Da ogni porto si sottendono infinite rotte verso infinite mete.
Altre terre aspettano di essere scoperte,
altri luoghi aspettano un nome.
Infinite scatole cinesi di sempre nuovi orizzonti
attendono di essere aperte.
Rotte e scoperte dello spirito.
Ogni partenza un nuovo inizio.
Ogni arrivo, l'illusione del fermarsi.
E poi, il richiamo salmastro del destino.
Un altro viaggio, un altro mare, altre terre da scoprire...
In copertina:
Andrea Aste
Departures
olio su tela 50x100 cm - 2006
(tue le opere riprodoe sono di Andrea Aste)
A.V.O. TORINO Associazione Volontari Ospedalieri
Via S. Marino, 10 10134 TORINO
Tel. 011 3187634 - 3198918
www.avotorino.it - e.mail: [email protected]
1981 - 2011
IN VIAGGIO CON LE PAROLE
Dedicato ai Volontari,
ai Pazienti,
agli Amici
in occasione dei 30 anni A.V.O. TORINO
Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.
Nazim Hikmet
SOMMARIO
6
7
8
9
10
11
13
17
23
29
35
41
47
53
59
65
71
77
83
89
95
101
Introduzione di Maria Teresa Emanuel, Presidente A.V.O. TORINO
Introduzione di Erminio Longhini, Fondatore A.V.O.
Le radici dell’A.V.O.
A.V.O. TORINO
A.V.O Regionale Piemonte - FEDERAVO
Andrea Aste: i motivi di una scelta - Biografia
Prefazione
Prima parte
DONO - crescita
ACCOGLIENZA - diversità
INCONTRO - distacco
ASCOLTO - paura
SILENZIO - meditazione
EMOZIONI - motivazioni
MISTERO - rivelazione
SPERANZA - pazienza
OSPITALITÀ - rifiuto
GIOIA - dolore
RISPETTO - cecità
LIBERTÀ - prigionia
AMICIZIA - diffidenza
APPARTENENZA - partecipazione
ABBRACCIO - amarezza
105
111
117
123
129
135
141
147
153
159
165
169
175
181
187
Seconda parte
I.R.V. Istituto di Riposo per la Vecchiaia
SAN GIOVANNI Antica Sede
SAN GIOVANNI BOSCO
MAURIZIANO
OFTALMICO
C.T.O - MARIA ADELAIDE
VILLA CRISTINA
SENIOR RESIDENCE
MOLINETTE
O.I.R.M Ospedale Infantile Regina Margherita
R.S.A - Via Botticelli
SANT’ANNA
MARTINI
GRADENIGO
CENTRO AURORA
5
INTRODUZIONE DEL PRESIDENTE A.V.O. TORINO
Abbiamo pensato molto a quale fosse il modo migliore per celebrare i trent’anni
dell’A.V.O., a cosa potesse rappresentare al meglio il nostro servizio, i nostri valori, i
nostri malati e soprattutto i nostri volontari. Cercavamo qualcosa che rimanesse nel
cuore, ma soprattutto “donasse” uno spunto di riflessione. Doveva essere qualcosa
che fosse in grado di dare emozioni, che avesse un impatto nell’animo ed esprimesse
la consapevolezza di quanto i valori dell’Associazione fossero i veri driver del nostro
operato. Le mie riflessioni mi hanno portato a pensare cosa avrei regalato ad un caro
amico che avesse qualcosa da ricordare o celebrare. Non ci ho pensato molto, la prima
cosa che mi è venuta in mente è stato un libro. Sì , un libro! Un libro ha la forza di trasmettere messaggi, influenzare, emozionare chi legge, ma lascia sempre la libertà al
lettore di percepire ciò che il suo cuore è pronto ad accettare. Un libro non s’impone,
ma è sempre pronto per essere letto. Un libro ha un vissuto per il suo contenuto, ma
vive grazie al proprio lettore. Ognuno di noi ha la facoltà d’interpretare le parole, di
farle proprie e di conseguenza dar loro un’ anima. Questo punto per me è molto importante, un libro senza anima per il suo lettore è come un libro senza parole, non comunica, non ha valore, non vive e non dà emozioni.
Il libro sui trent’anni dell’A.V.O. è nostro, parla di noi, ha una sua anima per l’impegno che abbiamo messo nel farlo, per le testimonianze dei volontari, per il tempo dedicato ai nostri malati e per i valori che ci spingono a credere nell’Associazione. Il
libro ha lo scopo, in primis, di non farci dimenticare chi siamo, di ricordarci tutto
quello che abbiamo fatto negli anni attraverso le parole e le esperienze vissute. Il secondo obiettivo è quello di incentivarci a migliorare, a trovare nuovi spunti e idee innovative per portare sempre valore aggiunto al nostro servizio. Per creare il futuro è
importante prendere ispirazione dal passato e dal presente; queste esperienze vissute
insieme e i nostri valori sono i punti di forza per far “vivere e crescere” l’Associazione in noi e nelle generazioni future.
Desidero rivolgere un ringraziamento al Professor Erminio Longhini, Fondatore
dell’A.V.O., a Pierluigi Crenna (Past President FEDERAVO), a Giuseppe Manzone
(Past President A.V.O. Regionale Piemonte) e a tutti i Presidenti A.V.O. Torino che mi
hanno preceduta. Desidero fare i migliori auguri a Claudio Lodoli (Presidente FEDERAVO) e a Leonardo Patuano (Presidente A.V.O. Regionale Piemonte).
“Non dobbiamo leggere per dimenticare noi stessi e la nostra vita quotidiana
ma, al contrario, per impossessarci nuovamente, con mano ferma,
con maggiore consapevolezza e maturità, della nostra vita.”
Herman Hesse
Maria Teresa Emanuel
6
INTRODUZIONE DEL FONDATORE DELL’A.V.O.
Mi accingo a scrivere la prefazione di questo libro bello ed espressivo. Bello ed
espressivo, perché è tipico della gente di Torino, tenace, ben determinata, accurata ed
essenziale. Torino fu una fra le prime ad aderire all’iniziativa A.V.O., facendomi capire insieme a Genova, Ragusa, Trieste che i confini della mia piccola intuizione
(una ventina di persone che venissero nella mia divisione medica a Sesto San Giovanni per “essere” gli amici del malato e il farmaco della solitudine) si sarebbero
estesi in tutto il nostro Paese. Ciò a conferma che, se la persona aderisce alla volontà di Dio, è Lui che poi opera. Così non possiamo considerare l’A.V.O. nostra, ma
affidata a ben altre mani!
L’A.V.O. è divenuta esempio della vera via da percorrere, se si vuole una società
migliore. La “buona azione” che segue al successo dell’”Io”, è cosa buona, ma non
genera la pace dei cuori e la letizia che derivano dal combaciare della nostra volontà
e opera con quanto è scritto nell’intimo del nostro essere, cioè nella coscienza. La
buona azione è sempre frutto di uno che dà e uno che riceve. L’aspirazione massima,
sia dei credenti sia dei laici che abbiano a cuore il progredire dell’evoluzione verso il
Regno sperato, è la reciprocità, ovvero la disponibilità al dono di sé, sperando in un
analogo ritorno.
La reciprocità, o amore reciproco o agape, è un frammento di Bene Comune, una
pietra vivente del Tempio di Dio in terra. Siamo piccoli, deboli, ma se amiamo per
primi e tutti, i frutti non mancheranno. Infatti ne abbiamo prove multiple. L’ospedale
diviene la città nella città di chi è malato: è nato l’ospedale aperto, oggi in piena evoluzione. È nato un concetto nuovo di malattia: sofferenza da lenire, ma momento di vita
attiva e partecipativa al Bene Comune e a una Società nuova. Il malato non è un terminale di diagnosi e cure, ma è attivo. La sua solitudine è vinta. Grande e bella conquista, ma la marcia in avanti non deve mai arrestarsi. Deve continuare la ricerca di
chi, per varie ragioni, non riesce a godere dei benefici del progredire sociale. Bisogna
essere profeti e sperimentatori con progetti che dimostrino agli scettici che si può avere
un mondo migliore per tutti. Non possiamo essere assenti proprio là dove si affronta
il momento più difficile della vita, quello in cui si avvicina in modo palese la sua fine.
Non si può essere assenti presso colui che ha perso il Bene Maggiore: l’autostima,
l’autonomia, la capacità di riassumere un ruolo positivo nella vita, di avere un pensiero costruttivo. Sono programmi difficili, ma abbiamo già sperimentato che la via
della reciprocità sembra un salto nel buio, ma è ricca di doni insperati che spesso rappresentano il centuplo promesso.
Carissimi amici, ci è stato dato un grande dono e se, nel nostro piccolo, ma insieme volendoci bene cerchiamo di farlo fruttare, abbiamo scoperto il vero senso della
vita con chi ci è vicino e con chi incontreremo. La reciprocità è una forza immensa, che
via via si scopre e che coincide con letizia e pace.
Erminio Longhini
7
LE RADICI DELL’A.V.O.
utto iniziò in un pomeriggio dell’estate 1975, quando il professor
Erminio Longhini, primario medico dell’ospedale di Sesto San
Giovanni, si avvicinò al letto in cui giaceva una donna il cui lamento
aveva attirato la sua attenzione. La donna continuava a chiedere un qualcosa di tanto semplice quanto indispensabile: un bicchiere d’acqua.
Il professore vide che nessuno si avvicinava per accogliere la sua richiesta. Le altre ricoverate erano indifferenti così come l’inserviente,
che stava pulendo il pavimento al centro della sala. Quando il medico domandò a quest’ultima come mai non si preoccupasse di portare un po’
d’acqua alla povera signora, la risposta fu: “Non tocca a me!”. Questa
affermazione fece a lungo riflettere il professor Longhini che la sera
stessa ne volle parlare ad un gruppo di amici che proprio in quel periodo
si ritrovavano per cercare di dar vita a ‘qualcosa’ che portasse solidarietà, aiuto materiale e sostegno morale a chi si trovasse nel bisogno.
Questo ‘qualcosa’ si concretizzò nella risposta positiva a quella domanda: “toccava a loro” creare un’associazione di persone che si sarebbero occupate di altre persone, più sfortunate, in condizioni svantaggiate,
curate sì con professionalità e responsabilità, ma spesso in ambienti spersonalizzanti che le consideravano solo come ‘organi malati da curare’ o
peggio ancora come ‘numero di posto letto’.
L’iniziativa di un’Associazione di Volontariato Ospedaliero (A.V.O.)
fu sperimentata per la prima volta nell’ospedale di Sesto San Giovanni.
Il 6 maggio 1976 nell’aula Borghi del Policlinico di Milano ebbe inizio il primo corso di formazione per i futuri volontari.
Nel dicembre del 1978 venne promulgata la legge n°833 sull’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e per la prima volta una precisa
normativa sancì la presenza del volontariato all’interno delle strutture
pubbliche sanitarie. Questo legittimò il servizio dell’A.V.O. e aprì all’Associazione un’ampia scelta di interventi che andavano ben oltre la
semplice assistenza ai degenti: le offriva la possibilità di concorrere a
tutte le fasi di programmazione dell’attività delle strutture sanitarie e socioassistenziali.
T
8
A.V.O. TORINO
L
’Associazione A.V.O. Torino ebbe origine nel gennaio del 1981 per iniziativa del dottor Guido Genovese presso l’ospedale Gradenigo, sull’esempio di quanto creato a Sesto San Giovanni dal professor Erminio
Longhini. Nel febbraio dello stesso anno iniziò il primo corso di formazione,
in una sala messa a disposizione dalla Curia. Nel marzo del 1981 l’A.V.O. di
Torino iniziò il suo viaggio nelle strutture ospedaliere.
Il secondo corso si tenne presso la Croce Verde e, grazie all’alto numero dei
partecipanti, fu possibile iniziare il servizio al Regina Margherita e al San Giovanni Antica Sede. Nel frattempo la Segreteria lavorava alacremente con il prezioso contributo professionale di un nuovo volontario, il dottor Salvatore Valenti.
Così nel maggio 1981, presso uno studio notarile, i fondatori Guido Genovese,
Francesco Colombi, Albino Consoli, Giovanni Toso, Franco Moizo, Carla Grazia Toso, Anna Muccini Bollini e Elda Periale firmarono lo Statuto A.V.O. di Torino e fissarono la prima assemblea per il 28 aprile 1982.
Alla fine del 1981 iniziò il servizio al Martini e nel maggio del 1982 all’ospedale Mauriziano. Nel 1984 un gruppo di volontari venne inserito presso
l’IRV Istituto di Riposo per la Vecchiaia.
Ad oggi (fine 2011) siamo giunti al 63° corso di formazione di base.
I volontari sono 985 e prestano servizio in 15 strutture (ospedali e case di riposo). Le ore annue di servizio, svolte a titolo completamente gratuito, ammontano a 80.244 (periodo 1/1-31/12/2010). La crescita dell’A.V.O. Torino in
trent’anni di attività è rappresentata dal grafico qui riportato.
Crescita numerica soci A.V.O.Torino 1981-2011
9
Dell’A.V.O. Torino fa parte l’A.V.O. Giovani, che ne rappresenta la forza, la
vitalità e il futuro. I suoi componenti hanno un’età compresa tra i diciotto e i quarant’anni e offrono il loro tempo nelle diverse attività, sia presso gli ospedali, sia
in varie manifestazioni cittadine per promuovere le iniziative dell’Associazione.
Per far fronte alle esigenze di comunicazione tra i volontari operanti nei
vari ospedali di Torino, nel 1981 si diede vita ad un foglio informativo, una
sola pagina battuta a macchina. Soltanto nell’aprile del 1986 il Consiglio approvò la pubblicazione del notiziario AVOTorino Informa, che ora esce tre volte
l’anno, in veste tipografica a colori e con una tiratura di 1.300 copie.
La sede della Segreteria, dapprima in corso Matteotti 11, nel 1985 si trasferì in
via San Marino 30. Oggi è situata in ampi e spaziosi uffici in via San Marino 10.
A.V.O. REGIONALE PIEMONTE
L
’A.V.O. Regionale Piemonte onlus nasce nel 2002. È un’associazione
di secondo livello che raggruppa le Associazioni di Volontari Ospedalieri (A.V.O.) operanti sul territorio regionale con lo scopo di armonizzare e
uniformare l’attività, sulla base delle linee guida stabilite dalla FEDERAVO.
Le A.V.O. del Piemonte prestano attualmente servizio in oltre settanta strutture sanitarie (ospedali, case di riposo o cura dislocate in circa quaranta Comuni
del Piemonte), tramite 3.000 volontari che effettuano assistenza assolutamente
gratuita per oltre 350.000 ore all’anno.
Le sedi principali A.V.O. in Piemonte sono ad Arona, Asti, Borgomanero,
Borgosesia, Bra, Casale Monferrato, Chieri, Ciriè, Cuneo, Mondovì, Novara,
Santena, Savigliano, Torino, Torre Pellice, Tortona, Varallo.
FEDERAVO
L
a FEDERAVO onlus è la federazione nella quale confluiscono le
A.V.O. operanti in Italia. Essa esercita funzioni di coordinamento, indirizzo, formazione e promozione sulle attività delle federate. Attualmente
conta circa 250 sedi e 30.000 volontari che operano in oltre 500 strutture, ospedali e case di ricovero e cura, diffuse su tutto il territorio nazionale, erogando
complessivamente circa 3.500.000 ore annue di servizio gratuito.
La FEDERAVO pubblica il notiziario periodico Noi Insieme.
10
Nel viaggio con le parole abbiamo incontrato un amico, che ci ha donato immagini e pensieri che ben si accompagnano agli intenti del
nostro ‘navigare’. Lo ringraziamo di tutto cuore per aver voluto fare
un pezzo di cammino insieme all’A.V.O Torino e per aver così spiegato i motivi che l’hanno spinto a ‘crescere con noi’:
Andrea Aste: i motivi di una scelta
“There can be no happiness if the things we believe in are different from the
things we do”.
“Non ci può essere felicità se le cose in cui crediamo sono differenti da
quelle che facciamo”.
(Freya Stark)
Freya Stark, la famosa esploratrice britannica, era solita vagare per i deserti
e le steppe del Vicino Oriente in un periodo, siamo agli inizi del Novecento, in
cui non solo pochi europei viaggiavano, ma soprattutto in cui pochissime donne
lo facevano e da sole: la Valle degli Assassini, gli altopiani dell’Iran, Baghdad,
il deserto arabico. Ad ogni miglio percorso le sue emozioni si riversavano in
libri ricchi di meditazioni e pensieri. Attraverso il confronto continuo con il
diverso da sé, con altre culture e genti, scoprì se stessa. Con le sue avventure
Freya incarna la metafora della vita come viaggio di esplorazione e conoscenza;
la vita come avventura verso l’ignoto, quello dentro di noi (secondo l’antica
massima incisa sull’architrave dell’Oracolo di Apollo a Delfi: γνῶθι σαυτόν,
‘Conosci te stesso’) e quello al di fuori di noi. E parte indispensabile di questa avventura sono gli ‘altri’, i “compagni di viaggio” che il destino ci fa conoscere. Si dice che il poeta sufi Rumi pregasse ogni giorno perché il Divino gli
mandasse un amico che gli facesse da specchio in modo da poter così osservare
la propria anima. Ecco, arriva un momento in cui questo richiamo diventa sempre più pressante; la necessità di trovare uno specchio ed il bisogno di esserlo.
Arriva un momento in cui il richiamo del ‘fare’ qualcosa per gli altri diventa
ineludibile, perché solo in questo fare, ovvero nella condivisione profonda di
gioie, dolori ed esperienze di vita con il prossimo, possiamo trovare le radici
della nostra natura umana, il significato del nostro esistere...
11
Dal mio punto di vista l’arte dovrebbe essere qualcosa di cui gioire. Dovrebbe aiutare le persone a dimenticare le proprie preoccupazioni, mostrando la bellezza dell’essere qui ed ora, la magia dell’esistere...
Andrea Aste
Biografia
“Un eterno esploratore, che naviga avanti e indietro
per gli oceani della creatività alla ricerca di nuove
lande da scoprire” è come Andrea Aste, l’artista filosofo, definisce se stesso. Dalla pittura alla scultura, dalla poesia alla
filosofia, dai racconti alle
scenografie teatrali, Aste,
come viene chiamato
negli States, è un vero
uomo del Rinascimento.
Benché principalmente
pittore, i suoi progetti
includono collaborazioni con fotografi, graphic designer, architetti
ed art director a livello
internazionale. Dopo la
laurea e la specializzazione in filosofia del linguaggio, Aste inizia un percorso di ricerca artistica, in un’alchimia di arte e filosofia, che ha dato
origine ad uno stile altamente personale, carico di vitalità ed energia,
stile che lo ha portato in pochi anni all’attenzione internazionale: Olanda,
Francia, Spagna, Canada, Repubblica Ceca, USA.
Recentemente ha partecipato alla Biennale di Venezia.
L’elenco completo delle mostre e dell’aività dell’artista sono visibili
sul sito Internet www.andreaaste.com
12
A quelle parole mute,
a quelle parole
che non hanno una voce
che dia loro un corpo.
A quelle parole
fatte di piccoli gesti
e sfumature sottili.
A quelle parole
la cui anima è un genio
capace di creare
nuovi mondi
di emozioni ed idee...
Le parole non dee olio su tela 50x40 cm - 2008
PREFAZIONE
e ‘parole mute’ a cui Andrea Aste dà suggestiva definizione non possono non richiamare altre parole, in particolare quelle invano cercate
da quei pionieri che furono i volontari della prima ora, quando avrebbero voluto spiegare a tutti - agli amici entusiasti e ancor più agli scettici - il senso e
il sapore delle nuove emozioni di cui l’avventura intrapresa già andava riempiendo i loro cuori.
Quando, trent’anni fa, dalle scoscese rive di un piccolo ruscello i primi volontari salparono su una minuta e fragile imbarcazione e presero a navigare, remando con gran fatica, per approdare nel primo porticciolo, l’ospedale
Gradenigo, aveva inizio un’esperienza straordinaria. Esperienza che si poneva
sì grandi obiettivi, ma che appariva ancora incerta nei suoi primi approcci con
la realtà ed era soprattutto difficile da esprimere e descrivere... a parole.
Di quali parole, infatti, si poteva disporre allora, quando il viaggio era appena cominciato e tutto era ancora da scoprire e da provare?
Le parole si sarebbero forse rivelate dopo, con l’andare del tempo, acquisendo gradatamente ‘corpo’ dal maturare dell’esperienza, ‘significato’ dalla
L
13
scoperta e dal riconoscimento di sensazioni nuove, ‘valore’ dalla verifica delle
attese e delle risposte personali. Non c’era, dunque, altro da fare che aspettare.
Bisognava aspettare che il corso del tempo portasse il piccolo ruscello a
sfociare nelle acque impetuose di un torrente per raggiungere poi quelle abbondanti di un grande fiume e infine - perché no? - quelle misteriose e sconfinate del sospirato mare.
Ma occorreva anche attendere che si desse maggiore ampiezza e consistenza
all’imbarcazione, affinché la primitiva, mitica barchetta a remi si trasformasse
gradualmente fino ad assumere sempre più le dimensioni e le caratteristiche di
una vera nave, qual è ormai l’A.V.O. Torino.
Per realizzare tutto questo, si è attivato un autentico grande ‘cantiere’, nel
quale l’intensa ed instancabile operosità dei numerosissimi volontari e la perizia dei presidenti che li hanno validamente guidati, sono state costantemente sostenute ed animate da una passione ardente e profonda, tale da richiamare
immediatamente la ‘sete’ auspicata da padre Arnaldo Pangrazzi:
“Se vuoi costruire una nave, non chiamare la gente che procura il legno,
che prepara gli attrezzi necessari, non distribuire compiti, non organizzare il
lavoro. Prima sveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato.
Appena si sarà svegliata in loro questa sete, gli uomini si metteranno subito al
lavoro per costruire la nave”1.
Da navigazioni su rotte sempre più ampie e sicure, la nave A.V.O. Torino ha
tratto un insegnamento tale che, tradotto in parole emerse dal profondo delle coscienze e dall’intimità dei cuori, ha assunto contorni chiari e netti, significati
precisi ed inequivocabili, valori espressivi efficaci per testimoniare le meraviglie di un’esperienza che arricchisce i volontari ogni giorno di più.
Le parole che in realtà servirebbero sono moltissime, ma quelle che possono
rappresentare il nostro volontariato sono le quindici che qui proponiamo, esattamente come quindici sono le strutture in cui prestiamo servizio, e che danno
titolo e contenuto ai capitoli del presente libro. Durante la sua stesura, però, a
conferma del fatto che l’entusiasmo e la crescita dei volontari sono inarrestabili almeno quanto la corsa di quel ruscello che ha raggiunto il mare, le parole
si sono man mano raddoppiate fino a diventare trenta. Proprio come gli anni
della nostra Associazione.
___________________________
1
Padre Arnaldo Pangrazzi, Far bene il bene, edizioni Camilliane, 2005.
14
Perché un libro?
“Fra i diversi strumenti dell’uomo, il più stupefacente è senza dubbio il
libro” ci ricorda lo scrittore-poeta argentino Jorge Luis Borges. “Gli altri sono
estensioni del suo corpo. Il microscopio, il telescopio sono estensioni della sua
vista; il telefono è estensione della sua voce; poi ci sono l’aratro e la spada,
estensioni del suo braccio. Ma il libro è un’altra cosa: il libro è un’estensione
della memoria e dell’immaginazione”.
Le trenta parole hanno preso voce raccontando l’avventura dell’A.V.O. Torino, ma saranno i volontari-lettori a costruirne altre, a farle crescere e moltiplicare perché forse…
… dal più bello dei porti non siamo ancora salpati, il più bello dei nostri
giorni non l’abbiamo ancora vissuto, la più bella delle parole non l’abbiamo ancora pronunciata…
Parole
Dicono che le parole son solo parole,
le parole non si dicono mai senza pensare,
le parole non si devono mai giurare,
con le parole si può anche sbagliare,
con le parole si può trovare anche il modo per scusarsi,
le parole non si dicono
come se le portasse il vento
perché ogni parola ha il suo momento,
le parole sempre si devono pensare
perché fanno male al cuore
non si deve mai pensare
che le parole siano solo… parole2.
E dopo questi trent’anni...
La nave A.V.O.Torino proseguirà la sua navigazione per toccare altri porti
e i volontari daranno voce a nuove parole per continuare a crescere, ben consapevoli che…
_______________________________
2
Gjon Bishaj, Amami ancora, edizioni Book Sprint, 2010.
15
Se non sai cosa dire, prova ad ascoltare.
Se non sai cosa dire, prova a condividere il silenzio.
Se non sai cosa dire, prova a domandarti perché?
Se non sai cosa dire, ricordati che nessuno è perfetto!
“Chiunque abbia anche solo una minima esperienza di drammi umani e di
lacrime sa che non sono le parole altisonanti che aiutano a superare le difficoltà o a vincere la paura, ma le parole semplici, pronunciate a mezza voce, gli
occhi negli occhi, frammiste di lunghi silenzi nel riconoscimento della comune
debolezza di fronte alla rocciosa durezza della vita.
Spesso le parole semplici sono le più difficili da pronunciare; le conosciamo, ma siamo restii a dirle, ci sembrano povere e temiamo che non ci facciano ben figurare. Siamo talmente abituati alle frasi solenni e togate che ciò
che è vero non ci basta: lo confondiamo con il banale.
C’è in ciascuno di noi un luogo in cui abita la verità di noi stessi. Lì possiamo scoprire le parole migliori: quelle dell’amore, della bontà, della poesia,
della preghiera. Parole veramente nostre, le uniche attese, le uniche credute”3.
Inizia ora il viaggio con le trenta parole, nell’intento di rappresentare
i trent’anni di esperienza di volontariato dell’A.V.O. Torino, ma non solo.
Le stesse parole cercheranno, infai, di interpretare quella sceneggiatura
che è già stata trama dell’intera storia dell’umanità. Nel proporle, desideriamo soolineare che verranno commentate ed elaborate non solo dai
volontari, dai pazienti, da coloro che hanno affiancato l’A.V.O. nella sua
crescita araverso convegni, incontri, corsi di formazione, ma anche da
personaggi autorevoli quali poeti, romanzieri, filosofi, statisti, pensatori,
proprio perché sono parole che non hanno mai perso né cambiato il loro
significato nel cammino fao dall’uomo:
Dono-crescita, Accoglienza-diversità, Incontro-distacco, Ascoltopaura, Silenzio-meditazione, Emozioni-motivazioni, Mistero-rivelazione,
Speranza-pazienza, Ospitalità-rifiuto, Gioia-dolore, Rispeo-cecità,
Libertà-prigionia, Amicizia-diffidenza, Appartenenza-partecipazione,
Abbraccio-amarezza.
_______________________________
3
G. Colombero, La malattia, una stagione per il coraggio, edizioni Paoline,1991.
16
Colori, sapori, profumi.
Il tripudio dell'effimero.
Il fascino della seduzione. Un microcosmo
che vive quanto il baito d'ali di una farfalla.
Cogli la rosa finché è tempo, il fiore che oggi
sboccia domani appassirà.
“Dum loquimur fugerit invidia aetas: carpe
diem, quam minima credula postero”*...
* “mentre parliamo il tempo invidioso fugge.
Cogli l'aimo confidando il meno possibile
nel domani”. (Orazio)
DONO
crescita
Calle olio su tela 20x70 cm - 2008
17
L
’A.V.O. ha le sue radici in un dono.
Con queste parole il professor Erminio Longhini, fondatore dell’A.V.O., esalta l’essenza della nostra Associazione, mentre altrove egli
sottolinea che “gratuità e continuità sono parole che indicano l’essere disponibili al dono di sé, all’ascolto, al dono del proprio pensiero, all’essere
liberi da ogni preconcetto per accogliere il problema dell’altro. In altre
parole essere amore”1.
I valori, i sentimenti contenuti in queste parole non hanno bisogno di
commenti. La voce di un paziente, però, tramite il suo apprezzamento,
sembra possa avvalorarli ulteriormente: “C’è chi, quando se ne va, si
porta via un pezzo di me. E chi mi lascia tanta parte di sé da colmarmi
il cuore”2.
Se nello spirito del volontario c’è la speranza di poter donare qualcosa, il dono che si riceve dai pazienti a ogni incontro è una certezza.
“Davvero vuoi farmi un dono, tu che mi curi? Allarga il mio orizzonte: questa stanza mi sta stretta. Accompagnami passo passo fino alla
finestra più lontana e lasciami lì per un po’. A sognare”3.
È una richiesta che dà gioia al cuore: dare il braccio a chi ha voglia
di pensare a un sogno, quello di “creare un arcobaleno di doni… trasformare le ferite in guarigione. Guarire la vita per guarire la malattia”4. Può forse stupire che una persona sofferente chieda di essere
accompagnata ‘a sognare’, eppure non è raro che un malato riesca a superare la malattia, o una fase della malattia, ponendosi il traguardo di
un sogno da realizzare: il matrimonio di un figlio, la prima comunione
di una nipote, la laurea di un proprio caro. E non è infrequente che riesca a vederlo concretizzato.
Donare è importante. Donare fa stare meglio. Donare è talvolta
un’esigenza incontenibile. E la modalità del dono può essere la più disparata, se solo viene mediata dal cuore.
________________________
1
2
3
4
Convegno Nazionale FEDERAVO, Montecatini 2003.
Lore Dardanello Tosi, Tienimi la mano. Tempo di malattia, tempo di verità, Effatà editrice, 1997.
idem.
Convegno Nazionale FEDERAVO, Termoli 2005.
18
Anna Covini ne fornisce una toccante interpretazione: “A noi volontari rimane il dono delle nostre mani: mani per accarezzare i volti dei
nostri cari e anche volti sconosciuti, mani che sanno parlare, che effondono dolcezza e consolazione… mani in qualche modo benedette,
anche se non consacrate”5.
Ed ecco come la dolcezza del Mahatma Gandhi si esprime in questo
suo invito al dono:
Prendi un sorriso,
regalalo a chi non l’ha mai avuto.
Prendi un raggio di sole,
fallo volare là dove regna la notte.
Scopri una sorgente,
fa bagnare chi vive nel fango.
Prendi una lacrima,
posala sul volto di chi non ha pianto.
Prendi il coraggio,
mettilo nell’animo di chi non sa lottare.
Scopri la vita,
raccontala a chi non sa capirla.
Prendi la speranza,
e vivi nella sua luce.
Prendi la bontà,
e donala a chi non sa donare.
Scopri l’amore,
e fallo conoscere al mondo.
Troppe volte, forse, ci si scorda che il dono più grande sta proprio nella
forza e nel valore dei sentimenti con cui viene porto. Eliana Saracco6, sostenendo che “dai poco se doni la tua ricchezza, ma se doni te stesso doni
veramente”, cita un concetto di Kahlil Gibran7:
_______________________
5
6
7
Notiziario Federavo Noi Insieme, febbraio 2008.
Convegno A.V.O. Regionale Piemonte, Cuneo 2007.
Kalhil Gibran, Il Profeta, edizioni Demetra, 1996.
19
Un uomo ricco chiese: Parlaci del Dare. E lui rispose:
“Voi date poca cosa dando ciò che possedete. È quando date voi
stessi che date veramente. Infatti, cosa possedete se non ciò che custodite e proteggete temendo che vi manchi domani?
E domani, che porterà il domani al cane troppo prudente che bada a
seppellire l’osso nell’immacolata sabbia mentre dietro ai pellegrini va
verso la città santa? E cos’è la paura del bisogno se non il bisogno
stesso? Non è il terrore d’avere sete quando il pozzo è colmo, di una
sete che non si sazia?
C’è chi dona del molto che possiede e lo fa per averne riconoscimento, ma questo segreto desiderio rende bacato ciò che dà. C’è chi ha
poco e dona tutto. Come lui sono i credenti nella vita e nelle ricchezze
della vita, e la loro borsa non è mai vuota”.
Quasi a fare eco a queste parole, Padre Rosario Messina afferma che
“fra tante persone che pensano solo a se stesse, i volontari sono persone che riescono a pensare agli altri: fra tanti che non trovano mai il
tempo per fare tutto, i volontari ne trovano anche da regalare: fra tanti
furbi, i volontari sono dei generosi”8.
Si è parlato finora di donare ‘qualcosa’: un sorriso, una carezza, una
mano tesa, un silenzio attento, una lacrima repressa, ma c’è chi ha scandagliato il pozzo di chi ‘non ha’ per presentare il dono:
Regala ciò che non hai
Occupati dei guai, dei problemi del tuo prossimo. Prenditi a cuore gli
affanni, le esigenze di chi ti sta vicino. Regala agli altri la luce che
non hai, la forza che non possiedi, la speranza che senti vacillare
in te, la fiducia di cui sei privo.
Illuminali dal tuo buio. Arricchiscili con la tua povertà.
Regala un sorriso quando tu hai voglia di piangere.
Produci serenità dalla tempesta che hai dentro.
“Ecco, quello che non ho te lo dono”... Ti accorgerai che la gioia a
poco a poco entrerà in te, invaderà il tuo essere, diventerà veramente
tua nella misura in cui l’avrai regalata agli altri9.
__________________________
8
9
Notiziario Federavo Noi Insieme, settembre 2000.
Alessandro Manzoni, omonimo del grande romanziere.
20
Il donare col cuore tutto quello ‘che si riesce a dare’ ha sicuramente
accompagnato e incrementato la crescita dell’A.V.O. nel suo ‘divenire’.
Uno degli obiettivi del volontario è infatti anche la crescita, mai disgiunta dal desiderio di un continuo miglioramento, in sé e per ‘gli altri’,
come ricorda Giuseppe Manzone: “Non potremo voler bene all’Associazione, non potremo voler bene agli ammalati – che rappresentano
pur sempre il nostro obiettivo primario – se prima non ci sapremo voler
bene tra di noi. Quindi la nostra azione di miglioramento deve iniziare
migliorando noi stessi: non potremo distribuire ed esportare il bene se
per primi non lo possediamo in noi”10.
