in giro per casa di notte picchiando i tacchi sul pavimento,
che cosa direbbero la signora Rosa e suo marito Luigi il giorno dopo alla portinaia? Di certo
riceverei almeno una lettera di richiamo dall‟amministratore, prima privata, poi pubblica, appesa in
bacheca al piano terra, e già mi vedo i capannelli di condomini a leggerla e a commentarla: “Ma
guarda, il ragioniere, sembrava una persona così bene educata, e invece…” Chi non starebbe nella
pelle è senz‟altro la portinaia, quella non aspetta altro che un mio passo falso, perché lo sa che sono
stato io, all‟assemblea di condominio, a denunciarne la sciatteria e l‟approssimazione con cui svolge
i suoi compiti. Per dire, mai una volta che controlli chi entra e chi esce, e di questi tempi un
comportamento del genere è indice di una pigrizia morale inaccettabile. Poi ci si lamenta dei furti
che sempre più spesso vengono perpetrati negli appartamenti. La cosa che mi dà più fastidio è che
la portinaia sa bene che io l‟ho accusata pubblicamente e formalmente in sede di assemblea, ma fa
finta di niente, come se non avessi detto nulla, anzi, quando mi incontra per le scale mi fa un sorriso
da qui a là, come se mi prendesse in giro, come se mi volesse far capire che lei sa ma non gliene
frega niente, e che continuerà a comportarsi come si è fin qui comportata senza un cenno di
pentimento o di volontà di migliorare
Questi sono tacchi di scarpe da uomo, sì, è sicuramente un uomo. Perché il rumore della scarpe da
donna è completamente diverso, l‟ho ben presente il ticchettio che facevano sulle scale le scarpe
della mia ex moglie Rosanna. Da fidanzati e nei primi tempi del matrimonio abitavamo al quarto
piano di un vecchio condominio senza ascensore e, le rare volte che tornavo a casa dal lavoro prima
di lei, riuscivo a riconoscere il suo arrivo dal ritmo dei suoi tacchi sui gradini, per me era armonia
pura, e la gioia mi sgorgava dal cuore. Beh, almeno così sarebbe stato bello che fosse, e forse
all‟inizio lo era davvero, ma in ogni caso è durato molto poco, tant‟è vero che dopo soltanto un paio
d‟anni di matrimonio ci siamo separati, ognuno per la propria strada e chi s‟è visto s‟è visto. Non mi
sopportava più, mi ha detto un giorno in uno scatto d‟ira, non sopportava la mia pignoleria, il mio
senso maniacale dell‟ordine, la mia mancanza di personalità, così diceva, diceva che ero come il
protagonista di un film di quel regista ebreo americano, quel tizio che diventava uguale alle persone
con cui veniva a contatto, ché poi, ordine! Era lei che era un‟anarchica! Metteva i libri verticali,
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di Alessandro Bastasi
°commenta il racconto
orizzontali e obliqui, tutti insieme, un‟offesa agli occhi, dio santo, e io non resistevo alla necessità
di mettere a posto le cose, nel loro ordine naturale. Ed è anche per questo che mi infastidisce il
rumore dei tacchi del condomino di sopra, perché non è nell‟ordine naturale delle cose che in uno
stabile civile come il nostro di notte si cammini avanti e indietro. Prendo la scopa e comincio a
picchiare il manico sul soffitto, prima delicatamente, poi sempre più forte. Il rumore di tacchi per un
attimo scompare, poi riprende imperterrito. Toc, toc, toc… Domani però mi sente, quello, prima di
andare a lavorare vado su e gliene dico quattro, a quel maleducato, gli insegno io come ci si deve
comportare, e se non lo capisce con le buone preparo una lettera formale da far sottoscrivere a tutti i
condomini, e se non basta chiedo l‟intervento dell‟amministratore, la gente di giorno lavora e di
notte deve poter riposare, dio santo.
Sono le sette, e come ogni mattina la sveglia mi ricorda che è ora di muoversi. Mi ero assopito, ma
alle otto e mezza devo essere al lavoro, quindi sonno o non sonno devo sbrigarmi, sono il capo
dell‟ufficio contabilità di un‟azienda, e considerando l‟importanza del mio ruolo devo
necessariamente essere presente prima dell‟arrivo dei miei collaboratori, in modo da dare l‟esempio,
ché se arrivassi in ritardo si sentirebbero tutti in diritto di far tardi anche loro, e questo non sarebbe
accettabile in un‟organizzazione ordinata come quella che ho instaurato nel mio ufficio. Nonostante
questo però un deciso rimprovero alla persona che mi ha tormentato tutta la notte glielo devo
assolutamente rivolgere, e infatti alle sette e mezza sono davanti alla porta dell‟appartamento di
sopra e suono ripetutamente il campanello. Nessuno però mi viene ad aprire. Evidentemente è
uscito prima di me, forse lavora lontano da qui e dovrà quindi alzarsi molto presto, e adesso che ci
penso, alle sette, quando mi sono svegliato, dal piano di sopra non sentivo provenire alcun rumore,
e questo è segno certo che chiunque ci fosse non c‟era già più. Comunque stasera tornerò
all‟attacco, e intanto mentre scendo chiedo alla portinaia chi è quel nuovo condomino che si è
installato nell‟appartamento sopra il mio e che disturba in quella maniera incivile il sonno delle
persone che lavorano.
- Ma no, ragioniere, guardi che non c‟è nessuno in quell‟appartamento. La sa bene che è vuoto da
quando è morto il povero signor Petrelli, pace all‟anima sua, una persona così gentile che quando
veniva a ritirare una raccomandata mi chiedeva sempre dei miei figli e di come stavo di salute, non
ce ne sono più persone come lui, e non capisco proprio come mai la moglie se ne sia andata,
comunque non sono fatti che mi riguardano, anche se tutti sanno che quella cosiddetta signora… ma
non mi faccia parlare, ragioniere, ché direi cose che una persona perbene non dovrebbe nemmeno
pensare.
- Ma guardi signora che si sbaglia, c‟è qualcuno di sopra, ne sono sicuro, mi ha tenuto sveglio tutta
la notte passeggiando avanti e indietro come un‟anima in pena!
- Non so che dirle, ragioniere, per quanto ne so io non c‟è nessuno in quell‟appartamento, sono al
lavoro dalle sei di stamattina, anche se qualcuno pensa che io non faccia nulla o che trascuri i miei
doveri, e non ho visto nessun estraneo entrare o uscire dal portone, e le assicuro che io controllo
attentamente chi va e chi viene, caro ragioniere… Non è che ha avuto degli incubi? Succede, sa,
magari ha mangiato pesante, e in quei casi uno si figura chissà che cosa, non dico che lei se lo
inventi, ma a volte uno in buona fede prende per vero quello che è soltanto frutto della sua
immaginazione…
Cerco di non far caso al risolino con cui quella megera accompagna le sue parole, tanto io sono
certo di quello che dico, e questa sera glielo dimostrerò che io non mi invento proprio un bel nulla.
Che sfacciata! Ma pensi a tenere in ordine il palazzo invece di spettegolare tutto il santo giorno.
Un‟altra notte insonne. Non è possibile, santo iddio.
Questa sera, appena rientrato, mi sono subito precipitato al piano superiore, ho suonato e suonato il
campanello, ma all‟interno dell‟appartamento non c‟era alcun segno di vita. Allora ho telefonato
alla signora Petrelli per chiederle conto di quel disturbatore della quiete pubblica, ma mi ha risposto
il nastro registrato della segreteria telefonica. Ho lasciato un messaggio un po‟ concitato, anche se
non è nel mio carattere alzare la voce, concludendolo con la secca richiesta di venire a riprendersi le
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chiavi dal momento che non aveva avuto nemmeno il buon gusto di informarmi sulla vendita
dell‟appartamento.
E puntualmente, alle due e quaranta, un rumore di passi ancora più fastidioso della sera precedente
riprende a tormentarmi. Mi piacerebbe scendere a svegliare la portinaia, e magari anche qualche
condomino come testimone, per dimostrarle che non sono un visionario, che non mi invento le cose,
che so bene quello che dico. Ma sono troppo educato per compiere un‟azione così estrema, quindi
ancora una volta mi armo di pazienza, ben deciso però, il giorno dopo, a far valere le mie ragioni.
Come mi aspettavo, anche oggi, benché siano soltanto le sette di mattina, non ricevo risposta alle
mie scampanellate. E‟ allora che perdo le staffe, e mi metto a gridare:
- Lo so che c‟è qualcuno in casa! Mi risponda! Sono due notti che non mi lascia dormire, non si fa
così, lei un grande maleducato, sa?
Alcune porte si aprono, e visi ancora assonnati si affacciano sulla tromba delle scale per vedere chi
è quel pazzo che si lascia andare a chiassate di quel genere, all‟ora in cui tutti si preparano
faticosamente ad affrontare la giornata, chi con un buon caffè chi senza nemmeno quello.
- Che succede? Chi è che fa questi schiamazzi?
- Sono io, il ragionier Formica, sono due notti che il nuovo condomino del piano sopra al mio non
mi fa dormire, io lavoro, come tutti voi, e se non mi si consente di riposare mi dite come posso far
fronte alle mie responsabilità professionali?
- Ma ragioniere, quell‟appartamento è vuoto, non c‟è nessuno, lo sa anche lei.
- E‟ quello che pensavo anch‟io, provate però a venire la notte a casa mia, e vi convincerete del
contrario.
- Non crederà ai fantasmi, ragioniere, andiamo…
- Certo che no, anche se qualcuno ieri mattina mi ha già dato del visionario. So ben quel che dico.
Nessuno replica, ma io me ne accorgo che stanno scrollando il capo mentre rientrano increduli nelle
loro abitazioni, a completare i propri riti mattutini.
E‟ inconcepibile. Io, il ragionier Formica, sto diventando lo zimbello di tutto il palazzo. E poco fa,
quando sono passato davanti alla portinaia, quella strega mi ha guardato senza dire niente, con un
sorriso beffardo sul viso, e con quegli occhi da gufo che esprimevano compatimento e
soddisfazione al tempo stesso. Glielo faccio vedere io, se sono impazzito, a tutti glielo faccio
vedere. Ho le chiavi dell‟appartamento, no? E se quel tipo non mi apre entrerò lo stesso, e voglio
vedere se avrà qualcosa da ridire quando mi si troverà davanti ben determinato a difendere i miei
diritti. Ma con chi crede di avere a che fare, quel mascalzone?
