Anno 6 - Numero 2
R i v i s t a d i C u l t u r a S t o r i a e Tr a d i z i o n i
Aprile - Giugno 2010
Sommario
In copertina
Editoriale
Acquarello e tecnica mista
su cartoncino
Don Giovanni Zorzoli (2010)
Così si rideva duemila anni fa
Al centro: Gioacchino Rossini.
Dall’alto, in senso orario:
Garcìa Lorca, Trilussa, Moliére, Leibniz,
Lorenzo il Magnifico, Totò,
Ariosto, Stendhal.
Lo humour del caro estinto
Secoli di barzellette
Ironia, divertimento e satira sociale nella poesia di Porta
Il Carnevale nel tempo
Quando la risata era una faccenda “artigianale”
La gioia è il principio della vita
Fermare il tempo
Le tre damine, frate Cesco e il vescovo
Allegria, signor Mike!
XLIV Premio Nazionale di Poesia “Città di Mortara”
Il sorriso di un bimbo
Il sorriso di un bimbo
salva il tempo perduto,
i ricordi svaniti
di tutto quello che ho dimenticato.
Nel sorriso, bisbigliano
gli anni della gioventù. Nelle labbra
spuntano parole così dolcemente note
e tanto lontane.
Nella mente si scioglie una nuvola,
il passato
immancabilmente ritorna,
sottobraccio alla mia desolazione.
da “Riflessi”,
Giancarlo Costa (marzo 2009)
3
di Umberto De Agostino
4
di Nadia Farinelli
6
di Graziella Bazzan
8
di Maria Forni 11
di Eufemia Marchis Magliano 15
di Stefano Sedino 17
di Alessandro Marangoni 19
di Simone Menicacci 20
di Luigi Balocchi 22
di Sandro Passi 24
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EDITORIALE
La cultura dell’umorismo e del divertimento
Alla fine
non ci resta
che ridere
di
Marta Costa
Nel linguaggio quotidiano capita non di rado, per
un singolare gioco di sinonimia, di sovrapporre la
nozione di “serietà” con quella di “importanza”.
Lecitando di fatto l’insorgere di un paradosso. In
effetti, passando al setaccio gli atteggiamenti emotivi e ricercando tra di essi la spia dell’ottimismo,
dell’energia, della salute spirituale e del pieno
compiacimento esistenziale, si approda alla conclusione che questa dev’essere per forza una sana
risata. Quindi ridere è una faccenda serissima. Lo
riconoscono anche medici e psicologi, che assegnano al buon umore un valore terapeutico, in alcuni
casi quasi taumaturgico, miracoloso. Non per niente l’esperienza del comico ha permeato la cultura
artistico-letteraria, elevazione dell’animo umano
e delle relative aspirazioni, fin dai suoi remotissimi albori. Ad esempio nel mondo latino le diverse forme di umorismo, come spiega Umberto De
Agostino nelle pagine a seguire, ispirarono fior di
poeti e letterati, come Plauto, Terenzio, Marziale.
Le sfaccettature del “ridiculum” trovano nella letteratura classica un crescendo di impieghi, che va
dalle licenziose trasposizioni del sarcasmo popolare (spesso beffardo e denigratorio) fino alle raffinatezze del paludato Ovidio. Strettamente correlato
a questo argomento è il Carnevale, discendente di
antiche usanze pagane, quali i Baccanali, i Saturnali
e i Luperali. Con l’avvento del Cristianesimo, tratti
caratteristici degli antichi cicli di festività vennero
depurati delle originarie sfrenatezze e gradualmente assimilati dalle celebrazioni carnevalesche. Lo
racconta esaustivamente, ripercorrendo la parabola
storica che congiunge l’età dei Romani ai giorni nostri, Eufemia Marchis Magliano nel servizio a sua
firma. Il Vaglio vira poi nella direzione dell’icastica satira sociale di Carlo Porta, poeta dialettale per
eccellenza e cantore della Milano a cavallo tra il
Settecento e l’Ottocento. Nella voce a lui dedicata
da Dante Isella nella Storia della Letteratura Italiana si legge: “È manifesto che la eccezionale personalità portiana ha finito con lo schiacciare sotto di
sé, degradandolo a un ruolo più o meno passivo, di
allievo o imitatore, chi, dietro il suo esempio, [...],
si è messo per la strada dello scrivere versi in milanese”. La forza dei suoi versi, traboccanti sferzanti critiche alle classi dominanti, all’ipocrisia, alla
falsa religiosità e al cinismo dei potenti, emerge a
chiare lettere nel puntuale servizio confezionato da
Maria Forni. La gioia e la sua stretta connessione
all’arte della musica sono invece il tema eviscerato
magistralmente da Alessandro Marangoni, un’autorità nel campo delle sette note. Il suo intervento
mette in risalto l’influenza che la melodia esercita
sugli stati d’animo, potente e incisivo veicolo di
trasformazione dell’umore. La risata è vita, ma in
alcune circostanze sconfina addirittura nel territorio della morte. La penna di Graziella Bazzan si è
perciò soffermata sugli epitaffi divertenti, strampalati e insoliti sparsi per i quattro angoli del pianeta,
presentati in una stuzzicante carrellata. In questo
numero del trimestrale c’è materiale per ridere e
sorridere. Buon divertimento.
aprile - giugno 2010
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&
Cultura&&
Mondo Classico
Così
si rideva
duemila anni fa
LA MORDACITÀ DEL MONDO ROMANO DALLE COMMEDIE DI PLAUTO AGLI EPIGRAMMI DI MARZIALE
N
di
Umberto De Agostino
essuno oserebbe affermare che imparare il latino sia divertente e che Giulio
Cesare sia un autore prevalentemente
umoristico. Se queste – assieme alle
devote prediche di taluni insegnanti
sulla gravitas e sulla dignitas dei Romani – rimangono le uniche e più pregnanti impressioni dell’antichità
romana, non ci si deve meravigliare del perdurare del
quadro tradizionale di Roma, in cui l’umorismo non
ha posto alcuno. Il quotidiano dei Romani era tuttavia
diverso e, tanto nella realtà quanto in letteratura e retorica, tutte le forme del ridiculum avevano un ruolo
importante, di fronte al tribunale come davanti a un
bicchiere di vino, alla mensa imperiale non meno che
a teatro.
La documentazione letteraria dell’umorismo romano
è molto vasta. Basti pensare alle commedie di Plauto
e Terenzio, alla poesia satirica (un autentico genere
umoristico, “inventato” dai Romani), agli epigrammi
di Marziale, allo spiritoso romanzo Satyricon di Petronio e all’umorismo raffinato e urbano per esempio
di un Ovidio: buona parte della letteratura latina consiste di variazioni su questo tema e molta di essa è uno
specchio dell’umorismo quotidiano. Alcuni epigrammi di Marziale costituiscono la forma linguisticamente condensata e raffinata del salace e aggressivo umorismo popolare, che non aveva rispetto per niente e
per nessuno: sarcasmo e cattiverie prendevano di mira
chiunque non corrispondesse alla norma consolidata.
Le anomalie fisiche come strabismo, mancanza di
denti, obesità, magrezza erano oggetto di mordacità,
come le predilezioni e le stravaganze sessuali, e anche
se il colto Quintiliano esorta a «non rinunciare a un
Gli autori
di epoca romana
ci hanno
consegnato
molte opere
umoristiche:
buona parte
della letteratura
latina consiste
di variazioni
su questo tema
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I L VA G L I O
Plauto in un’illustrazione
tratta dalle “Cronache di Norimberga” (1493)
caro amico piuttosto che a un’osservazione salace», è
probabile che molti la pensassero diversamente.
Il quotidiano offriva numerose occasioni di scagliare
dardi velenosi: banchetti con abbondanti libagioni,
sempre conditi da umorismo di genere e livello variabilissimo; matrimoni accompagnati “umoristicamente” da scherzi salaci e osceni, i versus fescennini;
i Saturnali, una specie di Carnevale romano in cui
Mosaico romano
del I secolo a.C.
raffigurante le maschere
della Tragedia
e della Commedia
(Roma, Musei Capitolini)
umorismo, scherno e scempiaggini facevano da padroni. Anche i trionfi avevano spesso il carattere di
festa popolare e, affinché il trionfatore non si elevasse troppo al di sopra dei comuni mortali, i soldati gli
rammentavano la sua umanità con drastici scherzi.
Anche gli eruditi, sebbene non fossero estranei all’umorismo salace-volgare (che tuttavia poteva assumere le sfumature brillanti di un Marziale), apprezzavano anche un umorismo più raffinato, di carattere
aneddotico, che invitava non tanto alla risata quanto a
un sorriso compiaciuto o alla gioia per il male altrui.
Una caratteristica fondamentale di questo umorismo,
in parte anche messo per iscritto, era la prontezza
di parola. Nella formazione di un oratore non potevano mancare l’apprendimento di questo umorismo
“classico” e l’affinamento delle capacità umoristiche
personali: saper far ridere i giurati, al momento giusto, era considerato dall’antica retorica giuridica una
caratteristica fondamentale del buon oratore. Alla fama di Cicerone, per esempio, contribuì non poco la
sua prontezza di parola esibita nei tribunali come nei
salotti. Eccone un assaggio, riportato da Quintiliano.
Quando Fabio Dolabella affermò di avere trent’anni,
Cicerone annuì dicendo: «È vero! Sono vent’anni che
glielo sento dire».
I Romani conoscevano sicuramente anche le barzellette, ma non ce ne sono pervenute. Dalle commedie
di Plauto si evince che esistevano vere e proprie raccolte di barzellette scritte privatamente o addirittura
sotto forma di libro; i parassiti che vogliono spacciarsi
per ospiti divertenti ed essere così invitati a mangiare gratis ricorrono, quale ultima spes, anche a queste.
«Bisogna che mi procuri un libro e impari a memoria
le barzellette migliori», annuncia uno di costoro agli
spettatori. Queste barzellette infioravano anche molti
degli spettacoli tanto amati nel teatro imperiale, i cui
copioni tuttavia non ci sono pervenuti probabilmente
anche a causa della loro salacità. Il punto conclusivo
della tradizione dei parassiti è costituita da quei “professionisti” che alcuni imperatori tenevano a palazzo
come buffoni di corte o come spiritosi conversatori, a
seconda dei casi.
Un’unica raccolta di barzellette antiche è giunta sino a
noi: quella redatta in lingua greca da Filogelo (letteralmente “amico del riso”). Essa nacque in età imperiale
romana, ma fu redatta nella forma attuale solo nella
tarda antichità. In massima parte si tratta di barzellette che prendono in giro gli abitanti delle “fortezze
di pazzi” dell’antichità (soprattutto gli abitanti di Abdera, fiorente città della Tracia) o gli “Scholastikòi”:
gente fuori dal mondo come se ne trova in tutte le professioni e fa ridere il prossimo con analogie taglienti
quanto false. Le barzellette sugli Abderiti, menzionati
anche da Cicerone perché proverbialmente stupidi,
erano sicuramente in latino. Ecco due assaggi dalle
265 barzellette di Filogelo. «Uno Scholastikòs vide
il suo medico e si nascose per non farsi vedere. Il suo
compagno gli chiese perché lo facesse ed egli rispose:
“È tanto tempo che non mi ammalo e mi vergogno”».
«Un Abderita aveva cremato il padre defunto, come
vuole l’usanza. Poi corse a casa, dalla madre malata,
e le disse: «Mi è rimasta un po’ di legna. Se vuoi e
puoi, fatti cremare con lui!». Più realistico è certo il
consiglio che un umorista di tendenze filosofeggianti
fece incidere sulla sua lapide: «Tu che sei qui davanti
e leggi la mia lapide: gioca, scherza… e vieni!».
aprile - giugno 2010
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I Romani
conoscevano
anche
le barzellette,
ma non ce ne sono
pervenute.