A testimoniare l’importanza della crescita, in tempi ben diversi ne
hanno auspicato e poi commentato il progredire Erminio Longhini e
Nadia Gandolfo:
“Ognuno di noi si deve moltiplicare e divenire “associazione”11.
“L’essere umano è in continuo processo evolutivo e la nostra Associazione offre l’opportunità di crescita umana”12.
Per il dono non esiste un’unità di misura. Non è valutabile se non
dalla genuinità e dalla generosità delle intenzioni di chi lo offre. Donare
stimola a donare sempre di più. Dono invoca dono, carezza invoca carezza, sorriso invoca sorriso.
“Fate ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso
vi sorprenderete a fare l’impossibile”, esortava San Francesco d’Assisi.
È in questo modo che cresceranno i doni. E cresceremo anche noi,
incoraggiati dalle parole del Mahatma Gandhi:
“Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere”.
______________________________
9
A. Manzoni, omonimo del grande romanziere.
Convegno A.V.O.Regionale Piemonte, Savigliano 2004.
11
Convegno Nazionale FEDERAVO, Monza 1986.
12
58° Corso di Formazione Base A.V.O. Torino.
10
21
Con l’intento di donare,
si accoglie...
Quando penso a te mi rifugio
in un luogo ideale, lontano
ed accogliente. Un luogo segreto,
fao soltanto per le idee belle
e le energie migliori. È un luogo
magico, nascosto ed inaccessibile.
Un luogo proteo da occhi
indiscreti. È una piega nel cosmo
senza spazio e senza tempo, patria
di coloro che si amano...
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C'è un posto nel mio cuore quando... olio su tavola di legno 24x64 cm - 2006
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lla domanda su quale potesse essere l’accoglienza migliore, Gjon
Bishai, un giovane albanese ricoverato a lungo in ospedale a seguito di un grave incidente, ha risposto con una sua poesia:
A
Il sorriso
Un sorriso bello fa bene allo spirito
un sorriso dolce stimola e stringe tanto il cuore
un sorriso sulle labbra aumenta la felicità della vita
un sorriso dolce è come l’amore.
Nella vita bisogna sempre sorridere
perché chi perde il sorriso perde la felicità
perde anche la speranza
perché nella vita è importante il sorriso.
Per questo un giorno senza sorriso è un giorno perso:
il sorriso è il piacere della vita1.
“Scrivo perché le parole mi danno forza e coraggio. Ma soprattutto
scrivo perché amo. Scrivo perché le parole mi aiutano a vivere”, recita
la prefazione al suo libro di poesie. Nessuno meglio di lui può dunque assecondarci nel sostenere che… un sorriso aiuta, un sorriso accoglie. Un
sorriso non costa nulla; arricchisce chi lo riceve, ma non impoverisce chi
lo dona. Nessuno è così ricco da poterne fare a meno e nessuno è così
povero da non poterlo dare. Se vi viene rifiutato, regalatelo, perché nessuno ha tanto bisogno di un sorriso quanto colui che non sa donarlo. Così
la pensa anche Eliana Saracco, quando si chiede: «Perché volontario? Io
lo faccio perché molte volte un sorriso serve più di una medicina»2.
Secondo Pierluigi Crenna, però, l’accoglienza non è un atto dovuto
solo all’ammalato. “Occorre saper accogliere i nuovi volontari, quelli
che hanno avuto o sono in difficoltà, riuscire a esprimere in questi contatti quello spirito di amicizia che dovrebbe animare tutte le attività delle
nostre Associazioni”3.
_________________________
1
2
3
Gjon Bishaj, Amami ancora, edizioni Book Sprint, 2010.
Convegno A.V.O. Regionale Piemonte , Cuneo 2007 .
Notiziario Federavo Noi Insieme, 2002.
24
Accoglienza significa anche domandarsi come poter mitigare la paura
che si cela in uno sguardo smarrito o in una voce che non vuole uscire.
Se non sempre basta l’accenno di un sorriso e una parola può essere già
troppo, si cercherà di decifrare i silenzi della paura o il suono di un grido
inespresso. Tendendo la mano a chi non osa porgerla o asciugando la lacrima del figlio di un paziente si potrà far riemergere il sorriso e costruire il ponte della solidarietà.
“Anche in una semplice presenza amorevole, anche in un solo gesto
di fraterna solidarietà è compreso tutto lo specifico dell’A.V.O.”, ebbe
a dichiarare Erminio Longhini nel 2004, quando l’allora Presidente della
Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli consegnò la medaglia d’oro al
‘Merito della Sanità Pubblica’.
Se davanti agli occhi ci appare tutto il cielo, perché dovremmo fissare
soltanto una stella? Ecco perché non bisogna arrendersi all’iniziale difficoltà dell’approccio, né all’apparente resistenza di chi ci vede per la
prima volta limitandoci a osservare l’incertezza, la ritrosia, la diffidenza;
allarghiamo l’orizzonte, diamo spazio alla visuale del cuore e avvolgiamo il disagio di chi ci sta di fronte con l’ampiezza di un sorriso che
possa infondere fiducia. Abbracciando metaforicamente tutto il firmamento, non solo la tremula stella che teme l’ignoto. Perché, come sostiene la psicologa Giovanna Ardy, “quando un volontario A.V.O. si
avvicina al letto di un ammalato, la sua capacità di comunicare è l’unico
strumento, prezioso e insostituibile, che porta con sé per dare sollievo a
chi soffre”4.
Esprimendosi a proposito del sorriso, Padre Arnaldo Pangrazzi evoca
queste parole di un filosofo medievale: «Io vengo non so da dove. Io
sono non so chi. Io vado non so dove. Mi meraviglio di essere allegro»
e così le commenta5: “Il sorriso è una dimensione psicologica. Tutto
quello che viviamo è legato fra sé, stiamo suddividendo queste dimensioni per cercare di comprenderle, anche se nella vita sono intrecciate
_____________________________
4
5
Convegno Nazionale A.V.O. Giovani, Napoli 2002.
Convegno A.V.O. Torino 2008 “La cura globale del malato”.
25
tra loro. Del sorriso possiamo dire che… ha una dimensione sociale,
perché unisce. Cantiamo insieme e ridiamo insieme: è una dimensione
che crea comunione. Il sorriso nasce da un’intuizione, sorridiamo a
fronte di qualcosa che può essere paradossale, ma è anche qualcosa di
spirituale[...] Il sorriso ci fa bene”.
E del sorriso che accoglie, un paziente ha osservato: “Entri, esci, corri,
accorri. Fai, disfi, provvedi… Pensi a tutto. Non dimentichi nulla. Nulla?
Forse dimentichi la cosa più importante: qualche volta, sorridimi!”6.
Monsieur Ibrahim7, droghiere in un quartiere parigino, si è preso a
cuore la crescita di Momo, un ragazzo ebreo abbandonato e cerca di farlo
sorridere. Momo, però, gli obietta che il sorriso è roba da ricchi e per gente
felice. E Ibrahim: «È qui che ti sbagli. È il sorridere che rende felici».
Perché non accogliere questo invito, cercando di non perdere l’occasione per sorridere? Facciamone una regola, anche se il sorriso dovesse essere triste, perché sembra che nulla sia più triste del non saper
sorridere.
Un sorriso accoglie l’amico, accoglie lo sconosciuto, accoglie chi non
ci conosce. Non si tema però di rimanere sconosciuti agli uomini, bensì
di non conoscerli.
A proposito di ‘conoscere’, in una lettera inviata al fratello, Feodor
Dostoevskij definì insensato pensare che per sapere di più occorra sentire di meno, e viceversa, perché se con la parola conoscere si intende
conoscere la natura, l’anima, l’amore... ebbene, tutto questo si conosce
con il cuore e non con l’intelletto. Ed è proprio nel cercare di conoscere ‘gli altri’ che scopriamo come la Diversità ci renda uguali. Siamo
infatti tutti uguali nella misura in cui ‘tutti’ siamo diversi e ci rendiamo
uguali in ragione di questa diversità. Che sia innegabile che le reciproche differenze ci arricchiscono facendoci crescere lo conferma, se
vogliamo prendere a prestito la scienza, anche il primo principio della
termodinamica: Ogni scambio di energia avviene subordinatamente
all’esistenza di una differenza.
_______________________________
6
7
Lore Dardanello Tosi, Tienimi la mano. Tempo di malattia, tempo di verità, Effatà editrice, 1997.
Dal film Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, Fr. 2003, regia di F. Dupeyron.
26
Durante il convegno sulla ‘Multicultura’, con queste parole si è
espressa Maria Teresa Emanuel: “Al nostro bagaglio di esperienza bisogna integrare qualche nuovo elemento: aprire la nostra visione oltre
confine e avere un’attitudine più di autocritica e mettersi in discussione… È qui che noi volontari possiamo fare la differenza”8.
“Ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò che siamo”, dichiara il
poeta portoghese Fernando Pessoa nel descrivere la diversità. Ma già venticinque secoli fa, nella sua Accademia, predicava Platone ai suoi discepoli
e al popolo: “Quali appaiono a me le singole cose, tali esse sono per me, e
quali esse appaiono a te, tali sono per te; e uomini siamo tu e io”.
E se accoglienza è… accogliere colui che di primo acchito può sembrarti ‘diverso’, domandandoti come vorresti essere accolto tu, se colui
che ti sta di fronte vedesse invece te come ‘diverso’; diversità è… incontro con la differenza.
È da incontri come questo che può formarsi un gruppo; farne parte significa perdere la propria individualità per entrare in un insieme di diversità. E accettando l’individualità di ogni componente nasceranno idee,
progetti, comportamenti che potranno condurre a grandi risultati.
Mentre non si può negare che “vedere un rumeno ammalato cambi
il modo di pensare al rumeno come categoria”9, si può meditare sulle parole di Lao Tzu10:
“Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo
chiama farfalla”.
______________________________
8
9
Convegno A.V.O.Torino 2010, Il volontariato A.V.O. incontra la Multicultura.
Convegno A.V.O. Torino 2008, Le parole dell’ospitalità.
10
Secondo la tradizione cinese, di cui è considerato una delle maggiori figure filosofiche, visse nel VI
secolo e gli è attribuita la scrittura del testo sacro taoista.
27
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra...
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L’altro lato della luna olio su tela 70x100 cm - 2009
Il lato nascosto delle cose, quello segreto.
Il lato misterioso di noi, di ciò che ci circonda. Il segreto ultimo
che si rivela nascondendosi, giocando con noi come un'immagine
riflessa nello specchio...
La magia è ovunque, basta saper osservare.
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el momento dell’incontro, è l’impatto del primo sguardo che può
creare difficoltà: la difficoltà di dover decidere come approcciarsi. Occorre però fare in fretta, far capire che ‘siamo lì’ per chi ci sta
di fronte. Il paziente si aspetta… già, che cosa si aspetta da noi, mentre
giace sotto l’ombra del proprio dolore? Eppure bisogna agire, tentare,
perché “conoscere i sottili e complessi legami che passano attraverso la
comunicazione fra due persone fa la differenza significativa tra una visita di conforto e una relazione d’aiuto”1.
N
L’incontro
Un battito d’ali prelude l’attimo dell’incontro…
Fai che le piume non si arrendano,
fai che non cadano sull’emozione,
né diano ombra al primo momento
sbiadendo la brama di conoscerci,
affinché un silenzio, un sorriso, una mano sulla tua
faccian da sigillo
all’incontro dei nostri sguardi.
E che ognuno di noi diventi ‘l’altro’ 2.
Incontro non è soltanto avvicinarsi ai malati, ma anche accostarsi a
tutti i volontari, alle altre associazioni, per condividerne gli scopi e far
parte di un tutto con il medesimo obiettivo, ‘indossando il camice’ in
ogni momento: “Mi sono accorta che il ‘corso specifico’ poteva essere
‘specifico’ per ogni altro mio ruolo quotidiano. Soprattutto mi sono resa
conto di quanti ruoli spesso ricopro e non sempre analizzo perché possono sembrare routine. Invece sono una ‘persona’ che avvicina altre
persone e, sicuramente, non mi è concesso di diventare ‘automa’ neppure
per un ruolo e neppure per un attimo”3.
_______________________________
1
Convegno A.V.O. Giovani, Napoli 2002.
2
Luciana Navone.
3
Notiziario Federavo Noi Insieme, aprile 1985.
30
Continuando a non spogliarci del nostro camice, proviamo gratitudine per chi ha contribuito a non farci sentire ‘automa’ aiutandoci a crescere, come sostiene Denise Agnorelli: “Dalle persone che ho incontrato
in questi anni di volontariato ho ricevuto molti “grazie” per i sorrisi
che ho fatto, per semplici parole che ho detto, per quel bicchiere d’acqua che ho aiutato a bere, per essere lì vicino a ognuno di loro e non altrove… adesso spetta a me dire quel “grazie”, perché se io li ho aiutati
loro mi hanno resa migliore”4…
Incontro è il desiderio di cambiare se stessi per diventare migliori, per
avviare al primo sguardo il motore della generosità. E sigillare l’incontro con l’invito all’umiltà:
Comincia da te
Quando ero giovane e libero e la mia fantasia non aveva limiti,
sognavo di cambiare il mondo. Diventando più vecchio e più saggio,
scoprii che il mondo non sarebbe cambiato, per cui limitai un po’
lo sguardo e decisi di cambiare soltanto il mio Paese.
Ma anche questo sembrava irremovibile.
Arrivando al crepuscolo della mia vita, in un ultimo tentativo disperato, mi proposi di cambiare soltanto la mia famiglia, le persone più vicino a me, ma ahimè non vollero saperne.
E ora… all’improvviso ho capito: se solo avessi cambiato prima me
stesso, con l’esempio avrei poi cambiato la mia famiglia… il mio Paese
e, chissà, avrei anche potuto cambiare il mondo5.
Iniziare dunque a incontrare la voglia di cambiare, ma soprattutto a
guardare dentro di sé perché, ammonisce Kahlil Gibran, “nessuno può
insegnarvi nulla, tranne ciò che è già latente nelle praterie del vostro
sapere, e…
__________________________
4
Notiziario Federavo Noi Insieme, marzo 2004.
5
Scritta sulla tomba di un vescovo anglicano, nell’Abbazia di Westminster.
31
Per capire il cuore e la mente di una persona,
non guardate ciò che ha raggiunto, ma ciò a cui aspira.
Se veramente tu potessi aprire gli occhi e vedere,
vedresti l’immagine tua in ogni immagine
e se veramente tu potessi aprire le orecchie ed ascoltare,
sentiresti in tutte le voci la tua voce.
Chi sa ascoltare la verità non è da meno di colui che la sa esprimere.
La generosità
consiste nel dare più di quanto si potrebbe,
l’orgoglio
nel prendere meno di quanto abbiamo effettivamente necessità”.
Incontro è incognita, è avventura, è volersi dare senza pretendere di
avere. È riuscire a colmare il bisogno di farsi ascoltare e rendere tenero
il ricordo perché verrà il tempo della sua fine. E che il distacco possa essere dolce, un soffio di parole colte dal gesto della continuità, per quel
che ancora sarà un altro incontro, fra le praterie del domani, fra nuove
dimensioni da scoprire.
Il distacco può non limitarsi, però, a un ‘arrivederci’ o a un ‘addio’.
Lo si può ‘sospendere’ tenendosi aggrappati ai ricordi, alle parole. È
quanto afferma Isabel Allende che, dopo la perdita della figlia Paula,
scrivendo di lei riesce a mantenerla in qualche modo ‘viva’:
“La scrittura per me è un tentativo disperato di preservare la memoria. I ricordi, nel tempo, strappano dentro di noi l’abito della nostra
personalità, e rischiamo di rimanere laceri, scoperti... Scrivere mi consente di rimanere integra e di non perdere pezzi lungo il cammino”.
Quante pieghe, quante sfumature possono assumere le parole? Nella
parola distacco c’è un risvolto estremo, ed è quello trattato a lungo da
Don Sergio Messina, che accompagna da anni il cammino dell’A.V.O.,
nel suo corso Vivere il morire:
“La realtà dell’esistenza non smette di ricordarci continuamente che
siamo creature radicalmente fragili e a termine. Il riconoscimento del
nostro limite creaturale è la chiave che ci apre la porta al ‘benessere’ in
questo mondo. Prendere coscienza che dobbiamo imparare dalla sofferenza e dalla morte. Esse sono maestre di vita, quasi sorelle maggiori
32
che ci insegnano ad amare ciò a cui ci educano, all’inevitabile perdita
di tutto ciò che abbiamo costruito e alla totale ‘restituzione’ che, volenti
o nolenti, dobbiamo affrontare nell’ultimo segmento dell’esistere. Essere consapevoli che occorre imparare a rapportarsi con la propria sofferenza e a dialogare con il proprio morire, affilando l’attitudine
all’ascolto e al rispetto del malato nella sua individualità. Se la natura
ha inserito nel suo meccanismo biologico questa ‘logica’ finale che accomuna tutti gli esseri animati e inanimati perché, a priori, dobbiamo
pensare che la morte sia una cosa deleteria della vita, da fuggire o da
rimuovere e non invece approfondire e valorizzare?”.
L’incontro con la vita e il distacco dalla vita appaiono dunque inscindibili, esattamente come la gioia e il dolore, come ogni diritto e ogni
rovescio di una medaglia. Quale mistero si nasconda in questa realtà non
spetta a noi definirlo.
Tenteremo però, fra le pieghe di una sobria ironia, di intrecciarne le
due facce, suggerendo di usare modi garbati e cortesi nei confronti di
coloro che incontriamo salendo, perché li incontreremo nuovamente
scendendo. Per contro, cercheremo di essere decisi, coraggiosi e distaccati nelle decisioni da prendere, senza trascurare di utilizzare un pizzico
di follia. Non la follia distruttiva, ma quella che spinge l’uomo a oltrepassare i propri limiti.
33
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta…
Quel che non dicono le stelle olio su tela 40x40 cm - 2008
Non chiederlo alle stelle. Non te lo diranno. Ti risponderanno
con un'altra domanda e tu resterai affranto ed ammutolito,
con la domanda inutile in mano, come un bambino che stringe a sé
il suo giocaolo roo.
I fili del destino non sono nelle stelle, ma in te...
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paura
scolto non significa solo udire con le orecchie una voce, ma captare un grido di aiuto, tradurre un silenzio, uno sguardo,
un’espressione di dolore. Ogni essere umano ha bisogno di comunicare
e di essere ascoltato, perché l’ascolto può contribuire a mitigare un’angoscia. Può addirittura guarire. Per tale ragione il volontario ha il compito di appropriarsi, a poco a poco, dell’arte di ascoltare, ‘dietro le
parole’, i sentimenti degli altri.
È quanto desiderava il paziente che ha pronunciato queste parole: “La
malattia raddoppia i miei segreti. Più alto è il loro numero, più profonda
è la mia solitudine. C’è qualcuno disposto ad ascoltarli?”1 .
A
“Saper tacere perché l’altro parli; saper aspettare che l’altro parli;
non farsi prendere dall’ansia di colmare i silenzi; intuire che c’è un silenzio che è condivisione; evitare argomentazioni banali”, sintetizza
Nadia Gandolfo, puntualizzando inoltre che “negare l’ascolto vuol dire
negare la stima e il riconoscimento dell’altro”2.
Quando ti chiedo di ascoltarmi e tu cominci a consigliarmi
non hai fatto ciò che ti ho chiesto.
Quando ti chiedo di ascoltarmi e tu cominci a dire
perché non dovrei sentirmi così,
non rispetti i miei sentimenti.
Quando ti chiedo di ascoltarmi e tu senti di dover fare
qualcosa per risolvere il mio problema,
sei venuto meno alle mie attese.
Ascoltami! Tutto ciò che ti chiedo è di ascoltare,
non di parlare o darti da fare.
Solo ascoltami3.
________________________________
1
Lore Dardanello Tosi, Tienimi la mano. Tempo di malattia, tempo di verità, Effatà editrice, 1997.
Libretto di Formazione FEDERAVO n.19, Il Volontario A.V.O.
3
Notiziario Federavo Noi Insieme, 1999.
2
36
Dopo i ripetuti inviti all’ascolto scanditi in questa poesia, nell’implorazione finale ‘Solo ascoltami’ è quel ‘solo’ a dare forza all’invocazione, trasformandola ‘nel bisogno assoluto ed esclusivo di ogni uomo
che versa nella sofferenza’.
Quante volte, per colmare corte o lunghe pause di silenzio, ci si sforza
di trovare argomenti, di cogliere spunti da quanto ci circonda per avviare, o proseguire una conversazione con l’ammalato? E quante volte
ci scordiamo che, più del parlare, è prezioso offrire l’ascolto delle pause,
dei silenzi, delle cose non dette né udite, ma captate dal cuore? Per Anna
Covini l’ascolto è un gesto di amore:
“Sapere ascoltare come atto d’amore. La gente si può ammalare se
non ha ascolto. L’assenza di ascolto ti destituisce di ogni dignità, ti isola,
ti intristisce, ti fa sentire solo”4.
Sono molti i poeti, i filosofi, i romanzieri di ogni epoca che hanno
invitato a utilizzare le orecchie ben più della voce. Ma, se l'orecchio
non dovesse udire alcun suono, occorrerà cercare di interpretare il silenzio. Come si potrebbero infatti capire le parole, se prima non si fossero compresi i silenzi?
Già nella mitologia si sottolineava come gli dèi avessero dotato gli
uomini di due orecchie e di una sola bocca, per far sì che si potesse ascoltare il doppio e parlare la metà.
Singolare è il pensiero sull’ascolto espresso da chi, come Alessandro
Baricco, i libri li scrive e pertanto dovrebbe auspicarne la lettura:
“Sapeva ascoltare, e sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni
tutti; sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso”.
Spesso non si considera l’ascolto come una forma di comunicazione,
in quanto sembra che un’esigenza fondamentale dell’uomo sia invece il
parlare e ancora parlare di sé. Eppure è certo che tutti vadano alla ricerca di qualcuno che li ascolti, di qualcuno che comprenda il loro bisogno di esternare pensieri ed emozioni.
________________________
4
Notiziario Federavo Noi Insieme, settembre 2006.
37
Quale volontario può asserire che, nel captare l’angoscia di un malato, non abbia letto nei suoi occhi la paura? È la paura dell’ignoto, di
quel che non conosce, di quel che lo aspetta. È un’ombra rivestita di incertezza.
Non rimane allora che fare appello al coraggio, anche se “avere coraggio non significa affatto non avere paura… Accogliere tutto ciò che
la vita ci porta incontro, nei rischi, nelle difficoltà, nel dolore, senza tirarsi indietro, questo è coraggio”5.
Una ragazza giovanissima, prima di morire di leucemia, sfoga nella
poesia la sua voglia di vivere e la paura di morire.
La mia paura
Disegno la paura su un foglio
così va via dal mio cuore.
Di che colore è la mia paura?
È di tutti i colori, come l’arcobaleno.
Non è una paura solo nera tutta nera…
è una paura colorata come la vita”6…
Una paziente ha invece lanciato un accorato messaggio:
“Se solo tu riuscissi a vincere la paura che hai della mia malattia!
Potresti stare seduto qui, vicino a me, prendermi la mano e parlarmi
come facevi quand’ero sana. Che riposo mi daresti, che consolazione!
Scappando, è come se mi dicessi: malata, non ti amo”7.
__________________________________
5
6
7
Elena Ferrario, Notiziario AVOTorino Informa, novembre 2009.
Chiara Biscaretti di Ruffia, Di che colore è la mia paura, edizioni Berti.
Lore Dardanello Tosi, Tienimi la mano. Tempo di malattia, tempo di verità, Effatà edizioni, 1997.
38
Ci insegna Nelson Mandela: “La nostra paura più profonda non è di
essere inadeguati… È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più... E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere inconsapevolmente, diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso… E
quando ci liberiamo delle nostre paure, la nostra presenza, automaticamente, libera gli altri…”.
Facciamo dunque del coraggio la stampella della paura: ascoltiamo,
e seguiamo l’esortazione di Maria Teresa Emanuel: “Per combattere la
paura, bisogna soprattutto credere in chi ha coraggio”8.
_____________________________
8
60° Corso di Formazione Base A.V.O Torino.
39
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio…
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Ad una certa ora olio su tela 100x150x4 cm - 2009
Arriva sempre quando meno te lo aspei. Mentre cammini
in compagnia dei tuoi pensieri, mentre percorri le pagine di
un libro e ti perdi nelle note di una canzone. All'improvviso il velo
dell'illusione si lacera e tue le cose si conneono. Tuo acquista
un senso e all'improvviso vedi la bellezza e la magia del tuo.
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’unico vero maestro non è in nessuna foresta, in nessuna capanna, in nessuna caverna di ghiaccio nell’Himalaya… è dentro
L
di noi.
Con queste parole Tiziano Terzani configura il silenzio, ‘teca’ del
modo di ‘sentire’ tanto l’essenza della vita quanto il segreto del saper
vivere, perché “c’è un momento in cui le parole non sono più un ponte,
ma una barriera. È il momento del silenzio e di un gesto d’affetto, inaspettato”1.
I Silenzi
Il silenzio di chi vive di pensieri
O di chi pensieri non ha
Il silenzio del pentimento
Del bimbo che sogna beato
Del dolore o di chi voce non ha
Il silenzio dell’alba che sorge
O della notte fonda
Degli occhi che brillano
Del cuore che piange
Il silenzio del fiore che sboccia
Dell’albero nudo di foglie
Della neve che si adagia come piume sottili
Il silenzio di una porta che si chiude
Di chi tace verità o bugie.
Il silenzio per proteggere sentimenti celati.
I Silenzi:
Sono parole, parole e ancora parole
Senza suoni.
I Silenzi:
Basta ascoltarli2.
______________________________
1
Lore Dardanello Tosi, Tienimi la mano. Tempo di malattia, tempo di verità , Effatà editrice, 1997.
2
Virgilia Maffiodo, Notiziario AVOTorino Informa, novembre 2007.
42
Quanto può essere prezioso un silenzio? Quale àncora può rappresentare, nei momenti in cui ci affanniamo nel cercare delle parole per
riempire una pausa o per superare l’imbarazzo sorto alla prima occhiata?
Un’eloquente risposta la suggerisce questa perla di saggezza:
Un uomo chiese a un monaco: «Che cosa ti insegna la tua vita di silenzio?». Il monaco, che stava attingendo acqua da un pozzo, gli disse:
«Guarda giù nel pozzo! Cosa vedi?». «Non vedo nulla» rispose l’uomo.
Passò un po’ di tempo e il monaco ripeté: «Guarda ancora! Cosa vedi?».
«Ora vedo me stesso: mi specchio nell’acqua». Il monaco concluse:
«Quando l’acqua è agitata, non si vede nulla. Ora l’acqua è tranquilla. È
questa l’esperienza del silenzio: l’uomo vede se stesso!»3.
Sulla preziosità del silenzio tante sono le voci importanti, autorevoli,
che si sono fatte udire. Eccone alcune:
“Donare il proprio pensiero, ma, proprio perché lo si è donato, distaccarsene e praticare l’ascolto nel silenzio di sé...”4.
Erminio Longhini
“È nel silenzio che impariamo anche l’arte della comunicazione non
solo verbale, riscopriamo il linguaggio dello sguardo, l’espressività del
corpo…”5.
Enzo Bianchi
“Alla fine, non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma i silenzi dei
nostri amici…”
Martin Luther King
La capacità di comunicazione di uno sguardo, la preziosità del silenzio soverchiano di gran lunga miriadi di parole. Lo testimoniano la poesia di un volontario e un aneddoto:
____________________________
3
Apologo dei Padri del deserto.
4
Conferenza nazionale presidenti A.V.O., Cagliari 2009.
5
Notiziario Federavo Noi Insieme, aprile 2007.
43
Intesa
Guardarsi negli occhi
e capire le cose profonde
il travaglio
il soffrire
parlarsi con gli occhi
per dire
ciò che parole non sanno
discorsi
sul filo di un dardo
che va dritto al cuore
intesa pretesa
di un semplice sguardo sincero
il più vero6.
Far silenzio dentro di sé
Un giorno un uomo si recò dal famoso psicologo Carl Gustav Jung
perché non riusciva a far fronte a tutti gli impegni di una giornata di
quattordici ore. Dopo il colloquio Jung gli disse: «Se vuoi guarire devi
cambiare stile di vita. Lavora per otto ore al giorno, poi cena, poi rimani
tranquillo da solo fino al momento di andare a letto». Fin dal giorno
dopo l’uomo eseguì i consigli. Lavorò per otto ore, cenò e si ritirò nel suo
studio. Ma ben presto cominciò ad agitarsi, così ascoltò brani di musica,
iniziò a leggere un romanzo. Il giorno dopo si comportò allo stesso modo
e all’ora di andare a letto stava male come sempre. Tornò da Jung e gli
disse: «Ho seguito le sue istruzioni, ma non per questo mi sento meglio». Dopo aver ascoltato come aveva trascorso le serate, Jung gli disse:
«Non hai capito. Non volevo che passassi il tempo con Chopin, Mozart,
Mann o Hesse. Volevo che restassi solo con te stesso». Allora l’uomo
disse in tono allarmato: «Non posso pensare ad una compagnia peggiore!». E Jung replicò: «Pensa che questa è la parte di te che fai subire
agli altri per quattordici ore al giorno!».
________________________________
6
Pierluigi Bertini, Coriandoli - Pensieri… a volte poesia, edizioni Ibiskos Ulivieri, 2009.
44
Il ‘non saper tacere’, l’usare la parola a tutti i costi può costituire una
mancanza di rispetto nei confronti di chi desidera essere semplicemente
‘ascoltato’.
“Perché hai tanta paura del silenzio? Quando cade la conversazione,
vieni colto da una sorta di panico che ti spinge ad alzarti per sistemarmi
i cuscini; o a correre alla finestra per dirmi che tempo che fa; o a dire
la prima cosa che ti viene in mente… Più è grande la tua paura, più numerose sono le cose che mi taci...”7.
Prima di iniziare una conversazione volta a riempire un silenzio, sarebbe forse opportuno prendere in considerazione il consiglio che invita
a parlare solo in due circostanze: quando si tratta di cosa che si conosce
bene oppure quando la necessità lo esige.
Il silenzio consente di ascoltare la voce del cuore, dello sguardo, dei
gesti rivelatori e l’ovatta che lo avvolge induce a intraprendere la via
della meditazione.
Potremmo trovare tesori inestimabili dentro di noi, se solo concedessimo un tempo di silenzio alla vita di ogni giorno. Se solo riuscissimo,
dopo aver raggiunto la quiete della meditazione, a essere presenti sempre, a ogni respiro, in ogni situazione, senza limitarci ad ascoltare la voce
del silenzio per la durata di un solo respiro.
_____________________________
7
Lore Dardanello Tosi, Tienimi la mano. Tempo di malattia, tempo di verità, Effatà editrice, 1997.
45
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni…
I pensieri e le emozioni formano
una giungla intricata. Fia e misteriosa.
Spesse volte, seguendo la farfalla di
un'idea, mi ci sono perso, perdendo
anche la mia preda...
Ogni volta, però,
ho inciampato in cose che pensavo
di non rivedere più, ritrovando emozioni,
nomi, profumi, sogni, sorrisi...
EMOZIONI
motivazioni
Nella giungla dei miei pensieri olio su tela 50x150x4 cm - 2009
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’aspetto delle cose varia secondo le emozioni, e così noi vediamo magia e bellezza in loro: ma bellezza e magia, in realtà,
sono in noi1.
Se però non riuscissimo a farle affiorare… “non dovremo avere paura
di sognare, perché ogni sogno precede un traguardo”2.
L
È possibile, anche in una realtà come quella della malattia, vivere
l’emozione frutto di un sogno o di un desiderio realizzati. Dovrebbe far
parte dei compiti dei volontari aiutare i pazienti che lo desiderano a coglierne l’opportunità.
È quanto domandano due malati: “Vuoi che un malato sia, per un attimo, felice? Aggiungi un po’ di sentimento al necessario”. E… “Vorrei
che ti sedessi vicino a me, ma vicino davvero, e non ti limitassi a chiedermi: «Hai dormito? Ti fa male? Mangi?». Vorrei sentirti dire: «Parlami
delle tue emozioni»3.
Già Socrate, con il detto dell’oracolo delfico Conosci te stesso, faceva riferimento all’intelligenza emotiva, intendendo la consapevolezza
dei propri sentimenti nel momento in cui essi si presentano.
Il volontario, quando si accosta a qualsiasi espressione di sofferenza,
ha la possibilità di fare un cammino di esperienza che non ha paragoni,
né confini. Egli infatti sperimenta una gamma di emozioni e soprattutto
ha l’opportunità di averne consapevolezza.
Non necessariamente l’esperienza di servizio al malato porta ad essere consapevoli dei propri sentimenti e ad agire per modificarli. In ogni
caso il servizio non solo mette nella condizione di sviluppare capacità
spesso non riconosciute, ma offre il vantaggio di trasformarle in abilità
che diventano ‘strumenti di relazione’. Permette inoltre di conoscere le
proprie emozioni, di imparare a controllarle e di imparare a riconoscere
le emozioni altrui: un cammino di apprendimento che si può trasferire in
campi diversi da quelli del volontariato.
___________________________
1
2
3
Kahlil Gibran, Le Ali spezzate, edizioni Dalai, 2006.
Notiziario Federavo Noi Insieme, marzo 2007.
Lore Dardanello Tosi, Tienimi la mano. Tempo di malattia, tempo di verità, Effatà editrice, 1997.