Sono le sette di sera e ancora una volta l‟appartamento di sopra rimane muto alle mie richieste. Ho
avuto una giornata molto faticosa, il saldo dare-avere di cassa presentava un errore di due euro e
mezzo e non riuscivo a comprenderne l‟origine, finché, dopo quattro ore di ricerche, ho scoperto
che non era stata registrata la ricevuta del parcheggio di un dipendente che era andato in banca a
fare un versamento. Se l‟era dimenticata in tasca, così mio malgrado sono stato costretto a
comminargli una multa e a minacciarlo di una lettera di richiamo se quel grave episodio si fosse in
seguito ripetuto. A me, da un certo punto di vista, dispiace dimostrarmi così rigoroso con i
dipendenti, ma è necessario per salvaguardare il bene dell‟azienda, nei confronti della quale
abbiamo, tutti noi, dei doveri imprescindibili. E‟ anche per questo, per il senso di dovere civico che
mi contraddistingue, che, nonostante i dubbi e gli scrupoli che mi hanno attanagliato per tutto il
giorno una volta smaltita la rabbia di stamattina, mi faccio animo e decido in ogni caso di entrare
nell‟appartamento: la signora Petrelli, in fondo, mi ha affidato le chiavi, sono quindi responsabile di
quanto vi succede all‟interno, e poiché nessuno mi ha avvertito della vendita e della presenza di un
nuovo condomino, non sto per violare alcun domicilio privato, anzi, ufficialmente il mio scopo è
quello di controllare che tutto sia a posto. E se vi troverò dentro qualcuno, magari in vestaglia e in
pantofole seduto sulla poltrona del defunto signor Petrelli a fumarsi un sigaro o a leggere il
giornale, beh, gli dirò con le buone che non ci si comporta in quel modo, e che non intendo
procedere con una denuncia di disturbo della quiete pubblica prima di aver cercato di risolvere,
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pacificamente e civilmente, l‟incresciosa situazione che si è venuta a creare. Certo, nel caso in cui
lui insistesse con il suo inaccettabile comportamento, non mi resterebbe altra soluzione, questo lo
dovrà capire.
Con mia grande sorpresa, l‟appartamento del defunto signor Petrelli non presenta alcun segno di
presenza umana. I mobili, i quadri, le fotografie nelle loro cornici d‟argento, i tappeti, nessun
cambiamento, nulla di nulla. Ho aperto le finestre e mi sono reso conto che ogni cosa è disposta
esattamente come nel giorno in cui la signora Petrelli mi ha condotto nell‟abitazione del suo defunto
ex marito per mostrarmi la disposizione delle stanze, gli accessori e le rifiniture, in modo che io
fossi in grado di magnificarne la raffinatezza a qualche eventuale possibile acquirente. Solo un lieve
accenno di polvere dà agli oggetti e ai ripiani un aspetto quasi evanescente, accentuato dalla luce
radente che il sole ormai al tramonto fa penetrare all‟interno delle stanze. Non è possibile, non ha
senso. Io so, lo so per certo che nelle due notti precedenti qualcuno ha passeggiato su questo
pavimento. E infatti ecco! Ecco le impronte quasi invisibili di un paio di scarpe che hanno
camminato sulla polvere, sono dappertutto, in cucina, in sala da pranzo, in camera da letto, in
bagno, ovunque, dunque non sognavo! ecco le prove di una presenza umana qua dentro. Mi
sentiranno domani i signori condomini, che questa mattina mi hanno preso per uno stupido, scusa
dovranno chiedermi, e non sono nemmeno certo che le accetterò subito, le loro scuse, dovranno
dimostrarsi contriti, soprattutto quell‟arpia della portinaia, e allora vedremo il da farsi.
Soddisfatto dei risultati della mia incursione, mi fermo un po‟ a curiosare nell‟appartamento, ad
ammirare il tavolo di vetro, il cassettone antico, i quadri alle pareti. A un tratto però c‟è
qualcos‟altro che attira la mia attenzione. E‟ la foto incorniciata del defunto signor Petrelli su un
ripiano della libreria. La osservo incuriosito perché non avevo mai notato, quand‟era in vita, la
nostra somiglianza. Forse perché io ho i baffi e lui no, insomma, mi sembrava molto diverso da me.
No, in effetti non ci somigliamo. La sua pettinatura un po‟ frusciante e vaporosa, quegli occhi
sorridenti, l‟espressione disimpegnata, divertita, come se non sentisse su di sé il peso delle
responsabilità, come se il mondo non fosse quell‟arena da combattimento che io devo sperimentare
tutti i giorni, a partire dal momento in cui scendo le scale fino a quando faccio ritorno nel mio
appartamento. Mi vien quasi da ridere, se su di me il riso non sembrasse più una smorfia che un atto
liberatorio. Però… chissà come sarei se assumessi anch‟io quell‟atteggiamento un po‟ sfrontato di
cui soltanto adesso, guardando la fotografia, ho consapevolezza. Non l‟ho mai visto veramente, il
signor Petrelli, se non in casuali incontri sulle scale, buongiorno e buonasera, non ho mai avuto
modo di studiarlo, di comprenderne i modelli di vita. Improvvisamente afferro la fotografia e vado
in bagno, a guardarmi nello specchio, a guardarci, anzi, per l‟esattezza. No. Siamo davvero diversi.
D‟altronde io ho…
Ma come è possibile? Io HO i baffi, li ho sempre avuti fin da giovane, un paio di baffi appuntiti che
mantengo con cura tutti i giorni. Com‟è che non li ho più? QUANDO me li sono tagliati, se solo
qualche giorno fa li ho ripassati con la tintura per nascondere i fili bianchi che stavano facendo la
loro apparizione colmandomi di sgomento? Mi mancano le forze, devo appoggiarmi al lavandino
per non cadere. Non ricordo affatto di essermeli tagliati, i baffi. Torno a guardare la fotografia, poi
lo specchio. I capelli… I capelli no, sono i miei, neri, lisci e lucidi, con la riga in mezzo. Che strana
sensazione. Un brivido mi corre lungo la schiena, non mi riconosco quasi più senza baffi, mi sento a
disagio, e poi me ne devo andare, non mi ricordo più quale scusa ho inventato per giustificare la mia
presenza lì, nell‟appartamento di un estraneo, nel caso il proprietario facesse il suo ingresso da un
momento all‟altro. No, anzi, non è disagio, è quasi un senso di paura, un formicolio sulla punta
delle dita, il cuore che mi batte sempre più in fretta. Devo uscire, ora, subito.
L‟ho fatto. Dopo cena non ho resistito e l‟ho fatto. Mi sono lavato i capelli e ho cercato di pettinarli
come quelli che ho visto nella foto. Ho lavorato di fon per dare loro corpo, li ho arruffati a dovere,
ed eccomi qui. Senza baffi e con i capelli come i suoi. Già. Per gli occhi e per il sorriso ci vorrà
ancora un po‟ di tempo, ma impegnandomi ed esercitandomi chissà che non ci riesca. Mi piaceva, il
signor Petrelli, adesso certi ricordi stanno riaffiorando, non ci avevo mai fatto veramente caso ma
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quando mi incontrava mi sorrideva, come se fossimo amici. Eravamo coetanei, in fondo, e da
lontano, ora che ci penso, potevamo anche essere confusi. A parte i baffi e la capigliatura,
ovviamente. E anche lui con una moglie balorda, che l‟ha lasciato, esattamente come la mia. Chissà
se è tornato, il nuovo condomino. Chissà che tipo è.
Sono davanti alla porta. Dall‟interno non giunge alcun rumore, nulla di nulla. Con mano sicura
inserisco la chiave nella serratura e apro la porta. E‟ buio, ma conosco perfettamente la disposizione
delle stanze e dei mobili. Accendo la luce e mi siedo in poltrona. Sfioro il tavolino davanti a me
guardandomi attorno. Si sta bene, qui, atmosfera solenne ed elegante, una libreria piena di volumi
che tutto a un tratto mi piacerebbe mettermi a leggere. Mi sembra quasi di averci già passato del
tempo, qua dentro, ciò che mi circonda ha un aspetto familiare, anche se so bene che è impossibile,
non ci sono mai stato se non quei dieci minuti quando la signora Petrelli mi ha affidato le chiavi.
Sorrido, e ho la sensazione che anche questo semplice gesto mi stia venendo bene. Mi alzo dalla
poltrona e mi dirigo in camera da letto, e alla fioca luce che filtra dal soggiorno mi accorgo che c‟è
solo il materasso nudo, impolverato, privo di coperte e di lenzuola. Con un moto di stizza mi chiedo
come mai la donna delle pulizie quel giorno non mi abbia ancora allestito il letto come si deve. Mi
sa che domani la dovrò rimproverare. Ma forse, chissà, sarà stata trattenuta da qualche imprevisto, il
bambino ammalato o l‟anziana madre che aveva bisogno di lei. Mi avvicino all‟armadio e mi
guardo allo specchio dell‟anta. Già, devo cambiarmi d‟abito, è da stamattina che ho addosso quella
camicia, quella giacca e quei pantaloni stazzonati. Senza alcuna esitazione estraggo gli indumenti
puliti dalla cassettiera e un vestito fragrante e ben stirato dall‟armadio, e mi cambio. Ecco, adesso
va bene. Adesso sì che sono io. E, cullandomi nelle perfetta percezione di me, comincio a
camminare per l‟appartamento, e pazienza se lascio delle impronte sulla polvere, domani ci penserà
la donna a farle sparire e a mettere tutto in ordine. I miei passi risuonano pesanti nelle stanze, sono
già le due e quaranta, ma, immerso nella profondità delle mie visioni, non sento più alcuna
stanchezza.
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La ballata di Oreste Marroccu
Oreste Marroccu passava i pomeriggi e spesso le notti nel bar dell‟amico Bachisio Carta, vicino alle
casse di bottiglie di birra che in ottima compagnia svuotava. Non facevano niente di particolare nel
“tzilleri”: la solita morra, le solite bevute e la solita pisciata sotto le stelle. Dopo cena, sempre che si
ricordassero di cenare, si disponevano in cerchio e, bicchiere in mano, cantavano il loro repertorio
che invariabilmente cominciava con “Sa crapola” e sprofondava nei canti a tenores.
Oreste era nato a Bingias de Maria ma dalla faccia sembrava uno di Baunei. Aveva costantemente
una barba di tre giorni, una vera, ispida, nera con la quale, volendo, avrebbe potuto grattugiare
un‟intera forma di pecorino stagionato. Eppure il cinghiale toccò il cuore di Carmelina Frongia, così
magra e bassa che faceva pensare a una zanzara. Paradosso della vita, lui grande, grosso e brutto si
faceva comandare dalla zanzara ma solo in privato perché se avesse osato farlo in pubblico Oreste
l‟avrebbe attaccata al muro con una “bussinata”, l‟avrebbe. Ma Carmelina Frongia non aveva paura
di nulla, tranne che dei "pistilloni".
Alle cinque del mattino, Oreste Marroccu, ”imbriagu ke sa suppa”, aveva appena salutato gli amici.
Uscendo dal bar svoltò subito due volte a destra e si trovò davanti al muro a secco dell‟orto di
Bobore Castangia. Era un muro basso e chi passava da quelle parti poteva tranquillamente vedere
cosa Castangia avesse dato da mangiare al suo mulo. Non si trattava di quei muli figli dell‟asinello
sardo e della cavalla ma di un asino grosso continentale. Era un mulo martinese, lo stesso che un
tempo serviva nell‟esercito italiano. Castangia vi era molto affezionato tanto da dargli un nome da
cristiano. Costantino era solito guardare la gente che passava nella via e sporgere la testa per farsi
accarezzare. Marroccu, che contro quel muro per consolidata abitudine stava svuotando la vescica,
lasciò avvicinare il mulo. Lo accarezzò come faceva d‟altronde tutte le notti. Costantino gradiva le
carezze dell‟uomo ma quella notte, chissà che cosa gli era passato per la testa, morse Marroccu tra
collo e spalla. Se non gli avesse dato uno dei suoi più poderosi cazzotti stendendolo all‟istante
l‟animale gli avrebbe sicuramente strappato via un pezzo di carne. Furono le imprecazioni di
Marroccu a svegliare Bobore Castangia che dormiva, pacifico, sognando di guidare i muli
dell‟esercito italiano su per le Alpi contro il nemico austriaco come ai bei tempi della Brigata
Sassari.