Dalle commedie
di Plauto si evince
l’esistenza
di vere e proprie
raccolte
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Cultura&&
Spiritosaggini
Secoli
di barzellette
DAGLI EGIZI ALLA TIVÙ DEI GIORNI NOSTRI, PASSANDO PER FREUD
N
di
Nadia Farinelli
on basta la passione. Per raccontare una
barzelletta ci vuole talento. Sì, perché la
barzelletta è un racconto umoristico troppo breve per ottenere l’effetto voluto senza una mimica che gli dia forza.
Bisogna strappare la risata finale, unica misura del successo. L’origine del termine barzelletta è incerto. Potrebbe derivare da ballata, una forma musicale lieve e
scherzosa tipica del XV e XVI secolo, ma i primi esempi sono decisamente più vecchi. Secondo le ricerche di
Anita Rubini (Focus Storia 37), una delle più antiche
storielle risale al 1600 a.C. ed è stata rinvenuta su di
un papiro egizio. La più vecchia raccolta di barzellette
è invece il Philogelos, libretto greco con una sfilza di
facezie risalente a 1500 anni fa e giunto intatto fino a
noi. Il professor Mario Andreassi, docente di letteratura
greca all’università di Bari, ci spiega che questa raccolta rappresentava il cosiddetto “manuale del parassita”,
dove per parassita si intende la persona che si presenta
ai banchetti senza essere stata invitata. Mangia con voracità ed intrattiene i presenti con argute storielle, per
far passare inosservata, tra una risata e l’altra, l’enorme
quantità di cibo trangugiata. Il libricino permetteva di
avere sempre a portata di mano più di duecento storielle, visto che le barzellette si dimenticano facilmente.
Quest’ultimo aspetto aveva attirato anche l’attenzione
di Freud, che attribuiva la difficoltà di imprimerle nella
memoria ad una loro analogia con i sogni. Deriverebbero entrambi dall’inconscio e, anche se la barzelletta deve
essere capita mentre il sogno il più delle volte rimane
oscuro, raccontarli libererebbe dai tabù erotici. Certo la
lettura di antiche barzellette ci lascia un poco indifferenti o al massimo ci strappa un sorriso. D’altronde sono
troppo lontane dal loro contesto e non sono valorizzate
dal talento del barzellettiere.
I protagonisti e le vittime designate sono più o meno
quelli di sempre. A partire dall’intellettuale pedante con
la testa tra le nuvole del Philogelos, si è passati dapprima al monello Pierino, poi ad intere categorie (i politici,
i carabinieri), fino ad arrivare al calciatore sempliciotto
La più vecchia
raccolta
di racconti ironici
è il Philogelos,
libretto greco
con una sfilza
di facezie
risalente
a 1500 anni fa
e giunto intatto
fino a noi
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I L VA G L I O
dei giorni nostri. Nell’antica raccolta greca, per la verità, si prendono di mira anche persone per le quali c’è
poco da ridere, come gli ammalati con particolari malformazioni e vi si legge anche qualche piccola crudeltà
su etnie diverse: per esempio le città di Cuma e Sidone
erano considerate la patria degli stupidi.
Va anche ricordato che proprio nell’antica Grecia qualcuno non approvava affatto questo andazzo: il filosofo
Aristotele (384-322 a.C.) diceva che l’arguzia era una
forma di educata insolenza, sulla scia di Platone (427347 a.C.), che prima di lui aveva raccomandato di togliere dalla letteratura i passaggi in cui i protagonisti,
eroi e dei, sghignazzavano troppo.
Tuttavia ad Atene, nel IV secolo a.C., in barba ai filosofi,
esisteva addirittura un circolo di aristocratici, i “Sessanta”, che si riunivano nel santuario di Eracle a raccontare
barzellette. Erano così famosi che ogni storiella iniziava
con: “I sessanta dicono che…”.
Durante tutto il Medioevo non erano ammesse spiritosaggini. Solo i giullari di corte potevano permettersi
qualche battuta, spesso utilizzata per trasmettere al sovrano delle verità scomode. Quando però, alla fine del
’400, presero piede i caratteri mobili di stampa, ci fu
la rinascita della barzelletta: il massimo promotore di
tale rinnovato passatempo fu Poggio Bracciolini, che
nel 1450 pubblicò il “Liber Facetiarum”. Si tratta di una
raccolta di storielle più o meno scabrose, che circolavano a Roma in ambiente pontificio. Bracciolini era stato
il segretario di ben otto papi e aveva raccolto centinaia
di aneddoti: gli impiegati della Cancelleria Pontificia si
riunivano spesso al cosiddetto “Bugiale”, nel cuore dei
palazzi vaticani, per scatenarsi in un gossip sfrenato.
E Bracciolini trascriveva, in latino, ciò che ascoltava.
Il successo fu grandioso, anche perché le masse non
avevano dimestichezza con la lingua latina, dunque ne
godevano solo gli aristocratici, compresi gli stessi ecclesiastici. Per questo dal papa non arrivò alcuna censura, nonostante l’argomento principe fosse la dubbia
moralità degli uomini di Chiesa. Anche nel ’600 chi
voleva sfondare in società doveva attirare l’attenzione
Gli antenati
di Pierino
Poggio Bracciolini, incisione di Johann Theodor de Bry (1597)
Achille Campanile in una caricatura di Augusto Camerini
nei salotti borghesi, dunque ritornò di fondamentale importanza il talento del barzellettiere. I “libri delle burle”
abbondavano ovunque e venivano aggiornati ogni sera:
nessuna biblioteca privata doveva esserne priva.
La satira politica divenne poi un’estensione della barzelletta, che nel ventesimo secolo fu portata addirittura
in tribunale, spesso con drammatiche conseguenze. Fu
imposto il bavaglio a chi raccontava storielle contro i
vari tipi di regime.
Dobbiamo arrivare agli anni Sessanta per leggere serenamente il “Trattato delle barzellette”, del famoso umorista Achille Campanile, fonte di ispirazione per grandi nomi del varietà e del piccolo schermo, come Gino
Bramieri, Walter Chiari e Carlo Dapporto. In TV ci fu
un grande rilancio della barzelletta, con gradevolissimi
siparietti comici e fu soprattutto Gino Bramieri, definito
il “re della barzelletta”, a dare notorietà e dignità a questo genere di risata popolare.
•Come intrattieni un faraone annoiato? Navighi lungo il Nilo con una nave carica di
giovani donne vestite solo di reti da pesca e
lo inviti ad andare a pescare.
Egitto 1600 a.C.
• Una donna, cieca da un occhio, era sposata
a un uomo da vent’anni. Quando il marito
si trovò un’altra donna, le disse: “Divorzierò da te perché sei cieca da un occhio”. Al
che lei rispose: “E l’hai scoperto solo dopo
vent’anni di matrimonio?”.
Papiro egizio 1100 a.C.
• Un uomo che voleva insegnare al suo asino a non mangiare decise di non dargli più
cibo. Quando l’asino morì di fame, l’uomo
disse: “Mi è capitata una disgrazia. Proprio quando aveva imparato a non mangiare, l’asino è morto!”.
Philogelos, Grecia, IV sec d.C.
• Un uomo entra da un barbiere. Questi, tra
mille complimenti, gli chiede come vuole
che gli tagli i capelli. E l’uomo: “In silenzio”.
Philogelos, Grecia, IV secolo d.C.
• Augusto era in giro per l’Europa quando,
tra la folla, notò un uomo che gli assomigliava in maniera straordinaria. Incuriosito, gli si avvicinò e gli chiese: “Sua madre
è mai stata a servizio a palazzo?” “ No,
Vostra Altezza”, rispose l’uomo “ma mio
padre sì!”.
Ambrogio Teodosio Macrobio, Saturnalia,
V secolo d.C.
• Questi codardi di inglesi! Non hanno avuto
il coraggio di gettarsi in mare come i vostri
soldati francesi, che sono saltati giù dalla
nave lasciandola in balìa dei nemici, i quali
non hanno mostrato alcuna inclinazione a
seguirli!
Giullare del re di Francia Filippo VI che
annuncia al sovrano il disastro navale all’Ecluse , 1340
• Mulier, si filas, et cadit tibi fusus, quando te
flectis, tene culum clausum”
Poggio Bracciolini, Liber Facetiarum,
1450
• E’ la prima volta che quella coppia di coniugi va d’accordo: hanno deciso di separarsi.
Achille Campanile, Trattato delle barzellette, 1961
aprile - giugno 2010
Negli anni
Sessanta
Achille Campanile
pubblica
il “Trattato
delle barzellette”,
fonte d’ispirazione
per grandi nomi
del varietà
e del piccolo
schermo
7
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Cultura&&
Aldiqua
Lo humour
del caro estinto
UNA CARRELLATA DI LAPIDI BUFFE E CURIOSE
“
L’epitaffio
racconta
in breve la storia
della persona,
ciò che di buono
o cattivo
ha fatto, le virtù
e le viltà,
i desideri
soddisfatti
e delusi
8
T
di
Graziella Bazzan
i tocca anche se ti tocchi” è il titolo di un
libro e contemporaneamente un modo un
po’ bizzarro per introdurre il discorso sull’evento degli eventi che coinvolge indistintamente ogni essere umano.
La morte è senza dubbio un grande mistero e la tomba
è l’unico tramite che unisce i defunti ai viventi costituendo “quella corrispondenza di amorosi sensi, che ci
fa credere, finchè siamo vivi, che qualche cosa di noi
sopravviverà nel ricordo dei nostri cari”.
Essere ricordati! Ecco l’origine dell’epitaffio, nato come
orazione funebre che si teneva pubblicamente ad Atene
in onore dei guerrieri che avevano perso valorosamente
la loro vita in battaglia, e poi iscrizione in memoria di
un defunto sopra il sepolcro. Iscrizione che rappresenta
l’appello postumo del medesimo al vivo. In essa chi non
è più vuole attirare ancora l’attenzione fermando colui che guarda e passa, e nel riassumere la propria vita,
esprime nella forma più genuina e più breve (appunto
lapidaria) la scala dei valori del tempo in cui ha vissuto,
la sua concessione della vita e del destino umano.
Negli epigrammi di epoca classica, l’espressione poetica ha quasi sempre il sopravvento, mentre in quella delle epigrafi di epoca moderna, ci troviamo quasi sempre
davanti a componimenti in cui prevalgono gli elementi
del romanticismo.
L’epitaffio racconta in breve la storia della persona, ciò
che di buono o cattivo ha fatto, le virtù più o meno eroiche e le spicciole viltà, i desideri soddisfatti e delusi.
Spesso viene indicata la causa della morte, viene descritto l’evento, vengono rivelati la professione, i comportamenti del defunto o di chi è rimasto a piangerlo e
ha voluto che dei versi o delle parole, incise su di una
lapide, lo ricordassero ai posteri.
Attraverso questa glittografia cimiteriale, l’epitaffio fornisce del defunto una fotografia con accenti il più delle
volte lirici e allegri, cosicchè la morte non faccia paura
perché appare sdrammatizzata dall’umorismo e dalla
teatralità delle parole.
Alcuni di loro sono sorprendenti, alcuni sono enigmatici
I L VA G L I O
L’epitaffio di Gianfranco Funari: “Ho smesso di fumare”
o da brivido, altri invece sono buffi e curiosi. Diversi ci
emozionano mentre altri ironicamente ci fanno sorridere come quello del comico gallese Spike Milligan: “Ve
l’avevo detto che ero malato”, o quello dello scrittore
francese Georges Bernanos: “Si prega l’angelo trombettiere di suonare forte, il defunto è duro d’orecchie”.
In un’iscrizione sepolcrale nelle isole Shetlands si piange ad esempio il pacifico, tranquillo e in ogni apparenza
buon cristiano Donald Robertson, morto nel 1785 a sessantatre anni: “La sua deplorevole morte è stata provocata dalla stupidità di Laurence Tulloch di Clothister che
gli ha venduto nitrato al posto dei sali di Epsom e l’ha
così ucciso nello spazio di cinque ore”.