48
“Quando il mio agire crea benessere nel mio prossimo, allora, come
in un’onda di risacca, il suo star bene aumenta la sua energia positiva
che si espande, e io la ricevo e nutro il mio star bene. In una vibrazione
d’amore”4.
Ci sono circostanze in cui il lasciar trasparire le proprie emozioni è un
atto dovuto innanzitutto a noi stessi. Sovente temiamo di venire giudicati fragili o deboli nel manifestarle, ma il trattenerle potrebbe costituire
una barriera per ‘gli altri’, inducendoli a non esprimere le proprie.
“Non aver paura delle mie lacrime. Chi è veramente disperato non
piange. Le lacrime liberano le emozioni: sciolgono i nodi. È chiaro il
loro messaggio. Dicono: «accetto!». Nulla frena maggiormente le lacrime del disagio di chi ci sta di fronte”5.
Le parole possono diventare musica, evocare note struggenti, far vivere un’emozione. Anni fa ci è riuscito, e ancora ci riesce, Lucio Battisti, con la sua canzone Emozioni …
… E stringere le mani per fermare
qualcosa che
è dentro me
ma nella mente tua non c’è…
Capire tu non puoi
tu chiamale se vuoi
emozioni…
Talvolta dobbiamo imporci sulla ragione per ‘aprire la porta’ alle
emozioni perché, ci ricorda Rita Levi Montalcini: “Rare sono le persone che usano la mente… poche coloro che usano il cuore… e uniche
coloro che usano entrambi”, ma quando la forza dei sentimenti avrà placato le riserve della ragione ci torneranno in mente le parole di Gustavo
Rol: “Ogni giorno di più, mi convinco che lo sperpero della nostra esistenza risiede nell’amore che non abbiamo donato. L’amore che doniamo è la sola ricchezza che conserveremo per l’eternità”.
___________________________
4
5
Giovanna Ardy, Convegno Nazionale A.V.O. Giovani, Napoli 2002.
Lore Dardanello Tosi, Tienimi la mano. Tempo di malattia, tempo di verità, Effatà editrice, 1997.
49
I freni che in certi momenti possono indurci a indugiare sull’aprire
‘quella’ porta possono essere sciolti se rivisitiamo le motivazioni che ci
hanno spinti a scegliere la nostra Associazione. Riusciremo in tal modo
a ritrovare le emozioni per ‘ritrovare le motivazioni’ 6, argomento e titolo del Convegno A.V.O. Torino. Arrivato appositamente per l’occasione e accolto con stima e affetto, Claudio Lodoli ha subito ‘dato un
senso’ a questa giornata:
“Non esistono”, ha detto, “ricette universali, né percorsi certi per ritrovare le motivazioni. Tuttavia dal confronto delle esperienze, dei saperi, delle sensibilità, ciascuno può rivisitare la storia e le ragioni di un
impegno antico, di stimolo per superare le criticità e le incertezze del futuro e dare senso al presente”.
“Quando non si vede bene cosa c’è davanti, viene spontaneo chiedersi cosa c’è dietro” ha poi aggiunto citando Norberto Bobbio e invitandoci a non dimenticare i ‘tempi eroici’: “Le motivazioni dei fondatori
sono sempre uniche. Chi dà origine a una grande impresa, vive un’esperienza irripetibile, sostenuta dalla fiducia, dalla determinazione, dalla
volontà di portarla a compimento a tutti i costi”, mentre le motivazioni
di “coloro che vengono dopo” sono più soggettive, più sfilacciate e soggette a criticità: “A partire dal carisma dei fondatori, ciascuno deve trovare (e spesso ritrovare) la propria via. Lo spirito dei fondatori, infatti,
si trasmette, ma non rimane più lo stesso. Quindi ecco l’esigenza di ritrovare le motivazioni. Ritrovare significa che c’erano, e che devono ancora oggi fungere da stimolo per la conservazione di un’identità o
meglio di una specificità che si è evoluta e che si evolverà ancora, ma
che non deve andare perduta. In quell’identità e in quella specificità è
nascosto il seme delle motivazioni di allora, di oggi e di domani”.
Ha scritto Eugenia Berardo nel suo editoriale a commento del convegno sulle ‘Motivazioni ritrovate’7: “Da questa giornata ho capito
che il futuro A.V.O. è da portare avanti con entusiasmo e partecipazione, senza dimenticare le fatiche, le difficoltà, le emozioni degli
esordi. Ho avuto la conferma che la ricerca delle motivazioni da un
_______________________
6
7
Convegno A.V.O. Torino 2008, Ritrovare le motivazioni.
Notiziario AVOTorino Informa.
50
lato è importante per il volontario nel suo percorso di ricerca di senso
e dall’altra è indispensabile per l’Associazione per offrire percorsi di
formazione e crescita adeguati. Non a caso la ricerca delle motivazioni è un elemento molto importante che va sostenuto per non correre il rischio di sentirsi a volte troppo importanti e indispensabili, a
volte confusi, a volte inutili.”
Le motivazioni, le ‘spinte’ che ci portano a compiere determinate
scelte possono essere le più svariate e a volte mutano nel corso del
tempo. È quanto si evince dal racconto fatto a Marina Chiarmetta da
Anna Maria Poggio, dopo la sua missione in India: “Ero partita con
delle convinzioni radicate sulla solidarietà, il voler bene agli altri, molto
chiare. In India è cambiato tutto, non ero più né buona, né solidale. Mi
sentivo completamente stravolta nel mio rapporto con l’altro. Ho dovuto fare una pulizia a fondo dentro me stessa che mi ha profondamente
cambiata. Quando sono tornata mi sentivo pronta ad affrontare le difficoltà con meno affanno…”8.
Emozioni
Farfalle che han memoria
del passato di bruco:
tesoro inestimabile
per lo scrigno dei sogni9.
Le emozioni non fanno parte della vita, ‘sono’ vita, ne esalano l’essenza e, se talvolta accompagnano il dolore, lo prendono per mano dolcemente e lo aiutano a sperare, a sognare. Nell’assecondarle, potremo
rafforzare le antiche motivazioni che hanno originato la nostra scelta.
______________________
8
9
Notiziario AVOTorino Informa, novembre 2008.
Luciana Navone.
51
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni,
si affronta il mistero…
Quando le foglie perdono
il loro albero, i loro sogni
si colorano del profumo
della libertà. Sanno che nel
grembo della terra saranno
ancora ghianda, albero e poi
foglia ancora...
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Foglie d'autunno olio su tela 80x120 + 80x40 cm (diico) - 2008
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’uomo è un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta
la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io
studio questo mistero perché voglio essere un uomo1.
L’uomo, come la vita, sono un mistero e, se di quel mistero fa parte
ogni essere umano, ancor più se ne sentirà parte colui che, debole e sofferente, minato nel fisico e nello spirito, si vede e si percepisce diverso
da quel che era ‘prima’. Gli sembrerà di essere privo della dignità di
uomo e si chiederà: «Perché proprio a me?». Sarà travolto dai dubbi e le
risposte che si darà potranno indurlo a sentirsi non solo vittima, ma addirittura artefice del lato amaro del mistero dell’esistenza. Lato che dovrà
prima di tutto accettare, se deciderà di affrontarne le asperità. Lo attenderà un mare in tempesta e, se coglierà la sfida, sarà costretto a dargli
battaglia. Se però ce la farà, vedrà l’alba del giorno in cui, guardandosi
allo specchio, riconoscerà quell’uomo-unico che ha riconquistato il vero
se stesso e lo ripresenterà con fierezza al mondo.
“Un volto è un messaggio, spesso all’insaputa della stessa persona.
E un volto non può essere trapiantato o scambiato. Tutti lo vediamo e
nessuno riesce a descriverlo. Non è forse un mistero straordinario che
tra tante centinaia di milioni di volti non ve ne siano due uguali?”2.
L
Mistero
Mistero è la persona
che nella sua profondità rimane insondabile.
Mistero è la malvagità
di cui non ci capacitiamo
e a volte
ci interroghiamo se esista davvero.
Mistero è la morte
che il nostro essere aborre con tutte le sue forze.
Ma mistero più grande di tutti
forse
è quello della volontà e libertà dell’uomo3…
____________________________
1
2
3
Feodor Dostoevskji.
Sara Nosari, I confini della creatività, edizioni Aracne, 2010.
Stefania Garini.
54
Più che cercare di definire il mistero, si può allora tentare di ‘viverne’ il senso. Secondo Albert Einstein “la cosa più bella che si può
provare è il senso del mistero: esso è la sorgente di tutta l’arte e di
tutta la scienza. Colui che non ha mai provato questa emozione, colui
che non sa più fermarsi a meditare è come morto, i suoi occhi sono
chiusi”.
In certe situazioni è difficile sottrarsi al fascino del mistero. È pur
vero che crea incertezza, suscita timore, ma può anche esortare ad andare avanti, a non fermarsi per cercare di dare una risposta ai perchè.
Viverne il senso può significare lasciarsi avvolgere dall’emozione primordiale che ha affiancato l’uomo sin dalla sua comparsa sulla terra.
E tentare di farsi strada fra i banchi di nebbia che all’improvviso oscurano la soluzione, per provare a individuare la via finché il velo non si
sarà alzato. Sconfitto dalla voglia di ricerca, dal desiderio di avvicinarsi alla verità.
Forse Albert Schweitzer stava suonando il suo amato organo, udendo
confondersi le note di Bach col rullio dei tam-tam, quando ebbe a dichiarare che “quello che puoi fare è solo una goccia nell’oceano, ma è
ciò che dà significato alla tua vita”.
Non assume forse un ‘sapore di mistero’ il fatto che quella goccia sia
diventata un vero oceano di grazia per le migliaia di uomini e donne che
arrivavano a Lambaréné in piroga, dal misterioso paese dei Sindara o da
desolate paludi, coperti di piaghe ulcerose, distrutti dalla malaria, accecati dal tracoma, mangiati dalla lebbra? E, se può apparire eccessivo
considerarlo un mistero, è di certo difficilmente spiegabile come al ‘dottore’ non siano state fatali le malattie che curava.
Misteriose appaiono certe dure prove a cui siamo sottoposti, misteriosi i sentieri intrapresi per raggiungere ‘la propria strada’, talvolta intrecciati e confusi fra meandri tortuosi, fra tracce ingannevoli che
allontanano dalla via principale. Si può perdere la speranza se non si
trova la giusta direzione, si può cadere, ma ci si può anche rialzare, intravedere la luce e fare ricorso alle ultime forze per andare incontro al segnale che indica finalmente la strada: la rivelazione.
55
Non sempre si riuscirà a trovare le risposte, a raggiungere la rivelazione, ma è in quei momenti che:
“Lo scopo del volontario rimane quello di crescere nella coscienza
della verità che si cela dietro al mistero della propria vita e di ogni esistenza”4.
Mistero
Mistero è vivere
Mistero è accettare di vivere
nel Mistero delle prove più dure
nel Mistero della gioia più grande
nella battaglia del Mistero
per vincere la sconfitta5.
Vincere la sconfitta. Arrivare dunque alla vittoria, ma il mistero legato
al dolore può accostarsi alla parola ‘vittoria’? Per un malato è possibile,
in una pausa della sofferenza, quando la tenue luce di un’analisi insperata o di un disturbo attenuato gli ridanno speranza. E il velo del mistero
potrà essere, almeno in parte, sollevato.
C’è un mistero che vola nel cielo
sui tetti della città
l’uccellino azzurro
che porta la felicità6…
Questa poesia fa parte della fiaba L’uccellino azzurro, per il cui autore “ogni realtà porta sempre un velo di mistero e di sogno. Sotto questo velo si nasconde la verità profonda dell’esistenza e, quando un
giorno il velo sarà sollevato, si scoprirà l’essenza delle cose”.
È quanto succede ai due protagonisti della favola, i fratellini Tylyl e
Mytyl che, attraverso un sogno, perfezionano la loro formazione, credendo di vivere la realtà. Inseguono, spronati da una Fata con le sem______________________________
4
5
6
Stas’ Gavronski, Notiziario Federavo Noi Insieme, settembre 2001.
Luciana Navone.
Maurice Maeterlinck, L’uccellino azzurro, edizioni UTET .
56
bianze di una Strega, l’uccellino azzurro, ma “non è necessario dimostrare che l’Uccellino azzurro esiste. Tanto meno c’è il bisogno di possederlo: sarà sufficiente credere che esista. […] La favola abitua a
vedere le forme animate, a riconoscere la vita invisibile delle cose, a
sentire la voce dell’acqua in ogni ruscello, in ogni fontana e in tutte le
brocche […]. Questa storia fantastica insegna che qualsiasi strumento
potrà svelarci un mistero”7.
E poiché c’è un tempo per il mistero e un tempo per la rivelazione,
come nella fiaba del ‘c’era una volta’ potrà giungere il momento in cui
il vento della rivelazione spazzerà via le ombre che velano il mistero.
Il sole della rivelazione sorge all’alba del mistero o al suo tramonto
ma, pur non incrociandosi mai, entrambi procedono sullo stesso binario.
Le loro trame si fondono e talvolta sono costrette a rincorrersi, ma si trovano su rotaie inseparabili e indivisibili. A tracciarne la strada è il medesimo fato e per tornare a procedere parallele dovranno accettarne la
sfida perché, in fondo...
Non c’è niente da capire, tutto è mistero.
Bisogna soltanto vivere il mistero.
_________________________
7
Sara Nosari, La favola di Clara,, edizioni Mursia, 1998.
57
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni,
si affronta il mistero,
cresce la speranza…
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Il ponte blu olio su tela 40x50 cm - 2007
Ad Amsterdam c'è un fiume. Sul fiume un ponte.
Sul ponte una panchina. È un posto magico in cui il calderone
delle mie emozioni trovava pace. Aspeando che tu arrivassi,
nascevano forme e colori, immagini e parole.
Quanto dolce era l'aesa...
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a speranza è l’aria che sostiene la ragione, senza la speranza la
ragione non potrebbe volare e senza la ragione la speranza sarebbe cieca1.
L
La speranza schiude alla vita i sogni, affinché mondino dal dolore la
vita stessa, perché…”la speranza sta all’ombra del dolore”2.
Ombra che ha dato luce e forza a un malato in pericolo di vita:
“L’ho scoperto in questi mesi: la speranza è come il sangue; non si
vede ma deve esserci. Il sangue è la vita. Così la speranza: è una cosa
che deve girarti dentro e ti fa sentire vivo. Se non l’hai sei morto, sei finito. Quando non hai più speranza è come se non avessi più il sangue” 3.
Fra coloro che hanno dedicato un pensiero alla speranza Padre James
Kaller, fondatore dei Cristofori, l’ha così definita:
“La speranza apre le porte là dove la disperazione le chiude. La speranza scopre ciò che può essere fatto, invece di lamentarsi per ciò che
è impossibile. La speranza accende una candela nell’oscurità, invece di
imprecare contro le tenebre”.
La psicologa Alessandra Graziottin ha esortato i volontari a perseguirla perché:
“Il volontario ha la possibilità di incoraggiare la voglia di guarire,
la voglia di vivere in chi è malato, stanco, sfiduciato, e ha bisogno di essere accompagnato nel percorso interiore per ritrovare fiducia e speranza. Fino a potenziare anche la propria capacità di guarire...”4.
C’è chi si è domandato: “Quali risposte sa dare il volontario, se non
è in grado di instaurare un vero rapporto di fiducia, per poter donare in
modo ragionevole e non superficiale una Speranza di Vita?”.
______________________________
1
2
3
4
P. Stefano Bambini, citando il filosofo Ernst Bloch, Notiziario Federavo Noi Insieme, gennaio 2009.
Convegno A.V.O. Regionale Piemonte, Cuneo 2007.
G. Colombero, La malattia, una stagione per il coraggio, edizioni Paoline, 1991.
In occasione dei 25 anni di A.V.O. Padova, 2007.
60
Può accadere che nelle favole si trovino richieste, risposte e speranza
in un mondo migliore…
Conducimi dalla disperazione alla speranza,
dal timore alla fiducia.
Conducimi dall’odio all’amore,
dalla guerra alla pace.
Fa’ che la pace colmi i nostri cuori,
il nostro mondo, il nostro universo5...
Le quattro candele
In una stanza silenziosa c’erano quattro candele accese. La prima si
lamentava: «Io sono la pace, ma gli uomini preferiscono la guerra: non
mi resta che lasciarmi spegnere». E così accadde. La seconda disse : «Io
sono la fede, ma gli uomini preferiscono le favole; non mi resta che lasciarmi spegnere». E così accadde. La terza candela confessò: «Io sono
l’amore, ma gli uomini sono cattivi e incapaci di amare: non mi resta
che lasciarmi spegnere». All’improvviso nella stanza comparve un bambino che, piangendo, esclamò: «Ho paura del buio». Allora la quarta candela disse: «Non piangere. Io resterò accesa e ti permetterò di
riaccendere con la mia fiamma le altre candele: io sono la speranza!».
(Parabola ebraica)
Secondo Padre Arnaldo Pangrazzi “non si può vivere senza soffrire,
ma non possiamo soffrire senza sperare”6.
Sono questi i due principi che caratterizzano la vita e “la sfida consiste nel vestire il dolore di speranza. Il dolore in sé non è buono, cerchiamo di superarlo, ma è una dimensione inevitabile della vita.
Dalla nascita, dove sia la madre che sperimenta il dolore, sia il
bimbo che sperimenta la sofferenza nel perdere la sicurezza del grembo
materno, e sino alla morte la vita è attraversata da esperienze di do_____________________________
5
6
Satish Kumar, Voglia di favola, a cura di Nicola di Mauro, edizioni Angolo Manzoni, 2007.
Convegno A.V.O.Torino 2008, La cura globale del malato.
61
lore. Importante è rendere la sofferenza positiva, costruttiva, feconda.
Il dramma del dolore è che rimanga sterile. Per molte persone colpite
da un lutto rimane solo il dolore, solo la ferita che infetta tutto, mentre per altri il dolore è diventato fecondo, si è vestito di speranza.[…]
Si è sprigionata una nuova stagione della nostra vita. Molte persone
che si trovano a svolgere il volontariato lo fanno a seguito di esperienze di sofferenza: hanno poco alla volta trasformato il loro dolore
in amore, la loro ferita è diventata cicatrice, questo è uno degli elementi più forti della speranza, saper trasformare il dolore in amore”.
Attingere dentro di noi la capacità di infondere speranza: solo così si
può cercare di trasmetterla a chi soffre, ma talvolta per far ciò bisogna
ricorrere all’arte della pazienza.
Pazienza che è stata considerata la più eroica delle virtù in ragione
del fatto che non possiederebbe alcun legame con l’eroismo, mentre
c’è chi la ritiene capace di produrre dei frutti dolci, nati però da una
fonte amara.
Da più parti, in più epoche si sono uditi appelli alla pazienza. La voce
di San Francesco di Sales ha cercato di farsi sentire dai cuori:
“Bisogna avere un cuore capace di pazientare; i grandi disegni si
realizzano solo con molta pazienza e con molto tempo”.
La pazienza del vento
Qualche volta mi scopro a immaginar
quanto veloce avanzerebbe il vento
se il mondo fosse un’immensa pianura.
Non conoscerebbe ostacoli…
… Invece con infinita pazienza
si piega a sfiorare ogni cosa:
s’eleva, s’abbassa, si gira
fiero della sua missione…
Come indomita carezza, come pungente brivido
c’invita a preferire la vita.
62
Questi versi del poeta Maurizio Cortese incoraggiano ad affermare
che ‘preferire la vita’, pur sapendo che il vento non vi troverà solo pianure, varrà ben il traguardo perché è solo applicando con ardore la pazienza che si potrà sperare di raggiungere la meta.
Apprestiamoci dunque, con estrema pazienza, a captare l’eco del
vento che conduce alla speranza...
“Non siete giustificati d’essere tristi quando la vostra tristezza è dovuta a motivi egoistici. Mi direte di avere valide ragioni per essere infelici, perchè incontrate solo fallimenti e non vedete un vero avvenire
davanti a voi. Ebbene, vedete male: i giorni si susseguono e non si rassomigliano, e anche se oggi il sole è nascosto dalle nubi, domani lo vedrete sorgere e tutto vi sorriderà”7.
È pur vero che, se la morte è una certezza, non altrettanto sicura è la
nascita; forse è questo il motivo per cui si dice non sia sufficiente nascere. Se è quindi per ‘ rinascere’ che siamo nati, accogliamo nel grembo
della vita le forza della speranza e della pazienza, per poter così onorare,
insieme alla vita, la nostra missione.
__________________________
7
Omraam Mikhael Aivanhov, La felicità nascosta, in Karma 51.
63
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni,
si affronta il mistero,
cresce la speranza,
si offre ospitalità…
Convivium olio su tela 50x100 cm (particolare) - 2007
Una stanza vuota.
Gli amici hanno bancheato,
parlando della natura dell'Amore.
Ora il vento dell'Acropoli gonfia i fogli come vele.
Un nuovo Convivio, il libro di Platone, inizia il suo viaggio...
O S PI TALI T À
rifiuto
65
uando riceviamo un ospite non ci premuriamo forse di cercare
la tovaglia più immacolata, le stoviglie migliori, il centro tavola
coi fiori freschi e profumati? Come non cercare, dunque, di dare il meglio di noi volontari per ospitare nel nostro cuore le sofferenze di tanti
sguardi smarriti? Anche se… “l’essere ospitali non significa limitarsi
ad adornare la propria dimora interiore per accogliere il malato. Implica anche l’essere capaci di uscire, di andare verso l’altro”1.
Q
“Non sempre la vita è un viale alberato, pulito, piano e non si chiede
alla vita di risparmiarci, ma ci basta un cuore dove posare il capo. […]
Vivere con gli altri significa sempre, inevitabilmente, vivere con individui diversi da noi. Diversi per sesso, età, condizioni sociali, per storia
ed esperienze personali, opinioni, cultura. Diversi siamo anche noi stessi
nel corso delle tappe evolutive della vita e l’esperienza del cambiamento
è anche quella che dà il senso della nostra identità...”2.
Ma per ‘ospitare’ occorre costruire ponti…
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. «Ma qual è la pietra
che sostiene il ponte?». chiede Kublai Kan. «Il ponte non è sostenuto da
questa o quella pietra» risponde Marco «ma dalla linea dell’arco che
esse formano». Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: «Perché mi parli delle pietre? È solo l’arco che importa». Polo
risponde: «Senza pietra non c’è arco»3.
Cogli quindi la tua pietra e accostala a quelle degli ‘altri’ per costruire l’arco, poi “godi di tutti i beni terrestri, del sole, della pioggia
e della neve, dell’inverno e dell’estate, del buio e della luce, ma prima
di tutto godi dell’uomo4”... chiunque esso sia, perché se saper ascoltare
vuol dire impedire a se stessi di parlare per dare la precedenza all’altro,
offrire ascolto vuol dire offrire ospitalità.
_______________________________
1
2
3
4
P. Rosario Messina, dal Documento CEI sulla Giornata mondiale del malato.
Convegno A.V.O. Torino 2006, Le parole dell’ospitalità.
Italo Calvino, Le città invisibili, da Maria Teresa Emanuel al Convegno A.V.O.Torino 2006, Le parole
dell’ospitalità.
Nazim Hikmet - Poesie d’amore, edizioni Mondadori, 2002.
66
Il volontario deve trovare il modo di rassicurare il malato facendogli
capire di essere lì per ascoltarlo, sia che voglia parlare sia che preferisca
trasmettere in silenzio le proprie emozioni. Ma soprattutto deve fargli
capire che è pronto ad ospitarlo nel proprio cuore.
La peggiore malattia oggi
è il non sentirsi desiderati
né amati, il sentirsi abbandonati.
Vi sono molte persone al mondo
che muoiono di fame,
ma un numero ancora maggiore
muore per mancanza d’amore.
Ognuno ha bisogno di amore5.
Ospitare vuol dire anche ‘condividere’, ‘saper stare con gli altri’, ed
è quanto afferma Leonardo Patuano: “Il volontariato è, in tutte le sue
forme e manifestazioni, espressione del valore della relazione e condivisione con l’altro”6.
C’era una volta...
Un Angioletto di nome Serafino, che viveva in cima all’Arcobaleno.
I Colori erano tutta la sua vita.
A furia di giocare con il verde, le mani gli si tinsero di verde.
A forza di passeggiare sul giallo, i piedi divennero gialli mentre, per
aver osservato troppo il rosso, gli occhi si colorarono di rosso. Siccome
sognava con la testa infilata nel blu, i suoi riccioli si trasformarono in
una scintillante cascata azzurra.
Un bel giorno, passeggiando fra le nuvole, cadde a testa in giù sulla
terra, procurandosi un gran bernoccolo. Al risveglio non ricordò chi
fosse né da dove venisse. Così, vedendo gli uomini, credette di esserlo
anche lui e volle fare amicizia con loro.
____________________________
5
Madre Teresa di Calcutta.
6
62° Corso di Formazione base A.V.O. Torino.
67
Incontrò un contadino, poi un viandante, quindi una donna molto
bella e infine un pescivendolo, ma tutti lo evitarono a causa delle strane
tinte che coloravano il suo corpo.
Alquanto sconsolato, si mise sotto un albero di mele e si addormentò,
ma giunse un forte vento che, scuotendo l’albero, fece cadere una mela
proprio sul suo bernoccolo. Al risveglio, la memoria gli tornò ed ebbe
immediatamente nostalgia della sua colorata dimora, ma avendo conosciuto gli uomini desiderò portarli con sé sull’Arcobaleno. Ne parlò con
il saggio scoiattolo che abitava sul melo, che gli propose: “Non solo ti
darò un consiglio, ma verrò con te. Gireremo per il mondo con questo
trenino di legno e, ogni volta che qualcuno vorrà unirsi a noi, vorrà dire
che avremo trovato un nuovo amico. Quando avremo riempito tutti i vagoni, ce ne andremo a casa tua”. E così fu.
A impresa compiuta, tornarono sulla cima dell’Arcobaleno e, come
per incanto, tutti gli occupanti dei vagoni si trasformarono in angioletti
scintillanti e colorati come Serafino, che poté finalmente specchiarsi
negli occhi dell’angioletto rosso, giocare con l’angioletto verde, passeggiare con l’angelo giallo e sognare con la testa tra le nuvolette insieme all’angelo azzurro...
D’ora in poi, se guardando un Arcobaleno doveste scorgere un puntino marrone saltellare, non meravigliatevi: è lo scoiattolo saggio, a cui
piace zampettare tra i colori, al ritmo di tutti quei cuori che sanno ancora ospitare le favole7...
Nessuno ha voluto dare ospitalità all’angioletto Serafino, sebbene
chiedesse soltanto di conoscere gli uomini. Uomini che, facendosi ingannare dalle apparenze, da quei ‘colori’ che lo rendevano diverso, sono
stati sordi alla fantasia dei loro cuori, che ne avrebbe capito la provenienza, e l’hanno subito rifiutato.
L’odio è talmente più facile da affermare che l’amore... È più facile
diffidare, è più facile non amare piuttosto che amare qualcuno che non
si conosce. È una tendenza spontanea, una pulsione che si esprime con
____________________________
7
Liberamente tratto da: Francesco Castronovo, Un angioletto di nome Serafino, dal sito Fra le nuvole,
dedicato ai bambini.
68
il rifiuto e con il rigetto... L’odio è un sentimento grave, profondo, perché presuppone il suo contrario, l’amore. Parlo anche dell’amore che si
ha per se stessi. Spesso il razzismo si ama moltissimo. Si ama a tal punto
da non avere più posto per gli altri8.
Storia di un rifiuto
Una ragazza aspetta il suo volo nella sala d’attesa dell’aeroporto e,
apprestandosi a leggere un libro, compra un pacco di biscotti, sedendosi poi nella sala VIP. Accanto a lei c’è una sedia dove potrà appoggiare i dolcetti e dall’altro lato un signore che sta leggendo un giornale.
La giovane comincia a prendere un biscotto e anche l’uomo ne prende
uno. Lei si sente molto contrariata ma non dice nulla, continuando a
leggere il libro. Tra sé e sé pensa: “se solo avessi un po’ più di coraggio gli avrei già detto di piantarla”.
Così, ogni volta che lei prende un biscotto, anche l’uomo accanto a
lei, senza un minimo cenno, ne prende uno. Continuano così finché non
rimane che un biscotto e la donna pensa: “Ah, adesso voglio proprio
vedere che cosa mi dice quando saranno finiti tutti!”.
L’uomo prende l’ultimo dolcetto e lo divide a metà. “Questo è
troppo”, pensa lei, comincia a sbuffare e, indignata, prende le sue cose,
il libro, la borsa e lascia la sala d’attesa. Quando si sente un po’ meno
arrabbiata, chiude il libro e, nell’aprire la borsa per infilarlo dentro, si
avvede che il pacco dei biscotti è ancora tutto intero. Prova subito tanta
vergogna, nel capire di aver mangiato i biscotti dell’uomo seduto accanto, che però li ha divisi con lei senza sentirsi indignato né ferito nell’orgoglio9.
Quant’è facile giudicare, rifiutando l’idea che ‘altri’, in buona fede,
ospitino addirittura la nostra diffidenza senza battere ciglio!
Pertanto, ospita, soprattutto ospita nel tuo cuore, poi offri alla mente
impulsi di ospitalità, prima di cedere il posto al rifiuto.
_________________________________
8
9
Tahar Ben Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia, edizioni Egi Volterrani, 2005.
Corso di Autostima, A.V.O. Torino, aprile 2011.
69
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni,
si affronta il mistero,
cresce la speranza,
si offre ospitalità,
con gioia…
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Lo speacolo della vita visto dal trapezio
olio su tela 100x150x4 cm - 2008
Ogni tanto dovremmo cambiare prospeiva. Salire in bilico sul trapezio e guardare
con gli occhi di un funambolo lo speacolo della vita dispiegarsi nelle sue forme
policrome. Chissà perché solo quando si rischia tuo, tuo ha un senso e senti
chiaramente il sapore della gioia, la forza e la volontà dell'esistere.
71
to dormendo e sogno. La vita è gioia. Mi sveglio e mi accorgo
che la vita è silenzio. Voglio servire e vedo che servire è gioia1.
S
Pensare alla parola gioia e accostarla alla felicità, alla serenità, alla
buona salute fisica e spirituale è spontaneo e naturale. Chi, come noi volontari, frequenta quotidianamente la malattia può scorgerla come un’àncora da lanciare a chi soffre, ma è inevitabile che la realtà ospedaliera ci
costringa ad accostarla alla parola dolore.
Così parla Kalhil Gibran della gioia e del dolore:
“La vostra gioia non è che il vostro dolore senza maschera. E il medesimo pozzo da cui sgorga il vostro riso che più volte si è riempito delle
vostre lacrime. Come può essere se non così? Più profondamente scava
il dolore nel vostro essere, e più è la gioia che potete contenere. Non è
la coppa che contiene il vostro vino quella stessa che il vasaio ha arso
nel suo forno? E non è il liuto che vi distende lo spirito quello stesso
legno che le lame hanno incavato?
Quando siete lieti guardate a fondo nel vostro cuore e troverete che
la gioia proviene da ciò che vi aveva dato dolore. Quando siete nel dolore guardatevi ancora nel cuore, e vedrete che in verità piangete per ciò
che è stato il vostro diletto.
Alcuni tra voi dicono: “La gioia è più grande del dolore” e dicono
altri: “No, più grande è il dolore”. Ma io vi dico che sono inseparabili.
Insieme giungono, e quando l’una siede con voi alla vostra mensa, ricordate che l’altro dorme nel vostro letto. In verità siete sospesi come bilance tra la gioia in voi e il dolore.[…] Solo se siete vuoti restate
immobili e in equilibrio.
Allorché il tesoriere vi solleva per pesare l’oro suo e l’argento, non
possono la vostra gioia e il dolore non alzarsi o ricadere.
C’è chi dona con gioia, e in quella gioia sta la sua ricompensa.
Il dolore per voi è lo spezzarsi del guscio che racchiude la vostra
comprensione. Come il nocciolo del frutto deve rompersi affinché il suo
cuore sia esposto al sole, così voi dovete conoscere il dolore”2.
________________________
1
2
Rabindranath Tagore
Khalil Gibran, Il Profeta, edizioni Demetra, 1996.
72
Kahlil Gibran ritiene che gioia e dolore siano inseparabili. In effetti,
le due parole sono talmente inscindibili da apparire come incatenate nelle
stesse maglie. Si potrebbe però provare a sciogliere le catene e pensarle
avvinte in un abbraccio dalla duplice valenza: l’una che consoli il dolore
coi ricordi gioiosi, l’altra che distilli la gioia dai dolori superati.
Se “la vita è dono, è amore, è gioia”3, per Dario Oitana“il volontariato è gioia. Perciò si contrappone a qualsiasi effimero piacere, così
come a una vocazione alla penitenza, al volontariato visto come frutto
di una severa ascesi. Il rischio consiste nel confondere la gioia con la
mancanza di difficoltà. La vera gioia, quella che ha fatto progredire
l’umanità nel corso dei millenni, è la soddisfazione che si prova nel superamento delle difficoltà”4.
Conosciamo tutti la straordinaria vita di sacrificio di Madre Teresa di
Calcutta, ma sappiamo anche come i suoi doni d’amore, riversati a piene
mani sulla sofferenza e sulla miseria umane, siano stati colti e distribuiti
da un cuore colmo di gioia, da cui sono scaturite queste parole:
La gioia è amore,
la conseguenza logica
di un cuore ardente d’amore.
La gioia è una necessità e una forza fisica.
La nostra lampada arderà
dei sacrifici fatti con amore
se siamo pieni di gioia.
Si può credere o meno che nulla accada per caso, ma è innegabile che
certi incontri siano intrecciati da un filo invisibile eppure estremamente
tenace che, non spezzandosi mai, unisce figure e valori indiscutibili.