Bobore Castangia in un attimo fu vicino al mulo. “Costantino! Costantino!” Poi squadrando
Marroccu: “Cos‟hai fatto al mio Costantino? L‟hai ucciso! L‟hai ucciso!”
“Non è morto!” rispose l‟omone dolorante.
“La giustizia ti sequestri!”
Allora Marroccu non si poté più dominare. Afferrò Castangia per le ascelle, se l‟aggiustò e lo morse
nell‟esatto punto in cui egli stesso era stato morso dal mulo.
Le forze dell‟ordine non tardarono ad arrivare sul luogo. Volarono colpi, insulti, minacce, ma alla
fine Oreste Marroccu fu sopraffatto, ammanettato, trascinato in caserma. Davanti alla caserma
viveva un certo Minigheddu che non dormiva mai. Seduto sul suo scannu neanche alle cinque del
mattino disperava di vedere qualcosa d‟interessante sotto le minigonne di passaggio. Vedendo
Marroccu in manette e scortato dai carabinieri, gli chiese: “E tu che ci fai qui?” Marroccu rispose:
“E che ne so, io! Qui si sono messi ad arrestare…” In effetti, di che cosa potevano accusare
Marroccu? Di maltrattamento di animali? E‟ vero, aveva maltrattato il mulo ma a detta di uno dei
carabinieri si era ripreso quasi subito e ora per lui quel cazzotto era un semplice ricordo. E poi
Marroccu si era solo difeso. Rimaneva la possibile accusa di avere morso Bobore Castangia. Qui
rischiava qualche giorno di carcere, non di più.
Carmelina Frongia dormiva tra le ruvide lenzuola di lino ricevute in regalo dalla suocera. A dire il
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di Lino Soddu
°commenta il racconto
vero, un po‟ tutto il parentado le aveva regalato un paio di lenzuola di lino. Ora che ne aveva
l‟armadio pieno progettava di rifilarle a sua volta a qualche ingenua sposina. Ogni volta che
Carmelina si muoveva nel letto ne sentiva lo sgradevole rumore di tovaglia plastificata che avrebbe
svegliato il marito se si fosse trovato al suo fianco. Aprì gli occhi. Nel buio allungò il braccio e
constatando che ancora non era rientrato dalla sua “imbriaghera” notturna pensò che questa era la
volta buona che se lo ritrovava tutto cagato e pisciato. Ultimamente, appena rientrato correva in
bagno e vomitava tutto quello che aveva in corpo poi si sedeva sul water e vi spruzzava
violentemente il resto. Quando aveva finito, il bagno era peggio di quello della stazione di Mandas.
Accese la luce, guardò l‟orologio a muro: le cinque passate. “Che si sia cagato per strada e non ha il
coraggio di venire a casa?” Carmelina s‟infilò la lunga gonna, la camicia, le scarpe, prese del
cambio per il marito e uscì.
La luna fumava il suo sigaro “a fogu a intru” come un bandito d‟onore mentre le cicale, disposte in
cerchio, cantavano a tenores. Carmelina, costretta ad alzarsi alle cinque del mattino in cerca di un
marito cagato, arrivò davanti al bar che egli frequentava. Era chiuso. Qua e là sul marciapiede
qualche chiazza di vomito fresco testimoniava che anche quella notte Oreste aveva festeggiato con
gli amici. Decise allora di cercarlo nelle viuzze intorno al bar a cominciare da quella
immediatamente a destra. Albeggiava. Camminando in punta di piedi poteva vedere il mulo dietro il
muro a secco e il rigagnolo di piscio lasciato dal marito. Cento metri oltre era aperta campagna.
Chiamò: “Oreste!” Nessuna risposta. Tornando indietro notò dalla luce accesa che Castangia era
sveglio. L‟ex alpino parlava a voce alta. “La giustizia lo fucili. Io a quello lo faccio arrestare, lo
faccio!” Carmelina cominciò a preoccuparsi. Che quelle parole si riferissero al marito? Ogni
secondo che passava questa ipotesi diventava certezza. Così le sue scarpe la condussero davanti alla
caserma dei carabinieri sotto lo sguardo di un Minigheddu rattristato dal desolante spettacolo della
sua lunga gonna.
La strada che porta a Bingias de Maria è una provinciale piena di buchi. A valle è un lungo
rettilineo che attraversa campi monotoni per diventare all‟ingresso del paese un bel viale di fichi
d‟india. A destra, un cartello che festose fucilate hanno trasformato in colabrodo ma che rimane
ancora leggibile: BENVENUTI A BINGIAS DE MARIA. Arrivato nella piazza del paese
l‟avvocato Murtas parcheggiò la sua auto di fronte al comando dei carabinieri. Salutò diverse
persone, tra cui la moglie di Oreste Marroccu. “Di che cosa è stato accusato Oreste?” chiese
quest‟ultima. “Ancora non lo so”, rispose l‟avvocato. “Devo ancora leggere i capi d‟accusa. Stia
tranquilla signora, suo marito è una brava persona. Sono sicuro che si tratta di un‟accusa
inconsistente.” La signora Marroccu si voltò verso i compagni di Oreste con un‟espressione che
voleva significare “Che vi avevo detto io? Siamo in ottime mani!” “Avvocato”, disse Beppe
Murgia, amico di famiglia di Oreste, “prima di andare a parlare con Oreste se la fa una birretta con
noi?” L‟avvocato sembrò pensarci un attimo poi disse: “Perché no? Una sola però!”
Alle quattro del mattino del giorno dopo l‟avvocato Murtas si ritrovò davanti il muro a secco di
Bobore castangia a pisciare l‟anima accarezzando il muso del mulo Costantino.
“Che si fa ora?” chiese Beppe Murgia ai compagni.
“Ci cantiamo una crapola”, rispose Nanni Fois.
“Non intendevo questo”, disse Murgia. “Che facciamo ora che Costantino ha morso anche
l‟avvocato Murtas? Cerchiamo un altro avvocato o ci fidiamo dell‟avvocato d‟ufficio? ”
“Ma è così mal ridotto l‟avvocato Murtas?”
“E‟ grave, purtroppo….”
“ Chi è l‟avvocato d‟ufficio?”
“Cancedda.”
“ Cancedda? Ma se non sa neanche dove è piantato!”
“Mi hanno parlato di uno che fa politica. E‟ un sardista che sa il fatto suo. Vi ricordate il processo
Marongiu, quello che ha dichiarato l‟indipendenza della Tavolara? Lo ha difeso lui.”
“Sì, ma Oreste è accusato di tentato omicidio mica di secessione.”
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“E allora? Se uno è bravo è bravo anche se fa politica!” Poi, rivolgendosi al barista: “Stappaci altre
tre birre, Bachisio!”
“Non mi dica che è a dieta, avvocato!”
“Per carità!”, protestò l‟avvocato Piredda che si lasciò servire un terzo piatto abbondante di
Kulurgionis. “E poi”, continuò, “sua moglie cucina così bene che sarebbe un delitto!”
A casa di Beppe Murgia era festa grande. Un grande avvocato, che dico grande, il più grande degli
avvocati sardi era ospite a casa sua! Quando si dice che a Bingias si è ospitali vuol dire che si è
ospitali e Murgia lo voleva pienamente dimostrare. Mica aveva l‟intenzione di fare la brutta figura
di certa gente che dopo tre giorni gli ospiti se n‟erano andati per disperazione… “Ancora due
kulurgionis, avvocato? Non vorrà mica offenderci?”
L‟avvocato fece questo sacrificio. Beppe Murgia era uno che quando si tratta di roba da mangiare
non voleva correre troppi rischi. Aveva diciamo fatto i conti un po‟ all‟ingrosso. Si era detto: “Io da
solo me ne mangio un chilo. Siamo in tre: tre chili. Per essere sicuri facciamo cinque chili di
kulurgionis." Il pranzo, abbondantemente irrorato di cannonau, fu per l‟avvocato l‟occasione di
parlare di politica e, perché no, di sognare un po‟. Al quarto bicchiere, già immaginava le truppe
sarde che sfilavano per le vie della Capitale sarda al ritmo del passu torrau. Nelle orecchie un
fracasso di sonettus, triunfas, launeddas e cantos a tenores; davanti agli occhi un‟enorme bandiera
con i quattro mori.
“Questa Repubblica ha bisogno di una Costituzione!” affermò improvvisamente l'avvocato, lo
sguardo piantato nel futuro. Grondava di sudore.
“Ma non c‟è già la Carta Delogu?” ribatté Beppe Murgia. “La Carta Delogu appartiene al passato.
Noi Sardi abbiamo bisogno di una costituzione moderna, adatta ai nostri tempi” spiegò l‟avvocato.
“Caterina!” urlò Murgia alla moglie che era andata un attimo in cucina. “Porta il maialetto! E stappa
due bottiglie del vino di Gavino Caboni!” Lanciando un‟occhiata all‟avvocato Piredda aggiunse:
“E‟ un vino speciale, mi creda…” senza accorgersi che l‟avvocato era diventato verde.
“Non ce la faccio più…” ebbe la forza di mormorare quest'ultimo.
“Avvocato, lei mangia come un uccellino!”, disse Murgia servendogli un‟abbondante porzione di
carne.
L‟avvocato, tutto sudato, tremante, ammutolito, ci mise quasi un‟ora prima di arrivarne a capo e
quando credete di avere messo termine alla sua tortura, Murgia lo servì di nuovo con una porzione
esagerata. Mentre l‟avvocato crollava a terra Murgia stava raccontando la storia di una ragazza
anoressica morta di fame sotto gli occhi della madre in lacrime.
Alle quattro del pomeriggio un‟ambulanza si portò via il più grande degli avvocati che la Sardegna
avesse mai avuto.
Fu destino che toccasse a Cancedda difendere Marroccu.
Cancedda era un uomo magro, sempre vestito bene e la borsa di pelle appresso. Già alle elementari
non si sarebbe mai piegato a parlare una lingua così “barbara” come il sardo e mai avrebbe giocato
alla morra, a "zacca e poni" o a “prontus is cuaddus prontus”. Ricordava Oreste Marroccu, durante
la ricreazione, addossato al muro che delimitava il cortile della scuola, alcuni dei suoi compagni
curvi davanti a lui a fare i cavalli e gli altri che saltavano sulle loro solide schiene! Una volta, a
corto di partecipanti, lo invitarono, lo supplicarono di saltare. Fu in quell‟occasione che usò il
termine di “ineducati”. “Maleducati”, avrebbero capito ma “ineducati” scatenò l‟ilarità generale. Il
suo italiano era perfetto, senza accento, mai un errore di doppie, mai una confusione tra vocali
chiuse e aperte.