“Giace qui da qualche parte” è scritto sulla lapide del
fisico tedesco Werner Heisenberg, a riferimento del suo
“principio di indeterminazione” secondo il quale non è
possibile indicare simultaneamente posizione e quantità
di un corpo.
Sulla tomba di un certo Ignaz Breitenseher: “Silenziosa
e solitaria fu la sua vita, fedele e attiva la sua mano”.
Questa è l’incisione funeraria sulla tomba di un gentiluomo famoso in vita per la sua cortesia: “Qui giace lord
Barlington. Scusate se non mi alzo”.
Epitaffio di un avvocato in Inghilterra: Sir John Strange
(strange significa raro): “Qui giace un avvocato onesto,
questo è Strange”.
Nel cimitero di Wimborne, sempre in Inghilterra, a ricordo di John Penny sta scritto: “Se ritrovare soldi è il
tuo mestiere, scavando qui, alla profondità di qualche
metro, potrai trovare un Penny”.
Ancora in Inghilterra, a Ribbesford, per Anna Wallace:
“I bambini di Israele volevano il pane e Dio mandò loro
la manna . Il signor Cler Wallace voleva una moglie e il
diavolo gli mandò Anna”.
Epitaffio sulla tomba di Ezechial Aiklein Dalhousie. In
Scozia: “Qui giace… età 102 anni, era buono. Morto
giovane”.
Su di un’urna funeraria le parole: “Pace alle mie ceneri.
Si prega di non starnutire, grazie”.
Ancora epitaffi: “Questa è la tomba di Serafino Viola,
pagata a rate quand’era in vita”.“Qui giace Leo Cinquemani, instancabile lavoratore”.“Qui riposa Onofrio
Mondragoni, uomo pieno di vita”.
Celeberrimo quello di un vignettista e umorista di cui si
è persa la conoscenza, morto a Roma nel 1998: “Ed ora
che mia suocera qui giace, lei non lo so, ma io riposo in
pace”. Di un attore etrusco: “Sono morto tante volte, ma
così mai”.
Per un incidente: “Uomo di grande dirittura morale, vissuto con linearità e rettitudine, morto in curva”.
Rovinato dalle medicine: “Per stare meglio sono finito
qua”. Di Benedetta Gaia Bellina sta scritto: “Qui riposa... donna instancabile. Ha amato la vita. Suo marito.
Tutto il paese”.
“Nacque, visse, morì Emilia Peruzzi Dell’Antella. Ora
ella qui riposa in pace e finalmente tace”.
Il poeta dialettale romano Giovan Battista Marini vol-
le per sé questo epitaffio: “O passeggero, qui fra tanta
quiete, ‘sto morto senza er nome su la targa, volemo armeno adesso, un po’ de requie, prega li vivi de passà a
la larga”.
Per il condottiero e politico Gian Giacomo Trivulzio,
sepolto nella basilica di San Nazaro Maggiore a Milano,
la scritta: “Chi non riposò mai, ora riposa”.
Il celebre Piovano Arlotto, membro della confraternita
di Cristo Pellegrino in Firenze, fece scrivere sulla sua
lapide ciò che ancor oggi si legge: “Questa sepoltura il
Piovano Arlotto fece fare, per sè e per chi ci vuole entrare”. “Ho smesso di fumare”, epitaffio per Gianfranco
Funari a Roma e al Monumentale di Milano, sulla lapide
di Walter Chiari, umorista fino alla fine, l’ultima battuta
che ci ha lasciato: “Amici non piangete, è soltanto sonno arretrato”. Questo invece è un esempio di epitaffio a
doppio senso, ovvero quando il marito si chiama Felice:
“Alla moglie prematuramente scomparsa, il marito Felice QMP” (qui memore pose).
In America, ma in stati diversi, queste epigrafi quasi tragicomiche. Di Margaret Danieli, nel cimitero di
Richmond, Hollywood, Virginia, leggiamo: “Diceva
sempre che aveva dei dolori ai piedi che l’uccidevano,
ma nessuno le ha mai creduto”. Ad Enosburg Cade, Vermont, di Anna Hopewell sta scritto: “Qui giace il corpo
della nostra Anna, morta a causa di una banana. Non
è del frutto però la causa ma la buccia di esso che l’ha
fatta scivolare”. A Thurmont, nel Maryland: “Qui riposa un ateo, tutto vestito bene e senza alcun luogo dove
andare”. Albany, New York: Enrico Edsel Smith, nato
nel 1903, morto nel 1942, “Ha guardato verso l’alto dal
pozzo dell’ascensore per vedere se la cabina stesse scendendo. Sì, lo stava facendo”. In Girard, Pennsylvania,
sulla tomba di Ellen Shannon: “Morto tragicamente in
un rogo, il 21 marzo 1870, causato dall’esplosione di
una lampada riempita con R.E.Danforth, olio per lampada non esplosivo”. Sempre nel Vermont: “Alla memoria
di mio marito John Barnes che morì il 3 gennaio 1803.
La sua vedova bella e giovane, di 23 anni, ha molte qualità di buona moglie e desidera essere confortata”.
aprile - giugno 2010
9
Da sinistra:
Emily Dickinson,
Werner Heisenberg
e Georges Bernanos
Una quantità
enorme di notizie
è stata tramandata
dalle lapidi
fin dai tempi
remoti:
basti pensare
alla loro
utilità
nella decifrazione
delle lingue
I vecchi cimiteri
appaiono
come mondi
purgatoriali
di quella lunga
attesa, a cui l’essere
umano non sa
dare un nome,
ma della quale
non può
fare a meno
10
Ritratto di Gian Giacomo Trivulzio
Walter Chiari
Dorothy Parker
Il comico Spike Milligan
Frank Sinatra
Archimede, Domenico Fetti (1620)
A Silver City in Nevada: “Qui giace Butch, giovane pistolero. Era rapido sul grilletto ma lento a scansarsi”.
Uniontown, Pennsylvania in memoria di un incidente:
“Qui giace il corpo di Jonathan Blake, ha messo un
piede sull’acceleratore al posto del freno”. Qualcuno
deciso a rimanere anonimo in Stowe, nel Vermont ha
fatto incidere queste parole: “Ero qualcuno, chi non è
affar tuo”. Imbattibile in stringatezza sembra l’iscrizione sepolcrale della poetessa americana Emily Dickinson: “called back” (richiamata). Per la scrittrice Dorothy
Parker invece: “Scusate la polvere”.
Terminiamo questa carrellata con l’iscrizione tombale
(che è tutta un programma) dell’attore e cantante Frank
Sinatra: “Il meglio deve ancora venire”!
Una quantità enorme di notizie è stata tramandata dalle
lapidi fin dai tempi remoti, quante figure e quanti fatti si
sono conosciuti attraverso un epitaffio e quanto contributo esso ha dato alla decifrazione delle lingue.
Cicerone a Siracusa riuscì a individuare la tomba di Archimede trovando sulla lapide incisi un cilindro e una
sfera, il cui rapporto fu la grande scoperta dello scienziato, ma quanti messaggi sono giunti sino a noi anche
da umili sepolcri?
I L VA G L I O
L’epitaffio un tempo raccoglieva la summa di un’esperienza, un ammonimento, il frutto estremo di un’esistenza tanto che ne ha fatto tesoro la letteratura.
Molte composizioni dell’Antologia Palatina, la grande
raccolta di poesia bizantina, sono forme poetizzate di
epitaffi. Lo stesso procedimento usò Edgar Lee Masters
nell’Antologia di Spoon River, e anche i discorsi di coloro che Dante incontra nella Divina Commedia, non
sono che grandi epitaffi.
Ora però ciò che ai nostri predecessori sembrava un giusto tributo di onore e di memoria per gli scomparsi, non
si usa più: oggi suona altra musica!
Nel giro di pochi decenni le tombe dalla terra si sono
sollevate diventando megalopoli tutte uguali, alveari di
anime; e i vecchi cimiteri appaiono come mondi purgatoriali di quella lunga attesa, a cui l’essere umano non
sa dare un nome, una forma, ma della quale sa che non
può fare a meno.
L’uomo nel profondo più profondo sa che qualcosa deve
venire e come il personaggio di Kafka nel Messaggio
dell’Imperatore, si siede alla finestra e lo sogna, mentre
passa la notte.
Ironia, divertimento
e satira sociale
nella poesia di Porta
&
Cultura&&
Letteratura
TRA L’AMORE PER MILANO E L’AVVERSIONE ALLE IPOCRISIE
di
Maria Forni
L
Tra il Parini e il Manzoni, come poeta satirico e del costume,
come inventore e modellatore di tipi saltanti su dalla vita,
non può stare che il gran Meneghino Carlo Porta.
Giosuè Carducci.
’impiegaa Carlo Porta, ovvero Carlin,
definito affettuosamente dal Foscolo
“l’Omero di Porta Ticinese”, trascorse la
sua non lunga vita (1775-1821) nella città
di Milano, di cui fu il cantore appassionato e critico, mosso da autentico amore ma senza remore né ostacoli alla lucida visione della realtà. Porta
è un poeta interessato alla rappresentazione della vita
vera, quotidiana, dura e pur cara, della società del suo
tempo e della sua comunità, colta nel suo complesso,
nelle relazioni tra individui della stessa classe sociale,
ma anche in quelle, spesso complicate e inique, tra i
diversi ceti e gruppi di una città vivace, dinamica e
inquieta come la Milano dell’età napoleonica, divisa
tra il vecchio e il nuovo, mossa da inedite prospettive
e antiche fedeltà.
Figlio di un funzionario statale della Milano austriaca,
il Porta nacque a Milano nel 1775; dopo studi regolari,
intraprese la stessa carriera del padre, fino al grado di
cassiere generale al banco di Monte Napoleone. Apparteneva dunque a quel ceto impiegatizio borghese,
abbastanza agiato, al quale toccò storicamente il compito di impegnarsi nello svecchiamento dei costumi e
delle idee, lottando con le armi della cultura e dell’ironia contro l‘atmosfera soffocante, ipocrita e bigotta
delle classi dominanti dell’aristocrazia e di un certo
clero. Era quello un momento particolarmente inquieto e movimentato della storia europea, e naturalmente
Ritratto
di Carlo Porta,
di Giuseppe Bossi
(Museo di Milano)
delle vicende di Milano, passata nel giro di pochi anni
dalla dominazione austriaca a quella francese napoleonica, e di nuovo a quella austriaca dopo la sconfitta
dell’Imperatore.
aprile - giugno 2010
Porta, definito
dal Foscolo
“l’Omero di Porta
Ticinese”,
è un cantore
della vita vera,
quotidiana,
dura e pur cara,
della società
del suo tempo
e della sua comunità
11
Formatosi
sui testi
illuministici
francesi
e lombardi,
l’autore milanese
sostiene
i grandi valori
della libertà,
della giustizia
e dell’eguaglianza
12
Non era facile prendere una posizione coerente, ma il
Porta, al di là degli inevitabili dubbi e perplessità, fu
sempre fermo su alcune convinzioni radicate e indiscusse, in primo luogo l’ideale di giustizia e di buona
amministrazione, intimamente legato all’aspirazione
alla libertà politica, religiosa e culturale contro ogni
dogmatismo e oppressione.
Fu dunque uno scrittore morale quasi senza saperlo,
come diceva lui stesso scherzosamente: morale sì,
ma anche non all’oscuro delle umane debolezze, specialmente di quelle dei modesti cittadini esposti alle
angherie e alle ritorsioni. Gh’hoo miee, gh’hoo fioeu,
sont impiegaa… e perciò stesso non posso fare l’eroe.