_____________________________
3
4
Notiziario Federavo Noi Insieme, marzo 1988
Notiziario AVOTorino Informa per i 25 anni A.V.O. Torino, novembre 2006.
73
È il genere di ‘filo’ che ha legato Madre Teresa e Dominique Lapierre.
Lo scrittore, a corona delle parole della ‘paladina dei poveri’, ha così
spiegato i motivi per cui ha scritto La città della gioia5:
“Mi trovavo a Calcutta e un giorno un uomo-risciò mi condusse in
uno dei quartieri più poveri e sovrappopolati di questa città, dove trecentomila senzatetto vivono nelle strade. Conoscere questo quartiere
che si chiama Anand Nagar, la Città della Gioia, ha cambiato la mia
vita. In questo inferno ho trovato più eroismo, più amore, più solidarietà, più gioia che in molte altre metropoli del nostro ricco occidente.
Ho incontrato gente che non ha niente e tuttavia possiede tutto… Ho
vissuto per giorni e giorni nella piccola colonia di lebbrosi in fondo alla
bidonville e ho scoperto la loro straordinaria cultura, il loro gusto per
le feste. Ho tirato risciò e arrotolato bidi nei laboratori simili a galere
dove bambini di sei o sette anni preparano milleduecento sigarette al
giorno. Ho imparato a lavarmi dalla testa ai piedi con meno di mezzo
litro di acqua. Ma soprattutto ho imparato a mantenere sempre il sorriso, ad ascoltare gli altri, a non avere paura della morte, a non disperare mai”.
Dominique Lapierre ha dunque ‘imparato’ la gioia. Ma è veramente
possibile apprenderla? Chi può insegnarcela? Forse la vita? ‘Gli altri’?
Il dolore? Sarà sufficiente tentare con umiltà e semplicità di trarre insegnamento dalle esperienze di ogni giorno, di ogni minuto, vivendole
come se fossero l’ultima possibilità per ‘appropriarcene’?.
Nel nostro servizio un altro filo altrettanto tenace unisce le parole
gioia-dolore. Presentarsi in buona salute di fronte ai malati per portare
loro gioia può essere imbarazzante ma, anche se i nostri occhi si specchiano nel dolore, dobbiamo provarci.
Chi non ha mai vissuto esperienze di dolore difficilmente saprà offrire
conforto e solidarietà nella stessa misura di chi non ne è stato risparmiato. E chi non vuole ‘guardare negli occhi’ la sofferenza non sarà in
__________________________
5
La città della gioia, edizioni A. Mondadori, 1986.
74
grado di lenire le sofferenze altrui: volgerà lo sguardo da un’altra parte.
Ma non è proprio con il dolore che si provano gli uomini?
Non arrendiamoci, dunque, e accettiamo la sfida, cercando di trarvi
la capacità di superare l’abisso del dolore, offrendo a noi stessi la gioia
per la vita. Sarà il nostro scudo, perché è da noi, e in noi, che si deve
respingere la resa, parare le sconfitte, guardare negli occhi il nemico e
affrontare la battaglia per tentare di vincere la guerra. Quanto sarà più
facile, però, più dolce lottare se saremo attorniati da qualcuno che ci
ascolta, che ci ama, che attende con trepidazione di condividere con
noi la gioia della vittoria.
E se talvolta i dolori della vita vengono chiamati anche ‘spine’, è a
queste che inevitabilmente penseremmo se paragonassimo l’esistenza a
una rosa; cerchiamo pertanto di combattere le spine del dolore, ma con
gioia cogliamo fin da oggi le rose della vita!
75
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni,
si affronta il mistero,
cresce la speranza,
si offre ospitalità,
con gioia,
con rispetto…
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T
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O
Un pensiero, un'emozione, ti amo olio su tela 70x100 cm - 2008
Una cià, una via, la nostra casa. Ho fao del mio amore la mia patria,
come un derviscio... ed a chi mi chiede il perché, rispondo con le parole
del poeta Ibn al'Arabi “Qualunque strada il cammello dell'Amore
prenderà sarà la mia religione e la mia fede”.
77
c
e
c
i
t
à
’uomo è veramente etico quando rispetta l’obbligo di aiutare tutte
le forme di vita che è in grado di aiutare e quando, per evitare di
danneggiare un essere vivente, cambia i suoi progetti. Non chiede in che
misura questo o quell’essere vivente meriti simpatia, né se questo sia
capace di provare sentimenti. Per un uomo etico la vita è sacra per se
stessa1.
Con indiscutibile saggezza lo psicologo Giuseppe Staffolari ha affermato che “rispetto non significa ossequio, deferenza, riverenza, ma attenzione, considerazione e riguardo per le persone, le istituzioni e le
cose”.
L
La storiella che segue rispecchia una realtà fin troppo frequente nella
nostra società:
C’erano quattro persone, chiamate : Ognuno, Qualcuno, Ciascuno
e Nessuno. C’era un lavoro importante da fare e Ognuno era sicuro che
Qualcuno l’avrebbe fatto. Ciascuno avrebbe potuto farlo, ma Nessuno lo
fece. Qualcuno si arrabbiò perché era un lavoro di Ognuno.
Ognuno pensò che Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno capì che
Ognuno non l’avrebbe fatto. Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché
Nessuno fece ciò che Ciascuno avrebbe potuto fare.
In un editoriale, Eugenia Berardo ha scritto: «Ricordo che ai tempi in
cui facevo ancora parte del mondo del lavoro, questa storiella risaltava
scritta su un cartello nella sala delle fotocopiatrici, insieme ad altri piccoli poster del tipo ‘Prima di parlare assicurati che il cervello sia inserito’. A pensarci ora, mi pare un modo forse un po’ infantile di richiamare
tutti al senso di responsabilità.
Provo a sostituire la parola responsabilità con la parola rispetto. Ma
rispetto di che cosa? Prima di tutto il rispetto di se stessi: essere contenti
di se stessi, volersi bene… Poi, il rispetto per l’ambiente e per le proprie
cose: a partire dalla nostra casa, via via fino all’ammirazione di un
mondo che non è solo nostro. E, per ricapitolare, il rispetto per gli altri
ci ricorda la responsabilità delle nostre azioni. Insieme a un gruppo di ge______________________
1
Albert Schweitzer, premio Nobel per la pace 1952.
78
nitori con figli adolescenti mi iscrissi anni fa alla ‘Scuola per genitori’.
Affinché riuscissimo a trasmettere ai nostri figli la responsabilità della
propria unicità e dei propri sogni, ci insegnarono a dire loro: “Sei unico,
sei una meraviglia. In tutti gli anni che sono trascorsi non c’è mai stato
un altro bambino come te e non ci sarà mai più: sei un capolavoro. Potrai fare tutto, ma soprattutto essere te stesso. E quando crescerai, potrai mai fare del male ad un altro che, come te, sarà una meraviglia?» 2.
Elena Ferrario dedica un capitolo della rubrica Spunti di Formazione2
proprio a questo concetto, avvertendoci che “la responsabilità non è mai
acquisita una volta per tutte, perché responsabili si diventa e si rischia
continuamente di non esserlo ancora o di non esserlo più”.
Se Dario Oitana ha intitolato una delle sue Riflessioni scomode 2 “Un
bel sogno, tutti fanno il proprio dovere”, possiamo coltivare un altro
sogno: che “tutti diventino più responsabili”, ma la prudenza insita nel
rispetto invita a non eccedere.
“Quante volte vi è capitato che qualcuno vi dicesse quale dieta seguire, che film vedere, quali libri leggere, che mestiere fare, con chi sposarvi o non sposarvi, quanti figli mettere al mondo, in quale Dio
credere? E questi consigli magari non erano solo un modo di condividere sentimenti e speranze, ma una pressione. Una pressione che partiva
dal presupposto che voi da soli non ve la cavate, che avete bisogno di essere guidati, consigliati, riformati. L’immagine del letto di Procuste è
perfetta. Questo terribile individuo faceva stendere le persone sul suo
letto: se ci stavano esattamente, bene. Ma se erano troppo lunghe tagliava loro i piedi; se erano troppo corte le tirava finché non diventavano della misura giusta. Il mito di Procuste ben descrive l’orrore di chi
vuole interferire nel destino degli altri. Chi più chi meno, siamo tutti un
po’ colpevoli di questo: è una tentazione troppo forte.
La tolleranza è una magnifica virtù. Senza tolleranza non c’è creatività, non c’è amore. Non c’è possibilità di cambiare e di crescere. Per
un individuo o per una società intera. […] Occorre concedere all’altro
________________________
2
Notiziario AVOTorino Informa.
79
lo spazio per essere ciò che è e ciò che vuole essere. Senza circondarlo,
neppure nella nostra mente, di giudizi, consigli, pressioni, speranze. Lasciare che sia libero in questo spazio, avere fiducia che possa inventare
da sé il proprio destino. Questo è il rispetto che vorremmo ricevere. Questo è il rispetto che possiamo imparare ad offrire”3.
Cerchiamo di non imitare il comportamento di Procuste e di lasciare
agli altri ampia libertà di pensiero e di azione, evitando di interferire
nelle loro decisioni. Senza scordare mai che è doveroso “rispettare il
vissuto del malato e le sue convinzioni”4.
Ed è proprio sul rispetto che Paulo Coelho ci offre questa poesia:
Le cose che ho imparato nella vita
Alcune cose ho imparato nella vita:
...Che le circostanze e l’ambiente
hanno influenza su di noi,
ma noi siamo responsabili di noi stessi.
Che, o sarai tu a controllare
i tuoi atti,
o essi controlleranno te.
A volte non è necessario ‘vedere’ per capire come ci si deve comportare... “I ciechi, pur non vedendo il Principe al cui cospetto si trovano, non per questo non tengono un contegno rispettoso se sono
avvertiti di tale presenza”5.
Quante volte facciamo invece ombra alla nostra coscienza ‘voltandoci dall’altra parte’? Diventiamo ‘ciechi virtuali’ e vestiamo la maschera della cecità pur di non applicare le regole del rispetto.
Il filosofo Max Scheler ben sottolinea questo aspetto: “Il rispetto non
è un’aggiunta sentimentale alle cose, né una mera distanza; esso è, al
____________________________
3
4
5
Piero Ferrucci, Rispetto, in La forza della gentilezza, edizioni Mondadori, 2006.
Gabriella Gioacchini, Notiziario Federavo Noi Insieme, dicembre 2005.
San Francesco di Sales, dal capitolo II della Filotea.
80
contrario, l’atteggiamento in cui si percepisce qualcosa di più che l’irrispettoso non vede e per il quale egli è cieco: il mistero delle cose e la
profondità dell’esistenza”6.
“Tutti abbiamo avuto l’esperienza di essere visti per meno di quello
che siamo, trattati come se fossimo un’altra persona: una versione impoverita o caricaturale o irriconoscibile di noi stessi. Le nostre qualità
non sono percepite, ci vengono attribuiti difetti che non abbiamo. […]
È ancora peggio quando non siamo visti affatto. Veniamo trattati come
se fossimo invisibili. La vita va avanti senza di noi: le persone parlano
tra loro, svolgono le loro solite attività, scherzano, mangiano, fantasticano, fanno le parole crociate, come se noi non esistessimo. Se questo
succede in casa o con amici, anziché in ufficio o in un negozio, è più
preoccupante. Se va avanti tutto il tempo, è tragico.
Ora pensiamo alla circostanza opposta... Qualcuno si prende la briga
di conoscerci e di trattarci per quello che siamo. Questa persona apprezza il nostro valore, forse anche più di noi, crede in noi anche quando
la nostra autostima vacilla. In quel momento non siamo più invisibili, ci
sentiamo oggetto di interesse e apprezzamento… Qualcuno ha visto ciò
che valiamo. Qualcuno ha visto che noi esistiamo. Questo è il rispetto:
dal latino respicere, vedere”7.
Il rispetto
Possa, la luce del rispetto,
allontanare l’oscura ala della cecità.
E possano, i bagliori del sole,
abbattere l’amaro scudo dell’indifferenza8.
____________________________
6
7
8
Convegno A.V.O Regionale Piemonte, Savigliano maggio 2004.
Piero Ferrucci, Rispetto, in La forza della gentilezza, edizioni Mondadori, 2006.
Luciana Navone.
81
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni,
si affronta il mistero,
cresce la speranza,
si offre ospitalità,
con gioia,
con rispetto della libertà…
Una volta incontrai in un circo itinerante
un domatore di lucciole. Mi disse: “Vedi le mie
lucciole? Potrebbero volare via dalla gabbia
infilandosi fra le larghe sbarre, in qualunque
momento. Eppure la maggior parte di loro non
fuggiranno mai... Proprio come troppi uomini,
vivono dietro le sbarre immaginarie forgiate da
paure, dolori e rassegnazione. Questo è il mio
numero da circo; ricordare a chi mi guarda
che per essere liberi, bisogna volerlo...”
LIBERTÀ
prigionia
Il domatore di lucciole olio su tela 35x125 cm - 2009
83
a sola cosa degna di stima di un altro essere umano è la sua capacità di fare uso della sua libertà… ovvero quando un soggetto
stima se stesso per la libertà di cui è capace, è ben orientato a riconoscere questa libertà agli altri e ad accordare loro la stessa stima che
egli ha per se stesso1.
L
Libertà dell’individuo, dunque, di farne uso nel modo migliore, rispettando la propria dignità e quella del prossimo, dando spazio a fantasie e fiabe pur affrontando la realtà. Senza dimenticare, però, che anche
ascoltare i consigli altrui e cambiare opinione significa comportarsi da
uomo libero.
Ho nella mente un’idea di libertà…
ho nella mia vita una libertà in gabbia…
scavo nei miei sogni e trovo
idee infinite
fuggenti attimi
sussurri lievi…
di libertà. Penso,
mi fermo,
rincorro,
ascolto…
e scopro in me la libertà.
La libertà è in noi,
dobbiamo solo trovare
il coraggio di liberarla2.
L’amore per la libertà è naturale in tutti gli uomini, in quanto la natura li genera liberi, ma nella realtà di ogni giorno si può riscontrare
come purtroppo siano gli uomini liberi a mancare, non la libertà.
____________________________
1
2
Patrich Pharo citato da Angela Ambrosino, Convegno A.V.O Regionale.Piemonte, Savigliano 2004.
Notiziario AVOTorino Informa, giugno 2009
84
Secondo un proverbio cinese “il viaggio non è la meta, ma la strada”
e talvolta questa strada può condurre proprio alla libertà, com’è successo
nella
Storia del mercante e del pappagallo3
C’era una volta un mercante che teneva un pappagallo in gabbia. Il
suo lavoro lo indusse a partire per l’India, e allora chiese al suo pappagallo se avesse un qualche messaggio per i suoi simili di quel Paese.
Il pappagallo si limitò a rispondere: “Di’ loro che me ne sto chiuso in
una gabbia”. Il mercante diede la sua parola di messaggero e trasmise
il messaggio al primo gruppo di pappagalli che incontrò sul suolo indiano. Udite quelle parole, uno di loro cadde a terra e ne morì immediatamente.
Tornato in patria, il mercante accusò il pappagallo di averlo reso latore di un messaggio mortifero, ma appena ebbe ascoltato questo rimprovero anche il pappagallo del mercante cadde a terra morto, proprio
come il suo simile indiano. A quel punto il mercante tolse il cadavere
del pappagallo dalla gabbia e fece il gesto di gettarlo via, quand’esso
riprese invece vita e fuggì volando, spiegando che il pappagallo indiano
si era limitato a indicargli la morte come via di fuga dalla gabbia.
La parola libertà provoca nella mente come un rimescolamento di
carte da gioco. Si ha la sensazione di non sapere le regole e si spera di
avere in mano una carta che si riveli poi quella giusta: un settebello, un
asso pigliatutto o, meglio ancora, un jolly da sistemare dove meglio conviene.
Nel contempo si intrecciano, come in un groviglio, le immagini: eroi
di ogni epoca che perdono la vita al grido di “Viva la libertà!”, Modugno che canta “Libero, voglio andarmene, libero non cercatemi”, neo
sposi che proclamano “Adesso non siamo più liberi”, adolescenti che
pretendono dai genitori “più libertà”, uomini politici che fanno largo
uso della parola in ogni slogan e dibattito…
_________________________
3
Del maestro sufi Maulana Jalaluddin Rumi.
85
“La libertà non esiste” asserisce qualcuno. “La libertà non ha limiti” controbatte un altro, e forse tutto dipende dal concetto di libertà da
cui si parte.
Il ‘porto di partenza’ è quello della ‘libertà da…’. Libertà da ciò che
opprime l’uomo (miseria, oppressione politica), come condizione essenziale perché si possa esercitare libertà di pensiero, di associazione, di
stampa, di religione. L’arrivo è previsto alla piena libertà per… realizzarsi come persona4.
La libertà
…Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno
di spaziare con la propria fantasia,
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia.
Che ha il diritto di votare
e che passa la sua vita a delegare,
e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione …5.
Essere liberi di certo significa anche ‘non sentirsi prigionieri’. Chi
non vorrebbe trovarsi costantemente in questa condizione? Eppure esiste una prigionia che non permette di sciogliere nodi né catene, causata
da condizionamenti, situazioni, regole, pensieri reconditi che avvinghiano come tentacoli. Difatti, chi è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo? O di colui che, pur essendo nato libero, si sente
incatenato ovunque si trovi?
____________________________
4
5
Eugenia Berardo, Notiziario AVOTorino Informa, giugno 2006.
Dalla canzone La libertà di Giorgio Gaber.
86
Osho, in Amore e Libertà6, affronta questo argomento:
Se veramente desiderate dare la libertà agli altri, dovrete incominciare da casa vostra. Ogni cosa inizia dalla propria casa. Siate liberi, diventate un essere. Godete di questa incredibile libertà che la vita vi
concede. Non seguite alcuna regola. Seguite solo una cosa: la vostra
consapevolezza; e permettete alla vostra consapevolezza di decidere ciò
che deve essere fatto, momento per momento, con freschezza. Non è necessario funzionare attraverso la memoria e attraverso il vissuto passato, le esperienze. Funzionate tramite una consapevolezza vergine, con
un sapere fresco e una consapevolezza innocente. Allora scoprirete come
è bello essere liberi, e vedrete come è bello vivere con persone libere.
[…] Non imponete mai alcuna prigionia a nessuno. Permettete la libertà e sarete liberi. Siate liberi e potrete permettere più libertà. Le due
cose si accompagnano”.
Fra le innumerevoli pieghe assunte dalle opinioni sulla libertà, emerge
un pensiero di Gandhi: “non vale la pena di avere la libertà se questo
non implica avere la libertà di sbagliare”.
Ma sbagliare vuol anche dire potersi ricredere, dopo aver dato spazio
ai dubbi per cercare di capire. Per cercare di raggiungere la meta. Perché milioni di dubbi ben valgono anche un solo istante di autentica libertà.
E, se “la paura ci rende prigionieri ma la speranza può renderci liberi7”, non limitiamoci a sperare, perché…
“Il nostro compito è di sforzarci e di liberarci da questa prigione allargando il nostro cerchio di comprensione, per abbracciare tutte le
creature e la natura nella sua bellezza”8.
______________________
6
Osho, Amore e Libertà, edizioni Bompiani, 2000.
Dal film Le ali della libertà, USA 1994 regia di Frank Darabont.
8
Albert Einstein.
7
87
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni,
si affronta il mistero,
cresce la speranza,
si offre ospitalità,
con gioia,
con rispetto della libertà,
in amicizia…
A colui che è sempre capace di starci accanto,
a colui che è sempre dove serve
e quando serve.
A colui che non fa mai la domanda
che non deve ed è sempre capace
di dare la risposta che serve,
anche quando fa male.
Al nostro migliore amico.
(Un sorriso ed un grazie, Dora).
AMICIZIA
diffidenza
La regina di cuori (Dora Loiodice) olio su tela 50x150x4 cm - 2009
89
robabilmente Torino sarebbe sommersa dalle acque, se i fiumi di
parole con cui è descritta la parola Amicizia l’avessero scelta
come foce, e vi potremmo pescare Il Profeta di Khalil Gibran1, per leggervi queste parole:
P
Un giovane gli chiese:Parlaci dell’Amicizia.
E lui disse: “L’amico è la risposta al vostro bisogno. È il campo che seminate con amore e che mietete con riconoscenza.
È la vostra mensa e il vostro focolare.
Poiché a lui venite nella fame, e lui cercate per trarne pace.
Quando l’amico confida a voi il suo pensiero non trattenete l’assenso
della vostra mente né risparmiategli il dissenso.
E quand’è silente il vostro cuore non cessi di ascoltare il suo; poiché
è senza parole che nell’amicizia ogni pensiero, ogni desiderio, ogni speranza nascono e sono condivisi in silenziosa gioia.
Quando vi separate dall’amico, non ci sia dolore: poiché ciò che in
lui più amate v’apparirà più chiaro nell’assenza, così come per lo scalatore la montagna più netta appare dalla pianura.
E che il meglio di voi sia per l’amico.
Giacché cos’è l’amico vostro che dobbiate cercarlo solo per uccidere le
ore? Cercatelo con ore che non han da essere vissute.
Poiché sta a lui colmare il vostro bisogno, non il vostro vuoto.
E nella dolcezza dell’amicizia ci siano risa, e la condivisione dei
piaceri.
È nella rugiada delle piccole cose che il cuore trova il suo mattino e
si rinnova”.
Non solo i poeti hanno tratto ispirazione dalla parola amicizia.
Il ‘matematico’ Pitagora sosteneva che “La virtù, la sanità fisica, ogni
bene sono armonia: l’universo è costituito secondo armonia. Anche
l’amicizia è uguaglianza armonica”.
Vivere senza conoscere il valore dell’amicizia è come non riuscire a
soddisfare del tutto la sete. L’uomo felice, come da aristotelica memo__________________________
1
Kahlil Gibran, Il Profeta, edizioni Demetra, 1996.
90
ria, ha infatti bisogno di amici. Ma se non vuole perderli dovrà avere, con
questi compagni di vita, gli stessi comportamenti che pretende da loro.
Un amico è una persona speciale, a cui si riserva un trattamento speciale. Volendo far eco a un’affermazione dello statista Vincenzo Gioberti, si potrebbe dire che per gli amici le leggi si interpretano, per i
nemici si applicano.
L’amicizia riesce a creare simbiosi tali che la si potrebbe paragonare
alla musica. Anche se si tocca una sola corda, vibreranno all’unisono
due corde ugualmente intonate, par far sì che gli amici vivano non solo
in armonia, ma ‘in melodia’.
Quante persone entrano ed escono dalla nostra vita? Non potremmo
mai tenerne conto, ma un posto nel cuore per i veri amici si trova sempre, e ognuno di loro lascerà la sua impronta.
L’amicizia, però, può non rappresentare solo un legame fra due persone. Infatti…
La base per una buona riuscita della nostra Associazione può essere
sintetizzata in due parole: servizio e amicizia2.
Ma sull’altra faccia della medaglia…
“I veri amici vedono i tuoi errori e ti avvertono. I falsi amici vedono
allo stesso modo i tuoi errori e li fanno notare agli altri”, tuona un detto
di Fligende Blatter.
Brutto termine, ‘falsi amici’. Implica la mancanza di sincerità che si
oppone all’autentico spirito di questo sentimento. Purtroppo fa parte
della realtà, dell’essere uomini, ma preferiamo lasciare all’altra faccia
della realtà la chiusura di una parentesi volutamente breve. In quanto
breve meritava di essere: “Non c’è deserto peggiore di una vita senza
amici: l’amicizia moltiplica i beni e ripartisce i mali”, sosteneva nel
‘600 il gesuita-filosofo spagnolo Baltasar Graciàn.
Ebbene, qualora ci si trovasse in un ‘deserto di solitudine’, si potrebbero attingere incoraggiamenti e stimoli da queste ‘oasi’ di parole. Che
di certo non sono miraggi:
_________________________
2
Ottavia Parish, 18 aprile 1990.
91
“Ogni volontario deve impegnarsi ad alimentare l’amicizia e la cordialità nel gruppo, perché questo calore umano si riversi sul malato e
sull’Associazione”3.
“A.V.O. come ‘comunità di amicizia’, dare spazio al valore dell’amicizia nei rapporti tra i volontari, tale da consentire la partecipazione alla vita associativa al di là del servizio settimanale, facendo
attenzione a quegli ostacoli che possono ledere questo valore”4.
“L’amicizia non deve confondersi con le emozioni che potrebbero
portare all’affettività, e che perciò devono rimanere guidate dalla ragione che si basa sui principi di altruismo e di solidarietà per non perdere la prerogativa della propria libertà e indipendenza”5.
Le amicizie possono nascere nei luoghi e nelle maniere più impensabili. È quanto succede ne In una notte di temporale6, storia in cui si descrive un’amicizia nata da un equivoco scevro da pregiudizi e diffidenza.
Questo equivoco non solo consentirà allo spirito di solidarietà di
sconfiggere paura e solitudine, ma farà trionfare la condivisione. Il racconto narra di una capra che, in una notte di temporale, si rifugia in una
capanna abbandonata e poco dopo viene raggiunta da un lupo. Le tenebre avvolgono in maniera totale tutto quanto sta loro attorno, persino i
contorni. Il vento ulula, la pioggia scroscia e i due hanno tanta paura.
Per confortarsi si sfiorano le zampe e la capretta si meraviglia di
quanto sia morbida la zampa di colui che ritiene una capra. Quando il
lupo starnutisce la compagna di avventura sta per dire: “Che voce profonda da lupo”, ma si trattiene dal farlo, temendo di apparire scortese.
Anche il lupo vorrebbe commentare: “Che voce stridula da capra” ma,
non volendo offendere chi suppone sia un lupo, preferisce tacere.
__________________________
3
4
5
6
Laura Montanaro, Corso di Formazione base A.V.O. Torino.
Convegno Nazionale FEDERAVO, Sibari, 2008.
P. Anselmo Terranova, Notiziario Federavo Noi Insieme, marzo 2008.
Yuichi Kimura, In una notte di temporale, edizioni Salani, 2009.
92
Trascorrono la notte intera a scambiarsi confidenze, a sorridere delle
loro mamme che insistono affinché mangino per rinforzare le zampe.
Ogni volta che la capra parla della bontà dell’erba e il lupo esalta la prelibatezza della carne il rumore dei tuoni copre le voci, impedendo all’una e all’altro di scoprire la verità.
“Da queste parti ci sono tante cose buone da mangiare” esclama il
lupo intendendo, per cose buone, le capre. Quando la luce di un fulmine
illumina a giorno l’abitacolo si domandano a vicenda: “Mi hai visto? Ci
assomigliamo?” “Sono rimasta abbagliata e ho chiuso gli occhi” risponde la capra. “Anch’io” ribatte il lupo. Si appisolano e, quando uno
dei due apre un occhio, si accorge che il temporale è passato, sebbene le
tenebre continuino a sovrastare anche le ombre.
“Devo proprio andare, adesso. Questa sarebbe stata una pessima serata, per via di questo brutto temporale, ma siccome ho incontrato te si
è rivelata migliore di quanto non immaginassi. La prossima volta, perché non ci troviamo a mangiare col bel tempo?” propone il lupo, già
sulla soglia. “Per domani a mezzogiorno va bene? Davanti a questa capanna?” risponde la capra. “D’accordo. Ma… se non ti riconosco dall’aspetto?” chiede il lupo. “Già, per sicurezza diremo: sono chi ti è
diventato amico in una notte di temporale”.
È frequente che il buio induca a essere diffidenti, pertanto il connubio buio-diffidenza è piuttosto consueto. In ‘questa notte di temporale’
sono invece state proprio le tenebre a impedire che la diffidenza facesse
‘dell’abito il monaco…’. Il buio è diventato amico.
Amicizia
Amicizia è
Parlare Tacere
Ridere insieme
Piangere insieme.
Insieme7.
________________________
7
Luciana Navone.
93
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni,
si affronta il mistero,
cresce la speranza,
si offre ospitalità,
con gioia,
con rispetto della libertà,
in amicizia,
sostenuti dall’appartenenza…
Si possono abitare tante cose.
Abitiamo case, cià, Paesi,
abitiamo continenti. Eppure la
cosa più difficile da abitare è
il nostro nome. Abitare noi stessi,
i nostri sogni, le passioni,
gli ideali.
Avere quella trasparenza
e appartenenza a noi stessi che
dà forza e gioia
alla nostra esistenza.
L'alternativa è triste;
è l'essere perennemente in esilio,
erranti, persi a noi stessi.
L'alternativa non si può dare.
Non ci resta che abitare il nostro
nome e farne una casa ricca
di ospiti e luce, gioia e risate...
Io abiterò il mio nome olio su tela 50x100 cm - 2006
AP PAR T E N E N ZA
partecipazione
95
’appartenenza non è un insieme casuale di persone, non è il
consenso a un’apparente aggregazione, l’appartenenza è avere
gli altri dentro di sé… è un’esigenza che si avverte a poco a poco, si
fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo,
è quella forza che prepara al grande salto decisivo che ferma i fiumi,
sposta i mondi con lo slancio di quei magici momenti in cui ti senti
ancora vivo. Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare
a dire noi1…
L
Imparare a dire ‘noi’, ci insegna Giorgio Gaber. Impedire che l’egocentrismo oscuri il senso dell’appartenenza per passare ‘dal far parte all’appartenere’ e intraprendere un cammino la cui meta è una strada.
Lungo i margini di questa strada si coglieranno gli strumenti per andare oltre, per intrecciare relazioni dove, in un gioco di specchi, l’altro
rimanderà ciò che ha già ricevuto per rimandarlo ancora e poi ancora.
Ecco perché…
“Bisogna creare l’amicizia di gruppo... creare reciproca conoscenza
fra componenti e quindi amicizia e solidarietà”2.
Maria Teresa Emanuel, a proposito della 1° Giornata Nazionale
A.V.O., ha trattato questo argomento ricordando che l’appartenenza è
un tema a lei molto caro “perché, in tutti questi anni che ho ‘vissuto’ il
volontariato, alcune opportunità di miglioramento e di crescita si sono
basate su questo concetto; inoltre mi ha aiutata a superare momenti
complessi o situazioni particolari e impegnative. Il nostro credere di appartenere all’Associazione ha lo scopo di aiutare i più deboli ad alleviare le sofferenze. L’appartenenza porta dunque ad unire le nostre forze
e il nostro coraggio di essere volontari per riuscire a perseguire i nostri
obiettivi”3.
________________________________
1
2
3
Dalla Canzone dell’appartenenza, di Gaber-Luporini.
Corso di Formazione A.V.O. Torino 1988, Crescere per lavorare insieme, a cura di Laura Montanaro.
Convegno A.V.O. Torino 2009, Aiutare ci unisce.
96
Appartenenza
Come una rondine
diventa stormo,
nuvola cinta da tenere ali,
un ‘punto’ d’uomo
diventa parole
di innumerevoli intenti comuni 4.
Se appartenenza può voler dire cominciare a dire ‘noi’, c’è chi ha voluto intrecciare il proprio progetto con le radici del ‘voi-altri’. Così è stato
per Elzéart Bouffier, personaggio nato dalla fantasia di Jean Giono5.
Il protagonista, dopo aver ha perso l’unico figlio e la moglie, non conosce più né l’io né il noi, ma si vota a una causa che porterà vantaggi
ad ‘altri’ sconosciuti. All’insaputa di tutti, per decine di anni pianta milioni di ghiande selezionate minuziosamente, affinché siano ‘perfette’,
nel terreno di una zona in cui tutto è arido, dai pochi cuori che vi abitano
alle casupole in rovina, alla natura dimenticata.
Riproduce e pianta faggi e aceri, grazie al vivaio curato accanto alla
sua casa in Alta Provenza, sul cui tetto solido e stagno il vento che lo
batte fa sulle tegole il rumore del mare sulla spiaggia. Il suo progetto
vede la luce prima dell’inizio della prima guerra mondiale e già nel 1933
le sue ghiande, così come i faggi e gli aceri, generano boschi foltissimi,
contribuendo persino alla rinascita di fresche sorgenti e sinuosi ruscelli.
In quell’anno una guardia forestale, ben lungi dall’immaginare che un
uomo solo, e soprattutto ‘quell’uomo’, abbia potuto compiere il miracolo, gli intima di non accendere fuochi all’aperto, per non mettere in pericolo la crescita di quella che crede una foresta naturale.
Il villaggio, il cui nome è Vergons, diventa irriconoscibile. Se nel
1913 contava tre abitanti selvaggi, che vivevano di caccia con le trappole e si odiavano, mentre le ortiche divoravano attorno a loro le case
abbandonate, negli anni ’30-’40 persino l’aria è cambiata: soffia una
brezza carica di odori. […]La speranza è dunque tornata.
__________________________
4
5
Luciana Navone.
Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, edizioni Salani, 2010.
97
Dopo la seconda guerra mondiale vi sorgono addirittura fattorie pulite. In mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l’acqua su tappeti di menta. […] Questa terra ha portato
gioventù, movimento, spirito d’avventura.
Elzéart Bouffier ha compiuto un prodigio all’insaputa di coloro che
ne hanno beneficiato. La sua appartenenza a una missione voluta con
tutto se stesso si è intrecciata con la generosità, con la pazienza, con il
credo in un progetto che ha creato un’oasi insperata per sconosciute generazioni future.
Non sono infatti una tessera, un simbolo o uno stemma a dare il senso
dell’appartenenza, bensì il ‘sentire’ nell’intimo, col cuore, di avere uno
scopo o una missione rivolti a benefici comuni. Solo così si può ‘crescere
insieme’.
Come la fonte dà acqua al ruscello che lungo la corsa diventerà fiume,
così i volontari attingono forza da nuove esperienze, portando “valore a
una società confusa. È importante il valore del gruppo: sovente ci si
deve impegnare per un risultato a livello di squadra, più che a livello di
singolo volontario”6. È per questo motivo che “al volontario si richiede
la consapevolezza di non essere soltanto una persona di buona volontà,
ma anche una persona che ha un ruolo sociale. Tale consapevolezza
comporta fierezza di appartenenza a un organismo”7.