Quando gli annunciarono l‟arrivo di Camillo Cancedda, il suo avvocato difensore d‟ufficio,
Marroccu chiese al guardiano: “Camillo chi?” e scoppiò in una risata fragorosa. Stava ora seduto
davanti a lui e al verbale del maresciallo Esposito:
" La notte del 3 giugno 1985, giunti presso l‟abitazione del signor Castangia Salvatore..."
"Mi fai un favore Cancedda?” l‟interruppe Marroccu, “Durante il processo non parlare..."
Quella domenica pomeriggio Bingias era deserta. La signora Carmelina Frongia, prima di uscire di
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casa, chiuse le finestre, controllò la bombola del gas, i rubinetti, le luci di tutte le stanze e lasciò nel
cortiletto davanti casa una ciotola piena d‟acqua e un‟enorme porzione di malloreddus nel piatto del
gatto Marceddì. Dentro la Uno bianca Beppe Murgia e la moglie Caterina stavano bisticciando a
proposito di una cassetta che quest‟ultima si rifiutava di sentire. Si trattava di una cassetta del coro
di Bitti che il marito metteva mattina e sera indifferente alle sue proteste. L‟arrivo della signora
Frongia li mise d‟accordo. Aveva un‟espressione così seria che Murgia fermò il nastro. Alle cinque
del pomeriggio, la macchina di Beppe Murgia partì alla volta di Lanusei.
All‟esterno del tribunale di Lanusei, sulle scalinate e il piazzale antistante era un armonia di cori e
di morre.
“Questo è un palazzo di giustizia, non un ovile!” urlò un usciere grasso sull‟orlo dell‟infarto. I
componenti del coro, che avevano appena attaccato "Addio Nugoro amada", sembravano non
prestargli ascolto.
“Ma è possibile che non capiate la differenza tra un tribunale e un bar? Quelle bottiglie di birra, per
favore!”, si spolmonava l‟usciere. Ma rischiò seriamente di morire quando vide un bingese che
pretendeva di entrare in aula con il suo cane, un pastore fonnese.
“Ma stiamo scherzando? Lo sa lei che qui non entrano i cani?”
“Perché no? Entrano i muli e il mio cane non può entrare?” protestò l'uomo.
“Quello è un teste importante! E ora vada via col suo cane!”
Il bingese mormorò qualcosa in fonnese al cane, lo accompagnò all'uscita e si ripresentò solo
davanti all‟ingresso dell‟aula B.
“Ora posso entrare?”
Questa volta il grasso usciere non fece opposizione.
Quel lunedì erano almeno cento le barritas che, nonostante il caldo da morire, coprivano il capo dei
Bingesi venuti appositamente per assistere al processo di Oreste Marroccu. La maggior parte
portava la camicia bianca, i cambali e dei pantaloni di velluto. Le donne indossavano corpetto,
gonna e grembiule gialli e viola melanzana e agitavano dei ventagli scuri.
Carmelina Frongia occupava il posto dietro al marito. Vicino a lei, Beppe Murgia, la moglie, il
barista Bachisio, i parenti e gli amici dell‟imputato. Vicino a Oreste, l‟avvocato Cancedda. Sul lato
sinistro, il PM Usai, Salvatore Castangia e Costantino, il mulo.
La corte entrò. Erano tre giudici talmente bassi che quando presero posto dietro la loro scrivania
quasi non si vedevano.
“Silenzio!” urlò il giudice centrale battendo sulla scrivania col martello di legno.
“I barras t‟arruinti!” rispose qualcuno dal fondo. Risata generale.
“Silenzio!” urlò di nuovo il giudice. Questa volta non ci furono repliche esilaranti.“Procediamo! Di
che cosa è accusato il qui presente Oreste Marroccu?”
Il P.M. Usai era un cabrarisso con una forte abbronzatura.
“Tentato omicidio, vostro onore. Posso dare lettura del verbale dei carabinieri?”
"Dia!"
"La notte del 3 giugno 1985, giunti presso l‟abitazione del signor Castangia Salvatore, detto
Bobore in località Su Furungoni di Bingias de Maria troviamo sul luogo il suddetto signor
Castangia e il signor Oreste Marroccu ambedue doloranti alla spalla destra per ferita da morso di cui
uno di mulo. Alla nostra venuta quest‟ultimo cominciava ad andare in escandescenza, assumendo
atteggiamento di sfida e insultando pesantemente in lingua sarda il Maresciallo Esposito.
Il maresciallo senza aderire alla provocazione chiedeva i documenti che l‟uomo rifiutava di fornire.
Non potendo più la pattuglia soggiacere alla volgarità di quest‟ultimo che solo successivamente
verrà identificato, ed essendosi lo stesso rifiutato di fornire le generalità lo si invitava a salire
nell‟autovettura di servizio, per poi condurlo presso il Comando per l‟identificazione.
L‟uomo che rifiutava di essere portato al veicolo e fatto salire a bordo cominciava a colpire i
militari con calci, pugni e spintoni. Quest‟ultimi dapprima sopraffatti, essendo stati colti di sorpresa,
riescono solo in un secondo tempo a fermare e a ammanettare l‟aggressore. Il maresciallo Esposito,
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durante la colluttazione che era scaturita con quest‟ultimo, subiva una testata al setto nasale con
conseguente rottura dello stesso.
Stante la condotta tenuta di quest‟ultimo si procedeva a dichiarare lo stesso in arresto ritenendolo
responsabile del reato di resistenza."
“Scusi ma che ci fa questo mulo qui?”
“Non saprei, vostro onore. Lo chieda alla difesa. Noi non abbiamo richiesto la presenza
dell‟animale”, rispose il PM Usai lanciando uno sguardo interrogativo al Castangia.
“Beh, a dire il vero neanche noi, vostro onore”, fece eco l‟avvocato Cancedda guardando Oreste
Marroccu come per chiedergli l‟autorizzazione di parlare.
Il PM Usai, a voce bassa: “Signor Castangia, si può sapere perché ha portato il mulo?”
“Costantino è testimone!”
”Come potrebbe testimoniare un mulo? Ma non rendiamoci ridicoli!” Al giudice: “Vostro onore, si
tratta di un errore. Ci scusiamo. Provvediamo subito a fare uscire il mulo.”
“E dove lo metto vostro onore? Non conosco nessuno a Lanusei!”, s‟esclamò Castangia.
Il giudice scambiò alcune espressioni perplesse con i suoi colleghi, poi rivolgendosi all‟assistenza:
“Qualcuno di voi potrebbe occuparsi del mulo del signor Castangia?”
Ci fu un vociare diffuso, ma nessuno si propose.
“Cominciamo bene!”, commentò il giudice. “Si faccia entrare l‟usciere!”
L‟usciere, che si stava immolando per impedire l‟ingresso in aula a un pastore di Orune che
pretendeva di assistere al processo con il suo gregge di pecore, entrò seguito da alcuni ovini
prontamente richiamati dal pastore stesso. Quando quest‟ultimo vide riapparire l‟usciere con il mulo
s‟esclamò: “E a me mi fa tutte queste storie per due pecore!”
“Procediamo”, disse il giudice visibilmente sollevato.
Proveniente dalla hall, un urlo disumano squarciò il relativo silenzio ritrovato dell‟aula del
tribunale.
“Cos‟è stato? Chi ha urlato?”, chiese pallido il giudice che sembrò ulteriormente rimpicciolito.
Il pastore di Orune si affacciò in aula. Tutti si voltarono.
“Quello è un mulo che morde! Il mulo ha morsicato l‟usciere!”
Nel frattempo le sue pecore invadevano l‟aula. Ce n‟erano dappertutto. Il loro continuo belato
costringeva il giudice a urlare per farsi sentire.
“Fate sgombrare l‟aula! Fate sgombrare l‟aula! No, la toga no! Portatemi via questa pecora!” Le
forze dell‟ordine, impegnate col pastore a fare uscire il grosso del gregge, ignoravano letteralmente
il giudice il quale stava disperatamente tentando di allontanare una pecora particolarmente vorace
che si era attaccata alla sua toga. Le pecore erano quasi tutte uscite quando si sentì un cane abbaiare
delle vocali gutturali nel duro dialetto fonnese. Non trovando via di fuga il gregge impaurito dallo
zelo del pastore fonnese, si riversò nuovamente nell‟aula del tribunale.
“L‟ho capita la storia, io! L‟ho capita! Non c‟è bisogno di farla tanto lunga e di sentire testimoni e
scemenze varie!”, urlò il giudice nella confusione più totale. “Il signor Marroccu è stato morso dal
mulo e non vedendoci più dal dolore se l‟è presa col responsabile! Perciò mi pronuncio per il non
luogo a procedere, il morso del signor Marroccu non essendo reato o tutt‟al più autodifesa! Ora
accompagnatemi a casa per favore! Non ci voglio stare neanche minuto di più in questo
manicomio!”
Oreste Marroccu fu immediatamente circondato da familiari e amici. Ci furono abbracci e baci,
strette di mano.
“Ce la cantiamo una crapola?”, propose Nanni Fois.
Gli amici si strinsero in cerchio e intonarono la più sublime “crapola” che tribunale ricordi.
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Mal‟anima
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di Elys
Il caldo non stava risparmiando niente e nessuno. La radio gracchiava sul tavolo della veranda una
vecchia canzone di un amore perso in guerra e mai più ritrovato. Il sole feroce di luglio s‟aggrappava
alle tegole scivolando sul legno in lunghe e sottili ombre, tremolanti sagome intrise d‟afa.
Faticavo a respirare seduta sul dondolo a fissare il vuoto. Il silenzio divorava ogni cosa. Pensieri. Parole.
Preghiere.
Mamma aveva smesso di urlare solo da pochi minuti. Il suo strazio s‟era spento insieme alla mia voce,
incapace di liberare lo sgomento dal cuore. Papà se ne stava fermo, fuori dalla stalla, con la vanga stretta
tra le mani, sporco di terra e zuppo di sudore. C‟erano state domande prima. Dubbi. Richieste di fare
qualcosa perché non poteva essere vero. Marescia‟, marescia‟ te prego, te prego, dicci che è viva.
Marescia‟ per favore. Il maresciallo Catalano s‟era limitato a scuotere la testa e subito l‟appuntato
Caltagirone aveva buttato su Veronica una sudicia tovaglia trovata appesa a un chiodo sporgente dalla
parete.
«Caltagiro‟, vedi de chiama‟ Petitti e Armaioli e digli de veni‟ subito. Al dottore ce penso io.»
«Comandi marescia‟!»
L‟avevo trovata io mia sorella. Appesa a una trave che penzolava da una delle sue cinte preferite. La
faccia bianchissima. Gli occhi topazio sbarrati. Le braccia inermi lungo i fianchi magri. I capelli neri
arruffati, strappati sul vestito giallo di cotone. La morte si era stampata chiara addosso a lei e di sicuro
non sarei mai stata in grado di dimenticarla. Non capivo perché avesse scelto d‟impiccarsi. Di farla
finita senza dire nulla. Neanche uno stupido biglietto aveva lasciato. Niente. I miei l‟avevano tirata giù,
convinti di poterla sentire emettere un fiato di vita. Speranza inutile.