Negli ultimi anni della sua vita, con il ritorno oppressivo del governo austriaco e la rivincita della nobiltà più retriva, il poeta si convinse della necessità di
un’indipendenza italiana da qualsiasi dominio straniero, anche dopo le deludenti esperienze fatte sotto
la dominazione dei francesi. Egli condivise pertanto
le attese e i positivi atteggiamenti della borghesia illuminata e progressista milanese: dapprima filonapoleonico, in considerazione della ventata di novità e di
spinte democratiche di cui l’armata di Bonaparte sembrava portatrice, fu ben presto amaramente deluso dai
soprusi e dai comportamenti tirannicamente arbitrari
dei “liberatori” francesi, fino al punto di vedere con
sollievo la partenza dell’esercito imperiale da Milano.
Paracar che scappee de Lombardia, apostrofa così
con ironica gaiezza i soldati francesi in fuga dalla sua
terra, definendoli paracarri per la somiglianza dei loro
alti copricapi con questi oggetti stradali: così del resto
li chiamava il popolo.
E tuttavia ciò non lo indusse a un ripiegamento su posizioni di individualismo qualunquista o tanto meno
di moderatismo acquiescente all’antico dominatore
ritornato, ma , doppiamente deluso dalla politica della
Restaurazione e della Santa Alleanza, interessata a ripristinare i privilegi delle antiche classi dominanti e la
politica del “trono e dell’altare”, si accostò al gruppo
liberale e romantico del “Conciliatore”, ossia al primo
gruppo milanese di “patrioti” iniziatori del Risorgimento. Strinse così una profonda e intensa amicizia
con Grossi, Torti, Visconti, Berchet e con lo stesso
Manzoni, tutti frequentatori della “Cameretta” del
Porta, ove si riunivano a leggere e discutere ciascuno
i propri scritti, mentre nascevano interessi politico-letterari sempre più rivolti alla dimensione liberale europea, proprio perché profondamente legati all’ambiente
milanese, conosciuto e amato con autenticità di analisi
e di interesse. E a Milano Porta morì nel 1821, anno
fatidico per i primi moti risorgimentali che egli tuttavia non giunse a vedere.
***
Formatosi sui testi illuministici non solo dei philosophes francesi ma anche della più schietta tradizione
lombarda (Verri, Beccaria, Parini, il “Caffè”), il Porta
sostiene i grandi valori della libertà, della giustizia e
dell’eguaglianza, ma continua pure la consuetudine,
tipica dell’Illuminismo italiano, o meglio milanese, di
I L VA G L I O
attenersi a una convinta fedeltà al reale, ai problemi
concreti e pressanti della società, al desiderio di una
“rivolta” contro le regole di una letteratura astrattamente classicheggiante, vuota di emozioni e di sentimenti “veri”, lontana dagli interessi e dalla comprensione della maggioranza dei lettori.
Ma la produzione poetica del Porta finisce col diventare una personalissima sintesi tra istanze illuministiche e apertura alle nuove tematiche e finalità culturali
prodotte dal sorgere in Europa della corrente romantica. Si pensi soprattutto all’estrema attenzione al dato
realistico e sociale, all’assunzione del punto di vista
delle classi subalterne mai prima considerate nella loro
profonda umanità, agli ambienti degli emarginati colti nella sordida miseria della loro esistenza, ma anche
nella loro solidarietà reciproca e nel tenace attaccamento alla vita. C’è davvero un nuovo epos soprattutto nei poemetti portiani, l’epos degli sfruttati e degli
oppressi (si pensi a Manzoni, ma in un clima culturale
laico), che vivono nell’indigenza e tuttavia non sono
privi né di una loro spiritualità né della capacità vitalissima di scherzare sulle loro e altrui vicende, con una
evidente dialettica tra farsa e tragedia, o meglio con la
disposizione tutta popolana a costruire una commedia
della tragedia, “ con una continua frizione tra i due
poli e il conseguente scintillio elettrico della battuta,
il guizzo impertinente della comicità”. (Paolo Mauri,
1995).
Esplosiva è anche la novità espressiva e formale del
Porta, il quale sceglie con consapevolezza di cultura
e di poetica l’uso del dialetto, che si rifaceva sì a una
lunga tradizione dialettale milanese dal sec.XV in poi,
attraverso scrittori come Carlo Maria Maggi, canonizzatore della figura di Meneghino nel 1600 e Tanzi,
Balestrieri, lo stesso Parini (pur severo classicista in
lingua) nel 1700, ma aveva anche la forza dirompente
di uno strumento nuovo e completamente libero,senza
freni o autocensure. A ben vedere, il poeta portò alle
estreme conseguenze l’obiettivo del Romanticismo
italiano di scrivere in modo comprensibile ai più, di
utilizzare cioè uno strumento linguistico liberato dagli
artificiosi e polverosi accademismi classicistici e capace di parlare al popolo e per il popolo. Ma il popolo
milanese in quel periodo utilizzava come strumento
quotidiano di comunicazione il dialetto, e perciò, assumendolo come suo codice espressivo, il Porta operò
una scelta decisamente romantica e fortemente innovativa. Il dialetto era davvero in quell’età la “lingua”
di un’intera città, in tutti i suoi ceti: così nel mondo
poetico portiano il messaggio linguistico viene adoperato nelle sue varie sfumature, dal livello schiettamente
popolare e gergale tipico di quartieri e di gruppi sociali
“bassi”, al cosiddetto “parlar finito”, proprio dell’aristocrazia reazionaria e ottusamente conservatrice. E’
quel modo di parlare in punta di labbra, altezzoso e
tagliente, modificato rispetto al linguaggio della plebe
dalla maggior vicinanza all’italiano, che lo rende artefatto e ambiguo come il costume e il modo di sentire
di quella classe.
In polemica con i sostenitori assoluti della lingua della
“Il Naviglio a Milano”,
stampa colorata
della prima metà
del XIX secolo
tradizione, il Porta ribadisce di aver appreso i propri
mezzi espressivi “alla scoera de la lingua del Verzee”,
ossia alla scuola di lingua del mercato della verdura,
dove egli si recava spesso, attratto dai vari tipi umani
e dalla molteplicità di casi di quel vero laboratorio di
vita e di linguaggio genuinamente popolaresco.
Accanto all’uso sempre più consapevole e magistralmente vario del dialetto milanese, si riscontra nella
produzione portiana anche il ricorso a quello che si
chiama pastiche linguistico e che si costruisce accostando nello stesso testo linguaggi o addirittura lingue
diverse: è il caso della mescolanza francese-milanese
in molti testi riferiti alla dominazione francese a Milano nell’età napoleonica, particolarmente nel poemetto
Desgrazi de Giovannin Bongee, il cui protagonista è
un modesto lavoratore a cui quell’accident d’on cavion frances insidia apertamente la moglie provocando le sue proteste in un gustosissimo dialogo plurilinguistico. Un altro esempio di rara sapienza linguistica
ed espressiva è costituito dal pastiche tra dialetto meneghino e lingua latina, usato con particolare efficacia
nel famoso componimento On funeral, noto anche col
titolo di Miserere, datogli dal Grossi. Il testo rientra
nella numerosa produzione satirica nei confronti di
una parte del clero, quella formata da preti senza vocazione, grettamente egoisti e avidi, meschinamente
attaccati ai potenti per trarne lucro. Non si creda che
il poeta voglia propagandare una concezione atea o
irreligiosa: il Porta è piuttosto erede di quello spirito
illuministico per cui la fede è un fatto personale e privato, che non può ridursi a gerarchie, riti, ipocrisie e
interessi materiali: egli esprime il suo sdegno, ancorché sempre in forme di divertimento satirico, nei con-
fronti di chi in nome di una falsa religiosità inganna il
prossimo e soprattutto gli umili. Dalla satira abilissima emerge la condanna dell’ipocrisia e della violenza
morale, in nome anche di una più schietta religiosità.
El Miserere racconta di come il Porta assista in San
Fedele all’ufficio funebre in suffragio di un ricco defunto e afferri nel contempo la conversazione che gli
officianti intercalano ai versetti del Salmo, rivelando
una assoluta indifferenza al rito che si va compiendo e
una preoccupazione rivolta esclusivamente al pranzo
che li aspetta e ad altri consimili questioni materiali e
volgarmente quotidiane.
Miserere mei Deus-E a disnà?
Secundum magnam-do cosett o tre
...
E el scabbi come l’è? (scabbi= vino)
Et multum lava me
Ab injustitia mea, et a delictoEel car?-Puttasca! E subet, munda me…
La stessa satira, ma meno grottesca del canto salmodiante dei due preti blasfemi, si trova in molti altri
componimenti: ne La mia povera nonna la gh’aveva
parla un nipote a cui la nonna ha lasciato in eredità on
vignoeu, una piccola vigna, raccomandandogli di dare
la loro parte ai frati che venivano a benedire il podere,
se voleva avere prodotto abbondante. Ma quando Napoleone elimina molti ordini religiosi, questo obbligo
viene meno, eppure nulla di male accade alla vigna,
anzi Franzeschin, l’erede, si trova avvantaggiato: in
scambi hoo bevuu anch quell che dava ai fraa.
aprile - giugno 2010
Attraverso
la potente
arma della satira,
Porta esprime
il suo sdegno
nei confronti
di chi in nome
di una falsa
religiosità
inganna
il prossimo
13
Piazza della Scala
in una stampa
ottocentesca
Grazie
al sapiente uso
del dialetto
milanese,
Carlo Porta
sostiene
la posizione
romantica
nel dibattito
tra i nuovi poeti
e il classicismo
14
Né si può dimenticare il potente affresco de La nomina del Cappellan, in cui una dama altezzosa e conformista, la Marchesa Paola Cangiasa, sceglie, attraverso
un sussiegoso maggiordomo, il nuovo cappellano di
palazzo. Poiché in casa dopo la padrona viene subito al
secondo posto la cagnetta, la Lilla, il cui accompagnamento a passeggio rientra nei compiti del Cappellano, viene alla fine scelto tra tanti postulanti non molto
puliti e male in arnese, quello che sembra essere più
gradito alla poco simpatica bestiola. Solo alla fine si
saprà che il fortunato aveva in tasca tre o quatter fett/
de salamm de basletta…
Del dialetto il Porta si serve anche per sostenere, dopo
il 1815-16, la posizione romantica nel dibattito tra i
nuovi poeti e i classicisti, dimostrando pure così, oltre
che nell’uso di una metrica sciolta, armonica e regolarissima, soprattutto nelle ottave ariostesche e negli
endecasillabi , che l’utilizzo del dialetto milanese non
si risolve affatto per lui nelle “bosinate” dalla facile
comicità o nelle poesie d’occasione, come fa notare
Dante Isella, il grande studioso soprattutto della filologia portiana. Il dialetto diventa così uno strumento
linguistico frutto di elaborazione culturale e tanto ampio nel respiro da poter affrontare anche temi di poetica e argomentazioni a sostegno della nuova corrente
culturale.
A buon diritto il Porta rientra nel dibattito culturale dell’epoca, dimostrando di aver perfettamente individuato l’elemento strutturale fondativo del Romanticismo,
che consiste nel rifiuto delle regole cosiddette aristoteliche e nella rivendicazione dell’assoluta libertà del
poeta nelle tematiche e nel linguaggio. Naturalmente
I L VA G L I O
lo fa assecondando lo spirito spregiudicato, scherzoso
e ammiccante dell’idioma milanese. Così, nel componimento intitolato “Il Romanticismo”, sotto forma di
una lettera a una signora, Madama Bibin (Barbara),
che si era dichiarata avversa alla poesia romantica
con competenza in merito quanto meno sospetta, il
Porta spiega affettuosamente che la poesia è un fatto
dinamico, che segue come tutte le cose i movimenti
della storia e lo spirito del tempo. Ma la chiusa della
lunga epistola, secondo le migliori tradizioni satiriche
dell’inaspettato alla fine (fulmen in clausola secondo
i Latini), paragona la libertà dei Romantici all’impossibilità di un passante nei pressi del Duomo di frenare
i propri bisogni corporali: Fan tal e qual che fava quel
bon omm/ che ghe criaven (che la scusa un poo)/perché el fava i fatt soeu depos al Domm:/ Se po’ no, se
po’ no!..Ma mi la fo,… E il poeta conclude l’insolita
quanto efficace similitudine con la frase S’el gaviss
tort o no la diga lee.