L’appartenenza non procede quasi mai da sola perché ha una naturale
compagna di percorso: la partecipazione.
“Il presupposto dell’appartenenza, qualunque esso sia, dipende strettamente dal grado e dalla qualità di partecipazione di ogni suo componente. [...] Infatti il presupposto dell’appartenenza è la partecipazione.
Partecipare significa, nello stesso tempo, ‘prendere parte’ e ‘far parte’
e cioè tanto ricevere che dare”8.
________________________________
6
7
8
Claudio Lodoli, Convegno A,V,O,Torino, 2006 , Ritrovare le motivazioni.
Gabriella Gioacchini, Notiziario Federavo Noi Insieme, settembre 2005.
Elena Ferrario, Notiziario AVO Torino informa, 2008.
98
Antoine de Saint Exupéry ci ha tramandato queste parole: “Ognuno
è responsabile di tutti. Ognuno da solo è responsabile di tutti. Ognuno
è l’unico responsabile di tutti”.
L’intrinseco messaggio invita a collocare gli altri assolutamente al
centro della nostra missione. Estraendo dal nostro ‘io’ la centralità di
quel dare che ci farà ‘avere’, di quella necessità di essere critici con noi
stessi per poter essere generosi con gli altri, prenderà vigore il bisogno
di uno scambio per raggiungere una reciproca, universale partecipazione.
Sperando che “l’essere stati generosi di noi, del nostro tempo, del nostro
affetto, della nostra umanità, avrà reso meno distruttivo per altri il dolore della solitudine e della malattia”9.
Il nostro misurarci coi compagni o le compagne volontari, con le
esperienze vissute, le vite ascoltate, le sofferenze condivise, le speranze sostenute può esortarci ad agire affinché “il buon samaritano
sia ogni uomo che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo,
qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità ma disponibilità. Buon samaritano è l’uomo che si commuove per le disgrazie
del prossimo”10, che dimostra partecipazione a testimonianza dell’appartenenza a quel dolore.
___________________________
9
Alessandra Graziottin, in occasione dei 25 anni di A.V.O. Padova.
10
Giovanni Paolo II, Notiziario Federavo Noi Insieme, marzo 2009.
99
Con l’intento di donare,
si accoglie,
si incontra,
si ascolta,
si sta in silenzio,
si provano emozioni,
si affronta il mistero,
cresce la speranza,
si offre ospitalità,
con gioia,
con rispetto della libertà,
in amicizia,
sostenuti dall’appartenenza,
per stringerci in un abbraccio…
Tango, milonga o chacarera...
Ritmi differenti, lenti o veloci,
passionali o malinconici.
Ad ognuno il proprio ritmo.
Ad ognuno l'abbraccio
della propria passione.
Ad ognuno il proprio amore...
A
B
B
R
A
C
C
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Tango col tuo profumo olio su tela 50x140x4 cm - 2008
101
a
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ei stato gentile a venire. Ne approfitto per chiederti un favore:
decidi tu per me. Io sono qui prigioniera. Se sono stanca, come
faccio ad andar via? Vai via tu. Se ho bisogno di silenzio, come posso
ottenerlo? Taci. Se mi manca calore, dove lo posso trovare? Abbracciami1.
Questa l’invocazione di una paziente che chiede un abbraccio,
l’unico conforto a cui aggrapparsi; ne ha assolutamente bisogno, proprio come un altro malato, che domanda:
“Ho bisogno di qualcuno che mi racconti una favola. Ho bisogno di
qualcuno che mi canti una ninna nanna. Ho bisogno di qualcuno che
mi tenga la mano. Ho bisogno di qualcuno”2, perché “non c’è in un’intera vita cosa più importante che chinarsi perché l’altro, cingendoti il
collo, possa rialzarsi”3.
S
Ancora una volta le favole si rivelano fonti di saggezza, anche a proposito dell’abbraccio…
Una mamma e un bambino, Ben, si tengono per mano mentre passeggiano verso sera. Il bimbo chiede che cosa significhi che ‘ognuno di
noi è unico’.
«Se siamo unici siamo anche soli, nessuno mai può essere come noi,
uguale a noi e sentire ciò che sentiamo nell’ essere noi. Io non voglio
che al mondo ci sia soltanto uno come me», dice Ben alla mamma, «perché così sono solo!». A quel punto interviene un rimedio speciale…
l’abbraccio della mamma, forza universale che può vincere la solitudine
e far dire a Ben: «Adesso non sono solo, adesso non sono solo, adesso
non sono solo...»4.
Licère è la figlia dell’Ombra, che vive nelle viscere della terra. In seguito a un terremoto, esce da una crepa e conosce la Luce, i Profumi, i
Fiori, l’Amore. Teme però che accettare di vivere quel sogno possa pro_________________________
1
Lore Dardanello Tosi, Tienimi la mano. Tempo di malattia, tempo di verità, Effatà editrice, 1997.
Idem.
3
Luigi Pintor, giornalista e scrittore.
4
David Grossman, L’abbraccio, edizioni Mondadori 2010.
2
102
curarle dolore e delusioni quindi, seppure con tanta amarezza, decide di
tornare nell’oscuro cunicolo. Uno strano gnomo, armato di ago e filo, ne
sta però cucendo l’ingresso.
«Ho paura dei sogni, fammi entrare» implora Licère.
«Non preferisci stare qui? Stai tornando dal viaggio del Coraggio, ma
il tuo cuore oggi è Saggio, accetta il mio abbraccio e… navigheremo insieme le acque di quest’avventura» l’incoraggia lo gnomo.
«Abbraccio?» esclama timidamente Licère, affascinata da quella parola. Esita, pensa, infine si anima, allunga una mano. Chiude gli occhi e
sono tali il calore e il conforto dell’abbraccio ricevuto che, quando li
riapre, il suo abito è di luce e il suo sorriso grande più del mondo5.
Certe amarezze scendono come la sera,
anche su una giornata chiara.
L’uomo attento non le confonda col momento,
sono ombre del passato
che il cor per l’ultima volta hanno abbracciato.
Si’ grato e offri loro il tuo commiato,
anche nel dolore hanno insegnato 5.
Sopraffatta dalla paura, in un primo momento Licère rifiuta di provare
a vivere un sogno che le incute timore. Preferisce restare figlia dell’Ombra, tornare schiava del grigiore e dell’amarezza piuttosto di farsi
ferire dalla Luce. Ma il tepore di un abbraccio la convince ad andare incontro alla vita, al sole, all’amore.
Attraverso una lettera, il 5 giugno 1981 il primo Presidente dell’A.V.O.
Torino, Francesco Colombi, ha ‘abbracciato’ i volontari…
“… Abbiamo pensato di incontrarci tutti il giorno 24 giugno dalle
ore 18,00 alle 21,00 presso la sala della Croce Verde che ben conoscete.
È necessaria la presenza di tutti perché in questo incontro ci sarà un
aggiornamento completo sugli sviluppi dell’Associazione. Insomma, non
____________________________
5
Cleonice Parisi, Licère e l’abbraccio di Luce, da La favola di una vita felice, edizioni E.C.
103
si può mancare a un incontro di famiglia, ci si ritrova, ci si sente più uniti
e ci ricorderemo di tutti anche quando saremo soli accanto a chi soffre.
Ringrazio fin d’ora, certo di una partecipazione massiccia e capillare; ma ancora di più vi ringrazio in modo particolarissimo, a nome di
chi soffre e ha bisogno di amore, della vostra meravigliosa e silenziosa
opera di volontari.
Siamo tante piccole gocce d’amore che non si perdono ma brillano
come la rugiada; non si vedono perché il mondo è grande ma dove cadono dissetano. Sempre primi nell’amore al fratello”.
Rimane un tenero e doveroso abbraccio da tributare:
“Nel nostro cuore sono presenti tutti i volontari che hanno dovuto lasciare l’A.V.O., così come un grande abbraccio raccoglie tutti i pazienti
che abbiamo amato e seguito negli anni. Più ammalati seguivamo, più
posto si faceva nel cuore per qualche altro volto, qualche altro sorriso,
qualche altra confidenza da tenere preziosa e segreta”6…
E adesso possa, un girotondo di abbracci, cingere con queste parole
tutti i volontari A.V.O.:
“Per far sì che la tua missione non sia vana… abbi cura di rimettere
al loro posto le zolle che hai sollevato lungo il cammino; muoviti senza
chiasso e con moderazione, ma fai sapere al mondo che stai passando”7.
______________________________
6
7
Mariangela Brunelli Buzzi, Convegno A.V.O. Regionale Piemonte, Cuneo 2007.
Dal gruppo della Redazione di In viaggio con le parole.
104
Ad ogni struura in cui prestiamo servizio
è stata accostata una delle parole
messe in scena nella prima parte del libro.
Diamo quindi voce a volontari, pazienti, amici
con racconti, poesie, pensieri.
L’I.R.V.
ISTITUTO DI RIPOSO PER LA VECCHIAIA
è…
Prendersi per mano per dare una mano.
Clelia
Incontrare la ‘Storia’.
Il figlio di un ospite
Scrivere le vite degli ‘altri’ sulla falsariga dei ricordi.
Un volontario
105
Il Regio Istituto per la Veccchiaia, conosciuto anche come “Poveri
Vecchi”, fu la più imponente residenza per anziani della Torino ottocentesca.
Nel 1880 la Direzione dell’Ospizio di Carità dispose la costruzione di una nuova sede, per
sopperire alla ormai evidente inadeguatezza dell’antica struttura
situata in un quartiere centrale
della città. Tramite un concorso
pubblico la realizzazione venne
affidata all’architetto Crescentino
Caselli, allievo di Alessandro Antonelli, che ebbe a disposizione un
terreno allora lontano dall’abi-
tato, lungo l’attuale corso Unione
Sovietica. L’opera che realizzò è
uno degli esemplari più imponenti
dell’architettura torinese dell’ottocento, composto da quattro padiglioni paralleli a tre piani,
simmetrici rispetto ad un padiglione centrale più stretto con una
manica a due piani che collega frontalmente i padiglioni.
Immense le dimensioni: 25.000 metri quadrati di fabbricato corrispondenti a circa 450.000 metri cubi. Gli edifici oggi sono anche sede
di Facoltà universitarie e di Servizi sanitari e uffici.
Nelle foto: facciata dell’ I.R.V. e un corridoio interno.
106
Dono è...
... colmare con una visita il vuoto di troppe giornate solitarie.
Capita fin troppo spesso che gli ospiti dell’I.R.V. non ricevano visite, siano essi soli al mondo o dimenticati da parenti e amici. Nei lunghi pomeriggi trascorsi in attesa… dell’ultimo giorno, lasciano vagare
gli occhi nell’ansiosa ricerca di qualcuno che ascolti le loro storie.
Fra le tante raccolte negli anni da un Gruppo di Volontari, abbiamo
scelto le Storie di…
Cesarina
Cesarina ha ripetuto innumerevoli volte la sua storia, per riempire
quel ‘vuoto’ di attenzione, di giorni, mesi, anni da colmare con i soli ricordi.
Cesarina era nata nel 1910, e dico era perché ormai non è più fra noi.
Della propria infanzia ricordava soltanto un cortile, però con tanti amici
con cui dividere i giochi inventati sul momento: un pezzo di corda per saltare, un cerchione di una vecchia bicicletta. Della giovinezza non aveva
molto da raccontare, senz’altro nessun divertimento perché c’era la guerra
e l’impegno in un’industria tessile dove già lavorava la mamma.
Durante il secondo conflitto mondiale conobbe il futuro marito e il
matrimonio fu privo di fasti; di quel giorno ricordava un brodino e tre
giorni trascorsi da soli, ma non riusciva a rammentare dove.
Erano poi nati due figli, ma c’era la guerra e quando suonava la sirena
si dovevano precipitare dal quarto piano lungo le scale per raggiungere
il rifugio, già stipato da gente più veloce di loro.
Durante i bombardamenti i suoi piccoli, nel vederla tremare, le domandavano: «Mamma, hai forse freddo?» e ogni volta lei rispondeva,
raccontando una bugia: «Sì». In realtà il tremore era dovuto alla gran
paura. Per fortuna, il marito era tranviere e l’azienda passava del cibo ai
dipendenti, quindi i bambini non avevano sofferto la fame.
La sua memoria non andò mai oltre, ecco perché quel che rimaneva
in quell’angolo della mente veniva ripetuto ogniqualvolta se ne presentava l’occasione…
107
Luigi
Luigi era un ‘ragazzo del ‘99’, nato a Monticello d’Alba; la mamma
gestiva un negozio di alimentari e il papà faceva il calzolaio.
Alla fine delle elementari era risultato il migliore della classe e riteneva di aver avuto un’infanzia felice, fatta di giochi col cerchione della
bici, un pallone e dei bastoni.
Aveva fatto il militare durante la prima guerra mondiale, era stato in
Albania ed era rimasto cento giorni al fronte, sul Piave, sotto la pioggia
e nel vento senza mai potersi cambiare.
Terminato il conflitto, aveva conosciuto colei che sarebbe diventata
sua moglie, Lucia, che all’epoca aveva solo undici anni. Si sarebbero
sposati sei anni dopo, quando lui ne aveva ben venticinque. Dopo la nascita di due figli, a quarant’anni venne richiamato per la seconda guerra
mondiale, come capo squadra nella Milizia Anti Paracadutisti.
A fine guerra si trasferì a Torino con la famiglia, trovando lavoro alla
Venchi Unica.
Aveva due costanti ricordi: uno bello, legato alla giovinezza, quando
coi compagni vinse il secondo premio del campionato provinciale di pallone, e uno brutto, riguardante la caduta del fascismo, quando dovette
scappare per non cadere in mano ai partigiani.
Carmelina
Carmelina proveniva da una famiglia della media borghesia di Genova, dov’era nata nel 1908. Non si poteva fare a meno di notarla: sempre ben curata, i modi timidi ed educati.
Proprio la sua timidezza la portò a isolarsi, sin dalla prima infanzia,
e fu per questo motivo che non ebbe mai amici. La sua unica occupazione consisteva nel guardare il mare dalla finestra.
Non perdeva l’occasione di dichiarare, apertamente, di non amare la
compagnia, ma quando accennava alla sua giovinezza un sorriso appariva immediatamente sul suo volto. Ricordava con piacere ed emozione
l’incontro avvenuto - in un rifugio antiaereo durante la guerra - con
l’amore: bello, alto, maestoso nella divisa dell’aeronautica militare. Preludio di una storia d’amore coronata dal matrimonio, il momento più fe108
lice della sua vita malgrado la guerra, che le consentì persino di non fare
più code per cercare cibo; essendo la moglie di un militare, le provviste
erano assicurate.
Nei momenti in cui ritornava a quei giorni, il suo ostentato desiderio
di evitare la compagnia degli altri svaniva come per incanto.
Le due filastrocche che seguono ci sono state lasciate da Eugenia,
un’ospite di tanti anni fa.
Erba voglio
Erba voglio non è nata
perché nessuno l’ha seminata
ma c’è invece un’altra erbetta
buona, santa e benedetta,
sempre fresca e portentosa
nasce, cresce in ogni luogo
e resiste al gelo e al fuoco.
Chi la coglie la tien cara
tutte le cose presto impara,
e sarebbe chi non sa,
l’erba buona volontà.
Una manina bella
Una manina bella
e l’altra sorella.
Un paio di piedini
due occhi birichini.
Un paio di orecchiette
attente e curiosette.
Linguetta lesta vola
sa ben servire,
un cuore per amare
la testa per imparare.
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Ecco la lettera dei familiari di Carlo Ogliengo, ospite dell’Istituto di
Riposo, pervenuta ai volontari nel marzo 2006.
Grazie per Carlo
È giunto il momento del congedo e, così come abbiamo fatto in tutti
questi anni della malattia di Carlo, tocca ancora una volta a noi dare voce
ai suoi silenzi spesso così interrogativi e al suo sguardo impotente, ma
espressivo.
Speriamo che questi nostri pensieri siano rispondenti al suo sentire,
anche se inevitabilmente filtrati attraverso la sensibilità di chi ha condiviso con lui, prima in casa, poi in Istituto, una lunga stagione di sofferenze.
GRAZIE a tutti coloro che si sono presi cura di lui con rispetto, competenza, pazienza, delicatezza e buon umore; questo è ciò di cui hanno
bisogno i malati, soprattutto quelli che, come Carlo, sanno perfettamente
che non ci sarà guarigione e si sentono sempre più fragili e dipendenti
dagli altri.
GRAZIE a chi, occupandosi del suo corpo così provato dall’immobilità, gli ha alleviato il dolore fisico e, avendo compassione di quelle
membra inermi, ha saputo rispettare la sua dignità di uomo.
GRAZIE a chi, soprattutto in questi ultimi anni, quando non poteva
più in alcun modo parlare, si è fermato vicino a lui, ha tentato un breve
dialogo, gli ha manifestato affetto e simpatia.
GRAZIE a tutti voi perché avete saputo esprimere quelle che per noi
sono le qualità più nobili dell’uomo o, per chi si ritiene credente, la manifestazione della misericordia di Dio…
“…Se amate quelli che vi amano, che merito ne avete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che
merito ne avete? Anche i peccatori fanno lo stesso… Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro” (Luca 6, 32-36).
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IL SAN GIOVANNI ANTICA SEDE
è…
Sentirti accolta nell’accogliere.
Margherita
Uno scudo, un casco; qualunque cosa succeda c’è sempre qualcuno
pronto a tendermi una mano.
Un paziente della radioterapia
Come la pioggia d’autunno, come il domopak pellicola: ti si appiccicano addosso e non se ne vanno più, ma io non tento certo di togliermeli di dosso...
Aurora
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L’Ospedale Maggiore di San Giovanni Battista e della Città di Torino ha
visto il battesimo della sua denominazione nel 1577, per opera del Comune e
della Curia. Ha avuto varie sedi sino al 1680, quando l’architetto Amedeo di
Castellamonte costruì l’attuale San Giovanni ‘Vecchio’ (che adesso l’ufficialità
definisce ‘Antica Sede’), così
temuto dai ‘vecchi Torinesi’ ma
altrettanto amato (quando se ne
paventava la chiusura una
marea di gente correva verso
via Cavour per firmare contro
questa ipotetica possibilità). La
sua chiesa circolare, del
1701, fu progettata da Francesco Castelli, con un piano per
gli uomini e un secondo per
l’accesso alle donne, come un
matroneo. Dapprima al San Giovanni si tennero corsi universitari di medicina
e chirurgia separati, poi vennero unificati nel 1834 da Carlo Alberto.
Dopo la scoperta dei Raggi X, nel 1895, iniziò nel 1901 l’attività diagnostica radiologica, seguita nel 1914 da nuovi servizi ospedalieri come il Centro
Radium e nel 1924, tra i primi in Italia, dall’Istituto di Oncologia. I più anziani
fra i Torinesi ne ricordano le
immense corsie ‘a crociera
greca’ sovrastate da un
grande Crocifisso. Nel 1980,
dopo il trasferimento delle
ultime Divisioni di Medicina
e di Chirurgia, rimase il Dipartimento di Oncologia
definito Centro di Riferimento Regionale. Nel 2008
sono stati trasferiti alle Molinette i Reparti di Degenza di Oncologia medica, di Chirurgia oncologica e di
Rianimazione e, nel 2010, il Day Hospital oncologico. Attualmente, oltre ai
Servizi di Radioterapia e di Radiologia, si trovano Centri di Screening e Ambulatori di Diabetologia, di Endocrinologia, di Terapia del dolore e due divisioni di Gastroenterologia.
Nelle foto: il San Giovanni Antica Sede e l’interno della Cappella.
112
Accoglienza è...
Guardare negli occhi la sofferenza e cercare di lenirla con un semplice gesto.
Florinda
Prendere a braccetto un paziente per accompagnarlo agli ambulatori,
mentre ti racconta la storia della sua vita…
Concetta
Una bella parola con tanti significati diversi. L’accoglienza può essere
fatta nella mia casa, nel mio cuore, nei miei pensieri. Gesti semplici
come una carezza o un sorriso possono voler dire “non ti preoccupare,
adesso ci penso io”.
L’accoglienza è particolarmente importante laddove mettiamo in pratica la nostra scelta di volontariato, quando basta una parola gentile o
una mano tesa a infondere fiducia, ad attenuare la paura negli occhi dei
pazienti. Ultimamente ho vissuto un’esperienza traumatica e da volontaria sono diventata paziente. A questo proposito, desidero rivolgermi ai
miei meravigliosi colleghi dell’A.V.O. perché è stata molto importante
l’accoglienza ricevuta da loro, a cui voglio soltanto dire grazie ‘accogliendoli’ in un grande abbraccio.
Carla
Servizio e Parole…
Servizio significa anche buttarsi giù dal letto senza recriminare, sebbene fuori piova a dirotto.
Franca
Entrare in radioterapia con la voglia di raccontare il guaio in cui sei
appena incappata, ma rinunciare a farlo per dare la parola al silenzio, all’ascolto…
Rosalba
Vorrei prendere a prestito un’affermazione di Emily Dickinson: “Una
parola muore appena detta, dice qualcuno. Io dico che solo in quel momento comincia a vivere”.
Marina
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Riflessioni di una volontaria
Prima di prestare servizio all’ingresso del San Giovanni Antica Sede,
pensavo che il luogo più ‘internazionale’ cui potessi accedere nel centro
di Torino fosse Mac Donald. Mi sbagliavo. E di grosso, anche. In Accoglienza presso lo SGAS, posso dire di aver incontrato pazienti di tutte
le età, di tutti i sessi e di tutte le eccentricità possibili e immaginabili.
Fra le centinaia che ho avvicinato, ricordo una signora di novant’anni
con gravi problemi di vista che aspettava impaziente un’amica più vecchia di lei proveniente dall’altra parte della città, per sostenerla in una visita di controllo. Invece due anziani molto teneri, vedovi entrambi, mi
hanno confidato che “si facevano compagnia senza sposarsi, perché i
figli non volevano”. Devo ammetterlo, dalla mia postazione e con il mio
camice indosso ho visto anche più volte passare ‘l’inatteso’: il vicino di
casa con cui si ha avuto da ridire o quella persona con cui cova antica
ruggine, ma ho ‘accolto’ e accoglierò, come volontaria, chiunque varchi le soglie del ‘mio’ ospedale, che nel farmi crescere ha fatto sì che
‘non smetta di indossare il camice’ anche fuori dallo SGAS.
Rita
Una paziente saluta e ricorda
Oh, ecco una volontaria dell’A.V.O.! Mi fa piacere incontrarla, così
la saluto. Ho appena terminato l’ultima terapia, non mi sembra vero...
dopo quaranta giorni che mi hanno cambiata così tanto!. Ricorda i primi
tempi? Ero tesa, diffidente, dovevo affrontare un’incognita, un salto nel
buio dopo mesi di paure, di angosce, di timori per il futuro mio e dei
miei bambini. Nella sala d’aspetto non avevo voglia di parlare con nessuno, mi trinceravo dietro un libro che non leggevo perché il mio pensiero andava oltre quelle pagine. Capivo che vicino a me c’era qualcuno
che voleva parlare, ma non me la sentivo di condividere né il mio problema né quelli degli altri. Giorno dopo giorno, però, ho iniziato a rivolgere uno sguardo alla vicina di sedia, poi a un’altra di fronte e infine
ho iniziato a parlare, a cercare un dialogo, finché quello di ogni mattina
è diventato un appuntamento atteso con trepidazione, per incontrare le
pazienti che erano diventate amiche, confidenti.
114
A un certo punto mi sono accorta che non parlavamo più della malattia, ma dei progetti futuri o dello shopping fatto il giorno prima. Commentavamo i libri della libreria della radioterapia che ci scambiavamo e
che finalmente leggevo fino in fondo. Questo ospedale era diventato il
luogo per incontrare le compagne della disavventura che mi è toccata e
voi signore dell’A.V.O., con cui chiacchieravo volentieri. Dopo qualche
settimana mi sono resa conto che la terapia era diventata l’ultimo dei
miei pensieri, pensi un po’.
E sa cosa le dico? Ho appena salutato le amiche che devono continuare le cure e ci siamo ripromesse di rivederci, però so che mi mancherà
il caffè che ogni mattina prendevo con loro all’uscita dal San Giovanni.
Luciana
Il racconto di Maria
La mia storia inizia nel luglio del 2010, quando una notte nel rigirarmi
nel letto per cercare la giusta posizione ho sentito un dolorino e avvertito
un nodulino. Dopo gli esami del caso ho saputo che si trattava di un brutto
male, ma ho voluto considerarlo una semplice appendicite, senza mai
chiamarlo cancro. Questa è la prima volta che lo faccio.
Dopo l’intervento, convinta dai medici ho accettato controvoglia di
effettuare la chemioterapia e la radioterapia. La conseguenza più sconfortante è stata la perdita dei capelli; per una donna è un trauma, almeno
per me lo è stato.
Con coraggio mi sono abituata anche a questo e mi comporto come se
tutto fosse come prima… Ora mi sento molto tranquilla, perché sono credente e sento accanto a me la presenza di Gesù: solo lui mi dà la forza che
trasmetto a chi mi sta vicino, anche ai bambini a cui insegno catechismo
e che mi danno una carica che non riesco a spiegare. Sento che solo così
il cancro si sconfigge.
Nel ringraziare la mia famiglia e i medici del Valdese e del San Giovanni Vecchio che mi hanno accompagnata in questo cammino, spero che
questa mia testimonianza possa servire a incoraggiare chi si trova ad affrontare questo male affinché lotti per sconfiggerlo.
Maria
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Il sorriso che Loredana non vede, ma dona…
Ho incontrato Loredana in radioterapia. La prima volta che l’ho vista
ho subito notato che il suo sguardo pareva ‘attraversare’ oggetti e persone, pur emanando una grande serenità. Al secondo incontro lei ha cercato la mia mano e, dopo averla stretta, ha iniziato a raccontarmi la sua
vita. Quello sguardo ‘perso nel vuoto’ era dovuto alla cecità che l’aveva
colpita a ventiquattro anni, a causa di una rarissima malattia sopravvenuta dopo un parto gemellare. Nel tentativo, consigliato dai medici, di far
regredire la cecità aveva poi avuto un terzo figlio.
Nel corso dei numerosi incontri, avvenuti ogni mercoledì per circa
due mesi, Loredana mi ha descritto sorridendo come avesse ‘immaginato’, attraverso carezze e baci, la crescita dei propri figli. Figli accuditi
con il solo aiuto della famiglia d’origine perché il marito l’aveva abbandonata. Il culmine della tragedia era stato raggiunto con la perdita
del gemello maschio, eppure con estrema convinzione Loredana ha continuato a sostenere che, nonostante i dolori e le traversie subite, le gioie
erano state superiori alle sofferenze. Era persino diventata nonna e ne
era felicissima, sebbene anche i nipoti li potesse soltanto ‘immaginare’.
Un giorno la figlia mi confidò che la cecità aveva perlomeno risparmiato alla madre di leggere i referti e di vedere le espressioni perplesse
dei medici. Era infatti inconsapevolmente affetta da un cancro che non
lasciava speranze. L’ultima volta che ci incontrammo, mi raccontò che
la sera precedente la famiglia aveva vissuto un momento di grande gioia.
Avevano mangiato una pizza tutti insieme e la madre aveva dichiarato di
essere molto, molto felice di condividere con le persone che amava una
pizza squisita. E aveva riso, non sorriso, ma proprio riso, a lungo...
Claudia
Ho casualmente trovato una massima di Laurence Sterne: “Un sorriso
può aggiungere un filo alla trama brevissima della vita”. Queste parole
mi hanno fatto pensare a Loredana.
Miranda
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IL SAN GIOVANNI BOSCO
è…
Come una miniera
da cui si estraggono tesori
di povertà
e di ricchezza.
Rosetta
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L’ospedale San Giovanni Bosco fu inaugurato nel 1961 con il nome originale di ‘Nuova Astanteria Martini’, in presenza dell’allora Presidente della
Repubblica Giovanni Gronchi. Tale denominazione deriva dal dottor Enrico
Martini, benestante e filantropo torinese che si prodigò per l’apertura dell’ospedale di Borgo San
Paolo e dell’astanteria di
via Cigna che portano entrambi il suo nome. Per
Astanteria si intendeva un
locale di istituto sanitario
riservato a infermeria per
malati di primo intervento
o in attesa di essere smistati ai vari reparti.
La struttura fu progettata dall’architetto Ettore
Rossi, che perseguiva i suggerimenti dello svizzero Le
Corbusier e venne realizzata con eccezionale rapidità dal 1958 al 1961.
Una curiosità: solo nel corpo centrale sono presenti 368 finestre. Al
momento della sua apertura l’Ospedale era ancora circondato da prati e
da antiche cascine che di lì a poco
sarebbero scomparse.
Nel corso dei decenni l’edificio
ha subìto numerosi potenziamenti e
ampliamenti, il più importante dei
quali è iniziato a partire dal 1998 e
ha portato alla realizzazione di una nuova sede che accoglie il nuovo Pronto
Soccorso, la Rianimazione e la Dialisi, i Servizi Diagnostici, la Centrale di
Sterilizzazione, la Farmacia, il Laboratorio e l’Immunoematologia.
Nelle foto: Ospedale San Giovanni Bosco e particolare del mosaico, opera di
Enrico Paulucci, “L’arcangelo Gabriele che loa con la spada contro il demonio”.
118
Incontro è…
L'opportunità di comunicare con l’altro, ma anche accoglienza reciproca in cui si dà e si riceve. Si trasmette, forse anche inconsapevolmente, qualcosa di benefico, almeno così si spera. Ma, nello stesso
tempo, chi dona riceve in cambio molto di più, tenuto conto che il proprio interlocutore è una persona debole. Tutto questo permette di capire
i valori della vita; quelli su cui in genere non siamo abituati a soffermarci, perché troppo presi dai nostri affanni quotidiani.
Graziella
Uno sguardo… un sorriso… una stretta di mano… un volerti
bene… un piccolo aiuto… un momento speciale… da condividere e
da ricordare.
I volontari del martedì
Incontri
A volte ci soffermiamo a riflettere sul senso della vita, o meglio sul
senso che la vita ha per noi; per quanto mi riguarda dopo pochi istanti allontano il pensiero… non riesco a dare una risposta a questa domanda:
è troppo impegnativa.
Esiste però un miracolo nella vita… la nascita, il primo grande incontro con nostra madre, un incontro che ci segna in modo indelebile, un
insostituibile imprinting. Gli odori, il suono della voce, il calore dei seni
lasciano un segno e ci accompagneranno per tutta l’esistenza.
Gli incontri continuano poi con il papà, le sorelle o i fratelli, i primi
amici. Crescendo sceglieremo le nostre relazioni in base a ciò che le persone, negli incontri, ci hanno comunicato tramite lo sguardo, il modo di
salutare, il tono della voce, la gestualità.
Ogni incontro, in cui si cela tutto un mondo pieno di emotività fatto
di impressioni, ci lascia qualcosa, addirittura ci può cambiare, anche se
in maggior o minor misura.
Penso di aver trovato negli occhi, nella voce, nell’espressione di chi
mi circonda, degli specchi e attraverso gli altri mi osservo… Forse azzardo, ma il senso della vita penso di averlo trovato… è l’incontro, perché coinvolge tutta l’esistenza dell’uomo.
Ezio
119
Insieme
Naturalmente
Così
Ogni
Nostro
Tempo
Ritrova
Ospitalità
I volontari del martedì
Certi incontri decidono il nostro destino.
Non avrei mai pensato che l’incontro con l’A.V.O. mi avrebbe fatto
maturare rendendomi più riflessiva.
Donare tre ore alla settimana a persone malate e sole è stata ed è
un’esperienza unica.
Una porta si è aperta su un mondo prima sconosciuto. Tendere una
mano, rinfrancare con una parola, rallegrare con un sorriso, piccoli gesti
che fanno bene a chi dà e a chi riceve.
Francesca
Nell’ospedale, nei reparti, accanto ai letti degli ammalati si incontra
soprattutto la sofferenza.
Ma, avvicinandosi con animo realmente aperto alla scoperta dell’altro, si possono fare incontri che hanno una caratteristica ben precisa:
l’autenticità, l’assenza di ipocrisia e di banalità. Perché la sofferenza toglie quelle inutili maschere che solitamente usiamo nella vita di tutti i
giorni, per difenderci e apparire diversi o migliori.
Incontri, per noi volontari, estremamente significativi, formativi, illuminanti. Incontri tra fragilità, tra anime, tra esseri che semplicemente
si guardano negli occhi e riconoscono, l’uno nell’altro, l’umanità più
profonda che ci pervade.
Lucia
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L’incontro
di uno sguardo
racconta tutto di te
paura, apatia, sofferenza
lacrime a stento trattenute.
A volte…
è un canto senza suoni
parla di lotte
lotte senza resa.
È la partita che vuoi vincere
l’unica importante:
LA VITA.
Lia
Non avrei potuto fare un incontro migliore quella mattina di primavera.
Seduta sull’autobus che mi portava al lavoro, seguivo i miei pensieri
che da un po’ di tempo portavano con sé guizzi di inquietudine e di insoddisfazione. Qualcosa mi spronava a pensare che le mie aspirazioni
non avrebbero potuto esaurirsi nel consueto meccanismo della vita di
tutti i giorni. Sentivo dentro di me che non era giusto restringere il campo
del mio ‘dare’ all’ambito della famiglia o degli amici, che sicuramente
c’era qualcuno al di fuori a cui avrei potuto donare una parte di quel
tempo che adesso dedicavo alle consuete incombenze.