Mi strinsi nelle spalle tirandomi in piedi a osservare il caotico arrivo dei carabinieri e del medico legale.
Dai mezzi parcheggiati malamente scesero un cinquantenne abbronzato dalla mole imponente e due
ragazzi dai volti contratti: Gianfranco Petitti e Luca Armaioli. Uscivamo con loro qualche volta. Li
conoscevamo bene. Sembravano parecchio frastornati dall‟accaduto. Il dottore, invece, mi dava la
schifosa impressione d‟essere a una specie di gita premio. Una cosa di routine per lui. Come fare la
spesa al supermercato. Li raggiunsi e tornai a posizionarmi accanto ai miei genitori, talmente stravolti da
non riuscire nemmeno a parlare. O a muoversi. Erano diventati statue di cera massacrate dall‟estate.
Catalano s‟avvicinò subito al gruppo appena arrivato e facendo segno a Luca e a Gianfranco di andare
dentro, trasse un profondo respiro. Aveva un‟aria grave. Nemmeno lui s‟aspettava quell‟orrore. A
Veronica e a me, c‟aveva viste crescere.
«Marini, sei arrivato presto stavolta.»
«Marescia‟ e lo sa che io cerco sempre de fa‟ le cose per bene. Se ogni tanto me capita de fa‟ tardi è solo
perché Roma c‟ha il traffico perenne.»
«Sì, sì sempre er traffico ce sta.»
«Marescia‟ lei che vive in campagna non se ne po‟ rende troppo conto, ma giuro che la capitale è come
un girone dantesco.»
«Un girone dantesco?»
«E sì marescia‟.»
«Annamo dentro va.»
S‟avviò verso l‟interno della costruzione, seguito dall‟altro. Non aveva voglia di scherzare. Glielo
leggevo negli occhi il fastidio e il disgusto di dover guardare ancora. Di dover fare i conti con il suicidio
di una ragazzina.
Giuseppe Marini tolse il panno consunto e subito posò dita e sguardo sul collo.
«Marescia‟ che è morta perché il collo s‟è spezzato non ce sta mica tanto da dubita‟. Guarda qua che
casino, se vede pure così, a crudo.»
«A che ora?»
«Marescia‟, direi intorno alle tre de stanotte.»
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°commenta il racconto
Il maresciallo sospirò, osservando tutto intorno.
«Allora se po‟ ipotizza‟ che è salita là sopra…»
E indicò una specie di soppalco occupato dal fieno.
«…s‟è legata alla trave co‟ quella cazzo de cinta e buttata de peso.»
«È plausibile marescia‟. Mesa‟ che questa voleva esse sicura de rimanecce secca.»
«Si chiama Veronica lei!»
La frase mi uscì dalla bocca spontanea e rabbiosa. Non sopportavo di sentire trattare mia sorella come se
fosse stata un oggetto. Una bambola rotta per l‟incuria dei padroni.
«Scusame ragazzi‟, non volevo offende nessuno. »
«Va beh Mari‟ qua hai finito?»
«Sì marescia‟, „na cosa più perfetta gliela posso di‟ dopo l‟autopsia.»
«E allora aspettamo „sta autopsia.»
Si avvicinò a noi, mentre Marini s‟allontanava verso la Volvo e appena mi fissò, capii che voleva
parlare con me.
«Michela, l‟hai trovata tu giusto?»
«Sì.»
Presi un‟ampia boccata d‟ossigeno .
«Stamattina. Quando me so‟ svegliata e ho visto il letto vuoto, so‟ andata a cercarla. Poi so‟ venuta fuori
e ho visto che la stalla era aperta. Veronica stava là. Non diceva niente. Allora…allora ho chiamato
mamma e papà.»
L‟uomo volse l‟attenzione a mia madre e mio padre.
«Signora Angelini, me rendo conto che è difficoltoso parlare proprio a „sto momento, ma me deve dire
perché l‟avete fatta scende a Veronica. Insomma, senza aspetta‟ a noi.»
«E che dovevamo fa marescia‟? La dovevamo lascia‟ appesa a quella maniera senza che…e poi…e poi
speravamo che fosse ancora viva…sì…viva…almeno un po‟...»
Catalano s‟asciugò la fronte bagnata di sudore con un fazzoletto, senza replicare. Al posto loro avrebbe
fatto la stessa cosa. Ne ero sicura. Al cento per cento.
«Catala‟ perché ce fa tutte „ste domande? »
Papà, finalmente, parve riemergere dal suo limbo gettando via la vanga.
«So‟ domande di routine, signor Angelini. È la prassi.»
«Prassi de che? È chiaro che mi figlia s‟è ammazzata o no?»
«Certo che è chiaro. Ma la prassi dice così.»
«È solo „na perdita de tempo. Lasciatece in pace.»
Io ero d‟accordo con lui. Non servivano a niente tutte quelle indagini e scrivere su stupidi fogli
“impiccata” non ce l‟avrebbe restituita.
Strinsi i pugni voltandomi verso di lei. Luca si era chinato a scattarle delle foto. Il flash della macchina
le illuminava le iridi vitree, la carnagione trasparente e i lividi. Pensai, sfiorandomi una guancia, a
quanto continuasse ad essere uguale a me. Identiche. Identiche eravamo. Ma perché non avevo capito
che c‟era qualcosa di strano nei suoi comportamenti? Perché m‟erano sfuggiti i dettagli? Dove stavo
quando gridava, nel silenzio, il bisogno d‟essere aiutata?
Rabbrividii, sebbene l‟afa mi stesse aggredendo. Avrei avuto quell‟aspetto da morta.
La tovaglia tornò a nasconderla.
Armaioli si fermò per un secondo ad accarezzarle la nuca. Ebbi l‟impressione che stesse piangendo.
Gente vestita di nero. Una processione. Gente con un cero spento tra le dita. Non ce sta spazio nel
Regno dei Cieli per quelli come lei. Lamenti. Gemiti dimessi. Un‟agonia.
S‟è sgozzata sul dondolo de casa. Nonna, occhi aperti nella notte e corpo affogato nel suo stesso sangue.
Non capivo perché se ne fosse andata in quel modo. Avevo appena quattro anni e quella faccia
macchiata d‟orrore m‟imputridiva i pensieri. Fu nonno a venire in mio soccorso. Solenne, mi sollevò
sulle ginocchia e parlò.
«È un fatto de mal‟anima, piccole‟.»
«Mala che?»
«Mal‟anima, mal‟anima.»
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«E che sarebbe?»
«È „na cosa che te prende qua, proprio al centro del core e te lo sfracella. Te lo rompe, capito? Quando
succede…insomma quando c‟hai certi dolori non ce sta cura che tiene. Tu‟nonna non je la faceva più e
s‟è tagliata il collo.»
Il male dell‟anima.
Sussultai, svegliandomi di soprassalto, madida di sudore.
«Un sogno. Un sogno…solo un sogno.»
Afferrai agitata la bottiglietta d‟acqua dal comodino e la bevvi avidamente.
Dalla cucina percepii un borbottio confuso.
Scossi la testa frastornata. Anche Veronica aveva la sua stessa malattia?
Non avevo il tempo d‟interrogarmi. Catalano era entrato in casa. Lo sentivo salutare i miei con la sua
voce bassa e roca. C‟erano novità. Brutte novità. Nervosa piombai fuori dal letto, precipitandomi da loro
ancora in pigiama.
«Marescia‟, com‟è c‟è venuto a visita‟ così presto? »
«Eh signora mia er dottor Marini s‟è voluto fa di‟ bravo stavolta. M‟ha portato i risultati dell‟autopsia e
appena l‟ho letti…beh sapete è la prassi.»
«Ancora co‟ sta prassi Catala‟? Che ce sta scritto de così prezioso su quei fogli? Mi‟ figlia non s‟è rotta
il collo?»
«Sì, sì signor Angeli‟ se l‟è rotto eccome. È per quello che è morta.»
«E allora? Che ce sta de novo?»
Riuniti intorno al tavolo, in piedi e con i muscoli tesi, s‟osservavano tutti e tre senza decidersi a portare
a termine la discussione. Io, immobile sulla soglia, spiavo ogni mutamento d‟espressione nel
maresciallo e da quanto potevo capire dai lineamenti contratti del volto, il medico legale doveva aver
scoperto qualcosa di sconcertante.
«Ce sta „na cosa inaspettata Giuliano.»
«Cosa?»
Mamma taceva. Indosso aveva ancora i vestiti del giorno prima. Non aveva dormito e le occhiaie
scavate ne erano un‟eclatante testimonianza.
«Veronica…Veronica c‟aveva un fidanzato da che voi sapete?»
«Veronica non c‟aveva nessuno.»
Papà sibilò con rancore quelle parole.
«Giuliano…qualcuno c‟ha avuto de sicuro perché era incinta de qualche settimana.»
Sgranai gli occhi, impallidendo. Mia sorella aspettava un bambino? Come diavolo era possibile? Se
avesse fatto sesso con qualcuno me l‟avrebbe di sicuro confessato. Oppure no?
Sentivo di non conoscerla più.
«Ma che me sta a di‟ marescia‟? Che me sta a di‟?»
«Signora Angelini…Emma…cerchi de sta‟ calma. »
«Sta‟ calma? Sta‟ calma? E come faccio a stamme calma dopo „na simile notizia? Se mi‟ figlia stava
incinta vuol di‟ che s‟è ammazzata pe‟ questo…pe‟qualcuno…magari l‟hanno fregata..magari non
sapeva ando‟ sbatte la testa! Dio mio…Dio mio…»
Mio padre non rispose. Se ne restò zitto con lo sguardo a terra. Le braccia tremavano di rabbia e
sconcerto. Chi aveva incontrato Veronica? Chi le aveva fatto credere di non avere altra scelta che quella
d‟impiccarsi?
«Marescia‟…»
«Michela, ciao.»
«…marescia‟…allora è omicidio. Perché non chiama quelli de Roma per ave‟ un aiuto?»
«Michela te sbagli. T‟assicuro che non ce stanno dubbi sul fatto che s‟è suicidata. Armaioli e Petitti
hanno analizzato tutto per bene. Te fidi de noi, no?»
«E certo me fido ma allora me lo sa spiegare lei come è possibile che io non sapevo niente de „sta
storia? Era mia sorella! Dividevamo tutto! Non era tipo da fa „ste cose! Ne so‟ sicura!»
Catalano s‟avvicinò, posando una mano sulla mia spalla e fissandomi con quei suoi occhi nocciola. Un
sottile velo di barba grigia gli copriva le guance e il mento, raddolcendo i marcati contorni del viso.
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«Michela me rendo conto che è difficile per te. Siamo tutti provati. Ma la vita è fatta strana. Non se po‟
sape‟ tutto delle persone. Ci stanno segreti dentro…che non c‟abbiamo sempre il coraggio de rivela‟.»
«Mal‟anima.»
Sussurrai a denti stretti. Ce l‟aveva anche lei.
«Che hai detto?»
Non replicai.