Il successo che i testi poetici del Porta (a cui il Cherubini aveva riservato il XII volume della “Collezione
delle migliori opere scritte in dialetto milanese” iniziata nel 1816) riportarono fin dalla loro prima uscita pubblica è testimoniato, tra le varie e numerose
attestazioni, dal giudizio di un altro grande scrittore
lombardo, Carlo Cattaneo: “…Fu allora che…il nostro dialetto si impregnò della più audace ironia. Nelle
storie di Porta ella si unì a tutto il vigore e a tutta la
verità di un dipinto fiammingo. La moderna poesia di
tutta Italia non ha una pagina che somigli alla parlante
evidenza di quelle scene”.
&
Cultura&&
Storia
Il Carnevale
nel tempo
ABBUFFATE, MASCHERATE, DANZE E ALLEGRIA
I
di
Eufemia Marchis Magliano
l carnevale è gioia di vivere, amore, allegria,
giovinezza, vuole cancellare i momenti difficili dell’anno appena trascorso ed è speranza nel
futuro. Esalta il concetto edonistico della vita
così bene espresso nel delizioso Canto Carnascialesco di Lorenzo il Magnifico, il Trionfo di Bacco
ed Arianna, in cui l’autore, secondo il critico Natalino
Sapegno, “ si fa cantore di un’ebbrezza vasta e diffusa
quanto indeterminata e povera di rilievo individuale.”
Quant’è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto sia:
di doman non c’è certezza...
...Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi,
siam, giovani e vecchi
lieti ognun, femmine e maschi,
ogni tristo pensier caschi:
facciam festa, tuttavia.
Chi vuol esser lieto sia
Di doman non c’è certezza!
Celebrare il carnevale è vivere una festa di libertà, un
rito liberatorio, un mutare d’identità, un gioco delle
parti, come riscatto da schemi in cui si è costretti ad
operare. Ci si traveste, si indossa una maschera, si assumono ruoli diversi dal quotidiano. Questo è lo spirito
del carnevale da anni lontani che si perdono nel tempo
ed è ancor vivo ai giorni nostri: gli uomini indossano
abiti femminili, le donne quelli maschili, si diventa un
personaggio illustre o un poveraccio, il malinconico
Pierrot o l’allegro Arlecchino, si diventa un’ immagine
caricaturale di una persona nota, oppure un gattone,
una tigre aggressiva, un mostro... Le feste dei bimbi
sono affollate di fatine, Biancaneve, damine, pellerossa, Zorro, Batman, extraterrestri...
L’etimologia della parola carnevale non è chiara; va
per la maggiore la derivazione dal latino “carnem
vale”, addio alla carne, proprio del primo giorno di
quaresima. Le feste carnevalesche sono nate da miti
antichissimi, proprii di varie civiltà, dal concetto della
deità del Sole e della Terra e dei loro poteri misteriosi da propiziare con cerimonie sacre. Le costumanze
carnevalesche nel corso degli anni si sono rifatte alle
antiche feste religiose per gli auspici del nuovo anno
agli inizi della primavera, la rinascita della natura dopo la stasi invernale. Assiri, Babilonesi, Egizi, Greci,
Romani solevano dedicare i giorni di fine inverno a riti
festosi con cortei, danze, maschere, canti, che terminavano per lo più con il sacrificio agli Dei di un animale,
simbolo dello spirito del male. I popoli mesopotamici
davano alla loro festa la caratteristica di un rituale magico in cui la lotta fra il bene ed il male rappresentava
la ricerca dell’immortalità con le cerimonie dell’acqua
e della “pianta di vita” nello svolgersi delle stagioni.
A Babilonia il dio Sole era posto su di una nave con
ruote che procedeva accompagnata da gente festante
in ruoli invertiti: il ricco diventava povero, lo schiavo padrone ed era concessa una grandissima libertà;
infatti non c’era freno alla lussuria, al gioco, a pantagrueliche abbuffate.
Nell’antico Egitto l’avvento della primavera era celebrato con sette giorni di cerimonie e luculliani banchetti. Uomini, donne, giovani ed anziani, tutti mascherati,
seguivano per le vie delle città un bue dipinto e dalle corna dorate, addobbato con un manto sontuoso.
L’avanzare del corteo era accompagnato da fanciulle
nude e da sacerdoti che danzavano cantando lodi al
bue, ad Osiride, dio della vegetazione, ed alla sua sposa Iside, dea della natura. Al termine delle feste il bue
era sacrificato agli dei fra il salmodiare dei sacerdoti.
Questo tipo di festeggiamenti, passato in Grecia, diede
origine alle celebrazioni del ritorno della primavera nel
mito di Demetra, la madre Terra, e Persefone, sua figlia, simbolo della rinascita della vegetazione. Per una
settimana, uomini e donne in maschera danzavano e
cantavano inni di auspicio per il ritorno alla vita della
natura, seguendo il corteo orgiastico del dio Dioniso,
protettore del vino e del ciclo delle stagioni.
aprile - giugno 2010
L’etimologia
della parola
non è chiara:
va per la maggiore
la derivazione
dal latino
“carnem vale”,
addio alla carne,
proprio del primo
giorno
di quaresima
15
Come tanti
riti pagani,
Baccanali,
Saturnali
e Lupercali,
furono accolti
nelle feste
dell’epoca
cristiana,
evolvendosi
nel Carnevale
16
Il rito greco continuò a Roma nei Baccanali, nei Saturnali, nei Lupercali. I primi in onore di Bacco, il Dioniso
dei greci, signore della vendemmia e dei prodotti della
terra. Nati fra i contadini che si davano ad una sfrenata
allegria divennero così licenziosi a Roma da essere
proibiti dai consoli e dal Senato nel 185 a.C. I Saturnali, dedicati a Saturno, dio della semina, esaltavano
l’età dell’oro, allorchè tutti gli uomini erano uguali,
con cortei di maschere e carri decorati, trascinati da
animali con strane bardature. Durante i festeggiamenti
che duravano da tre a sei giorni, cessava l’autorità dei
padroni sui propri schiavi i quali, indossata una maschera, avevano il diritto di agire come desideravano.
Veniva creato un re da burla, uno schiavo cui andavano tutti gli onori, ma che, a volte, veniva sacrificato al
termine delle feste. I Lupercali, in onore della lupa, la
leggendaria nutrice di Romolo e Remo, o del dio fauno
Luperco, tutore della terra e della fecondità femminile,
si celebravano il 15 febbraio di ogni anno con funzioni
religiose dei sacerdoti lupercali, i quali mascherati e
coperti di pelli, correvano intorno all’antica città palatina percuotendo con strisce di pelle le donne a cui il
dio Luperco avrebbe donato la fertilità. Come tanti riti
pagani, Baccanali, Saturnali e Lupercali, furono accolti
nelle feste dell’epoca cristiana. I Lupercali giunsero a
trasformarsi in una sfrenata orgia della plebe e furono proscritti dal papa Gelasio I nel 400. I Baccanali
ed i Saturnali divennero un divertimento buffonesco:
le cosiddette “Feste dei pazzi” che si tenevano nelle
chiese con il permesso dei vescovi. Ma anche queste
degenerarono; per le canzoni addirittura oscene tollerate dall’autorità ecclesiastica furono abolite e sostituite
dalle feste del Carnevale dette Badie, organizzate da
associazioni di giovani sotto la responsabilità di un
Abbà ed il controllo della Chiesa. Nei secoli che seguirono si svolsero le feste carnevalesche nei paesi cattolici-romani. In Italia, Francia, Spagna si organizzarono
festeggiamenti burleschi, talora sfrenati, al termine
dei quali una figura grottesca dai nomi vari secondo i
luoghi, veniva bruciata, gettata in acqua o comunque
distrutta fra urla, improperi, maledizioni degli astanti
come in uso fra i popoli antichi. Il fantoccio messo a
morte ci riconduce al mito dell’incarnazione dell’arcaica divinità della vegetazione uccisa annualmente insieme alle sue negatività per rinascere in primavera, ricca
di promesse e doni.
Venezia era già celebre nel medioevo per le mascherate in cui il popolo si mescolava ai signori del Gran
Consiglio, ai rappresentanti dei Sestieri, ad allegre
compagnie di Siciliani, Napoletani, Calabresi, nei loro costumi caratteristici. Tutti solevano indossare una
maschera, diritto inviolabile tutelato da apposite leggi,
che poteva, però, essere complice d’intrighi e scherzi di
cattivo gusto, allorchè, come venne di moda, riproduceva il viso di qualche persona e permetteva incresciosi
scambi d’identità. I Veneziani, cui s’aggiunsero persone d’ogni parte d’Europa, si davano alla pazza gioia:
balli, rappresentazioni teatrali, cortei di gondole sul
Canal Grande tra suoni di piatti e mandolini e scambio
di lazzi e frizzi dalla singolare arguzia e comicità.
I L VA G L I O
Le feste carnevalesche a Napoli hanno una tradizione
più che secolare; nel 1400 giunsero ad essere di particolare splendore, organizzate con gran dispendio di
denaro, ammirate anche dagli stranieri. I divertimenti
di quell’anno furono tanti e tanto liberi da sfociare in
tumulti, risse, incidenti addirittura mortali che produssero perfino condanne a morte. Ad ogni termine del
periodo invernale, le feste napoletane erano ricche di
carri, di maschere popolari che occupavano le vie della
città in allegria anche smodata, mentre gli aristocratici si divertivano con galà, spettacoli, lauti pranzi. Nel
secolo XIX i toni si fecero più moderati; per l’antico
splendore è ricordato il ballo al Teatro Regio del 1827,
sontuosamente allestito con quadri storici viventi i cui
protagonisti erano gli appartenenti alla migliore società
di Napoli.
Maschere, danze, cortei di gente festante, sfilate di carri, scorpacciate caratterizzarono anche il carnevale di
Firenze. I cittadini usavano aggirarsi per strade e piazze cantando canzoni satiriche ed erotiche. All’epoca di
Lorenzo il Magnifico, i carri, detti “Trionfi” raffiguravano personaggi storici o mitologici ed erano accompagnati da suonatori di piatti e liuti e da maschere che
cantavano i canti carnascialeschi del Magnifico e dei
poeti della sua corte. Si percorreva la via dal ponte Vecchio a piazza del Duomo, mentre folleggiavano ninfe e
satiri, redarguiti dai Piagnoni, seguaci del Savonarola,
con la recita del Miserere sul loro nero carro adorno di
scheletri e di casse da morto.
Roma non fu da meno delle altre città sunnominate nelle allegre gazzarre dei giorni di carnevale, anche per la
propensione ad atteggiamenti e linguaggi lontani dal
comune senso morale. Il carnevale romano nacque nel
X secolo ed il suo periodo di maggior sfarzo e raffinatezza si ebbe nel 1500. Papi, cardinali, alti prelati amavano travestirsi e mescolarsi ai cortei popolari. Vestivano abiti lussuosi, bordati d’oro, e seguivano i “trionfi”
accompagnati da autorità, da uomini in arme, da paggi
e valletti. Come nelle altre città i “trionfi” erano raffigurazioni di scene mitologiche o storiche. Negli anni di
Paolo III, oltre i soliti carri, c’era un proliferare di banchetti di ecclesiastici, mentre il giovedì grasso erano
d’uso sfilate di taverneri, falegnami, calzolai, musici,
muratori, soldati alla presenza di una folla chiassosa
e sovente rissosa. Il carnevale romano continuò i suoi
fasti nel 1600 e nel 1700, ma non mancarono gravi zuffe fra popolani e signorotti prepotenti che sovente sfociarono in scene violente con morti e feriti. Il governo
di Roma si trovò a comminare la pena di morte a chi,
durante le feste, avrva commesso omicidi.