Non mi era però affatto chiaro che cosa avrei potuto fare. Alzai gli
occhi, scossa all’improvviso dalla voce di una giovane donna straniera
che parlava animatamente al telefono. I suoi occhi grandi, pieni di dolcezza attrassero la mia attenzione che fu però subito distolta da un cartellino, legato al corrimano dell’autobus, che penzolava esattamente
sopra la sua testa: una H bianca, grande, su sfondo azzurro e una mano
serrata a pugno, sopra tre lettere che campeggiavano: A.V.O., un’associazione di volontariato, di volontari ospedalieri.
Mi sembrò un segno del destino e mi avvicinai alla ragazza per leggere meglio. Lei nel frattempo aveva terminato la telefonata e mi guardava incuriosita, mentre mi appuntavo l’indirizzo e il numero di
121
telefono. A un certo punto i nostri occhi si incrociarono e lei, con un sorriso che sembrò un luminoso raggio di luna in una notte scura, mi disse
con un italiano un po’ incerto: «…volontariato…» indicando il cartello
e facendo un cenno di assenso con il capo. Poi si alzò, mi salutò e scese
dall’autobus.
Sono ormai trascorsi diversi anni e il mio servizio di volontaria nella
realtà ospedaliera del San Giovanni Bosco ha davvero riempito quella
parte che mancava alla completezza della mia vita, rendendola ricca nell’ascolto, nell’aiuto e nella partecipazione ad altre vite che in quel momento stanno percorrendo un cammino di fragilità.
Ogni tanto ripenso a quell’incontro così significativo per la mia vita
e alle due immagini che non riesco a dissociare: grandi occhi neri, profondi come pozzi ma colmi di riflessi di luce e un cartellino azzurro che
si agita allegro ai sobbalzi dell’autobus.
Laura
Torta A.V.O. - La ricetta
Un pizzico di buonumore – una manciata di tenere, rassicuranti parole – una terrina colma di sorrisi. Mescolate il tutto per circa tre ore, con
un cucchiaio zeppo di armonia.
Non dimenticate di far lievitare ‘dolcezza e serenità’. Impastate il
tutto e infornate. Se non avete sbagliato dosi o tempi, il dolce sarà senz’altro un successo.
Lia
122
Il MAURIZIANO
è…
Come entrare in un luogo familiare, per aspettare amici nuovi e incontrare con gioia quelli di sempre.
Renza
Aprire le braccia per accogliere chi attende conforto.
Una volontaria
Una seconda casa. È il luogo dove durante la settimana trascorro del
tempo sentendomi in pace con me stessa, proprio come è possibile sentirsi in casa propria.
Angela
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L’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro è un ordine cavalleresco di Casa
Savoia nato dalla fusione dell’Ordine Cavalleresco e Religioso di san Maurizio e dell’Ordine per l’Assistenza ai Lebbrosi di san Lazzaro. Nel 1573 il papa
Gregorio XIII definisce,
come insegna dell’Ordine,
una doppia croce verde e
bianca. Nello stesso anno,
ecco la fondazione dell’ospedale Mauriziano a
Torino, lo ‘Spedale della
Sacra Religione de’ Ss.
Maurizio e Lazzaro, detto
de’ Cavalieri’.
La fondazione dell’ospedale si concretizza nel 1575 con la donazione da
parte di Emanuele Filiberto di una sua casa nel quartiere di Porta Doranea. Vi
sono addette undici persone: dal direttore (che percepisce 400 scudi all’anno)
ai medici (48 scudi), all’economo e allo speziale (24 scudi ognuno) fino alle
due ‘serve’, 6 soli scudi la
paga annuale per ognuna di
loro. A governare detto ospedale, un ‘Cavaliere della Gran
Croce’ con titolo di Grande
Ospitaliere, il quale ha la sua
abitazione nel Palazzo del medesimo. A rifornire le casse
dell’ospedale, la tassa sul sale
e il reddito di una cascina a
cui si aggiungono, col passare
degli anni, frequenti lasciti testamentari e donazioni…
Ai giorni nostri, L’Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino si distingue come un’azienda dotata di aree di alta specializzazione, prevede sia
l’attività di ricovero sia l’attività ambulatoriale.
Nelle foto: Ospedale Mauriziano, entrata principale e ingresso con l’antica facciata del 1885.
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Ascolto è...
La parola ascolto racchiude l’atto di ascoltare, lo stare a sentire
con attenzione, il prestare l’orecchio, il dare retta, ma quante persone
conoscono esattamente il suo significato, e soprattutto sanno ascoltare?
Ogni giorno veniamo bombardati da frasi, dati, informazioni che
solo in minima parte ci rimangono in mente, ma ascoltare o meglio
udire dei messaggi dal mondo televisivo o radiofonico non è la stessa
cosa che ascoltare un paziente. Questo rappresenta un aspetto importante, anzi fondamentale del nostro servizio.
Non solo udire ciò che il degente ed i suoi parenti vogliono trasmetterci con le parole, ma ascoltare con il cuore il messaggio non
verbale che intendono inviarci.
Per farlo nel migliore dei modi bisogna però mettere da parte la
propria esperienza, i propri pregiudizi, restare dietro le quinte e soprattutto non dare consigli.
Quando ho iniziato il percorso in ospedale ero troppo condizionata
dalle mie opinioni, ma col tempo ho imparato a poco a poco ad ascoltare, perché ho capito che se volevo svolgere al meglio il mio servizio e rendermi veramente utile dovevo potenziare al massimo questo
atteggiamento nei confronti dell’ammalato.
Mi è così capitato che alcuni pazienti mi confidassero le loro paure,
ansie e dolori e si sentissero liberi di sfogarsi, di esprimersi apertamente. Tutto ciò mi ha resa felice e sorpresa al contempo, perché degli
sconosciuti si erano fidati di me.
A volte mi chiedo se, al posto del paziente, sarei capace di aprire
il mio cuore ad una persona sconosciuta e la mia risposta è “non lo
so”, ma se ciò dovesse accadere desidererei avere accanto un volontario con la capacità di ascoltarmi e di portare rispetto al mio pensiero
e alla mia sofferenza; di certo, questo sarebbe un gran sollievo.
Angela
125
Ricordi…
... di una volontaria del Mauriziano che ha l’onore di aver frequentato
il corso n.1.
Non è stato facile per noi, primi arrivati, adattarci ai nuovi ritmi e alle
maggiori esigenze dei vari reparti, sia per una certa timidezza nell’affrontare il dialogo con i pazienti, sia per le diffidenze da noi suscitate
nelle prime badanti - ammesse ormai al capezzale degli ammalati alla
stessa stregua dei parenti - che ritenevano un pericolo il nostro servizio
gratuito. Nel corso del tempo, con il notevole aumento dell'immigrazione, sarebbe poi diventato normale incontrare donne straniere nei reparti, non più solo come badanti, ma anche come pazienti.
Fra noi e il personale era nata una collaborazione fattiva specie all’ora dei pasti, particolarmente critica quando in reparto c’erano pazienti
di etnie straniere: questi volevano mangiare pietanze tipiche dei loro
Paesi, tanto che i relativi parenti arrivavano portando ai malati, di nascosto, i loro piatti preferiti. Ed è così che noi volontari, rispolverando
faticosamente le lingue straniere imparate a scuola, potevamo venire a
conoscenza dei loro usi e costumi, entrare nei loro cuori, partecipare ai
loro affanni.
Ora, dopo trent’anni di volontariato, mi ritrovo ancora nel Pronto soccorso del Mauriziano e mi guardo attorno tra i viavai delle barelle e delle
carrozzelle. Vedo gli stranieri meno spaesati e forse più determinati di un
tempo nel tutelare i propri diritti; vedo ambienti di alta tecnologia con
personale qualificato, ma vedo che la sofferenza umana è sempre la
stessa e non guarda in faccia nessuno.
Con tenerezza mi piace ricordare due episodi significativi.
Avvicino una giovane araba in barella con un piede fratturato. Mi
chiede di cercare suo fratello Abdul in sala d’attesa; vado, chiamo, trovo
Abdul ma, poco dopo, comprendo che non è lui il desiderato, che sta arrivando di corsa nel corridoio. Inevitabilmente scoppiamo a ridere tutti
insieme e, quando mi allontano, scorgo i due Abdul e la ragazza che si
parlano fitto fitto nella loro lingua.
Poco lontano, su una carrozzella, trovo un’altra anziana donna straniera, immobile come una statua. Accanto a lei, il figlio che protesta per
126
la lunga attesa. Mi viene spontaneo fare una carezza a quella mamma
così isolata e silenziosa, che ricambia la mia gentilezza con un bacio tenerissimo, mentre il ragazzo seccato esclama: «Tanto non capisce l’italiano!». Ferita, rispondo: «Ma l’amore lo capisce benissimo!».
Sono grata all’A.V.O. per avermi offerto le emozioni più profonde nei
contatti umani, facendomi viaggiare con la fantasia in tutto il mondo, insegnandomi la pazienza e l’umiltà in tutti i rapporti e dandomi la possibilità di creare, tra noi volontari, delle amicizie che dureranno per sempre.
Maria Luisa
... e di un’altra volontaria che allude con fierezza al corso frequentato
nel lontano 1982:
È incredibile constatare come mi senta arricchita e migliore grazie alle
storie delle persone conosciute in tanti anni di volontariato. Aprire la propria anima alla sofferenza altrui aiuta la nostra, a volte cieca, natura a comprendere l’importanza infinita di questo meraviglioso dono che è la vita.
La differenza fra le nostre attività quotidiane ‘obbligatorie’ e il volontariato sta proprio qui: si diventa volontari perché si ha voglia di esserlo,
provando gioia ed entusiasmo a esserlo; se manca questa ‘voglia’ non si
può essere volontari. Il volontariato è una scelta che richiede impegno,
sacrificio, pazienza, costanza, preparazione. Per servire l’uomo, la prima
condizione è concentrarsi sull’uomo e dimenticare se stessi, perché altrimenti si finisce per servire se stessi e dimenticare l’uomo.
Ricordiamoci che il malato non attende qualcosa, ma qualcuno; non
una prestazione, ma una presenza.
Paola
Fatima
Non si dimenticano mai i pazienti. Fra i moltissimi che ho incontrato,
ogni tanto mi torna in mente Fatima, giunta dall’Africa anni fa nel nostro ospedale. Soffriva per svariati problemi di salute, per la lontananza dai parenti, per la perdita del lavoro; alla fine delle cure venne
dimessa e non la rividi più.
Ovunque sia adesso, la ricorderò sempre.
Piera
127
Non solo servizio
Il Mauriziano significa anche aver avuto la possibilità di creare dei legami profondi con tutto il personale, oltre che con i pazienti, per far sì
che il servizio fosse veramente completo ed efficace.
Consapevole che si è volontari anche fuori dal proprio reparto, e che
pertanto può essere utile conoscere l’assetto generale del luogo in cui si
opera, ho voluto informarmi su dove sono ubicati i diversi reparti, gli
uffici amministrativi, la farmacia, la chiesa, il bar. E, man mano che
prendevo familiarità col mio luogo di servizio, ho finito per notare, come
lo avrei notato a casa mia, i vari cambiamenti, in meglio o anche in peggio, che si susseguivano nella struttura ospedaliera; mi accorgevo per
esempio se veniva pitturato un corridoio, se veniva ristrutturato un reparto, se venivano sistemate delle piante lungo un corridoio.
Sono molto affezionata al mio ospedale, perché è ormai un punto
fermo della mia vita. Proprio lì ho imparato ad avvicinarmi alla sofferenza e alla malattia, realtà che prima allontanavo con caparbietà dalla
mia esistenza e che oggi mi fanno sentire meglio, per il fatto di essere più
utile agli altri di quando sono entrata.
Angela
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L’OFTALMICO
è…
Un’oasi quasi felice nel buio della malattia, dove si spera e spesso si
raggiunge la sospirata guarigione.
Maria Teresa
Il luogo dove la sofferenza non salta agli occhi in modo evidente, ma
dove uno sguardo attento scopre voragini di paura, di ansia e a volte di
rabbia.
Maria Angela
Ci vedono poco, qualcuno niente. Io parlo e gli altri parlano con me:
si sta insieme. Dopo torno a casa. Solo.
Giancarlo
129
Casimiro Sperino (1812-1894) è stato il precursore, nel XIX secolo, dell’oculistica torinese. Da lui il nome dato all’ospedale Oftalmico, ‘Lo Sperino’.
Nella sua veste di medico militare si distinse durante l’epidemia di colera del
1835, che era scoppiata con particolare virulenza a Genova, prodigandosi nell’assistenza alle vittime del morbo. Grazie ad una borsa di studio si recò a Parigi, ove si specializzò in
oftalmologia e al suo ritorno dalla
Francia mise in atto l’arte medica
acquisita. Nel 1838 organizzò il
primo ambulatorio di oculistica
(Dispensario oftalmico) in un fabbricato (casa Quartero) sul viale
del Re a Porta Nuova. Le visite
erano gratuite. Nel 1843 il Dispensario venne inserito nell’Opera benefica dell’Ospedaletto
Infantile sito in via dei Pescatori.
Nel 1851 l’ambulatorio si trasformò in Opera
Pia, gemmando successivamente l’Ospedale Oftalmico di via Juvarra al
n.19. L’edificazione del
nuovo nosocomio iniziò
solo nel 1864 quando il
Parlamento Subalpino
donò un terreno, adiacente all’area della Cittadella fortificata.
Una curiosità: a fine
‘800 all’Oftalmico i letti a
pensione per gli adulti costavano da 1 lira e 50 cent. a 7 lire al giorno; per i fanciulli da 50 cent. a 3 lire. Il ricavato andava al fondo per il mantenimento dei
letti gratuiti; se il malato era povero non pagava neppure le medicine. Il servizio notturno veniva esercitato dalla Farmacia Civica Centrale in Via Bellezia
dietro il Palazzo Municipale: i poveri avevano diritto all’assistenza gratuita, i benestanti pagavano dalle 10 alle 20 lire.
Nelle foto: registro delle prestazioni ambulatoriali del 1924 con strumenti d’epoca e
Ospedale Oalmico.
130
Silenzio è…
Difficile da ascoltare… ma se ti metti in ascolto con il cuore, ti rendi
conto di quanto assordante sia il suo rumore e, con un briciolo di amore,
quanto facile sia capirlo e condividerlo.
Silvana
Ascoltare il rumore del silenzio: mi sconvolge e mi affascina.
Libera
Si può ascoltare in silenzio, si può perdonare in silenzio, si può amare
in silenzio, si può fare servizio in silenzio.
Libera
A volte, anzi spesso, il silenzio è più terapeutico di tante, troppe inutili parole.
Maria Teresa
Pensare al passato per scorgere il futuro. Il mio. E sperare che possano
scorgerlo anche ‘gli altri’, i pazienti.
Giancarlo
Aprirsi all’ispirazione che scaturisce dalle profondità del nostro
‘IO’, considerandola una parte fondamentale degli aiuti da dare all’ammalato.
Elena
Il sentiero che conduce all’interno dell’anima, là dove si fondono i
sentimenti più veri, dove la ‘voce’ è udibile, flebile eppure potente:
‘voce’ che all’orecchio dello spirito può illuminare e guidare e, se si ha
il coraggio di darle ascolto, può cambiare il corso della vita.
Laura
Ascoltare il crepitio della legna che arde sul fuoco, e scoprire che lo
zampillio delle scintille è un po’ come i nostri propositi: brillanti ma subito spenti. Ma sperare di poterli ‘riaccendere’, magari con il nostro servizio.
Laura
Un tesoro dal valore inestimabile, che stiamo miseramente disperdendo in nome di una civiltà mediatica, di una modernità dominata dal
frastuono e dal caos, di cui un giorno ci ritroveremo tutti più poveri per
non averlo saputo custodire.
Laura
131
Far tacere tutto quello che fa parte di me: pensieri, desideri, aspirazioni, delusioni, gioie, dolori, esperienze, per accogliere nell’ascolto
L’ALTRO.
Maria Angela
Assaporare la sua saggezza, la sua magia, i suoi insegnamenti, il suo
‘farsi ascoltare’.
Un paziente
Chiudere gli occhi per gioire della sua musica.
Fare silenzio paga più che parlare!
Una paziente
Una volontaria
Restare in silenzio per:
‘stupirsi’ di fronte all’infinita grandezza della vita… ‘entrare’ in se
stessi… ‘riconoscere’ gli altri.
Silenzio
Sipario che s’alza sui misteri del mondo
Infinito orizzonte verso paesi lontani
Lampada accesa
Speranza nel buio
Erba che brilla per la rugiada del cielo
Nubi evanescenti disperse dal vento
Zolla di terra in cui il seme germoglia
Idea che si svolge in un sentimento
Occhi che si aprono e riconoscono ogni volto.
Teresa
132
Sperare oltre l’insperabile
Mi affaccio sulla soglia della stanza, rischiarata appena dalla luce che
proviene dal corridoio, per un semplice saluto: in risposta sento esplodere la rabbia e la ribellione. Hanno il volto di C., una bella e giovane
ragazza che non accetta di essere in quella stanza a fare delle cure che
ritiene inutili perché “per lei il domani è un’incognita e la sua malattia
pare non darle speranze”.
Anche se vede poco, lei – ragazza di provincia – vuole andare a fare
shopping in centro a Torino e ha deciso che nella notte scapperà. Niente
e nessuno potrà farla desistere da questo proposito, nemmeno il pianto
disperato della madre che fa da sottofondo alle sue parole. Non mi resta
altro che ascoltare, per tutto il tempo che sarà necessario alla rabbia, alla
ribellione e alla disperazione di fluire come un fiume in piena.
Grazie all’umanità del personale medico e paramedico C. non ha
messo in pratica i suoi proposito: non è scappata. Mi succede di pensare
a lei e alla sua mamma e auguro a tutte e due di riuscire a sperare oltre
l’insperabile.
Maria Angela
Dare e ricevere
L’impegno che ho assunto, la dedizione al mio operato nascono dalla
convinzione che donare un sorriso, una parola di conforto, una carezza
a chi ne ha bisogno non mi costa nulla.
Da coloro a cui cerco di fare coraggio, a cui cerco di dare aiuto, ricevo
sovente tanta gratificazione e sono loro, le persone a cui io do tanto poco,
che mi incoraggiano a proseguire infondendomi forza e serenità.
Maria Rosaria
Secondo Kierkegaard è “meglio dare che prendere, ma talvolta può
esserci più umiltà nel ricevere che nel donare” e faccio mio il suo
pensiero.
Una volontaria
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Per Douglas Bloch “la legge del dare e del ricevere scaturisce da
questa verità: l’universo non è qualcosa di fisso ed immutabile, ma una
dinamica, fluttuante, mobile corrente di energia. Quando date incondizionatamente, create un temporaneo squilibrio che deve essere corretto.
Come le molecole dell’aria affluiscono per colmare il vuoto, l’universo
si sforza di restituire ciò che avete dato”.
A volte è dunque meglio frenare la nostra volontà di ‘dare’ a tutti i
costi, e attendere di ‘ricevere’… in fondo può essere una maniera di
‘dare a chi ci sta donando’.
Un volontario
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IL C.T.O. - MARIA ADELAIDE
è…
Leggere negli occhi di un paziente la luce della speranza, dopo
tante delusioni.
Un volontario
Intrecci di sguardi ora disperati, ora speranzosi, ora delusi, ora
rassegnati.
Una volontaria
135
Il Maria Adelaide, situato in Lungo Dora Firenze, nel quartiere Vanchiglia
nacque come primo Istituto per Rachitici di Torino e venne designato nel 1896 con
il nome di Maria Adelaide, regina d’Italia.
Nel 1939 venne creato il centro regionale di recupero per postumi della poliomielite esteso
più tardi
alla
riabilitazione e al recupero di altre categorie di motulesi. Nel 1966 è stata istituita la Divisione Ortopedica di Recupero
e Riabilitazione Funzionale, cui è seguita
nel 1997 l’inaugurazione della Divisione
di Neuro-Urologia che è diventato uno
dei centri di riferimento nazionale.
Nela foto: palestra per bambini rachitici (foto d’epoca archivio Maria Adelaide).
Il C.T.O. è un grattacielo di 16
piani alto 75 metri. Attualmente è la
quinta costruzione più alta della città.
Progettata nell’ambito dei festeggiamenti per il centenario dell’unità d’Italia (Italia ’61), è situata nel quartiere
Nizza-Millefonti e si affaccia sul corso
Unità d’Italia. Davanti al grattacielo
del C.T.O. è entrata in funzione, nel luglio 2007, la struttura che ospita
l’Unità Spinale Unipolare (USU), la
più grande d’Italia e una fra le più
Nella foto: C.T.O.
grandi d’Europa, sede del trattamento
riabilitativo delle persone con lesione
del midollo spinale.
L’azienda C.T.O. / Maria Adelaide offre prestazioni di alta specializzazione nel
campo traumatologico e ortopedico, dei grandi ustionati, della neurochirurgia e
della neuroriabilitazione.
136
Emozione è...
"Vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo". Condivido pienamente queste parole tramandateci da Seneca, ma vorrei aggiungervi: “affinché si
possano vivere fino in fondo le emozioni”.
Candida
Emozioni, sensazioni
Quante emozioni e quante sensazioni si possano provare durante un
turno di servizio in ospedale è molto soggettivo. Ognuno di noi, infatti,
percepisce in maniera differente di giorno in giorno gli avvenimenti che
ci accadono intorno.
Di certo l’ambiente ospedaliero è estremamente eterogeneo e quindi
possiamo entrare in contatto con persone di diversa età, nazionalità, condizione sociale, credo religioso… Insomma, l’ospedale offre una delle
poche possibilità di uscire dalla nostra ‘nicchia’, quella che ci siamo
creati nel corso della vita, in cui frequentiamo persone molto simili a noi
per interessi e cultura.
Per questo motivo vorrei spendere due parole per ringraziare tutti gli
operatori ospedalieri e l’A.V.O., perché senza questo a noi caro camice
azzurro, che merita un enorme rispetto da parte di chi lo indossa, noi
non potremmo fare servizio e senza queste persone che ci gratificano
con le loro amicizia e considerazione la nostra vita sarebbe più vuota.
Relativamente al nostro servizio è difficile descrivere un’occasione
particolare degna di nota più di altre, come è altrettanto difficile non cadere nella retorica del caso più drammatico o di quello in cui la sofferenza fisica ci colpisce maggiormente. Fra le ultime esperienze, ne
ricordo due particolarmente significative.
Con lo stesso sorriso e con la stessa cortesia, a distanza di pochi minuti, ho aiutato una gentile e benestante signora medicata per una piccola
ustione a raggiungere, dalla carrozzella, il taxi che l’avrebbe riportata
alla sua accogliente dimora e una ragazza proveniente dal dormitorio
pubblico dove, a causa delle pasticche prese per farla finita, era caduta
rompendosi un braccio.
137
La signora ha sicuramente gradito la mia gentilezza alla quale è di
certo abituata. Invece la ragazza, che mestamente e pur dolorante si è
alzata dalla carrozzina per andare alla ricerca di un autobus che la riportasse al dormitorio, penso abbia gradito, più dell’aiuto, il fatto che
per una volta qualcuno la guardasse negli occhi e le sorridesse, anziché
girare lo sguardo da un’altra parte come di solito la gente fa con lei.
Noi non possiamo cambiare la vita delle persone, ma possiamo compiere dei piccoli gesti per far vivere meglio il prossimo in determinati
momenti, non solo dentro agli ospedali, ma anche al di fuori.
Luca
Stando vicino ai malati
Le storie umane che ho avuto l’onore di conoscere durante questi ultimi vent’anni di A.V.O. sono state molte. Ne ricordo alcune con estrema
malinconia.
È il caso di pazienti ricoverati per traumi o malattie molto lunghe,
per cui la durata della loro degenza ha fatto sì che si instaurassero rapporti di conoscenza particolarmente intimi.
Alcuni di loro purtroppo ci hanno lasciati per sempre, altri fortunatamente sono guariti. Fra questi c’è però chi ha dovuto affrontare profonde
trasformazioni fisiche che hanno cambiato le sue condizioni di vita in
modo inimmaginabile. Il bagaglio di afflizione che si porteranno dietro ha
cambiato la loro vita per sempre, ma anche il carico di pena che ci portiamo dentro noi volontari, stando al loro fianco, è davvero indicibile.
Gli incontri che avvengono in ospedale insegnano quanto sia importante capire il nostro prossimo, qualunque sia la sua provenienza e l’empatia che si instaura talvolta può far scaturire quelle profonde sensazioni
che creano la ‘malinconia’ di cui ho parlato prima.
Le emozioni che proviamo in questo cammino diventano necessarie
e soprattutto utili al nostro percorso esistenziale, a tal punto che affrontare momenti difficili ci potrà sembrare meno duro dopo aver conosciuto
i percorsi estremamente complicati di alcuni pazienti.
Candida
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La forza di Rita
Rita è una mamma che ho conosciuto nel reparto di recupero funzionale dove è ricoverato il figlio dopo un grave incidente, sempre accompagnata dal marito che però si allontana quasi subito.
Mentre il figlio è in palestra per la riabilitazione, abbiamo spesso
modo di parlare un po’ e un giorno lei mi dice che è stanca, tanto stanca.
«Siamo vecchi e questa disgrazia ci distrugge a poco a poco. Ho già seppellito due figli e, quello che mi è rimasto, ora è in queste condizioni.
L’assistente sociale sta cercando un posto adatto a lui, perché noi non
possiamo accudirlo, ma è difficile trovare una struttura adeguata che si
occupi con impegno del recupero». Poi piange, abbracciandomi.
Si inchiodano nella mia mente quelle parole: “ne ho già seppelliti
due…”. Quanto dolore, quanta forza in Rita e in suo marito: ogni giorno
e con qualsiasi tempo sempre presenti in ospedale accanto al figlio!
Penso alla sofferenza spettacolarizzata e a quella esibita in televisione
nei talk show con morbosità. Penso alla morte in diretta tra indifferenza
e abitudine, penso alla cultura del ‘macabro’ di certi telefilm. Un proverbio malese recita: “Il dolore è come un grande tesoro: lo si mostra
solo agli intimi”.
Sapremo ancora guardare in volto il ‘vero sofferente’, colui che in silenzio, con forza e con coraggio affronta le prove e si interpella sull’operato di Dio?
Finalmente la sistemazione più adatta al figlio di quella mamma affranta è stata trovata: il giorno del trasferimento è arrivato. Si tratta di
una casa famiglia situata vicino all’abitazione dei genitori, che potranno
quindi fargli visita ogni volta che vorranno. Rita e suo marito si stringono
attorno al figlio: mi dicono di essere meno preoccupati per il futuro, di essere contenti della soluzione perché sentono che il loro ragazzo è in buone
mani. Rifletto sull’importanza che rivestono le strutture che prendono in
carico persone con gravi disabilità fisiche e psichiche (case famiglia, hospice, centri diurni, ecc.) e sulla necessità che soprattutto alle fasce più deboli non venga mai a mancare l’aiuto psicologico ed economico.
Ogni cittadino consapevole deve impegnarsi affinché questo non
venga mai meno.
Eugenia
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L’Amico
L’Amico
che vuole camminare con te
riesce a trasmettere un’emozione:
una mano che avvolge in segno di protezione;
un sorriso sincero che può aprire il tuo cuore.
L’Amico
ti cerca per esprimere la sua gratitudine,
ed ha voglia di condividere con te i suoi dialoghi,
la paura, l’insicurezza della sua vita, le sue ansie.
Racconta storie del suo passato
e tu gli dai una tua opinione ed un appoggio sicuro.
L’Amico
è imprevedibile, pieno di idee,
basta solo accoglierlo e coccolarlo nel momento giusto.
L’Amico è…
quello che spicca il volo insieme a te.
Maura
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VILLA CRISTINA
è…
Un mondo speciale; oggi come ieri ospita ‘gran dame’ e ‘cavalieri’.
Flavia
Scoprire ogni volta il vero significato di ‘ama il prossimo tuo come
te stesso’. Scoprire che esistono anche medici che lavorano per passione e non per soldi. Scoprire famiglie che combattono ogni giorno
una battaglia sapendo già di averla perduta. Scoprire le cose buone
che ho nel cuore ma che non conoscevo.
Antonio
Palestra di vita e di umanità.
Stefania
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La casa di cura privata Villa Cristina è situata a Torino in strada delle
Vallette. Si tratta di una Casa di Cura Neuropsichiatrica accreditata al
Sistema Sanitario Nazionale. La struttura eroga le proprie prestazioni
per la cura di malattie nervose, neurologiche e psiconevrotiche, non
escludendo altre attività medico-chirugiche in genere.
Si tratta di un edificio di valore storico-artistico e ambientale, tipico
e significativo esempio di architettura
civile in cascina di
pianura, ora inserito
in un’area verde ed
usato come servizio
per casa di cura.
La costruzione,
che risale al secondo
quarto del Settecento, fu legata, per
proprietà e conduzione, alle due cascine La Cavaliera e
La Bergera, rispettivamente come Palazzo e Villa del cavaliere generale D’Envie.
Nel 1816 ha subito interventi di restauro per ordine della regina
Maria Teresa ed è passata di proprietà, nel 1839, alla famiglia Grammont e, nel 1846, al banchiere Andreis; nel 1851 è stata trasformata in
casa di cura ad opera del farmacista G. Grosso.
Nella foto: Villa Cristina.
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Mistero è...
Nella logica corrente la gratuità è un mistero che il volontario non sa
spiegare ma sa esserne solo testimone.
Andrea
Il mistero più grande è la morte, per tanto tempo ti sembra lontana e
non ci pensi, poi di colpo il mistero è lì davanti a te, impenetrabile, che
tu creda o no in un'altra vita e allora l'unica strada è entrarvi dentro a capofitto e lasciarsi andare, pacificata, senza fare più resistenza.
Una volontaria
E ancora, Villa Cristina è...
Quel posto pieno di umanità che, difficilmente o raramente, trovi al
di fuori. Ognuno di noi, perlomeno io, ho suddiviso il mio cervello in
tanti piccoli cassettini, sono i miei cassettini della memoria, e quando
ne ho bisogno basta tirare il pomello e… zac, come per incanto mi trovo
a rivivere emozioni ed esperienze fantastiche.
Villa Cristina è come 1, 10, 100, 1000 cassettini, ognuno diverso e
ognuno ricco di esperienze ed emozioni. Sono cassettini che a volte si
rinnovano velocemente, altri sono più duraturi, ma sono comunque tutti
ben presenti.
Alcuni cassettini li riapri più volentieri di altri, ma tutti sono pienamente degni di essere aperti e rovistati. Quando stai per iniziare a svolgere il tuo servizio e non trovi l’ospite della settimana precedente,
immancabilmente e inconsciamente si apre il cassettino, e lì pensi alle
cose che vi siete detti, alla grande fortuna che abbiamo noi volontari di
poter ascoltare persone così diverse fra loro ma con un filo comune.
Sono concetti magari un po’ confusi, ma sono miei e li volevo condividere con chi è a conoscenza della nostra esperienza. La mia educazione scout anche questa volta ha fatto sì che abbia di nuovo trovato la
voglia e lo stimolo di ‘mettermi in gioco’.
Giancarlo
Un confronto di sofferenza con altre patologie. Un incontro con la
tristezza, la speranza, la delusione, la rabbia e la grande fatica per raggiungere l’accettazione.
Paola
143
A.V.O. per me è:
A - come Amore, Amicizia, Affetto, Accoglienza
V - come Volontà, Vittoria, Vicinanza, Valori umani
O - come Operosità, Orgoglio, Onore, Ospitalità, Organizzazione
Le nostre fragilità ci aiutano ad aprirci al dolore degli altri…
Villa Cristina è per me una scuola di vita perché mi fa prendere coscienza giorno per giorno che ognuno di noi ha la possibilità di modificarsi, se ha l’umiltà di voler continuare ad apprendere.
Il mio incontro con l’altro è sempre un’opportunità di mettere a confronto due fragilità, quella del ricoverato, fragile per antonomasia e la
mia fragilità, spesso mascherata dalla relazione di aiuto, dalla disponibilità all’ascolto, dalla presenza empatica. Le nostre fragilità sono tracce
sincere della nostra umanità. Siamo uomini, siamo umani e quindi fragili per eccellenza. La fragilità però non è una carenza ma un potenziale che ci aiuta ad accogliere, ad incoraggiare, a comprendere. Questo
per me è ciò che aleggia misteriosamente nei nostri incontri, dove scopriamo che tutte le nostre vite sono veramente allocate su un crinale e il
pericolo di precipitarvi è in agguato per tutti quanti.
Nadia
Pomeriggio di servizio a Villa Cristina
So già che vivrò situazioni imprevedibili e spiritualmente cerco di
prepararmi. Io la chiamo la Corte dei miracoli perché gli incontri non
sono mai banali. Ho capito in questi anni quante sfaccettature ha la malattia psichiatrica e penso alla faciloneria con cui prima generalizzavo i
malati psichiatrici con la parola matti. Sempre rincontriamo pazienti che
ritornano ciclicamente, in modo particolare i depressi che attraversano
buoni periodi di remissione ma poi la malattia riprende il sopravvento.
L’accoglienza di chi ci conosce è sempre molto affettuosa. Qualcuno
ci considera inspiegabilmente come colui o colei che possano in qualche
modo risolvere i loro problemi e sovente riceviamo dei complimenti assolutamente immeritati. Salgo al primo piano nel reparto C.
Ci sono molte anziane anche in carrozzina e subito vengo subissata di
144
richieste, le solite: qualche euro, le sigarette, il pagamento di un caffè o
di una cioccolata. Ci sono anche richieste di consigli di ogni genere e poi
le confidenze, anche le più intime.
Entro nelle camere di qualcuno che so che mi sta aspettando e il
tempo corre veloce. Mi trasferisco al reparto B e affronto la Fumeria.