«Me faccia capi‟ Catala‟…»
Papà s‟era appoggiato contro il tavolo. Non l‟avevo mai visto così ridotto in pezzi.
«…ora che se fa? Che fa lei?»
«Vediamo de scopri‟ con chi c‟aveva „na storia Veronica. Non è detto che sapesse de aspetta‟ un
regazzino.»
«Marescia‟…marescia‟…»
Mamma lo afferrò con forza per un braccio, guardandolo disperata.
«…pensa che…che gli hanno fatto qualcosa de brutto? Che gli hanno fatto quella cosa là?»
«Emma non glielo so di‟ per ora. Marini sta a fa altri accertamenti.»
Tommaso si passò il dorso sulla fronte, accaldato.
«Quando c‟ho notizie ve informo.»
«Grazie…grazie marescia‟.»
Appena se ne andò, mi precipitai di nuovo nella mia stanza, aprendo con violenza l‟armadio e frugando
alla ricerca di qualcosa. Una traccia. Un maledetto “perché” taciuto e portato nella tomba. Ma era
inutile. Non c‟era niente lì. Assolutamente niente. Afflitta reclinai la testa in avanti, irrompendo in un
pianto forte e disperato. I singhiozzi mangiavano i residui del silenzio e cancellavano le tracce della
precedente quiete.
Il tempo sembrava essersi fermato. Come il mio cuore. Crollai in ginocchio. Tutto mi ricordava
Veronica. Sentivo la sua voce cristallina chiamarmi dal giardino. Le risate. I suoi passi leggeri danzare
sotto la veranda al suono delle canzoni di Enrique Iglesias. La vedevo smarrirsi nei pensieri, mentre se
ne stava seduta sulla cassapanca, davanti alla finestra aperta.
Era incinta. Se lo sapeva a qualcuno doveva averlo raccontato. Afferrai il cellulare. Armaioli forse
m‟avrebbe dato qualche risposta. Lo chiamai.
«Ciao Miche‟!»
«Tu lo sapevi?»
«Che?»
«Non fa il finto tonto che hai capito!»
«Miche‟, io non sapevo niente!»
«Non me di‟ bugie Luca! Veronica con te ce parlava!»
«Capitava che veniva da me, però dicevamo le solite cose.»
«Luca dimme la verità o vado a parla‟ col maresciallo!»
S‟ammutolì. S‟ammutolì e poi sospirò nervoso.
«Non per telefono. Vedemoce alla quercia.»
Riappesi e rapida indossai jeans e maglietta. Veronica s‟era ammazzata per una ragione ben precisa. Ora
ne ero convinta.
Luca m‟aspettava davanti l‟albero camminando avanti e indietro. Era molto agitato, si capiva dal modo
in cui si tormentava le dita, strappando via le pellicine con violenza. Intorno il campo di grano creava
una cornice color oro, con le spighe mosse dal vento estivo. Il caldo continuava a tormentarci.
«Che sai de mi‟ sorella?»
«C‟aveva paura de qualcuno.»
«Che voi di‟?»
«Ce stava qualcuno che le faceva cose. Cose brutte. Spesso veniva da me a dimme de trovaglie „na
sistemazione alternativa e voleva porta‟ via pure te. Non dormiva un cavolo. Ma non so de preciso che
era.»
Tacque mordendosi il labbro superiore.
«Cioè…io a un certo punto ho capito…ma lei non me scuciva niente. Se ne stava solo zitta a piagne.»
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L‟aria iniziò a venirmi meno.
«E tu perché non m‟hai detto niente? Perché non sei andato da mamma e papà? Se c‟annavi può esse‟
che non se impiccava!»
«C‟ho provato! C‟ho provato! Ma appena m‟ha visto arriva‟ ha fatto un casino! Ha iniziato a di‟ che se
aprivo bocca se tagliava la gola…c‟aveva du‟occhi Miche‟…du‟occhi…sembrava diventata
scema…allora che ne so, io me so‟ spaventato e ho dovuto promette de stamme zitto.»
«Te sei stato zitto pure troppo! Glielo devi racconta‟ al maresciallo! Che stai aspetta‟?»
«Niente…ma me so messo paura…se sa come vanno „ste cose. Se cerca uno da incolpa‟e io co‟ quello
che so posso fini‟ in mezzo ai guai.»
«Se non c‟entri come me stai a di‟, non te devi preoccupa‟. O sei tu che l‟hai messa incinta e adesso non
sai che fa?»
«Ma che te inventi Miche‟? Io non l‟ho mai sfiorata!»
«E chi è stato allora? Chi? Dio mio…Dio mio…e io…io…non me so‟ accorta de
niente…quanto…quanto so‟ stata superficiale? Quanto?»
La verità mi stava uccidendo. Luca mi tirò piano a sé, abbracciandomi.
«Il segreto de Veronica deve usci‟ fori, c‟hai ragione tu. Se ce sta un colpevole e ce sta, la deve paga‟
tutta.»
«E come lo trovamo?»
«Marini sta fa l‟accertamenti. Gli devono arriva‟ i risultati del DNA. Aspettamo de sape‟ qualcosa in
più.»
Annuii e durante il tragitto del ritorno, passando attraverso i filari di granoturco, non riuscii a pensare ad
altro se non alla profonda disperazione di Veronica. Al vuoto dal quale doveva essersi sentita travolta.
All‟angoscia di non potersi confidare con nessuno.
Voleva portarmi via con lei. Perché?
Me lo chiesi ripetutamente mentre in camera recuperavo zaino e torcia. Esisteva un posto speciale, un
posto dove andavamo a rintanarci nei momenti difficili da bambine. Una vecchia baracca abbandonata,
poco distante dalla nostra fattoria. Poteva esserci qualcosa là. Un indizio.
Con la borsa in spalla m‟introdussi nel sentiero sterrato. Sul lato destro il terreno degradava verso il
basso, unendosi agli argini di fango di un piccolo torrente martoriato dalla siccità. I piedi, affondati nella
melma, creavano un fruscio fastidioso, simile a quello di scarpe finite in una pozzanghera. L‟aria era
umida e impregnata da uno sgradevole puzzo di letame. Arricciai il naso infastidita e pochi metri più
avanti mi fermai. Il rifugio era rimasto identico a se stesso. Il tetto distrutto. L‟edera arrampicata sulla
grondaia. La porta sradicata dagli infissi. Il passato non se n‟era andato via neanche per un istante,
rinnegando il presente nei sussurri di voci mai svanite.
«Miche‟! Miche‟! Guarda qua che roba! Ce sta un divano mezzo rotto ma se ce mettemo un lenzuolo lo
potemo usa‟!»
Entrai, facendo attenzione alle assi del pavimento sollevate.
«Vero‟…damme „na mano. Io fino a qua ce so‟ venuta ma adesso tocca a te. Dove devo guarda‟?»
«Miche‟! Qui ce possiamo mette le cose nostre. Vedi? Se toglie „sto pezzo e poi se rimette infilato nel
muro.» Sorrisi.
«Grazie…te voglio bene.»
Mi accostai alla parete di fondo e tolsi con forza la piccola trave. Il movimento produsse un‟assordante
cigolio, subito sostituito dal tonfo di un quaderno scivolato per terra. La maggior parte delle pagine
erano illeggibili, consunte dall‟acqua penetrata dalle fessure. Soltanto l‟ultima annotazione era chiara.
Risaliva al 12 luglio. La notte in cui s‟impiccò.
Se arrivi a leggermi significa che hai capito dove potevo averti lasciato un messaggio. Non me ne sarei
mai andata senza dirti addio e soprattutto senza metterti al corrente della verità. Ho provato con tutte
le mie forze a proteggerti dallo schifo in cui mi ha fatta cadere, tenendotene a distanza. Non ho mai
voluto farmi vedere piangere da te e da mamma. Non ho mai voluto mostrarti il buio della mia anima.
La mal‟anima. Te la ricordi? Nonno ce ne aveva parlato per spiegarci perché nonna s‟era ammazzata.
La mal‟anima è una cosa che se ti prende il cuore te lo rompe. Non esiste cura che tiene.
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Erano bugie, Michela. La mal‟anima te la fanno venire gli altri. Te la fa venire il dolore e la
disperazione dell‟impotenza. L‟impotenza di dover stare zitta a tenere segreti orribili. Io non so perché
lei s‟è tagliata la gola ma di sicuro ci stava una ragione ben precisa, una verità che l‟aveva sconvolta.
Magari aveva saputo chi era lui. Nostro padre.
Devi andartene da quella casa. Papà mi ha rubato la vita incastrandola nel suo sudicio corpo. Non ce
la faccio, non ce la faccio a descriverti quello che mi ha obbligata a sopportare nel silenzio. Notti su
notti. Mentre tu e mamma dormivate. Se confessavo l‟avrebbe fatto anche a te e non potevo permetterlo.
Almeno una di noi deve farcela. E quella che può riuscirci sei tu. Per me non c‟è più speranza.
Ho scoperto di essere incinta. Se questa storia esce fuori tutto il paese saprà cosa mi ha fatto e non
voglio, non posso sopportare gli sguardi della gente. Non posso sopportare di respirare ancora il vuoto.
Quindi ti prego, ti prego Michela, quando trovi questa lettera bruciala. Non fargli infangare il mio
ricordo e il mio nome. Non importa se il prete mi fa seppellire in terra sconsacrata. Non ti arrabbiare
con lui. Va bene?
Giuramelo che io sono sicura ti sentirò, anche se sarò all‟Inferno. Ti adoro. Scappa via. I mostri si
nascondono ovunque. Persino negli occhi di chi dice d‟amarci.
Veronica
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Ceri spenti. Candele in processione. Persone vestite di nero. Aria immobile nel devastante silenzio di
luglio. Don Anselmo non lo celebrò il funerale di Veronica. Era morta sola e sarebbe stata seppellita in
un campo di girasoli, i suoi fiori preferiti. Lontana da tutto ciò che la poteva legare a nostro padre.
Pulita c‟era rimasta e lo sarebbe stata comunque, anche se quella verità fosse uscita fuori.
Il maresciallo Catalano, volto corrugato e avvilito, gettò un giglio sulla bara, già calata nella fossa. Luca
lo imitò, passandosi il dorso della mano sotto gli occhi. Mamma, immobile e rigida accanto a me,
pregava a bassa voce. Sperava nella clemenza di Dio, visto che quella degli uomini non c‟era mai.
Io me ne stavo ferma a fissare la terra cadere su ciò che restava di lei. Sui ricordi. Le illusioni. Le
aspettative e il dolore ingiusto della sua vita.
«Lo sapemo solo noi Vero‟. Noi e più nessuno.»
Bisbigliai.
«Sto‟ segreto de merda ce lo portamo nel cuore pe‟ sempre.»
Mi strinsi nelle spalle, sollevando lo sguardo verso il cielo terso e sereno. Lo stesso cielo osservato dalla
faccia pallida di papà. Sdraiato in mezzo al fango mescolato al suo fottuto sangue. Lo stomaco
massacrato. Le viscere sparse intorno, in un tappeto arso dalla calura.
I maiali se lo sarebbero divorato avidamente.
Di lui non sarebbe rimasta traccia.