A tutt’oggi il carnevale è presente in molte località con
manifesrazioni eterogenee, maschere caratteristiche
delle varie città, sfilate di figuranti e carri che ricordano epoche passate importanti. Il tutto accompagnato
da ricchi pasti. E’ una festa alimentata da uno spirito
affrancatorio, è un gioco che non vuole avere memoria
degli avvenimenti negativi dell’anno trascorso, è la coscienza ancestrale dello scorrere della vita dal male al
bene desiderato, propiziato, sperato.
Quando la risata
era una faccenda
“artigianale”
&
Cultura&&
Memoria
LE EVOLUZIONI DEL SENSO UMORISTICO CONFRONTATE AI REPERTI DELLA SATIRA CHE FU
di
Stefano Sedino
“Il Tavolo Rotto”
del 16 febbraio 1946
U
no degli effetti deteriori derivanti dall’ingresso della società nell’era catodica, o
meglio, nel suo stadio morboso, è il generale appiattimento del senso dello humour.
Ne sono prova i cosiddetti “tormentoni”,
battute ad effetto che una volta conquistato il gusto popolare si trasformano in martellanti cantilene, piante infestanti allignate sul ciglio della strada della massificazione
mediatica contemporanea. Le gag dei comici televisivi
diventano un disco rotto che la gente continua a suonare
nella convinzione di risultare simpatica, togliendo spazio
vitale all’inventiva. C’è un rapporto di reciprocità, se non
di subordinazione, tra questo fenomeno e la complessiva
standardizzazione culturale prodotta dai media. Assottigliandosi il divario di conoscenze tra le diverse classi
sociali (di per sé un’ottima cosa) è progressivamente venuta meno la relativa variabilità linguistica. In realtà, il
lessico dell’italiano medio (altra creatura mostruosa delle comunicazioni di massa) corrisponde ad una porzione
assai limitata dell’idioma nel suo complesso.
aprile - giugno 2010
Oggi non c’è spazio
per l’inventiva:
la gente ripete
a oltranza
i “tormentoni”
comici sentiti
alla tivù,
convinta
per questo
di risultare
simpatica
17
Le prime pagine
di “Al Giaferr”
e del “Fasoulin”
Il “Tavolo Rotto”
e “Lo zio
del Tavolo Rotto”
sono la sintesi
cartacea
di quello spirito
goliardico
di casa
al Caffé Lomellino
nell’immediato
secondo Dopoguerra
18
Lo si definisce “linguaggio di uso comune” e la tivù ha
non poco contribuito a delimitarne i contorni. Parallelamente si è ristretto e conformato anche lo spettro
dell’umorismo, che del linguaggio è parente strettissimo. Prima che il piccolo schermo smettesse di essere
una macchina meravigliosa, spettacolare in sé e per sé,
la ricerca di evasione passava per forme di creatività
“personalizzate” e direttamente correlate alle condizioni socio-culturali degli individui. I contadini, dopo
una giornata di estenuante lavoro, si ritrovavano nelle
stalle per compensare gli sforzi diurni con lo svago
dei pruwèrbi, “false friend” del termine “proverbi”,
trattandosi quasi esclusivamente di apologhi spassosi: ognuno ci metteva del suo, adattando al proprio
quotidiano e guarnendo con fantasia storielle facete
trasmesse dalla tradizione orale. L’altro estremo della
risata era l’umorismo raffinato delle classi colte, uno
humor elitario dotato di un corpus lessicale più ampio
di quello popolare. A metà strada si potevano trovare
parecchie sfumature. Lo rivelano “reperti archeologici” come “Il Tavolo Rotto” o “Lo zio del Tavolo Rotto”, due pubblicazioni garbatamente satiriche redatte e
date alle stampe nella Mortara dell’immediato secondo Dopoguerra, più precisamente nel febbraio e nel
novembre del 1946. Queste pagine, oggi ammantate
di gusto retrò, sono la traduzione cartacea del clima
che si respirava al “Caffé Lomellino”, quartier generale degli sc-ciapatàvul. Il tipo di buon umore proposto è un punto di sintesi tra l’animo bohèmiene degli
studenti universitari che frequentavano l’esercizio (tra
cui un giovanissimo Giancarlo Costa) e la schietta comicità di provincia. Il registro che ne risulta è un felice
impasto di terminologie forbite e sporadiche incursioni vernacolari, in pieno spirito goliardico. Ne “Lo zio
del Tavolo Rotto” è inoltre presente una rassegna di
I L VA G L I O
notizie leggere come piume intitolata “Giro di Mortara”, spazio che tradisce un forte debito d’ispirazione verso il “Candido” di Guareschi e Mosca: l’incipit
“Qui a Mortara tutto bene” ricalca il motto “Qui in
Italia va tutto bene” con cui l’ideatore dei personaggi
di Peppone e Don Camillo era solito iniziare la rubrica “Giro d’Italia”. Si potrebbe obiettare che, alla luce di ciò, allora come oggi i “tormentoni” e i modelli
preconfezionati avevano la loro incidenza sul sentire
umoristico comune. La differenza sostanziale sta nel
fatto che mentre gli stereotipi odierni sono scimmiottati senza esercizio di personalità, i vecchi schemi
facevano da impalcatura a libere variazioni sul tema,
nel caso specifico rese originali da tratti, per così dire, di genuino sarcasmo territoriale. Tra le peculiarità
dei fogli mortaresi si trova la capacità di chiamare in
causa, con abili frizzi, i protagonisti della vita cittadina: politici del tempo, intellettuali, macchiette, amici
e conoscenti... In questo “Il Tavolo Rotto” si fa erede dell’impostazione di fortunati settimanali dell’area
“pavesofona” come il “Fasoulin”, “Ael ramolass”, il
“Bagoulin” o “Al Giaferr”, castigamatti dei ghiribizzi delle mode, delle goffaggini popolane e in generale
di ogni aspetto risibile dell’ambiente provinciale nei
decenni sfavillanti della Belle Époque. Pochissimi gli
esempi in questa direzione negli anni a venire. Si è
perso il gusto della satira “localizzata”, forse perché
si sono ridotte le distanze tra la realtà rurale e quella
urbana, e al contempo si è rimpicciolita la gamma dei
tipi umani divertenti. Allargando la visuale si può constatare come è la stampa satirica in genere ad essere in
declino, confinata sempre più in una nicchia dai codici
televisivi. Tuttavia, riflettendoci, il genio dello humour
non è affatto scomparso. È solo nascosto dalla torma
di replicanti che ne emulano le brillanti trovate.
&
Cultura&&
Musica
La gioia
è il principio
della vita
LA FORZA CREATRICE E LA PORTATA CREATIVA DELLO STATO D’ANIMO PIÙ LEGGERO
L
di
Alessandro Marangoni
a gioia è il principio della speranza! La
gioia è il canto della terra! La gioia è la
musica del cielo!
Quante volte nell’arte abbiamo sentito,
visto o assaporato la manifestazione della gioia, attraverso un dipinto, una scultura, una sinfonia, un piatto di pasta al sugo: è lo stato d’animo
per eccellenza che crea, fa scaturire, porta avanti, fa
camminare, progettare, inebriare. E’ la spinta che forse convinse Colui che fece il mondo a non essere più
solo, a mettere da parte il nulla e a dare inizio a tutte le
cose. Anche nella musica essa è spesso il principio che
fa tacere il silenzio e incominciare una linea melodica
o un concatenarsi di armonie: basti sentire ad esempio
qualsiasi coro dal Messiah di Händel o il celeberrimo
Joy to the world per rendersi conto di quanto la musica
da un lato sia originata da questo sentimento e dall’altro, invece, quanto essa stessa possa trasmetterlo in chi
ha fortuna di ascoltarla o di eseguirla.
L’atto dell’ascolto è infatti un momento di grande
gioia; anzi, molto di più: è il momento nell’esistenza quotidiana in cui maggiormente si prova tale stato
d’animo, un attimo o un tempo prolungato – se si ha
particolare fortuna – in cui l’anima è ricolma di sovrabbondanza. Anche nelle grandi avversità, nei momenti di depressione, in cui ci si accanisce contro se
stessi e contro il mondo, i grandi animi sanno e osano
gioire, come nel caso di Beethoven, che passa dallo
struggimento nero del “testamento di Heiligenstad”, al
finale glorioso della Nona Sinfonia, diventato uno dei
brani più famosi della storia, conosciuto da tutti come
l’Inno alla gioia (su testo di Schiller) ed adottato come
inno e simbolo dell’Europa. Anche nelle forme religio-
Friedrich Schiller
(1759 - 1805),
autore del testo
dell’Inno alla gioia
se primordiali l’importanza della musica era centrale,
insieme all’idea che essa fosse un veicolo potente di
una forza, fino ai nostri tempi in cui è vista come strumento di eccitazione o di “sballo” (come nel rock ad
esempio), capace di modificare gli stati d’animo anche
grazie all’alternarsi di specifiche tonalità (maggiori,
minori e così via).
aprile - giugno 2010
Nelle forme
religiose
primordiali
l’importanza
della musica
era centrale,
insieme all’idea
che fosse
un veicolo capace
di pilotare
le emozioni
19
Conoscendo e apprezzando quanto nei secoli è stato
prodotto in musica ma in generale in ogni forma di
arte, sembra quasi che nell’epoca contemporanea (e
con questo termine intendo il tempo in cui noi siamo
viventi) si sia smarrito questo principio eccitante della
vita, la gioia appunto. Sempre più frequentemente nelle giovani generazioni esiste un muro inibitore oppure
un’ignoranza (più o meno volontaria) di tutto ciò che
fa nascere la gioia: la quotidianità si rattrappisce sotto
un velo che ci fa ombra, senza riuscire a comprenderne il perché fino in fondo, in modo spesso misterioso
e inaspettato. E’ questo il tramonto dell’Occidente di
cui parlava Spengler? O forse questa luce fioca appartiene solo a una sfortunata élite?
Talvolta occorre osare e stare vicino a quelle cose che
ci trasmettono quella gioia di cui abbiamo parlato finora. Un appello: ministri, amministratori pubblici,
docenti di ogni rango, pensatori, uomini tutti “di buona volontà”, sarà forse la “Grande Musica” la soluzione che porterà la gioia?
Ludwig van Beethoven e il frontespizio della Nona sinfonia
Sempre
più frequentemente
nelle giovani
generazioni
esiste un muro
inibitore,
oppure
un’ignoranza,
di tutto ciò
che fa nascere
la gioia
20
I L VA G L I O
Fermare
il tempo
L’INESORABILE FLUIRE DEI SECONDI....
SFUGGE ANCHE ALLE MANIERE FORTI
S
di
Simone Menicacci
draiato sul divano, lungo e stravaccato, con
gambe e braccia posizionate da sembrare,
usando un po’ di fantasia, la disposizione
dei rami d’un olmo durante la stagione invernale, osservava, ancora intorpidito dal
riposo pomeridiano, l’assoluta immobilità delle cose
che lo circondava. Pareva tutto fosse inerte, statico,
sprovvisto di iniziativa verso una qualsiasi sorta di
movimento trasversale o laterale che potesse essere,
né tanto meno obliquo o millesimale. Comprese le sue
stesse funzioni cerebrali assolutamente coerenti con lo
stato di immobilità collettiva. Solo un minuscolo oggetto, apparentemente innocuo, all’interno del micro
universo quale era la stanza dove si trovava, con insolenza infastidiva la comune pigrizia che aleggiava
soffice nell’aria: la lancetta dei secondi. Lei si muoveva con un fare a dir poco irritante e nevrotico, e le
altre due, quella dei minuti e delle ore, sembravano
contraddirla, rinnegarla, anche se, grazie ai disegni
sul disco dell’orologio, ci si poteva accorgere usando
un po’ di pazienza dei loro millimetrici spostamenti.