È una stanza al pianterreno dove la sigaretta è protagonista insieme a
un televisore e a due distributori di bibite e caffè. Attorno a un tavolo quadrato sono sedute quattro donne, due di provata conoscenza. Mi avvicino
a una brunetta dal viso dolce e pulito incorniciato da lunghi capelli neri.
Saluto tutte e R. subito mi dice che sta malissimo, che non può continuare a vivere in questo modo, che arriva da un’altra struttura, che è
malata da ventitrè anni con buoni periodi di remissione ma ormai da sei
anni non ha più avuto un miglioramento.
Mentre sta parlando subito le lacrime le scendono copiose sul viso. Ha
tre figli, la maggiore di diciannove anni si occupa della piccola di soli
cinque anni, qui fa una pausa e alza la testa. Le chiedo di suo marito. Mi
guarda con uno sguardo pieno di disperazione. Suo marito si avvicina
allo stadio terminale per un sarcoma secondario ai polmoni. Una trafila
dolorosissima e ormai senza speranza. Conclude il suo racconto dicendomi con molta determinazione: «Non vedo l’ora di finire questa mia
povera vita». Si è fatto un gran silenzio intorno al tavolo. Io balbetto:
«Non riesco a dirti nulla, mi sento impotente e inutile». L’abbraccio
stretta e poi gli sguardi delle vicine si incrociano con il mio.
È come se in quel momento cercassi io un aiuto da loro e mi sembra
che quasi vogliano dirmi: “Datti pace, nessuno può cambiare questo
dramma”. Mi sento sopraffatta dall’emozione, mi fermo ancora un po’
con il gruppo di pazienti e le loro storie si intrecciano con quella di R.
Capisco che cercano una consolazione reciproca anche se solo per un
momento. Piano piano mi fanno capire che la mia presenza è importante
perché se anche non posso risolvere i loro drammi hanno almeno la possibilità di parlarne in assoluta libertà. Questa volta mi sembra che sia
veramente troppo poco per sentirmi un po’ consolata. Per uno strano destino non sono più riuscita a incontrare R. e di conseguenza sento che
qualcosa dentro di me è in sospeso, in attesa; mi sembra che in qualche
modo, in un altro tempo o luogo riprenderò la storia interrotta.
Marina
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I miei Fratelli
Da cinque mesi, tutti i martedì mi presento all’ingresso
della Villa per il mio servizio.
Non c’è nulla di allegro e rassicurante ad accogliermi,
solo il suono dell’antica campana che,
dopo aver suonato per scandire il tempo
a nobili signori, eleganti feste, matrimoni e nascite,
è ora testimone di dolore e disagio.
Mi avvio nel cortile un po’ turbato
ed incapace di darmi una ragione di tali sofferenze,
quando dal terrazzino del reparto A
sento la voce di Marco che mi chiama ad alta voce
«Buongiorno volontario!»
Da questo momento tutta la mia razionalità, la mia inquietudine
ed il mio spirito critico mi abbandonano
per lasciare spazio ai sentimenti,
penso che qualche Angelo stia volteggiando sulla grande Villa
per proteggere i suoi ospiti
ed accelero il passo per correre a salutare i miei Fratelli.
Riccardo
146
IL SENIOR RESIDENCE
è…
Un magico luogo per ‘magici’ incontri.
Antonietta
Un salotto di sensazioni.
Gian Luigi
Attendere sorprese piacevoli che non mancano mai.
Un ospite
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Senior Residence, nata nel 2002, si pone nel disegno dell’innovazione del
vecchio concetto di Casa di Riposo, che permette all’anziano in condizioni di
non autosufficienza psicofisica di avere a disposizione strutture diverse dall’ospedale, dotate di buon livello di assistenza sanitaria e riabilitativa e in
grado di accoglierlo per periodi sia lunghi che brevi.
Per alcuni anni gli Ospiti hanno formato un ‘salotto letterario’ che ha ispirato l’uscita di alcune pubblicazioni e attualmente si dedicano al Teatro e al
Cabaret, in qualità di registi e interpreti.
Fin dai primi tempi di esercizio il presidente del Senior Residence ha avviato una attività di canto corale, inizialmente finalizzata all’accompagnamento dei servizi religiosi.
Mano a mano che si procedeva, aumentava il numero delle persone che
provavano piacere dalla partecipazione al canto, fino alla svolta avvenuta nel
2004 con l’arrivo della professoressa Anna Maria Nannetti e l’organizzazione
del primo concerto corale, che si tenne il 6 marzo 2005 con quattordici coristi-ospiti. Tutti gli ospiti continuano a partecipare volentieri alle prove, ai concerti ed agli spettacoli che si susseguono nel corso dell’anno.
Nella foto: Senior Residence
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Speranza è...
...guardare al futuro, fare progetti e applicarli, proprio come riescono a
fare gli ospiti della R.S.A. Senior Residence.
Il segnalibro al the è il titolo di una serie di volumi pubblicati, per volontà del Presidente del Senior Residence Agostino Orbecchi, ogni anno
e per alcuni anni. Ne sono state magistrali curatrici e animatrici le ospiti
Marvi e Cinzia ed è un vero peccato che lo spazio a disposizione consenta di far conoscere solo una minima parte delle storie, delle riflessioni, dei ricordi contenuti nelle pagine di questi libri…
Nel racconto che segue, Cinzia, che ha fotografato ogni ospite e insieme a Marvi li ha invitati, ottenendo però un rifiuto, ad accompagnare
ogni ‘ritratto’ con una storia, ha inventato una favola in onore e ricordo
di Margherita, che sarebbe venuta a mancare pochi giorni dopo…
La regina delle farfalle
C’era una volta, immerso nel verde di una grande vallata abbracciata da imponenti montagne, un piccolo paese con tante casette di mattoni rossi, giardini sempre in fiore e tante, tante farfalle di ogni tipo e
colore; per questa strana caratteristica era chiamato ‘il paese delle farfalle’. […] Tra gli abitanti, tutti anziani, c’era Ines, soave signora di
novant’anni… In paese tutti le volevano bene, anche se non la vedevano
mai, non sapevano nulla di lei, della sua vita, conoscevano solo la dolce
melodia che ogni giorno risuonava tra le montagne, proveniente dalle
sue piccole finestre aperte… Ines sedeva al suo pianoforte e viveva la
vita.
Le sue lunghe ed esili dita accarezzavano come piume le note, i suoi
occhi di color azzurro erano una sinfonia di emozioni, il suo corpo
un’orchestra di passioni. Ines suonava per sé, per il mondo, per le sue
migliori amiche, le farfalle, che ogni giorno volavano a migliaia per posarsi dolcemente sul suo pianoforte, sul suo capo, sulle sue dita.
Un mattino il paese si svegliò e non c’era musica, solo silenzio. Corsero tutti alla piccola casetta rossa ai piedi della montagna.
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Videro Ines che giaceva immobile, senza vita; a scaldare ed accarezzare il suo corpo le sue amiche di sempre, le farfalle, che con battiti d’ali
avvolgendola e proteggendola la portavano via, volando verso il cielo.
Come d’incanto si udì nuovamente una dolce melodia, tutti alzarono
gli occhi e videro Ines che danzando si librava nell’aria, videro il suo
corpo piano piano trasformarsi in una grande, splendida e multicolore
farfalla che a ogni battito d’ali regalava serenità e musica. Da allora,
per tutti gli abitanti del paese, Ines diventò la ‘regina delle farfalle’.
Su ogni ritratto ‘scattato’ da Cinzia ciascun ospite ha scritto un commento, da cui traspaiono giudizi influenzati dal grado e dall’intensità
dell’amicizia che lo lega alla persona presa in considerazione.
“Preferisco parlare di lei come persona che di una fotografia. Le invidio la calma e la serenità… Io vorrei essere come lei”.
“C’è la bontà di fondo che viene fuori… Le rughe d’espressione trasmettono tante cose passate della vita, tante rughe da guancia a bocca
che denotano l’abitudine al sorriso”.
“Bella persona anziana, integra nella sua vecchiaia che non le ha tolto
nulla ma caso mai aggiunto”.
“È vero ho lo sguardo dolce, qui; pensierosa io lo sono sempre stata ma
anche nei miei pensieri so sorridere”.
Un giorno hanno disquisito sulla paura…
“Io non ho più paura di invecchiare. Paura o no tanto è lo stesso, non
ci possiamo fare niente”.
“La paura è provocata dalle ombre. Siamo noi a crearci degli ostacoli
che non sempre ci sono, in realtà”.
“Dovremmo fare tutti esercizi di distacco, se sei sereno fai anche di più per
gli altri. Dovresti renderti conto che le disavventure sono solo una parte
di te, tu sei molto di più, allora a quel punto le paure si allontanano”.
150
Un altro giorno alcuni ospiti hanno presentato il loro profilo, chi in sonetto, chi in versi liberi…
Marvi
Se interrogo lo specchio sul mio viso
sfiorando le mie rughe con le dita
penso che se risparmio sul sorriso
ho capito ben poco dalla vita
ma sento che mi batte dentro al petto
uno spirito pronto a prender fuoco
mi si dilata il cuore, non è stretto
per gli altri, per la vita, il tempo, il gioco
e mi vedo invecchiar un poco pazza
ma viva, vera, l’ideale ardente
capace d’emozioni da ragazza,
giovane sempre agli occhi della mente.
Lodovico
A quarant’anni vivevo per il lavoro e per la carriera. Vestivo griffato
e facevo il play-boy.
A sessantasei anni vorrei di nuovo averne quaranta, per poter nuovamente fare le stupidaggini di allora.
Ora vivo in una struttura sanitaria per anziani e cerco di essere felice
nel migliore dei modi. Non sto bene, però non faccio pesare i miei acciacchi sugli altri e di conseguenza vivo felice se non penso al passato.
Elsa
Ho novant’anni e quattro mesi ma dentro di me, in profondità non
sono poi dissimile da quando ne avevo venti.
151
L’esperienza di un volontario al Senior Residence
Nella primavera del 2008 iniziai il mio servizio come volontario dell’A.V.O. al Senior Residence. Come avviene in tutte le organizzazioni
che basano la loro attività sulla serietà e sulla competenza di chi vi
opera, fui affiancato ad un tutor, il quale con la sua esperienza, la simpatia e l’affabilità mi ha subito fatto sentire a mio agio. Mi ha fatto capire come il mondo degli anziani sia costituito da persone, i cui
sentimenti e la voglia di essere ancora presenti non sono affatto sopiti.
Il suo esempio mi è stato molto utile tanto che tra noi sono nati reciproci
sentimenti di stima e di amicizia.
Poco alla volta sono entrato in sintonia ed in confidenza con gli ospiti
del Senior Residence: quando ci vediamo il martedì (il mio giorno di
servizio) ci chiediamo a vicenda come abbiamo trascorso la settimana,
notizie su avvenimenti esterni e quant’altro.
A volte mi sono chiesto perché ho deciso di dedicare un pomeriggio
alla settimana agli altri. Vi sono studiosi che teorizzano l’operato della
gente, soprattutto di chi si dedica al prossimo, con concetti filosofici,
sociologici, spirituali (e chi più ne ha più ne metta). Io che sono il pragmatismo fatto persona dico semplicemente che vado a “dare una mano”
a chi ne ha bisogno, e penso che ciò basti.
Una cosa ho capito: gli anziani soffrono soprattutto perché non si sentono più considerati; ciò avviene nelle famiglie quando sono accantonati in un angolo di una stanza o posti davanti ad un televisore, loro
unico interlocutore, e spesso quasi sopportati dai loro cari, i quali con
troppa facilità dimenticano ciò che i loro ‘vecchi’ sono stati in passato e
cosa hanno fatto per loro. Il ricovero in una casa di riposo accentua ancora di più questo stato di disagio, dato che alla mancanza di considerazione si associa la più totale inattività. È quindi preciso compito, di chi
gestisce od opera in tali Centri, attivarsi affinché gli anziani possano ancora sentirsi parte di un contesto sociale attivo, attraverso varie attività
operative o d’intrattenimento come avviene al Senior Residence.
Nel complesso dove presto volontariato vedo gli ospiti impegnati in
attività quali: laboratorio culturale, laboratorio teatrale, canto corale ed
altro ancora.
Un volontario
152
MOLINETTE
è…
Luogo di attesa e di speranza, di incertezza e di paura.
Un lungo corridoio dove i malati sostano, affrontando il dramma del
corpo che non risponde più come dovrebbe. E da questo corridoio noi entriamo nelle stanze di degenza, attenti a decifrare uno sguardo, un sorriso, una richiesta di aiuto.
Alberto
153
L’Ospedale San Giovanni Battista di Torino - Molinette è opera dell’architetto Eugenio Mollino, padre del poliedrico artista Carlo.
Il complesso ospedaliero fu realizzato tra il 1927 e il 1934 al margine
della città, lungo una direttrice che si dimostrava appropriata in virtù della
preesistenza delle Facoltà
scientifiche.
Si definisce su un impianto
a struttura ortogonale di 19
padiglioni di altezza variabile
dai due ai quattro piani, collegati da gallerie, con vetrate a
due livelli. Fu inaugurato in
pompa magna, in presenza
delle autorità cittadine e, di re
Vittorio Emanuele III, il 9 novembre 1935.
Alcune curiosità: il suo
costo fu pari a sessantuno milioni e il nome Molinette deriva dal nome del mulino “La Molinetta”, luogo presso il quale fu firmata la convenzione che diede
inizio ai lavori di costruzione.
Durante la seconda
guerra mondiale le Molinette
rimasero agibili solo per metà
a causa degli ingenti danni
dovuti ai bombardamenti destinati alla Fiat Lingotto, alla
RIV e alla ferrovia.
Le
Molinette
sono
un’azienda ospedaliero-universitaria multispecialistica di
eccellenza, integrata con
l’Università degli Studi di Torino e impegnata a svolgere attività di assistenza,
insegnamento e ricerca, costituendo quindi al tempo stesso elemento strutturale del Servizio Sanitario Nazionale, e in particolare del Servizio Sanitario
della Regione Piemonte, e del Sistema Universitario.
Nelle foto: ingresso principale Ospedale Molinee e vista dall’alto di una
vecchia cartolina.
154
Ospitalità è…
Il modo migliore con cui ricevere gli ospiti più cari e gli amici più intimi in casa nostra, per rendere piacevole il loro soggiorno. Alla stessa
maniera l’ospedale dovrebbe essere un luogo di ospitalità, ma nella realtà non è sempre così. A volte i malati non sono considerati ospiti ma
numeri. Tocca quindi a noi volontari cercare di trasmettere umanità e
comprensione. Non ospiti, ma cari amici li dobbiamo considerare per
poter capire i loro bisogni, la loro solitudine, la malattia che talvolta può
renderli più restii ad aprire il loro cuore.
Domenico
Ho letto da qualche parte che, se nell’antichità l’ospitalità era sacra,
presto si dirà che ai giorni nostri è un lusso.
Vorrei proprio che non fosse così, specialmente nel nostro servizio.
Una volontaria
Una storia, tante storie
Capire quanti momenti significativi si possono vivere in un ospedale
grazie ai malati. Talvolta, ad esempio, abbiamo la netta sensazione di
essere ‘attesi’ dai pazienti: questo sorprende e fa enormemente piacere.
Ci si sente utili, partecipi della sofferenza e dell’ansia di chi sta in quel
luogo e il dover magari ricorrere all’inventiva per infondere coraggio fa
bene anche al nostro animo.
Ogni paziente ha la propria storia, ma molte di esse hanno un comune denominatore: lo stupore di trovarsi lì. E quando qualcuno si dilunga a parlare della famiglia o del lavoro quasi sempre lo fa per
rimuovere il pensiero della malattia.
“Ho lavorato tutta la vita, non ho mai avuto bisogno di un medico,
invece qui mi vogliono trattenere, non ne capisco il motivo”, li si sente
dire. Poi li si rivede la settimana successiva e ancora un’altra, sempre
più stanchi e dubbiosi, ma con un unico, costante desiderio: quello di
tornare a casa.
Succede di entrare in una stanza e trovare vicini di casa, gente del
proprio quartiere, compagni di gite domenicali, genitori di compagni di
155
scuola che, al vederci, si sentono un po’ rassicurati, come se fossimo
taumaturghi in grado di guarire tutti i mali. Magari fosse così! Oppure
si avvicinano realtà che danno una stretta al cuore: persone che hanno dimenticato il proprio nome e quello di chi è loro più caro, altre che invocano la mamma e parlano di lei come se fosse fuori dalla camera, pronta
a entrare con una carezza e un dolcetto… Allora, a quella carezza pensiamo noi.
È invece un tale piacere incontrare per strada un paziente guarito!
Non lo si riconosce subito, perché è fresco di parrucchiere e senza pigiama, ma lui ci abbraccia, si commuove. La mente ritorna allora a quel
malato con il pigiama, i capelli arruffati in preda a tanta paura, ed ecco
che si avverte quanto siano importanti la vicinanza all’ammalato e la
condivisione dei suoi affanni.
In un vero imbarazzo ci troviamo quando il malato straniero non conosce la nostra lingua e noi non conosciamo la sua; certo, le mani e i
gesti aiutano, ma non bastano.
Accadono anche episodi buffi. Ad esempio, un giorno un paziente
voleva donarmi un portachiavi a forma di cassa da morto: era un impresario di pompe funebri che intendeva in tal modo dimostrare la propria
riconoscenza.
Tanti anni di volontariato mi hanno regalato una maggiore capacità di
riflessione, la possibilità di partecipare e condividere le vicende di molti
malati e di meglio comprendere anche chi sta fuori dall’ospedale.
Tutto questo mi ha arricchita e, pur con la partecipazione a tanto dolore, mi ha dato molta gioia.
Marcella
La sfida
Ho vinto una specie di sfida con la mia famiglia: in casa erano convinti che ‘non sarei andato oltre un paio di servizi’, e invece, dopo molti
anni, sono ancora qui e non penso affatto di ‘lasciar perdere’. Nei momenti dedicati alla riflessione vado sovente col pensiero ai vari ‘tipi’ di
servizi a cui mi sono dedicato.
Il servizio in Medicina significa anche, per le lunghe degenze che
quel reparto implica, instaurare rapporti addirittura di amicizia con pa156
zienti e parenti, mentre quello in Pronto soccorso vuol dire assistere a un
via vai continuo e limitarsi, il più delle volte, a fornire informazioni su
dove dirigersi. Non è però raro trovare anche qui occasioni per ‘fraternizzare’, quindi tenere compagnia o improvvisarsi baby sitter.
In ogni caso, ho mantenuto la mia emotività dell’inizio e mi è ancora
difficile affrontare con ‘coraggio’ certe situazioni particolarmente dolorose, ma cerco di vincere le mie emozioni perché proprio queste situazioni mi hanno fatto rendere conto che la vita, quella ‘normale’, è solo
un’illusione: illusione di star sempre bene, di mantenersi sempre giovani e di non avere mai bisogno di nessuno. Purtroppo può capitare che
all’improvviso venga a mancare quel bene prezioso che è la salute e solo
allora ci troviamo a fare i conti con la realtà della vita che comporta sovente dolore e sofferenza. Se, però, piombando in questa realtà troviamo
uno ‘sconosciuto’ vicino a noi pronto ad offrirci anche solo un piccolo
aiuto, ecco che quella realtà non ci sembrerà più tanto cruda. E quello
‘sconosciuto’ non verrà dimenticato anche a distanza di tempo. Mi è successo infatti di imbattermi in qualche paziente incontrato tempo prima
che mi ha riconosciuto chiamandomi per nome.
Nel corso di questi incontri con i malati ho ascoltato centinaia di storie. Fra le tante, ricordo quella di un signore calabrese che raccontava
come da ragazzo nascondesse la testa sotto le coperte per non sentire il
sibilo del vento sulle onde del mare; il suo medico condotto effettuava
le visite in bicicletta e si faceva prestare le medicine dal fratello farmacista perché coloro che curava erano poverissimi.
E, ancora, ricordo quella di un ragazzo palermitano che feci sorridere
raccontandogli come le maglie del Palermo fossero rosa per un lavaggio
sbagliato che le aveva sbiadite, e quella dell’uomo molto anziano che
mi chiese di acquistargli una rosa per donarla alla moglie, perché era il
giorno di San Valentino!
La mia esperienza di ascolto di queste storie mi porta ad affermare
che accettare la sfida - quella di cui parlavo all’inizio - per me ha voluto dire vincerla e la ricompensa che ho ricevuto si traduce non solo
nell’aggiungere giorni alla vita, ma vita, vita vera ai giorni!
Sono questi episodi che ci fanno superare tanti momenti difficili che
possiamo vivere nelle corsie, anche se non riuscirò mai ad abituarmi alla
malattia, alla sofferenza, alla morte. Mi è già capitato di dover uscire
157
dalle stanze frenando a stento le lacrime, ma fatti come quelli raccontati
mi convincono di aver compiuto la scelta giusta.
La conferma l’ho avuta anche il giorno in cui offrii il supporto di una
carrozzella a una ragazza poliomielitica che doveva percorrere lunghissimi corridoi per effettuare un esame; lei la rifiutò affermando che “doveva esercitarsi a rafforzare la gamba”. Si rivelò coraggiosissima, ma
mi domandò di accompagnarla nei sotterranei che le incutevano paura.
Quando raggiungemmo la meta, mi ringraziò e manifestò il proprio stupore “di fronte a persone che sono ancora gentili, se ne trova una su
cento”.
Quanto desidererei rivederla un giorno robusta e con la camminata
spedita! D’altronde nessuno ci vieta di sognare.
Emilio
158
IL REGINA MARGHERITA
è…
Capace di farci sentire ‘piccola truppa motivata e caparbia’,
orgogliosa di fare servizio nel ‘nostro ospedale’.
Lucia
Il motore che innesca la voglia di fare per dare.
Alfia
159
Che cosa sono gli ospedali pediatrici? Sono quegli ospedali specializzati nella
prevenzione, nella diagnosi e nella cura delle varie malattie dell’età infantile che
prevedono spazi di ricovero adatti per bambini e ragazzi, personale con formazione specifica e figure di supporto quali animatori, insegnanti e volontari al fine
di creare le condizioni che meglio rispondano ai bisogni dei piccoli pazienti, coniugando competenza con efficienza e umanità. L’ospedale infantile Regina Magherita è uno dei pochi
ospedali pediatrici presenti in Italia ed ecco
quindi che il ‘nostro
ospedale’, che abbraccia tutte le specialità
mediche, chirurgiche e
diagnostiche è centro di
riferimento regionale e
nazionale anche per patologie complesse, rare
e croniche.
Da una collinetta domina, con la
sua struttura imponente, un tratto
del Po e non dimostra i suoi cinquant’anni a chi, guardandolo dal
basso, lo può apprezzare con la sua
facciata rosa dalle mille finestre.
È difficile descrivere in maniera
univoca il nostro servizio di volontari A.V.O., perché ha tante sfaccettature; diverse sono le situazioni in
cui si opera, diversi gli approcci, diversi gli interventi. Non siamo un esercito, siamo una piccola truppa, ma orgogliosa di far parte della nostra Associazione, orgogliosa di fare servizio nel ‘nostro
ospedale’.
Nelle foto: Ospedale Infantile regina Margherita e
particolare della sala giochi del DEA.
160
Gioia è…
Sapere che, dopo aver affrontato diverse sfide e interventi difficili,
non esenti da complicanze anche molto gravi, un bambino non solo ce
l’ha fatta ed è stato dimesso, ma che, nonostante le premesse scoraggianti, vivrà una vita normale.
Entrare in una stanza e scoprire in un piccolo paziente un miglioramento inaspettato.
Sapere che esistono persone che condividono la nostra motivazione:
aiutare il prossimo donando il proprio tempo restando in silenzio e nell’ombra.
Riuscire a dare sollievo, anche se momentaneo, a un genitore e scoprire nei suoi occhi un barlume di speranza, alleviando forse una sofferenza che invece sarebbe stata costante e duratura. Fargli sentire che non
è ‘solo’ ad affrontare il percorso impegnativo e di grande sofferenza in
cui una persona cara è coinvolta.
Fare del proprio meglio per cercare di capire quello di cui ha bisogno
quella persona in quel determinato momento.
Avere l’occasione di conoscere altri volontari che condividono la tua
stessa passione e con i quali confrontarti e diventare Amici!.
Samantha, Stefania,
Roberta, Enrico
e Stefania
Ancora sulla gioia…
Gioia... una parola corta, cinque lettere per indicare quel regalo bellissimo che di tanto in tanto ci viene fatto e ci colora l’orizzonte, ci accelera i battiti del cuore, ci dà energie nuove, ci spinge a progettare, ci
apre il viso al sorriso.
161
Gioia… momento che arriva da luoghi diversi per ognuno di noi, si
forma, ci sommerge e vorremmo trattenerla, averla sempre come compagna ma... passa e si ricrea...
Se questa è la gioia, che gioia potrà dunque esserci per quei genitori
che hanno la vita sovvertita e stravolta dall’uragano senza fine che è la
malattia cronica e invalidante dei loro figli? Spesso mi sono posta questa domanda quando, al Regina Margherita, mi sono trovata di fronte al
dolore senza speranza di genitori che, con i figli e per i figli, combattevano una battaglia consapevoli che non l’avrebbero mai vinta.
Da madre, ho incontrato donne senza sorriso, sfatte dalla fatica ma
che non si arrendevano; mi sono chiesta come facessero a trovare tutta
quella forza e se ci potesse essere anche per loro, di tanto in tanto, il
brillìo della gioia a illuminarne e riscaldarne il cammino. Accarezzando e cullando bimbi che avevano preclusa la possibilità di comunicare con la vita e con il mondo, tante volte mi è venuto il nodo alla
gola e altrettante volte il pensiero è volato ai momenti che un figlio, col
suo esserci, col suo crescere, con le sue tappe verso la scoperta della
vita, sa regalarci.
La gioia grande delle piccole cose… Qualche giorno fa nell’ufficio
che condividiamo con altre associazioni di volontariato al Regina Margherita, di fronte alla nostra scrivania erano sedute tre volontarie dell’AITF bimbi (associazione trapiantati di fegato) che parlavano coi
genitori, tristi e preoccupati, di un bimbetto di due anni cui era stato assegnato un punteggio basso che lo metteva in fondo alla graduatoria per
il trapianto.
Mi sono allontanata per lasciarli parlare poi, quando se ne sono andati, forte del clima di confidenza e di amicizia che col tempo si è creato
con le volontarie, ho osato far affiorare quella domanda che spesso mi
sono fatta e a cui non ho saputo dare risposta. Domandare, cioè: «Se vi
chiedessi di associare la parola gioia alla vostra esperienza di vita vi verrebbero in mente momenti e situazioni?»
A tutte e tre si è illuminato contemporaneamente il viso e quasi all’unisono mi hanno detto: «La telefonata che ci diceva che era arrivato
il momento del trapianto ci ha regalato la gioia più grande che un genitore possa provare, ci ha tolto fiato, energia e lucidità, ma era gioia vera,
unica, impagabile. Ci ridava speranza...»
162
Mi hanno poi detto che ogni momento della vita di quei genitori così
preoccupati, per il solo fatto che riescono a viverla mentre pensavano di
non riuscire ad arrivarci, è gioia vera. Come non averci pensato, il primo
giorno d’asilo, la recita a Natale, la festa di compleanno e via via le piccole cose…
È un regalo la gioia, che arriva da luoghi diversi per ognuno di noi,
ma arriva, è per tutti e tutti ne possono godere… bisogna solo coglierla…
Lucia
Il mio incontro con Giulia
È il mio primo giorno di tirocinio pratico. Sono stata assegnata al reparto di neuropsichiatria dell’O.I.R.M.
Dentro di me si alternano entusiasmo e desiderio di esserci, ma avverto anche un po’ di timore e qualche dubbio. Mi chiedo se sarò all’altezza, se saprò farmi accettare. Mi propongo di entrare in punta di piedi,
come una presenza leggera… e spero di riuscire a regalare un piccolissimo raggio di sole. Ma il sole, pieno e caldo, ha riscaldato me, appena
entrata… In sala-giochi due occhioni bellissimi e profondi si posano su
di me: sono di Giulia, una bambina di 11 anni.
La saluto e mi siedo vicino a lei. Sto cercando un modo per entrare in
contatto con la piccola. Di tanto in tanto mi osserva per un po’, girando
la testa verso di me. A un tratto Giulia mi sorride, mentre l’aiuto a pettinare la sua bambola, poi esclama: «Mi sembri brava tu… hai un buon
profumo». Improvvisamente non ho più paura e provo una grande gioia…
Giulia, senza saperlo, mi ha dato il benvenuto e mi ha fatto sentire nel
cuore che ‘essere lì’ aveva davvero un senso. Poco dopo l’ho presa in
braccio e ho sentito il suo abbandonarsi fiduciosa tra le mie braccia.
Ora Giulia è stata dimessa, ma io so che dal mio cuore non se ne andrà
mai… è stata la mia ‘prima bambina’. Le ho lasciato un biglietto con su
scritto: «Sono certa che il profumo delle cose buone saprà seguire il suo
cammino».
È quello che mi auguro possa essere per lei.
Gabriella
163
Fra il dolore e la gioia
Non ricordo su quale libro ho letto queste parole che mi hanno colpita particolarmente:
“Sai qual è il bello dei cuori infranti?”.
“Non saprei”.
“Che possono rompersi davvero soltanto una volta.
Il resto sono graffi”.
Rammento di aver pensato che i graffi si rimarginano in fretta e non
lasciano segni.
In questo modo si può attenuare, se non dimenticare, il dolore e sperare in un futuro di gioia.
Una volontaria
164
LA R.S.A DI VIA BOTTICELLI
è...
Il luogo da cui esco ogni volta,
dopo aver fatto le mie tre ore di servizio di volontariato,
sentendomi più alta di almeno dieci centimetri.
Una volontaria
165
La struttura di via Botticelli, Residenza Sanitaria Assistenziale, è
stata inaugurata nel maggio del 2000 ed è gestita dall’ASL Torino 4.
Possiede 95 posti letto, di cui 70 occupati da ospiti residenti, affetti
da patologie croniche invalidanti e 25 a disposizione di anziani che necessitano di continuità assistenziale e di pazienti dimessi dai presìdi
ospedalieri aziendali.
L’edificio è dotato di grandi spazi e di ampie camere che si affacciano su larghi balconi. È attorniano da un bel giardino con piante, zone
erbose e panchine: è un vero peccato che solo chi ha parenti ne possa
usufruire. I volontari A.V.O., entrati nel maggio 2010, quando è possibile vi accompagnano gli ospiti.
Nella struttura sono presenti varie figure professionali che concorrono alla cura e all’assistenza, quali infermieri professionali, OSS (operatori socio sanitari), fisioterapisti, animatori, medici. La RSA è
attualmente gestita dalla Cooperativa Punto Service e ha una valenza
sanitaria per persone che richiedono un livello medio-alto di assistenza
sanitaria integrato da un livello elevato di assistenza tutelare e alberghiera.
Nella foto: R.S.A. Residenza Sanitaria Assistenziale.
166
Rispetto è…
Accettazione degli altri.
Questo non significa essere sempre accondiscendenti, ma cercare un
punto d’incontro fra le diversità.
È fondamentale che io ascolti me stesso cercando di introdurmi nella
sfera dell’altro per comprendere opinioni e comportamenti in contrasto
con i miei.
Grazie all’A.V.O. ho questa opportunità che cerco di mettere in pratica al meglio, anche con un pizzico di ironia pur di strappare un sorriso
quando è possibile.
L’affetto che nasce tra me e l’ammalato è il vero miracolo.
Non credo a niente che non venga dal cuore.
Giovanni
Un atteggiamento di riguardo, di considerazione che dobbiamo avere
nei confronti degli altri esprimendolo con il nostro comportamento.
Comportamento fatto di gesti semplici:
Uno sguardo amicale
Un sorriso
Dire buongiorno
Ringraziare
Aiutare il prossimo
Essere all’ascolto degli altri
Accettare le differenze…
Piccoli gesti che producono nelle persone un effetto benefico, ma che
soprattutto cambiano la nostra vita... se si parte dal principio che quando
si fa del bene si riceve sempre in cambio un arricchimento.
Una volontaria
167
Rispetto vuol dire rispettare innanzitutto se stessi, dopodiché si rispetteranno anche il nemico e l’universo.
Il rispetto è il fratello buono del dispetto, il cugino del sospetto e il
maestro di se stesso.
La mancanza di rispetto genera:
CAOS
il CAOS genera violenza
la VIOLENZA genera morte.
Un volontario
Venti chilometri all’ora
Sopra la cassa di un distributore di benzina dell'autostrada TorinoMilano è affissa questa raccomandazione:
«Quando, per strada, sei dietro al vecchietto con la Panda che cammina
a venti all'ora, ricordati che il mondo è tuo quanto suo».
Forse gli ospiti della RSA di via Botticelli vorrebbero poter correre di
più, non solo sulla Panda, ma anche con le proprie gambe. Eppure, come
spesso succede, occorre adeguarsi ai cambiamenti che la vita ci impone
e giungere ai dovuti compromessi. Perché il momento dei 'venti chilometri all’ora' prima o poi arriva per tutti quelli che raggiungono traguardi
di età molto avanzati. E coloro che a quel traguardo non sono ancor arrivati dovrebbero applicare il consiglio del 'distributore di benzina'.
Una volontaria
168
Il SANT’ANNA
è…
Culla di speranze.
Santina
Speranza di culle…
Rosanna
Emozioni, palpitazioni, ansie, gioie.
Anna Maria
169
La storia del Sant’Anna nasce da molto lontano, da quando cioè nel 1728
Vittorio Amedeo II istituisce l’Opera delle Donne Partorienti presso l’Ospedale
San Giovanni Battista di Torino, che nel 1801 verrà trasferita nel Convento di
San Michele assumendo il nome di Ospizio di Maternità.