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Totuonno Trematerra
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di Luigi Bruno Cristiano
Ho incontrato Totuonno Trematerra durante una sera vagabonda di perfetta sconsideratezza. Sono
sere che diventano notti, e che non si possono prevedere, tantomeno pianificare. Accadono.
Accadono di rado tra gli amici più fidati; quelli che ti amano anche contro la loro volontà, anche
contro la tua volontà.
In quelle sere ci si trova davanti a qualcosa di più forte di noi e si parla di massimi sistemi e di come
uscirne indenni. Ci si consola degli anni che volano e ci si compiace della leggera inconsapevolezza
che ci accompagna. Alla fine ci si sente meglio anche se si sono aggiunti solo altri minuti al
canestro del nostro tempo perso.
Quella sera prometteva quello che poteva promettere, giusto un angolo morbido dove posare le
parole rimaste dopo settimane di lavoro. E, Dio che fatica facevano ad uscire; incastrate come erano
dentro alla bocca, e bloccate dai mille impegni che affollavano i nostri pensieri.
Ci voleva un lubrificante, qualcosa che sciogliesse le incrostazioni che la vita reale ti attacca
addosso perché potessimo “staccare” e ritrovare il vero idiota che dorme dietro i nostri paludamenti
da seri professionisti.
Ci aiutò molto la birra quella sera, tagliata con della pessima tequila e buttata giù a sorsi lunghi. E
finalmente si cominciò a parlare del futuro e ci si chiedeva dove fossero finite le macchine volanti
che ci avevano detto avrebbero sfrecciato nel cielo del 2000.
Niente suggeriva che qualcosa di terribile e meraviglioso stesse per accadere. Anche perché,
nonostante il tasso alcolico dei presenti fosse ben al di sopra dell‟umano, era una sera “in minore”.
Totuonno era dietro di me, o meglio, dentro di me; penso fosse in me da sempre, aspettando che
rasentassi il coma etilico per uscire prepotente. Non ricordo quante birre e tequila erano già
transitate attraverso i giusti canali corporei ma a un certo punto io persi la mia voce e una voce più
potente tuonò dalla mia bocca asserendo di aver visto il futuro e di conoscere le risposte alle
domande che ci affliggevano.
Ricordo una sorta di passaggio, una sorta di consegna di coscienza e poi il tono scuro, basso, della
sua voce nella mia.
“Io, Totuonno Trematerra, nato da donna e uomo per caso, e di Maggio per scelta.
Privo di stigmate per disguidi postali ma portatore del verbo o di handicap, a piacimento; avendo
visto il futuro e le cose che verranno, posso parlare.
Potrei anche tacere, ma sono troppi a tacere.
Troppi tacciono e acconsentono senza sentirsela di acconsentire al tacere...
Quindi parlo!
Ho viaggiato per dimensioni trasversali e oblique all'indomani dell'oggi e all'oggi dell'indomani,
ho battuto strade infinite e di periferia; un pellegrino transdimensionale, un osservatore
transustanziale, un ascoltatore disatteso delle umane transumanze, un trans.
Posso ingannare il tempo ed avvertirvi su cosa e come sarà il domani e perché.
Posso annunciarvi tragedie e amenità, a meno che sia tragicamente ameno il fato e i fatti, nel qual
caso non so... Vedremo, o meglio, vedrò.
Avrò parole di fuoco per i rigidi inverni e frasi raggelanti per le torride estati.
Non posso svelarvi il mio vero nome. Troppi sarebbero quelli che mi adulerebbero palesemente in
pubblico.
Io non voglio un pubblico, neppure un mezzo pubblico, e non amando le mezze misure non so cosa
voglio anzi sì. Voglio un metrò.
Totuonno Trematerra, questo sarà il nome con cui verrò ricordato, e so che verrò ricordato.
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°commenta il racconto
Lo prevedo da ora.
Per il resto è buio.
Però, dovrei avere una pila da qualche parte…”
Chi mi era accanto non si preoccupò minimamente di quanto mi stava accadendo, presero la palla al
balzo e capirono che la serata aveva svoltato, sì decisamente, sarebbe stata una notte memorabile.
Le domande furono molte quella sera, e molte le risposte; moltissime restarono comunque irrisolte,
ma questa cosa era assolutamente irrilevante di fronte alla presenza di quel Veggente, demente
forse, ma sicuramente certo di quanto affermava.
Dopo essersi rivelato Totuonno rimase in silenzio, tracannò il mio bicchiere come non avesse mai
bevuto in vita sua (nostra) e praticamente si sdraiò sulla sedia reggendosi con un braccio allo
schienale. Il silenzio era imbarazzante, tutti avevano capito che qualcosa di potente regnava in me e
parlava attraverso lui o viceversa.
Uno degli astanti crollò il capo e disse:
“Quante cose non sappiamo..
Se veramente potessimo vedere il futuro potremmo prepararci per tempo, e invece no. Inchiodati
qui all‟oggi,fermi a immaginarsi un domani che sarà sempre diverso da quello che ci aspettiamo.“
A quelle parole Totuonno sembrò risvegliarsi, come da un torpore catartico e disse :
“ Brutta cosa l‟ignoranza, brutta cosa.
E voi non sapete come sarà nel futuro! “
Poi, dato uno sguardo furtivo in giro, finì in un fiato la birra di chi gli sedeva accanto e tuonò!
”L'ignoranza del futuro partirà avvantaggiata, ché già adesso qui noi non scherziamo.
Sarà libera e democratica; non guarderà in faccia a nessuno, come Stevie Wonder. E sarà inutile
fare a gomitate per averne di più, a chi tocca tocca, come Stevie Wonder.
Ognuno avrà la sua dose di ignoranza del futuro dalla nascita, e ogni 2 mesi ti faranno i test. Che
se li superi puoi andare avanti, ma poco, e se non li superi puoi andare più avanti e se non ti
presenti ti vengono a prendere in otto e ti portano molto ma molto avanti.
E allora dovrai recuperare e stare indietro come gli altri, ché è da dietro che puoi guardare avanti.
E' da dietro che hai i punti di riferimento davanti. Se sei davanti, avanzi.
E gli avanzi si mettono via per domani.
Ma il futuro è domani e allora c'è il paradosso di te che ti avanzi per il te di domani.
Pensaci!
L'ignoranza del futuro te ne accorgi di come sarà se guardi "Chi l'ha visto?", "Chi vuol essere
milionario?", e in genere tutti i programmi che finiscono con la domanda interrogativa.
Se non lo sanno loro chi vuole cosa e quando, perché lo chiedono a milioni di persone che poi
litigano per cercare di saperlo, e magari chi lo sa sta zitto, e si nasconde per non essere
interrogato, o si interroga se vale la pena nascondersi?
Eh?!
Ma tu vuoi sapere altro, e allora sappi che tutti i libri saranno scritti ad alta voce da Aldo Busi
davanti a una montagna, ma li firmerà Umberto Eco per via dell'effetto surround.
E nessuno li saprà leggere perché bisognerà leggere fra le righe e nelle cartolerie venderanno solo
le squadre.
E sappi che l'ignoranza del futuro la insegneranno nelle scuole del futuro dove a fare lezione sarà
la radio a valvole di sfogo, anche se non ci sarà l'obbligo di frequenza.
E sarà frequente che si perda la frequenza, cosicché andranno in onda le pecore per l'intervallo.
E me le vedo male le pecore in onda che non sono mica brave a nuotare, anche quelle sarde
nonostante il mare che hanno tutt'attorno.
Comunque…
Io l'ignoranza del futuro la vedo messa bene a patto che iniziamo a prepararci da subito! Subito!
Perché l'ignoranza è come un bambino, se la curi bene cresce.”
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C‟era una profonda verità in quello che diceva Totuonno.
La verità che solo gli stolti o gli ubriachi persi riescono ad intuire e cercano di spiegare a loro modo,
peccato che il più delle volte le loro parole siano incomprensibili. Vivremmo tutti in un mondo
migliore. Ma lo potevi vedere da come si muoveva chi lo ascoltava che una scintilla si era accesa
nelle loro speranze di strappare i veli illusori che nascondono l‟essenza della vita; e fu con
un‟umiltà che non ricordavo che uno degli astanti timidamente gli rivolse la parola.
“Maestro, ho pregato per anni un Dio disattento e assente, crudele e misericordioso ma in modo del
tutto casuale. Non capisco il suo disegno. Non capisco se sono nel vero, se un giorno incontrerò
questo mio creatore e se potrò chiedere conto di questa vita, o se dovrò ancora una volta piegare il
capo e accettare di vagare nel buio e di pagare quello che bevo 7 volte 7 il suo valore.
Maestro, come sarà la religione nel futuro?
Chi ci sopravvivrà avrà le risposte che meritano di avere?”
Lui lo guardò con infinita sufficienza, ci pensò un attimo e poi disse :
" Posso già dirvi sin d‟ora che tra qui a poco il Buddismo avrà miliardi di fedeli tanto da indurre il
Dalai Lama a reincarnarsi in un Bilama, ma questo non vi basterebbe, lo so.”
Allora si prese il tempo che serviva a ordinare un Mojto, e così parlò.
”La religione del futuro sarà esistenzial-buddista-teoretica-antiurica.
Avrà le indicazioni d'uso e la sua bella data di scadenza, mica come adesso che te ne becchi una e
poi per cambiarla devi litigare coi parenti. I comandamenti verranno ridotti a uno
onnicomprensivo e sarà " Fate i puri e poi fate pure ", e non si butterà via niente di tutte le
religioni del passato che confluiranno in quella del futuro.
Almeno una volta nella vita tutti dovranno pregare rivolti a nord-est, tenendo in mano un totem,
facendo girare una campana e facendosi il segno dei piccoli appezzamenti di terreno coltivati in
collina, ché anche gli ortodossi avranno il loro bel perché del futuro.
Almeno una volta nella vita tutti dovranno regalare il libro di Mormon o di Bruno Vespa per
strada, facendo finta di essere americani e svegliare almeno 30 persone alla domenica mattina per
fargli fare falsa testimonianza.
Almeno una volta nella vita tutti dovranno bagnarsi nel fiume giallo o in acque di scolo,
l'importante sarà il colore.
Il rosario verrà abolito, per via del ginepraio che potrebbe venir fuori, e se viene fuori il ginepraio
sono dolori e non rose e quindi niente rosario.
Almeno una volta nella vita tutti dovranno avere le unghie incarnate e dovranno reincarnarsi.
Comunque la religione del futuro scadrà ogni 6 mesi e bisognerà rinnovarla, e quindi non è detto
che devi fare tutte quelle robe lì.
I credenti del futuro avranno 5 giorni per rinnovare la religione in scadenza. Nel caso si
dimenticassero di rinnovarla si rinnoverà a caso e chi sarà in chiesa o a casa sarà il caso che si
chieda perché non l'hanno rinnovata dato che non sapranno la religione che gli hanno affibbiato e
saranno dolori.