Specialmente per quella dei minuti, che cercava di non
farsi notare così spudoratamente come invece faceva
la sorella più alta e secca.
«Ad ogni passo di quella maledetta, un infinitesimo
deterioramento in ogni atomo di un oggetto qualsiasi
− pensava − anche ogni singola mia cellula sprecherà
quel briciolo quasi invisibile di energia, stancandola
verso un inesorabile processo d’invecchiamento».
Pareva proprio non stargli bene questa irremovibile
legge della natura. Ci sono questioni che per quanto
noi ci si possa sforzare, non c’è verso di cambiare,
nemmeno minimamente, possiamo scordarcelo. Ma
lui, no. Non aveva intenzione di rassegnarsi a questa
sconfitta senza provare almeno un tentativo.
Si alzò lentamente, prima a sedersi, poi in piedi, con
lo sguardo di sfida fisso sul marchingegno. Si avvicinò
&
Cultura&&
Riflessioni
“La persistenza
della memoria”,
Salvador Dalì (1931)
a lui puntandolo col dito indice, come solo saprebbe
fare un pazzo degenerato. Mirò una zona qualsiasi
della sua superficie ed avanzò fino a toccarla con la
punta del dito, approfittando dell’assenza di coperture che avrebbero protetto il movimento delle lancette.
Aspettò, pazientemente, mentre un briciolo di cinismo
gli storceva l’angolo della bocca, disegnando un ghigno quasi perfido ad attendere che la lancetta sbattesse
contro il dito, sicuramente più forte del meccanismo
che la faceva girare. E cosi fu.
«Ecco, e adesso?»
Certo era consapevole che quel gesto avesse del surreale. Sentiva la meccanica premere ripetutamente a
scatti contro la carne e ciò gli infondeva una profonda
soddisfazione, tanto da alleviare ogni pensiero negativo che di solito lo accompagna ai risvegli. La lancetta
si sfiancava invano con tutte le sue forze per proseguire ciò che era stato presumibilmente interrotto: lo
scorrere del tempo.
Ad un tratto si ricordò, non seppe come, che avrebbe
dovuto prendere il bus delle sedici e trentacinque che
passava puntuale ogni giorno davanti casa sua. L’orologio era fermo e immobile sulle 4 e 32 circa. «Ma
cosa stavo facendo?», pensò confuso, «Ah, sì! Ero già
vestito e pronto per andare a sbrigare delle commissioni in città che mi sono proprio assopito sul divano.
E’ un miracolo che mi sia svegliato giusto giusto per
prendere il bus. Che tempismo!», ragionò con soddisfazione, «Saranno passati poco più di due minuti da
quando ho bloccato l’orologio». E pigiò ulteriormente
col dito quasi facendo flettere la superficie del cerchio.
Indugiò ancora qualche minuto scrutando fuori dalla
finestra. «Mah… ora saranno passati almeno cinque o
addirittura sei minuti. Vorrebbe questo forse dire che
stia veramente funzionando? Che sia riuscito in qualche maniera a fermare il…t…t…tempo? Ho sempre
saputo di essere una persona speciale, ma fino a questo
punto… mi sembra un esagerazione!». Guardò ancora
fuori sulla strada. Niente. Nessun bus e per giunta non
un autoveicolo o un passante che lo disilludesse dalla
sua convinzione.
Incominciò a preoccuparsi seriamente e a sudare qualche gocciolina. «Saremo almeno al settimo o all’ottavo. E’ impossibile!». Riflettendo su quest’assurda
questione e perdendosi in qualche strana congettura,
spostò ancora lo sguardo verso la finestra. Un ingombrante lamiera blu riempì in un lampo l’intera visuale
della sua finestra, accompagnando il tutto con un rauco rombo di pistoni che saltellavano al minimo.
Liberò immediatamente la presa mortale con la quale
teneva alle strette il passare dei secondi e, infilatosi le
scarpe, cercò le chiavi ed aprì la porta in tutta fretta.
Il blu volgare dell’autobus lasciava ora spazio ad un
azzurrino sbiadito con tanto di macchiette bianche soffici, e puntini neri lontani che si rincorrevano in evoluzioni curvilinee. Spostò lo sguardo alla sua destra.
L’autobus che l’avrebbe portato in città spernacchiava
sgarbatamente dalla marmitta nella sua direzione con
un non so che di derisione, svignandosela a più non
posso.
Guardò l’orologio del campanile sopra i tetti delle case. Segnava le 4 e 36 del pomeriggio.
«Puntuale come sempre».
aprile - giugno 2010
21
&
Cultura&&
Storielle
Le tre damine,
frate Cesco
e il vescovo
PERFINO LA CARITÀ CRISTIANA PUÒ FAR NASCERE SPASSOSI EQUIVOCI
L
“Davanti a sé
si trovò tre donne.
Mezze congelate.
Che d’impressa
gli domandano
di entrare.
Mica bisognava
esser dei geni
par capì
ch’ieran
le tre tapine”
22
di
Luigi Balocchi
a cena dei frati era giunta al termine. Altro non si doveva che menar le chiappe
al calduccio di un letto. Quando a un
tratto…«Ma chi la l’è a q’l’ura chì?» Insorge un fraticello.
A quell’ora e con quel tempo! Da almen due dì seguitava a nevicare. Sulla piana nostra vasta. Che, se mai
aspra pe’ l’intarsio dell’erbe e delle rogge, qualora
quarciata di neve dona agli occhi l’incanto di un’interminata levità. Allora tutto tace. Tutt al dròma. Gli
uomini arretrano il passo. Si scondono in casa. Terso
si spande un silenzio ancestrale. Per tal motivo, l’insolito, insistente, gracchiare del campanello non poteva che stupire i frati di quel convento sperso nella
terra di Lomellina. Tra loro, frate Cesco fu il più lesto
a sgambettare. Par andà a duer la porta.
«Salve!..C’è bisogno di qualcosa?» Davanti a sé si
trovò tre donne. Mezze congelate. Che d’impressa gli
domandano di entrare. «Prego! Venite pure…». Farfuglia il fraticello. Or che son dentro, la vispa luce
su quei musetti, fra Cesco risente in sé, ma di molto
aumentato, lo stupore che, appena sverto l’uscio, lo
aveva incolto. No. Mica bisognava esser dei geni par
capì ch’ieran le tre tapine. Eran ben messe. E di carne
generosa. Ecumenica, direi. Tre peripatetiche. Tre damine. Tre di quelle, insomma. E vestite di gran lusso.
Qual si conviene a chi la vita se la gioca per la strada.
Fra Cesco ha ben capito. Delle tre, la più vistosa parla
piano. Una notte! Una sola notte, s’abbia la carità! Per
sfuggire al gran gelo di tormenta che fuori impazza.
E star lì. Al caldo. In una stanzetta. Del convento. Fra
Cesco concede. Ma quella notte, l’insolita presenza
di tre damine sotto il tetto, per anni ricetto di uomini
I L VA G L I O
Espressioni
dialettali lomelline
di
Emanuela Cotta Ramusino
In vernacolo si usa molto il paragone, riferito, in
prevalenza, alle precipue caratteristiche degli animali e delle cose semplici della natura:
• L’è biänc mé ‘l lat.
• L’è biänc mé ‘n linsö.
• L’è négar mé ‘l carbón.
• L’è négar mé la nòt.
• L’è giald mé ‘n limón.
• L’è russ mé ‘n pivrón.
• L’è vérd mé na lüsérta.
• L’è vérd mé na föia.
• L’è vérd mé i mé sacocc.
• Ghè scür mé ‘n buca ‘l lù
• L’è bèl mé ‘l su
• L’è brüt mé la nòt
• L’è bón mé ‘n tòc ad pän
• L’è gràm mé ‘l rüd
• L’è grass mé ‘n frà
• L’è màgar mé n’anciüda
• L’è fort mé ‘n tòr
• L’è fiàc mé na räna
• L’è malà mé ‘l rüd
• L’è säc mé j armél
• L’è gränd mé ‘l mar
• L’è gränd mé na pértia
• L’è duls mé la mé
• L’è màr mé ‘l tòsi
• L’è màr mé la fé
• L’è dür mé ‘l mür
• L’è mòl mé ‘n fic
• L’è fräsc mé na rösa
• L’è fürb mé ‘n ràt
• L’è fürb mé ‘n gàt
• L’è stüpid mé n’ oca
• L’è gnuränt mé na cràva
• L’è svèlt mé na légura
• L’è nuiùs mé na musca
• L’è sincér mé l’àcua
• L’è fals mé Giüda
• L’è siùr mé ‘l màr
• L’è lòng mé la quarésma
con il frullo della santità, non lo fece granché quietare. Le tre donne, ogni sera, timbravano il cartellino
sullo stradone. Sempre lì. Lo stesso posto. Tutte insieme. Una sorta di cooperativa autogestita di servizi.
Tra loro c’era chi pensava al grappino per la notte, chi
alla legna nel bidone da brusà, chi alla macchina che
portava sul luogo d’esercizio. Tutto regolato. Tutto
calcolato. Si arrivava. Si praticava. As’turnava a cà.
Abituate alla sveltezza, le donne lasciarono il convento appena l’alba. Fu fra Cesco in persona a svigiài. Ma
qualcuno aveva visto. Qualcun di fuori. Malalingua
di paese. E in breve, per la plaga tutta intorno, d’altro
non s’ebbe a parlare…
Si sa…Sesso e Religione son fratelli. Di padre e madre separati. Da una parte c’è l’Istinto, dall’altra la
Morale. In mezzo, la morbosa curiosità.
Sta di fatto che sto pisspiss di voci e vocette non tardò
a giungere all’orecchio del vescovo diocesano. Era
costui tra quei teologi infelici che spesso si rincagniscono sui mali e sui difetti, con quel gusto assai bizzarro di voler a tutti i costi raddoppiare il peso della
croce sulle nostre malmesse spalle ed anzi spendendo
ovunque il fardello del peccato.
Si dà il caso che, passato qualche mese dal fattaccio,
giusto il vescovo dovesse visitar il convento dei fraticelli. Andar per il quale era d’obbligo passar sullo
stradone, transitar là dove le damine s’apprestavano al
mestiere. A fra Cesco fu dato il compito d’andà a pià il
vescovo. Di ciò ne fu lieto. Assai meno allorquando,
dovendo tornare al convento con l’illustre passeggero, lo stradone risalì il declivio di un dosso, un alto
gonfiore d’erba e gera, sul quale un largo spiazzo vedeva da tempo immemore sorgere un’osteria, posta a
sentinella di tre strade. A tutta birra, fra Cesco vi si sta
avvicinando. A tutta birra. Nella segreta speranza che
le damine, chissà per qual ragione quel giorno giunte
al lavoro in anticipo, non procurassero scandalo a pia
sua Eccellenza. Che bene pensò, accidenti!, di intimare al fraticello di inserir la marcia bassa, giacché e
calma e pacatezza son virtù da coltivare assai. Fra Cesco stortocollo obbedì. Si votò al silenzio. Sebben gli
occhi ci vedessero molto bene. Così, ahimè, da schiarirle alla perfezione le tre damine. Sì. Giusto quelle
ospitate in convento nella notte di tormenta! Eran lì.
Ad attendere.
Dapprima ritte sul dosso, non appena apparsa l’auto,
si fecero vicinissime alla strada. E una volta riconosciuto il fraticello alla guida, mulinarono e gambe e
braccia in vistosa contentezza.