Nel 1822 verranno istituiti il primo Reparto Pensionanti e il Servizio degli
Esposti, a cui seguiranno
corsi per studenti in Medicina e Allieve Ostetriche, separati poi nel 1863. In
questo anno l’Ospizio di
Maternità sarà denominato
Regia Opera di Maternità e
nel 1881, a fianco delle pratiche Ostetriche, verrà introdotta la Ginecologia.
Si arriva al XX secolo ed il 1915 vedrà il trasferimento della Regia Opera
di Maternità e della Clinica Universitaria dal Convento di San Michele a una
nuova sede in regione Millefonti (Molinette).
Dal 1930 iniziano i lavori per la nuova e attuale sede, che verrà inaugurata
nel 1938 con l’accettazione delle prime pazienti.
Solo nel 1953 assumerà la denominazione
di Ospedale Ostetrico
Ginecologico
Sant’Anna, che nel 1995
prenderà il nome di
Azienda Ospedaliera
OIRM-Sant’Anna.
Nelle foto: ingressi del Sant’Anna di corso Spezia e di via Ventimiglia.
170
Libertà è…
... anche essere libere di non frenare le struggenti emozioni che si vivono al Sant'Anna. Libere di riversare tenerezza, calore e sicurezza verso
i piccoli che non possono riceverli dalle loro mamme. E libere di dar
sfogo alle sensazioni che proviamo vicino a donne preoccupate o addirittura senza speranza. Le storie che seguono, per i cui protagonisti sono
stati utilizzati nomi di fantasia, intendono testimoniare alcune di queste
esperienze....
Alberto
Terzo piano della Clinica ostetrica ginecologica, nido immaturi. Una
volontaria sosta in piedi dinnanzi ad una incubatrice; indossa sopra il
camice il grembiule sterile e le sue mani, infilate nelle aperture della
culla termica, sono protese su un esserino di poco più di 600 grammi, a
tenergli la testolina e le gambette.
Maria Teresa è immobile, consapevole del compito tenero e insieme
grande che deve svolgere: far sì che il piccolo senta il calore delle sue
mani, che senta l’amore che una mamma dà al proprio bimbo, e che tutti
i bimbi dovrebbero avere, tanto più se così piccoli.
Alberto è venuto alla luce nell’anonimato ed è uno di quei bimbi destinati ad essere adottati. Qualcosa non è andato per il verso giusto ed il
piccolo è nato troppo presto.
I bimbi prematuri posti in incubatrice sono sottoposti a cure intensive
e specialistiche per poter arrivare alla maturità ed al peso di una nascita a
termine; la parte affettiva viene svolta dalle mamme che vanno regolarmente al nido ad accarezzare ed a far sentire al proprio piccolo presenza,
dedizione, amore, quasi per continuare quella gestazione precocemente
interrotta. Ma come fare con il piccolo Alberto? Come colmare per lui il
vuoto affettivo? Quando le assistenti sociali chiedono il nostro intervento
auspicano che, a sostituire la mamma del piccolo in attesa di una mamma
adottiva, sia una sola volontaria o due al massimo.
Così Maria Teresa offre la sua disponibilità quotidiana a dare al piccolo le attenzioni e le cure affettive di cui necessita, con un gesto nobile
e amorevole senza riserve di tempi e orari. Non sappiamo che cosa senta
171
Maria Teresa mentre tiene il capo del piccolo tra le mani, che cosa gli
sussurri attraverso il vetro dell’incubatrice, ma è certo che si stabilirà un
legame di amore tra il bimbo e la volontaria.
Che dire? Per noi, volontarie del Sant’Anna, è un servizio speciale
che, nella sua peculiarità, entusiasma e commuove, nella consapevolezza di colmare il vuoto lasciato da mamme che “non possono”, “non
vogliono”, “ non capiscono”…
Per la volontaria Maria Teresa, per la nuova mamma che accoglierà
il piccolo, ed anche per tutte noi, Alberto è un dono della vita.
Micaela
Lorenzo
Mi hanno detto che Lorenzo ha bisogno di ‘calore’. La sua mamma
ha problemi di tossicodipendenza, non può stargli vicino e lui è nella
culla della nursery, mentre gli altri bambini si trovano fra le braccia della
mamma, del papà, dei nonni e di tutti coloro che, parenti o amici che
siano, non vedono l’ora di stringerli, di dar loro ‘calore’.
Mi precipito alla sua ricerca e dietro ai vetri lo trovò là… non ho
dubbi che si tratti di lui: è l’unico rimasto nella nursery. È voltato di lato,
ogni tanto muove le gambette, si succhia un dito… Mi fanno cenno di
entrare, con le braccia mimano il gesto di cullarlo. Lo prendo in braccio, apre gli occhietti che probabilmente non mi vedono, ma lui li gira
a destra ed a sinistra, poi si fermano, pare mi guardino…
È bello Lorenzo, è tenero e come sempre succede in casi analoghi lo
coccolo, lo stringo a me, gli accarezzo i pochi capelli neri che svettano
come quei fiori di montagna che se soffi volano subito via… Non oso
soffiare, temo possa perderli…
È talmente dolce restare a guardarlo che non mi accorgo del tempo
che passa e, quando l’infermiera mi si pianta davanti tendendo le braccia per prenderlo, mi dispiace staccarmi da lui, mi sembra di tradirlo.
Naturalmente lo ‘passo’ a lei, non prima però di avergli stampato un leggero bacio su un piedino.
«Tornerò da te e ti manderò le mie colleghe» gli prometto mentre,
mestamente, lascio la nursery…
Una volontaria
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Federico
Federico era cieco, la sua mamma aveva un altro bimbo piccolo e non
poteva recarsi da lui. Lo ricorderemo sempre, tutte… A turno, non appena iniziavamo il servizio, ci recavamo a trovarlo per non fargli mancare le coccole.
È troppo importante per un bambino sentire amore e calore attorno a
sé perché, come diceva Madre Teresa di Calcutta:
Ieri è trascorso. Domani deve ancora venire.
Noi abbiamo solo l’oggi.
Se aiutiamo i nostri figli
ad essere ciò che dovrebbero essere oggi,
avranno il coraggio necessario
per affrontare la vita con maggior amore.
Noi ci abbiamo provato…
Le Volontarie del Sant’Anna
Marianna
Non scorderò mai Marianna. Fidanzata da anni, aveva lasciato il compagno per un ragazzo che, fidanzato pure lui da anni, aveva lasciato la
compagna perché loro due si erano perdutamente innamorati e pochi
mesi dopo si sarebbero sposati.
Erano incapaci di nascondere il sentimento che li univa, lo si leggeva
nei loro sguardi e nei piccoli gesti con cui si sfioravano.
Marianna era arrivata nel Reparto di Oncologia poco tempo dopo il
matrimonio. Convinta ed entusiasta per una presunta gravidanza, non so
se fosse effettivamente incinta o se fosse soltanto ingannata da certi sintomi, le era stato riscontrato un tumore. E dei peggiori. Di quelli che non
lasciano speranze.
Era però sempre sorridente, proiettata verso quel futuro sognato col
marito, una vera lottatrice che non si arrendeva di fronte a nulla. Sottoposta alla chemioterapia, non si lasciava abbattere dal fatto di non poterla
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continuare quando i valori precipitavano e non appena risalivano ritornava per proseguire le cure.
Aveva accettato di sottoporsi a una dolorosa ‘prova’ a Milano, dove
le avevano applicato una specie di calotta-elmetto a causa delle metastasi
arrivate al cervello. Era poi tornata a Torino, dove aveva ripreso le chemioterapie, per ritornare pochi giorni dopo al lavoro e, la sera, andare a
teatro.
Quando proposero un trasferimento al marito lo incoraggiò ad accettare, promettendogli di raggiungerlo. Ha combattuto sino all’ultimo,
come una guerriera, come un’indomita ragazza innamorata della vita e
del suo uomo, ma non ce l’ha fatta.
Non la dimenticherò mai, come non dimenticherò mai la sua mamma,
che come una statua stava attaccata al suo letto. La si trovava sempre lì,
immobile, come se il cordone ombelicale non le avesse separate.
Anna Maria
Pronto soccorso
Un giorno è arrivata al Pronto soccorso una giovane donna con un
gran pancione. Si è catapultata fuori dall’ambulanza, urlando: «il mio
bambino, controllate il bambino…».
Era stata investita da un’auto ed era terrorizzata che fosse successo
qualcosa di irreparabile al piccolo che portava in grembo. Ricordo che
si erano precipitati tutti verso di lei, che chiese immediatamente al medico di sentire se il bambino avesse battito…
Tutti i presenti trattenevano il fiato e tirarono un gran sospiro di sollievo quando il medico fece cenno di sì con la testa. «C’è battito, stia
tranquilla».
La ragazza abbracciò tutti quelli che le stavano attorno, proprio tutti,
e non si riusciva a convincerla ad andare in reparto per un controllo più
approfondito.
Una Volontaria
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IL MARTINI
è…
Ascoltare i pazienti, ascoltare i parenti, ascoltare il personale…
… a volte ci si scorda di ascoltare i volontari!
Margherita
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Fra i primi volontari c’è stata Franca Jourdan che, dopo aver prestato servizio al Gradenigo, ha iniziato l’avventura al Martini. Erano soltanto in sette
e gli inizi non furono certo facili, ma il loro ‘credo’ nell’appartenenza all’Associazione e la costanza con cui dimostrarono la validità dei loro intendimenti
e del servizio fecero sì che, negli anni, quei pochi volontari si trasformassero
in un vero e proprio esercito, in quella struttura di sei piani fuori terra che garantisce l’attività di assistenza ospedaliera a persone affette da patologie in
fase acuta e post acuta che non possono essere trattate nell’ambito dei servizi
territoriali.
Il Martini rappresenta inoltre una case
history di videocomunicazione di lunga
data: la struttura ha
scelto easymeeting per
assistere a operazioni
a distanza, realizzare
consulenze, corsi, convegni e comunicare
con altre realtà sul territorio.
Nel maggio 2005 un
collegamento su ADSL
ha permesso di effettuare una sessione di videocomunicazione con l’ospedale CTO di Torino, per
poter effettuare direttamente, dalla sala operatoria del primo, la formazione
medica e infermieristica nella sala congressi del secondo.
Al di là degli eventi pubblici, il sistema viene utilizzato quotidianamente
nella intranet ospedaliera per lo scambio dei dati tra le varie sale.
Nella foto: ingresso ospedale Martini
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Amicizia è...
Tra di noi
Dedicata a noi
una dedica speciale
per noi che abbiamo
scelto l’ospedale
luogo, si sa, di sofferenza
per offrire la nostra presenza.
E tutto questo ci fa star bene
perché tra di noi, insieme
proviamo a fare del bene
un bene che
come un boomerang
indietro ci torna
un bene che ci conforta
e ormai lo sappiamo bene
l’abbiamo constatato
è certo
se diamo dieci
ci ritorna cento.
Dedicata a noi.
E non è casuale
se riteniamo speciale
quell’incontro settimanale
che ci permette
di trascorrere
qualche ora serena
e lo sappiamo bene
è sempre così piena
e di viverla
ne vale sempre la pena!
Maria
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L’importanza di essere volontaria
Cosa dire? Quando ho iniziato, in famiglia erano tutti contrari. Però
l'ho voluto fare lo stesso! All'inizio, in ospedale, non è stato facile. Avevamo la sensazione di essere osservati da sguardi sospettosi; ci sembrava
mancasse la collaborazione dei medici e degli operatori sanitari. Questi
ultimi in particolare mostravano indifferenza verso di noi, perché probabilmente si sentivano quasi sotto esame, a causa della nostra presenza.
A poco a poco hanno però compreso che per noi l'importante erano le
persone e i loro problemi. Da quando ci hanno conosciuti meglio e capito i nostri scopi, è tutto cambiato: ora sono loro stessi che ci cercano
e ci portano riconoscenza. Ci ringraziano per il nostro impegno, così importante per gli ammalati. Ora anche noi volontari ci sentiamo valorizzati ed accettati! Per me, far parte di un gruppo e condividerne gli scopi
rappresenta una forza e un motivo di orgoglio.
Il senso profondo del servizio che svolgo mi ha aiutata ad apprezzare
maggiormente la vita. Non c'è bisogno di tante parole, basta una stretta
di mano, un sorriso, un goccio d'acqua, una carezza e, senza rendermene
conto, il tempo del servizio è volato.
È così che apprezzo l'importanza di essere volontaria.
Grazie a tutti per avermi aiutata ad accendere questa luce nella mia vita.
Giannina
Amici volontari
In quasi dieci anni di servizio A.V.O. sarebbero tanti gli episodi di
vita vissuta accanto agli ammalati che hanno favorito il mio arricchimento interiore. Ogni ‘storia’ merita attenzione e rispetto, ogni ‘ascolto’
è un pezzetto di vita che ci viene donato e ci aiuta a dare un senso diverso
alla nostra. Ma c’è un altro aspetto, altrettanto importante, che desidero
sottolineare: il rapporto tra noi volontari.
Strada facendo, nel ricoprire il ruolo, molto impegnativo e a volte difficile, di responsabile di un ospedale con tantissimi volontari, ho imparato tanto dai miei colleghi.
Ascoltiamo i pazienti, ascoltiamo i parenti, qualche volta ascoltiamo
il personale, ma chi ascolta i volontari?
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All’inizio timidamente, poi poco per volta, attraverso la conoscenza
reciproca, è accaduto che mi rendessero partecipe dei loro problemi,
delle loro ansie - fossero esse legate al servizio o alla vita - tramite
incontri o telefonate. A volte mi è sembrato addirittura di entrare nelle
famiglie non mie e in qualche modo di interferire nella loro intimità,
sebbene fossero proprio i volontari a chiedermelo. Sono però stati, questi, e continuano ad esserlo, momenti formativi bellissimi, perchè ci
siamo sentiti ‘gruppo’ e amici, non solo colleghi!
Ora è normale che mi vengano a cercare in ospedale e a casa per
proseguire un colloquio amichevole, uno scambio di emozioni personali e di servizio, una partecipazione che con alcuni è diventata amicizia.
Ho imparato che questo è il mio servizio prioritario, dedico loro lo
stesso ascolto e la stessa attenzione che riservo ai pazienti.
Emotivamente è più impegnativo, mi sento più coinvolta che con
gli ammalati. I miei colleghi li conosco meglio, inevitabilmente gioisco o soffro con loro e per loro, ma le loro confidenze sono un dono
prezioso.
È, questa, una delle emozioni più intense che mi ha donato
l’A.V.O.!
Margherita
A proposito della formazione
Mille e mille sono le ricchezze che ho ricevuto e continuo a ricevere
svolgendo il mio servizio in ospedale, prima in reparto ora in accoglienza: i sorrisi, la gratitudine delle persone che trovano qualcuno con
cui sfogarsi, con cui alleggerire il peso della malattia o dell’attesa, che
sanno di avere in noi volontari delle orecchie e dei cuori che si allargano per ascoltarli.
Vorrei però puntare la mia attenzione su un aspetto non sempre sufficientemente apprezzato da tutti, ma estremamente importante: la formazione.
La mia fortuna, al Martini, è aver trovato un ‘piccolo ma valoroso’
gruppo di persone che non si stanca di voler crescere insieme, leggendo
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articoli o libri, aprendo discussioni fra noi o con esperti, proponendo incontri per tutti i volontari. Ritrovarci è occasione a volte di sfogo, a volte
di ascolto, a volte di sottolineatura di vari aspetti del servizio, ma sempre impulso ad imparare qualcosa per poter migliorare. Ognuno sa che
altre persone condividono le sue stesse fatiche, i suoi stessi dubbi. INSIEME si cercano le vie migliori per accompagnare i malati.
Non importa l’anzianità di servizio: ci si mette in discussione sempre, da chi ‘è nato con l’A.V.O,’ a chi è arrivato da pochissimo e ha
tutto l’entusiasmo che, a volte, si rischia di perdere nella routine.
È molto importante, secondo me, l’aspetto formativo, sia quello offerto dalla sede sia quello dell’affiancamento in ospedale. Insieme si armonizzano e si completano, aiutano ad affinare le nostre motivazioni, a
vivere sempre meglio il nostro impegnativo e bellissimo servizio.
E poi non si è volontari da soli: da soli non si va molto avanti. Insieme si cresce, insieme si matura, insieme è meglio».
Rita
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IL GRADENIGO
è…
Un bouquet dai variegati fiori con un unico profumo da condividere.
Carla
Un laboratorio di esperienze che offre l’opportunità di conoscere meglio
se stessi attraverso gli altri.
Un volontario
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Nel 1899 il professor Giuseppe Gradenigo fonda a spese sue una struttura
sanitaria per la cura di pazienti otorinolaringoiatrici, che verrà inaugurata
nel 1900. Da subito le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli hanno un
ruolo importantissimo nella gestione dell’ospedale, tanto che il professore le
vuole come proprietarie
dell’Ospedale alla sua
morte, a patto che porti il
suo nome. Nel corso
degli anni la struttura si
amplia con le divisioni di
Medicina Generale, Chirurgia e altre specialità,
insieme a un Pronto Soccorso, qualificato oggi
come DEA di primo livello.
Nel 1985 viene riconosciuto come Presidio
Sanitario della Regione
Piemonte e nel 1997 ottiene l’equipollenza col
Servizio Sanitario Nazionale. L’ospedale è proprietà di un’Istituzione
senza fini di lucro.
Scopo dell’ospedale è
quello di assistere quanti
si trovino in condizioni di
povertà, di bisogno, di sofferenza. Promuove attività didattiche e di formazione
clinica per tutto il personale, medico e non, nell’ottica di migliorare sempre le
prestazioni e i servizi offerti. Tra i principi fondamentali su cui si basa il Gradenigo, ci sono l’uguaglianza di tutti i cittadini a perseguire uno stato di salute adeguato alle proprie aspettative e l’umanizzazione dell’assistenza.
Nella foto: il Gradenigo ieri e oggi
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Appartenenza è...
Appartenenza vuol dire identificarsi in un gruppo… e il nostro gruppo
fa parte della popolazione dei volontari.
Giorgio
Appartenenza significa far parte di un gruppo di persone, di un’associazione, di un partito, di un paese, di una etnia. Appartenere a un
gruppo è sicuramente un fatto positivo, grazie al quale si possono trovare
amici, aiuti di varia natura, consigli, compagnia. L’appartenenza
all’A.V.O. mi ha donato sicurezza, conoscenza, esperienza e amicizia.
Bianca
Il senso di appartenenza
Se si pensa alla natura dell’uomo e alla sua storia, non si può prescindere dalla sua vera identità, che è quella di un essere sociale.
L’aggregazione è stato uno dei primi passaggi dell’umanità, atto a garantire la sopravvivenza della specie. Nelle durissime lotte per la vita, il
fatto di riunirsi in gruppi dava maggiori garanzie di riuscire a non soccombere di fronte a immani pericoli.
E qual è stata la forza che ha tenuto uniti questi raggruppamenti? Il
bisogno di essere solidali e dunque la reciproca disponibilità ad aiutarsi
gli uni gli altri: in una parola, la solidarietà non disgiunta dall'amore.
Cosa sarebbe infatti la nostra esistenza senza un fine che ci spinge
verso obiettivi e valori sociali comuni? Cosa sarebbe il nostro percorso
di vita senza un sentire comune? Ecco allora che appartenere a un
gruppo non significa solo stare insieme e vivere secondo precise regole, ma vuole anche dire riconoscersi in una cultura con finalità e valori condivisi.
Calandoci nello specifico, pensiamo alla nostra attività di volontari;
tutti noi abbiamo un profilo comune: siamo persone animate dall’amore,
godiamo di impulsi che ci spingono verso l’altro, il bisognoso, l’afflitto.
Il nostro camice azzurro non è pertanto solo un modo distintivo che ci
identifica e che ci espone a un riconoscimento immediato, ma è soprat183
tutto un modo di essere che ci distingue all’interno di ogni gruppo sociale
orientato al bene comune.
Per concludere, il nostro senso di appartenenza è molto radicato e
perseguire uno scopo comune è il nostro motto quotidiano.
Forse questa mia riflessione potrà fornire qualche spunto di ampliamento: comunque, l’importante per me era rilevare che lo spirito di appartenenza è un valore aggiunto che noi volontari A.V.O. esprimiamo in
seno alla società.
Giorgio
La storia di Francesca
Francesca è stata operata al seno. L’ho incontrata nel Reparto di Oncologia, dove era ricoverata per una serie di controlli. La sua serenità mi
ha colpita subito, mentre coglievo la voglia di parlare che scaturiva dal
suo sguardo, dai gesti impazienti che mi sollecitavano a chiudere la conversazione con la vicina di letto affinché la raggiungessi.
Ormai certi comportamenti ci sono familiari, salta immediatamente
all’occhio se un paziente ha voglia di comunicare, di dare voce all’esigenza di sfogarsi con qualcuno. Sovente, infatti, questi non vuole gravare
sui parenti la propria angoscia.
Non appena mi avvicinai al suo letto, mi sorrise prima di esordire con
enfasi: «Ha un po’ di tempo da dedicarmi?». Era giovane, con dei grandi
occhi chiari, delle ciglia lunghe e castane, la pelle levigata, un bel taglio
di capelli… che non seppi dire se fossero suoi. L’avrei saputo di lì a
poco, mentre ovviamente mi trattenni dal complimentarmi per l’acconciatura, non sapendo quale origine avesse. «Le piace la mia parrucca?»
domandò con tono ironico. «Molto», risposi. «Si vede…?» replicò. «Affatto» ribattei con sincerità. «Le racconto la sua storia, se vuole».
Mi domandai di ‘chi’ fosse la storia che voleva raccontarmi, se avessi
capito a ‘che cosa’ si riferisse. Sì, intendeva proprio dire la storia della
parrucca.
«Il giovedì mi occupo di un gruppo di bambini che affianco nel doposcuola e nelle vacanze scolastiche perché facciano i compiti e li intrattengo prima che i genitori vengano a recuperarli. Quando mi è caduta in
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testa questa tegola (e a quel punto mi indicò il seno) ho cercato di non
abbandonare i miei piccoli amici. Sono così riuscita a prenotare le visite
non di giovedì, e persino l’intervento l’ho fissato un venerdì, per non
dover annullare l’appuntamento con i bambini.
Quando iniziai la chemioterapia, quasi subito mi caddero tutti i capelli. Mio marito mi regalò un bellissimo foulard, che legavo attorno al
capo in maniera vezzosa, e così mi presentai ai miei amichetti per un
paio di settimane. Nel frattempo era arrivata la metà di luglio e faceva
un gran caldo. Sin dalla prima volta i ragazzini si stupirono di vedermi
con quella sciarpa (così la definirono loro) in testa, ma risposi che volevo fare contento mio marito, che me l’aveva regalata.
Quando però il caldo si fece insopportabile mi invitarono a toglierla,
perché stavo sudando e se n’erano accorti. In verità avevo chiesto a una
psicologa come mi sarei dovuta comportare con loro e lei aveva risposto che a volte i bambini accettano la realtà meglio delle bugie. Spiegai,
non senza batticuore, che stavo assumendo delle medicine che fanno cadere i capelli. “Forse hai un cancro?” domandò uno di loro.
Rimasi senza parole, mentre un forte brusio accompagnava la domanda del ragazzino. “Proprio così”, ribattei.
Dopo il primo momento di sbigottimento, uno dopo l’altro mi raggiunsero circondandomi di abbracci e coprendomi di baci.
“Mia zia ha avuto il cancro ma adesso è guarita”, disse uno. “Anche
l’amica di mia mamma…” aggiunse una bimba.
“Perché non metti una parrucca?” propose una vocina, prima di invitarmi a togliere il foulard. “Fa troppo caldo e non ci farà paura, stai
tranquilla” insistettero i suoi compagni. Li accontentai, e più di uno mi
assicurò che ero bella, persino più di prima. A settembre mi presentai
con questa parrucca. “Sembrano i tuoi capelli, sembrano proprio veri”
esclamarono in coro.
Questa prova è stata durissima, e ancora non è finita, ma l’affetto e la
forza di quei bambini mi hanno dato la spinta per combattere questa battaglia. La voglio vincere. Anche per loro».
Carla
185
Aysha
Aysha è una giovane donna marocchina, ricoverata per una grave malattia. Nella sua vita ha affrontato molte difficoltà. Ha una figlia di nove
anni di cui mi descrive sempre i successi scolastici (affissi all’armadietto
ci sono i disegni e i pensierini della figlia). Il marito l’assiste ed è molto
presente.
Nel guardarla si resta colpiti dalla serenità e dalla pazienza con la
quale affronta ogni cosa. Mi commuovo quando mi dice:«Allah vuole
così, Allah mi aiuterà».
Ho la dimostrazione che ogni credo religioso, qualunque sia, purchè
autentico, sviluppa l’accettazione della malattia, delle difficoltà, dei limiti, infondendo forza e serenità.
Una volontaria
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IL CENTRO AURORA
è…
Un approdo giornaliero dove calore e allegria si fondono in un abbraccio e
un sorriso e la ricompensa per tutti noi, di immenso valore, è la scintilla di vita
che brilla negli occhi degli ospiti.
Lorenza
Là dove le parole non possono dire, il cuore può abbracciare e gli occhi possono guardare: questo è quello che proviamo noi volontarie A.V.O. presso il
Centro Alzheimer.
Federica
Diventare di nuovo bambini per giocare con chi pare diventato ‘altrimenti’
bambino.
Una volontaria
Leggere negli occhi degli ospiti l’inquietudine dei fanciulli.
Una volontaria
187
Il centro Aurora ha origine nel marzo del 1994: nel cuore del quartiere
Aurora di Torino, presso il vecchio ospedale Luigi Einaudi, prende vita
un’esperienza pilota che
risponde all’esigenza di
assistere il malato di Alzheimer e la sua famiglia
in modo innovativo. I suoi
obiettivi principali si possono riassumere in tre
punti: 1) promuovere e sostenere l’inserimento dell’anziano nella società;
2) contenere le richieste di
ricovero ospedaliero dei
suddetti pazienti; 3) assicurare una migliore qualità di vita agli anziani dementi.
Fra gli intenti non vi è soltanto quello di alleggerire il carico della famiglia, ma anche quello di promuovere una più ricca relazione tra il paziente e la sua realtà socio-familiare. In tale direzione, oltre all’istituzione
di ‘gruppi di auto-aiuto’,
vengono svolti colloqui individuali di sostegno psicologico e psicoterapia, nonché
cicli di incontri formativi-informativi rivolti ai familiari.
C’è poi stata una ricerca
di modalità ricreative, che
avessero anche un fine riabilitativo, in grado di rispondere maggiormente alle
esigenze dei soggetti coinvolti, tenendo in particolare
considerazione sia i pazienti che presentano un deficit cognitivo di lieve e
media ampiezza, sia i nuovi ingressi.
Nella foto: centro Aurora, sala per aività e giardino interno.
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Abbraccio è...
Non soltanto confortare 'fisicamente' qualcuno cingendolo fra le braccia, ma anche offrire la possibilità di avvertire un altro tipo di calore, di
arricchimento...
Una volontaria
Calore e arricchimento che provengono, per esempio, anche dalla lettura di libri o dalla visione di film che aiutino i volontari a crescere.
Si affrontano così tematiche utili al confronto con gli ammalati e all’approndimento delle conoscenze per meglio rapportarsi ai loro bisogni.
Ed è proprio in due romanzi che la malattia di Alzheimer è affrontata
con amore e abilità narrativa: Elegia per Iris di John Bayley (Rizzoli Editore) e Mia madre, la mia bambina di Tahar Ben Jelloun (Einaudi Editore). Sono testi che tutti noi avremmo interesse a conoscere. Ecco perchè
i volontari del Centro Aurora ne forniscono in questa sede due assaggi accattivanti.
Canto d’amore per la vecchia Iris
Elegia per Iris è un canto d’amore, l’amore che ha unito per più di
quarant’anni due personalità d’eccezione: Iris Murdoch, grande scrittrice inglese, colpita dal morbo di Alzheimer e morta nel 1999, ed il
marito John Bayley, studioso di letteratura ad Oxford.
Iris Murdoch non sa più di aver scritto ventisei romanzi belli e importanti, e inoltre dei libri di filosofia. Non sa più di aver ricevuto
dalla regina d’Inghilterra l’onorificenza di Gran Dama dell’Impero
Britannico.
Quando si ammala (piccole amnesie, distrazioni, mancanza di idee)
spera ancora di trasformare quella confusione in un libro. Poi il peggioramento, il male in fase avanzata, irreversibile. Il marito è vicino a
lei e racconta come ogni giorno la memoria prodigiosa di Iris venga irrimediabilmente cancellata, come ogni giorno tutto diventi più difficile.
A volte lui le cita qualche verso di Byron e in quel caso, circostanza che
rende perplessi anche i medici, Iris sembra rispondere.
189
Scrive John: “È un po’ come essere sott’acqua, ci orientiamo come
con un sonar: Iris ed io comunichiamo inviando segnali tutt’intorno, e
il modo con cui queste onde vengono riflesse dagli oggetti circostanti
ci fornisce le coordinate per andare avanti”.
A sorprenderlo è l’espressione impenetrabile di Iris. Scrive: “È il
volto dei malati di Alzheimer, mi hanno spiegato i medici. Non indica
alcun sentimento o emozione, ma anzi ne sottolinea l’ assenza. È, nel
senso più preciso, una maschera”.
Mia madre, la mia bambina
Il titolo del romanzo non lascia dubbi sul rapporto che si è instaurato
tra il figlio e Lalla Fatma, la madre malata di Alzheimer che richiede
aiuto e comprensione senza poter offrire altro che parole non dette, proprio come un neonato. Lalla Fatma, una donna dalla forte personalità, si
trasforma sotto gli occhi amorevoli del figlio in una donna irrimediabilmente assente, reclusa nella sua casa di Tangeri.
Scrive Tahar Ben Jelloun: “Ho dato da mangiare a mia madre, la
mia bambina. Una cucchiaiata di latte e formaggio. Una bambina che
mangia ad occhi chiusi, e la mia mano trema per l’emozione”.
Allo scrittore non resta che ricordare la mamma com’era prima e osservare, impotente, com’è diventata adesso.
“Siamo tutti attorno a lei e lei non ci vede. Uno dei miei fratelli si
irrita. A che serve? (…) Bisogna rinunciare a trovare una logica a tutto
questo, ed essere qui anche se lei non si rende conto che le stiamo accanto”.
Si chiude qui il sipario sui trent’anni,
certi che il valore e l’autenticità dell’esperienza
messa in scena lo riaprirà sugli anni futuri
dell’A.V.O. e non solo dell’A.V.O.
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Volontari e“personaggi”che partecipano alla vita dell’A.V.O.
citati nella prima parte del libro.
Denise Agnorelli, già delegato nazionale A.V.O.Giovani.
Angela Ambrosino, dirigente psicologa ASL 17 Savigliano (CN).
Giovanna Ardy, psicologa e psicoterapeuta del Centro Rogeriano di Pisa.
Padre Stefano Bambini, cappuccino OFM, cappellano, già consulente Federavo e
socio fondatore A.V.O. Genova.
Eugenia Berardo, redazione AVOTorino Informa.
Pierluigi Bertini, volontario A.V.O. Torino.
Mariangela Brunelli Buzzi, socio fondatore A.V.O. Cuneo.
Marina Chiarmetta, già presidente A.V.O. Torino.
Anna Covini, psicologa e formatrice.
Pierluigi Crenna, già presidente nazionale Federavo.
Maria Teresa Emanuel, presidente A.V.O.Torino.
Elena Ferrario, curatrice formazione AVOTorino Informa.
Nadia Gandolfo, consigliere A.V.O. Torino, responsabile formazione.
Stefania Garini, formazione volontari A.V.O.Torino - Casa di cura Villa Cristina.
Gabriella Gioacchini, responsabile formazione A.V.O. Sesto S. Giovanni (MI).
Alessandra Graziottin, direttore centro di Ginecologia e Sessuologia Medica Ospedale S. Raffaele di Milano.
Claudio Lodoli, presidente nazionale Federavo.
Erminio Longhini, fondatore A.V.O.
Virgilia Maffiodo, volontaria A.V.O. Torino
Giuseppe Manzone, socio fondatore e primo presidente A.V.O. Regionale Piemonte onlus.
Don Sergio Messina, assistente religioso ospedaliero Casa di cura Villa Cristina e
relatore ai corsi di formazione A.V.O. Torino.
Padre Rosario Messina, Superiore provinciale dei Camilliani del Sud Italia e
consulente Federavo.
Laura Montanaro, già responsabile formazione A.V.O. Torino.
Luciana Navone, responsabile A.V.O. Torino ospedale San Giovanni Antica Sede.
Dario Oitana, redazione AVOTorino Informa.
Padre Arnaldo Pangrazzi, docente di Pastorale presso l’Istituto Internazionale
Camillianum di Roma e consulente Federavo.
Ottavia Parish, già presidente A.V.O. Torino.
Leonardo Patuano, presidente A.V.O. Regionale Piemonte onlus.
Eliana Saracco, presidente Centro Italiano Femminile Piemonte- Cuneo.
Padre Anselmo Terranova, cappuccino, docente di psicologia ed etica ospedaliera,
consulente Federavo e socio fondatore A.V.O. Genova.
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A cura di
Eugenia Berardo e Luciana Navone
con la collaborazione di:
Antonio Gallo
Giuseppe Manzone
Mattia Marra
Lucia Nicoletta
Roberto Novo
Si ringrazia:
Il pittore Andrea Aste le cui opere sono riprodotte,
per gentile concessione dell’autore, senza fini di lucro.
Novembre 2011
Stampato con mezzi propri ad uso dell’Associazione
Supplemento al periodico AVOTorino Informa di dicembre 2011
Pro manuscripto non commerciabile
Stampa: Tipografia Impronta - Nichelino
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è… - AVO TORINO