Le chiese del futuro avranno la moquette sul soffitto per trattenere le preghiere e gli acari, e si
dovrà entrarci dentro in ginocchio con i gomiti a strisciare il pavimento e la testa rovesciata in alto
a guardare il soffitto le preghiere e gli acari; non sarà una cosa facile perché tutti dovranno
impiegarci esattamente 48 minuti del futuro in quella posizione e poi alzarsi di scatto e gridare il
numero degli acari visti, senza cadere e senza sbagliare il numero.
E sarà un miracolo se ci riesci... Ma qualcuno ci riuscirà e allora sarà la prova che la religione del
futuro funziona.
Il problema della religione del futuro è beccare il momento giusto per andare al creatore.
Che se sei nella religione giusta ti si presenta Selen e poi ti moltiplichi, e se becchi il momento
sbagliato ti si presenta Margherita Hack e ti moltiplichi ma di più. E non è giusto perché le donne
non avranno questo problema a loro gli si presenterà sempre Raul Bova e a seconda del momento
si moltiplicano o no.
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Comunque anche l'aldilà del futuro sarà a turni e quindi basta aspettare e prima o poi Selen
arriva.”
Potevi leggere la speranza negli occhi di chi gli aveva rivolto la domanda. La speranza e la
consapevolezza di poter fare e credere quello che voleva. Finalmente aveva avuto una prova che
chiunque fosse l‟Architetto Supremo, aveva immesso nel suo progetto il libero arbitrio, senza
accorgersi dell‟errore.
Totuonno sembrava stremato. Divinare costa dura fatica, bisogna abbandonare il raziocinio e
ascoltare il vento fra le nuvole e quello prodotto dal ventre. Bisogna sentire il peso della propria
pelle sul viso e sforzarsi di tenderla in un sorriso. Bisogna sfocare gli occhi vedere la realtà dietro la
realtà, e ridere della falsità di entrambe.
Io guardavo Totuonno da una prospettiva diversa, del resto stavo guardando me stesso e
onestamente non mi ero mai visto in quello stato; ma a dire la verità non mi dispiaceva. Non mi
dispiaceva aver buttato nel cestino dei panni sporchi quella poca razionalità che mi distingue, e mi
auguravo che finisse in fondo a quel cestino, dimenticata per il maggior tempo possibile.
Chi mi sedeva intorno asseriva e ripeteva le parole del Maestro, in special modo era andata a genio
a tutti l‟idea che Selen prima o poi arriva. Se questo era vero , prima o poi potevi sperare in un
riscatto, nonostante tutto.
C‟era naturalmente chi guardava con diffidenza a quanto diceva Totuonno.
“Scusi Trematerra, ma la vita in sé la costruiamo noi. Siamo noi a dare un “governo” a quello che
accade. Usi, costumi, leggi, tutto è nelle nostre mani o nelle mani di chi abbiamo deciso ci
rappresentasse. Io compro quanto mi suggerisce il buon senso, voto chi mi ispira fiducia, chi mi
garantisce sicurezza e prosperità e soldati a piantonare le discariche che sennò i rifiuti scappano!
Qui la religione c‟entra poco. La religione è territorio dell‟anima, ma se devo o no pagare l‟ICI lo
decide il parlamento. Lei sostiene di poter vedere il futuro, io non vedo la fine del mese a dire la
verità ma lei ASSERISCE di vedere il futuro. E allora ci dica cosa dobbiamo scegliere, cosa
dobbiamo fare per diventare un paese normale?"
Totuonno lanciò un „occhiata di fuoco sui fianchi della cameriera che ci stava servendo per
l‟ennesima volta e disse.
“Non c‟è niente da scegliere, tutto è già scritto. Fate come volete e sappiate che il governo del
futuro sarà basato sui sondaggi in tempo reale.
Tutti i cittadini verranno costantemente interpellati per sapere se il governo del futuro starà
facendo le cose giuste nel modo giusto e nel momento giusto del futuro.
Ognuno avrà una cabina elettorale miniaturizzata appesa al polso, questo per avere in ogni
momento il polso della situazione del futuro.
Perché a nessuno interessa avere il collo della situazione o la caviglia della situazione del futuro.
Tu stai mangiando ed ecco che il governo del futuro ti convoca nella cabina elettorale
miniaturizzata, per sapere se il conflitto di interessi ti interessa e se ti interessa o ti crea conflitti
l'interesse su un conflitto del futuro.
Tu stai con la tua donna ed ecco che venite convocati nella cabina elettorale del futuro, perché al
governo del futuro non interessa se stavate venendo per conto vostro, prima il dovere, poi il
piacere, per piacere!
E dovrete vestirvi e rispondere a domande del tipo, e non vi dicono chi sia il tipo che vi sta
domandando le cose perché il governo del futuro non avrà tempo da perdere con queste stronzate.
Ogni tanto farà le domande trabocchetto, per vedere se il cittadino è attento.
Ogni tanto vi ripeterà la domanda di prima, perché il governo del futuro avrà il suo gusto e se una
cosa non gli piace bisogna che piaccia al popolo del futuro, almeno al 33.3 percento periodico.
E se è questo numero ci sarà un motivo, e il motivo è che se gli va bene è un terzo dell'elettorato, se
gli va male è un periodo.
Il governo del futuro avrà una sola maggioranza, un solo partito, una sola camera, un tinello.
Non ci sarà bisogno dell'opposizione che si oppone alle scelte del governo del futuro perché tutti i
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membri del governo del futuro prima di diventarlo saranno sottoposti a perizia psichiatrica e
dovranno essere tutti schizofrenici.
Così che si faranno opposizione da soli a seconda del momento del futuro.
La democrazia sarà una democrazia a sfinimento.
Sarà garantita dal garante della democrazia del futuro che lavorerà fianco a fianco con il garante
della privacy del futuro e si dà il caso che saranno la stessa persona e allora la democrazia sarà
privata, così privata da essere privata di tutto.
Il governo del futuro sarà buono e farà le cose per il popolo del futuro, che non saremo noi e non lo
so mica a chi va peggio.
Ma il popolo del futuro sarà contento del governo del futuro, perché questa sarà una delle
domande più frequenti e mica si può rispondere sempre di no, specie se te la chiedono ogni venti
secondi, mentre sei al cesso.
A queste parole tutti convennero che l‟attuale congiuntura sociale e politica non poteva portare a
una forma di governo diversa da quella che il Maestro aveva indicato.
Ancora una volta aveva colto nel segno, aveva guardato l‟oggi e proiettato il domani.
Sembrava proprio che Totuonno avesse il futuro in tasca e che ci giocasse con le dita a farlo rotolare
nei pressi dell‟inguine. Non c‟erano domande a cui non avesse risposta. A patto che lo si
continuasse a foraggiare di alcool.
Qualcuno si preoccupò non poco del suo (mio), ritorno a casa.
“Maestro, non può guidare in quelle condizioni!”
Disse qualcuno.
“Posso guidare a condizione che non mi si condizioni; e che funzioni il condizionatore! Questa è
una condizione condizionante! “
Rispose lui, poi si fece scuro in volto.
“Le macchine non voleranno mai, né nel 2000 né nel 3000. Vi hanno raccontato un sacco di balle,
lo so."
Chissà come aveva ricordato una domanda nata in quella sera ancor prima della sua stessa nascita.
A quella frase uno di quelli che ormai si potevano definire degli adepti si rivolse a lui dicendo.
“A proposito, devo cambiare macchina. Mi conviene farlo adesso? Come sarà la macchina nel
futuro? Euro8, Euro9, come?”
Totuonno si strizzo le tempie tra il pollice e l'anulare della mano sinistra e senza soluzione di
continuità rò al volo con la mano destra una birra vagante destinata ad un altro tavolo, la fini in un
fiato ed eruttò.
“La macchina del futuro avrà le ali come i nuvenia pocket.
Così che la guidi anche in quei giorni col tanga.
Avrà 7 chili di segatura ché non si sa mai quale merda puoi pestare.
E potrai entrarci dentro e guardare fuori o viceversa che tanto sarà lo stesso di quando sei fuori e
nessuno ti guarda dentro ma tu da dentro guardi fuori.
Avrà la linea riservata che sul traffico non la senti e ti possono chiamare.
E se rispondi te lo dice che stai rispondendo, così sai quello che fai.
La macchina del futuro te la ruberanno i ladri del futuro.
Che avranno i grimaldelli intelligenti che ti parlano di Schopenhauer quando funzionano bene, e ti
parlano di Flavia Vento quando funzionano male.
Se avrai bisogno di un prete non ci saranno problemi, se avrai bisogno di un panettiere non ci
saranno problemi, se avrai bisogno di una macchina del passato invece sì che ci saranno problemi.
Perché avrai la macchina del futuro e quella non torna indietro.
La macchina del futuro si chiamerà " Duna " .
E se ne avrai una coppia si chiameranno " Ddue " .
E così via, in crescendo.
E planerà sulle disgrazie del mondo come una mosca sul letame.
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La macchina del futuro andrà a Clearasil.
Così avrai la pelle liscia e protetta quando sei in coda.
E adesso che sai queste cose.
Adesso che sai come sarà la macchina del futuro, dimmi...
Perché io devo stare qui a parlartene che lo sapevi già?
Che sono parole inutili per chi non sa leggere, e leggère per chi è inutile.
La macchina del futuro ci aspetta all'angolo.
Questo i politici lo sanno.
E' per questo che fanno le rotonde nelle strade.”
Un ovazione accolse quelle ultime parole. A suggello della serata e a eterno ringraziamento per aver
trovato finalmente una guida spirituale tutti si premurarono a pagare un ultimo giro di Birra e
Tequila.
Totuonno ne aveva bevuta così tanta da non riconoscere la differenza tra il sapore di quello che
stava bevendo e il sapore dell‟acqua.
Finì quel bicchiere e poi cadde in un sonno profondo.
Nessuno osò disturbare il riposo del Vate.
Io ripresi conoscenza qualche tempo dopo con un morso di fame nello stomaco.
Sembrava che il maestro se ne fosse andato, eravamo rimasti in pochi nel locale, ma quelli che
erano restati parlavano di lui.
“Ho fatto qualche cagata?
Chiesi timoroso.
" No, è che mi sembrava che qualcun'altro parlasse per me."
Mi risposero dandomi del lei, ma non ci feci molto caso era già un ottimo risultato che non mi
dessero altri titoli meno nobili.
"Ho voglia di Hamburger, presto!”
Dissi cercando di tirarmi in piedi; gli altri si affrettarono a sorreggermi e a seguirmi. Mi
raccontarono di Totuonno e di tutto, e nonostante ormai fossi totalmente in me, riconoscibile,
sembrava si aspettassero qualche altro colpo di teatro.
Ci trascinammo fuori dal locale per andare in Stazione Centrale. Lì gli hamburger li trovi anche alle
4 del mattino e hanno lo stesso sapore di quelli di mezzogiorno, di ogni Santo mezzogiorno.
Ordinai 4 Big Mac e mi venne da pensare, peccato…
Peccato che se ne sia andato, avrei potuto chiedergli anche io qualcosa.
Avrei potuto chiedergli non so… magari come sarà McDonalds nel futuro…
“Uguale, uguale uguale!”
Rispose il maestro, usando per l‟ultima volta la mia voce.
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ScripTAG Prima edizione – I dieci racconti finalisti
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