Costretto a passo d’uomo dal vispo calore delle nostre
graziose che avevano invaso la strada, fra Cesco, russ
mé ‘n pivrón, sorride e suda, suda e sorride. La mano
abbozza un saluto. Benedice. Fa ciao. Fa segno, per
pietà!, di sparire d’impressa dallo stradone. Il vescovo, sitàa da drera, ovvio che sboffi. Miope e avanti
negli anni com’è, mica si rende conto che le damine
hanno invaso la strada tutte in broda per il gentile fraticello. E sì che ha certo inteso la loro professione.
Così da sbottar fuori tra l’iroso e il malmostoso: «Ma
insomma, queste prostitute, con chi ce l’hanno? Chi
mai stanno salutando?..»
Ed è allora che la Grazia, colei che tutto puote e mai
prevale, d’un tratto t’illumina appieno fra Cesco. Con
un colpo di genio invero raro…
«…Ma come, Eccellenza, non l’ha capito? Salutan
lei! Salutano il loro amato vescovo!»
aprile - giugno 2010
“La tentazione
di Sant’Antonio”,
Salvador Dalì (1946)
“Dapprima ritte
sul dosso,
non appena
apparsa l’auto,
si fecero vicinissime
alla strada. E una
volta riconosciuto
il fraticello alla
guida, mulinarono
e gambe e braccia
in contentezza”
23
&
Cultura&&
Tivù
Allegria,
signor Mike!
M
La favola di Mike
Bongiorno inizia
a New York, passa
per Torino,
per la Resistenza,
per il carcere
di San Vittore,
ma specialmente
per le case
e per la vita
di tutti gli italiani
24
LE DUE STORIE CHE LEGANO IL RE DEL QUIZ ALLA LOMELLINA
di
Sandro Passi
ike Bongiorno (1924 - 2009) è stato l’ospite d’onore di uno dei più
grandi eventi mondani della Mortara dell’altro secolo, nel 1975, ed
è il protagonista di un libro a lui
dedicato scritto dal lomellino Giorgio Lazzarini nel
2001. Due storie di “mister allegria”, due storie targate Mortara
Partiamo con il libro e spieghiamo chi è l’autore.
Giorgio Lazzarini (1943 - 2002), abitava (anche,
quando il lavoro non lo portava in giro per il mondo) in una cascina appena fuori Mortara in direzione
Castello d’Agogna, è stato giornalista nei più famosi
settimanali italiani (Oggi, Gente, Sorrisi, Noi). Negli
ultimi anni era l’inviato speciale di Chi. Ha realizzato reportage internazionali e incontrato personaggi
della scena mondiale, tra i quali Gorbaciov e Arafat.
Specializzato sulle famiglie reali europee e su Mike.
Ha ricoperto il ruolo di “signor no” nell’edizione di
Superflash dell’84/85. Nel 2001 pubblica la biografia
non autorizzata “Il signor Mike – Un’intervista durata 25 anni” per la casa editrice Frontiera. “Biografia
non autorizzata” in gergo non significa una cosa fuori
legge, Bongiorno ne era perfettamente a conoscenza e
gradiva, solo che non aveva firmato qualcosa del tipo
“ti ho chiesto io di farla”, in funzione probabilmente
del fatto che dopo poco ne ha scritta una lui stesso, su
se stesso, per Mondadori.
La favola (dolce-amara) di Michael Nicholas Bongiorno inizia a New York, passa per Torino, per la
Resistenza italiana, per il carcere di San Vittore, ma
specialmente passa per le case e per la vita di tutti gli
italiani e nessuno meglio del suo amico Giorgio Lazzarini poteva raccontarla.
Il libro venne presentato anche nella città dell’autore,
a Mortara, alla libreria Mirella, il 6 maggio del 2001.
Giorgio Lazzarini fino alla fine dei suoi giorni, quando un male che non perdona se lo portò via, mantenne un contatto con Mortara facendo ogni mercoledì
mattina il collegamento telefonico dalla redazione di
“Chi” con la radio locale (radio RTM Mortara) per
I L VA G L I O
La copertina del libro di Giorgio Lazzarini
dare le anticipazioni di quello che aveva in pagina il
settimanale in quel determinato numero. Un lusso per
una piccola radio di provincia, una cosa che succede
solo nei grossi network, un regalo di un amico legato
comunque alla sua terra.
Adesso lo spettacolo e il suo grande protagonista.
Sagra del Salame d’Oca 1975, edizione numero nove, trentacinque anni fa. Sicuramente il nome di Mike
Bongiorno tra i tanti ospiti passati per il Settembre
mortarese è stato quello più vip e certamente quello fu
l’evento più chic tra gli appuntamenti nei vari cartelloni in oltre quarant’anni di Sagra. Era domenica 28
settembre 1975, ore 22, in chiusura della nona Sagra
del Salme d’oca “sfilata di alta moda della Pellicceria
Annabella di Pavia allo Spazio dei Fratelli Bottazzi.
Conduce Mike Bongiorno”. Il negozio dei Bottazzi
era un nuovo, avveniristico, mobilificio appena aperto
all’angolo tra contrada di Loreto e via Ciro Pollini.
Per lanciare l’attività, i Bottazzi hanno pensato in
grande puntando su una serata che mai prima si era
vista e mai poi fu eguagliata. L’ingresso era gratuito,
ma per poter assistere alla sfilata bisognava andare
in negozio (molti giorni prima) e richiedere gli inviti
numerati e nominali. Prevedibile il tutto esaurito nel
giro di una manciata di ore. Una platea con tutta la
Mortara che contava, soddisfattissima di essere protagonista in una cerchia comunque ristretta, e i mobilieri che avevano fatto centro con il loro grande evento
pubblicitario. C’era Giuliano Ravizza in persona, le
pellicce (e le modelle), c’era Mike adorato dal pubblico, come sempre d’altronde. Quella sera, quando
cenò al ristorante Bottala, prima dello spettacolo,
Mike teneva sul tavolo un pacco di cartoline con la
sua fotografia. Una piccola processione di fan entrava
timidamente nel locale, i Baletti (il “signor” Siro e la
“signora” Lidia, come li chiamavano tutti, gli storici
titolari dell’albergo) permettevano loro, specialmente
ai bambini, di avvicinarsi al privé. Lui autografava col
pennarello nero la foto e ci scriveva sopra la sua solita
frase: «Allegria!».
Uno di quei bambini oggi ha scritto questo pezzo.
Mike Bongiorno
a Mortara
con Giuliano Ravizza
e i fratelli Bottazzi
La prima pagina della Domenica del Corriere
del 21 ottobre 1956
aprile - giugno 2010
In occasione
della nona
Sagra del Salame
d’Oca, trentacinque
anni fa,
“mister allegria”
raggiunse Mortara
in qualità
di ospite d’onore.
Tutta la città
partecipò all’evento
25
XLIV Premio
Nazionale di Poesia
“Città di Mortara”
REGOLAMENTO
1
I poeti partecipanti dovranno inviare due poesie, ognuna che non superi i 50 versi, in 4 copie dattiloscritte.
2
Al premio non sono ammessi i vincitori dei primi premi delle ultime tre edizioni.
3
Tutte le opere dovranno indicare le generalità degli autori, eventuali email e dovranno essere inviate entro il 5 luglio
2010 a:
Circolo Culturale Lomellino
Via XX Settembre 70, 27036 MORTARA (PV) - Tel/Fax 0384 91249 allegando Euro 10,00 per spese di Segreteria.
4
Il Premio si articola in 3 sezioni:
Poesia a tema libero Primo classificato Euro 500,00 e scultura d’autore
Secondo classificato € 250,00 e medaglia d’oro
Terzo classificato € 150,00 e targa
Poesia in Vernacolo Lomellino Primo classificato Euro 300,00 e Medaglia d’oro
Secondo e terzo classificato: Targa
Poesia sulla Lomellina Premio Giancarlo Costa Primo classificato Euro 300,00 Medaglia di conio speciale
Secondo e terzo classificato: Targa
Verranno inoltre conferiti premi speciali, consistenti in medaglie conio d’autore.
5
I premi verranno assegnati a giudizio insindacabile della Giuria, la cui composizione verrà resa nota durante la cerimonia di premiazione che avrà luogo a Mortara, venerdì 24 settembre 2010 alle ore 21, nel corso di una pubblica manifestazione, in concomitanza con la Sagra del Salame d’oca. Tutti i concorrenti sono invitati sin d’ora.
6 I vincitori sono tenuti a presenziare alla cerimonia di premiazione. I premi in denaro di ogni sezione dovranno essere
ritirati dagli interessati al momento della premiazione, pena il decadimento del diritto al premio; per quelli speciali, in casi
eccezionali, è tuttavia consentito il ritiro del premio da parte di altra persona, purchè presenti delega del vincitore.
Tutti i premi non ritirati personalmente o per delega, non verranno inviati e resteranno a disposizione del Circolo Culturale.
7 L’invito alla premiazione non dà diritto al rimborso delle spese di viaggio, soggiorno, eccetera
8 Il Circolo Culturale Lomellino avviserà per tempo i premiati, personalmente o con lettera raccomandata, comunicando
il luogo dove si terrà la manifestazione; dell’esito del concorso sarà comunque data notizia alla stampa e sul nostro
sito:
www.circoloculturalelomellino.it
9 Ogni autore risponde dell’autenticità dei lavori presentati. L’organizzazione non assume responsabilità per eventuali
deprecabili plagi.
10 Gli elaborati non verranno restituiti e la partecipazione al concorso implica la totale accettazione del presente regolamento.
11 Eventuali modifiche del presente regolamento potranno essere attuate dall’organizzazione in relazione a situazioni
contingenti
12
Sarà escluso dal concorso chi non osserverà le norme sopra riportate.
I dati personali trattati sono tutelati nel rispetto delle leggi vigenti in materia di privacy
CARICATURE E RITRATTI DI DON GIOVANNI ZORZOLI
TRIMESTRALE
DEL CIRCOLO CULTURALE LOMELLINO
GIANCARLO COSTA
RIVISTA DI CULTURA, STORIA E TRADIZIONI
Anno 6 - Numero 2
Aprile - Giugno 2010
Reg. Trib. di Vigevano
n. 158/05 Reg. Vol. - n. 1/05 Reg. Periodici
Direttore responsabile
Marta Costa
Elenco speciale
Albo professionale dei Giornalisti di Milano
Coordinamento
Sandro Passi
Wolfgang Amadeus Mozart (1977)
Albert Einstein (2007)
Hanno collaborato a questo numero
Luigi Balocchi
Graziella Bazzan
Emanuela Cotta Ramusino
Umberto De Agostino
Nadia Farinelli
Maria Forni
Alessandro Marangoni
Eufemia Marchis Magliano
Simone Menicacci
Stefano Sedino
(La collaborazione è a titolo gratuito)
In copertina
don Giovanni Zorzoli
acquarello e tecnica mista su cartoncino
(2010)
Fryderyk Chopin (2007)
Autoritratto (1974)
Editore
Circolo Culturale Lomellino Giancarlo Costa
via XX Settembre, 70 - 27036 Mortara (PV)
Coordinamento editoriale
Alberto Paglino
Realizzazione grafica
& Impaginazione
PromoPavese comunicazione
by LogosMedia srl
Info: 0382.800765 - [email protected]
Stampa
La Terra Promessa
Via E.Fermi, 24
28100 Novara
INFO: 0384.91249
Gioachino Rossini (2007)
Giuseppe Verdi (2007)
AGENZIA COSTA
Studio di consulenza automobilistica
Via XX Settembre, 70 - 27036 MORTARA
Telefono e fax 0384.91249
Delegazione ACI Garlasco
Piazza Repubblica, 25/26
Telefono 0382.810053
Editoria•Public Relations•Graphic Design•Marketing•Agenzia Pubblicitaria•Organizzazione Eventi
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Vicolo del Forno, 12 - Garlasco (Pavia) • T 0382.800765 • [email protected] - www.logosmedia.it
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di barzellette - Circolo Culturale Lomellino