Calendario delle proiezioni
SESSO, BUGIE E…CHOCOLAT
22/11/2012 - Hysteria di Tanya Wexler
29/11/2012 - Cena tra amici di A. de La Patellière, M. Delaporte
06/12/2012 - Emotivi anonimi di Jean-Pierre Améris
I VOLTI DELLA LUNA
13/12/2012 - Tomboy di Céline Sciamma
18-19-20/12/2012
PREMIO INTERNAZIONALE “MAURIZIO GRANDE”
10/1/2013 - Angèle e Tony di Alix Delaporte
17/1/2013 - Young Adult di Jason Reitman
24/1/2013 - Fill the Void di Rama Burshtein
31/1/2013 - Poetry di Lee Chang-dong
STRADE DELL’EST
07/02/2013 - Almanya - La mia famiglia va in Germania
di Yasemin Samdereli
14/02/2013 - C’era una volta in Anatolia di N. Bilge Celyan
21/02/2013 - Silent Soul di Aleksei Fedorchenko
TRAINERS
28/02/2013 - Mosse Vincenti di Tom McCarthy
07/03/2013 - Detachment - Il distacco di Tony Kaye
14/03/2013 - Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau
FAMILY LIFE
21/03/2013 - Killer Joe di William Friedkin
28/03/2013 - Qualche Nuvola di Saverio Biagio
04/04/2013 - Animal Kingdom di David Michôd
11/04/2013 - Polisse di Maïwenn Le Besco
COMING SOON
18/04/2013
02/05/2013
09/05/2013
I film e le date potrebbero subire delle variazioni che
saranno comunicate durante il corso della rassegna.
45°
Anno sociale 2012-2013
45 anni
insieme
45anno
Cari soci..
45° anno di attività. Che dire di un periodo così lungo,
di un traguardo importante? Per prima cosa un grazie a
tutti i soci. A quelli “storici” che ci seguono fedelmente da
molti anni, a quelli che ci seguono “quando possono” e ai
“giovani” che da poco tempo si sono avvicinati alla nostra
attività. Un grazie anche all’intero direttivo - cambiato
e rinnovato nel corso degli anni - che con generosità ha
praticato il cammino dell’impegno, in prima persona, per
favorire la crescita della capacità critica del nostro pubblico.
Capacità critica che vede nel cinema il terreno privilegiato
di un incontro/confronto attivo, ricco ed articolato che apre
orizzonti e stimola crescita e consapevolezza. Capacità che,
lo ribadiamo, non rimane circoscritta all’arte cinematografica
ma investe compiutamente l’essere cittadini del XXII secolo.
Prima di addentrarci sul programma di quest’anno poche
parole sull’esperienza “Siracusa”. La scelta, ci pare, sia
stata condivisa dal nostro pubblico che, giustamente e
puntualmente, ha segnalato alcune criticità: la qualità
dell’audio e una sala talmente “areata” da scoraggiare ogni
tentativo di “molle rilassamento”. Su questi specifici punti
possiamo confermare che sono stati effettuati interventi
atti a garantire un maggiore confort e una migliore qualità
della visione. Il riassetto delle modalità distributive del
cinema (tema ampio e complesso) e le conseguenze, anche
strutturali, che questo determinerà nella quotidianità delle
proiezioni in sala sono molte e, sicuramente, ne vedremo
le ricadute. Per quanto ci riguarda possiamo affermare di
essere in perfetta sintonia con il soggetto che ha l’onere
della gestione del Teatro Siracusa per arrivare a questi
appuntamenti preparati e, cosa ancora più importante, ben
attrezzati. Ma l’esperienza “Siracusa” va ben oltre il problemi
tecnici. È infatti, la prima esperienza reale di gestione diretta
ed autonoma di un importantissimo spazio culturale; è
anche la prima esperienza di collaborazione tra diverse
realtà artistiche e culturali che operano in città. Anche qui ci
sentiamo di rassicurare il nostro pubblico: l’esperienza, sino
ad oggi, è feconda e efficace.
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Il Premio Internazionale Maurizio Grande (il programma sarà
disponibile a breve) verrà svolto all’interno di una più vasta
manifestazione culturale, organizzata dalla Fondazione
Horcynus Orca, che coinvolgerà molteplici discipline
artistiche (cinema, teatro, arti performative etc etc) sul tema
dei “confini”. Confini non solo geograficamente intesi ma
anche territori di interscambio di esperienze, di ibridazione
di forme e linguaggi. Confini come terreno di interessanti
sperimentazioni artistiche. Una manifestazione ricca ed
interessante che costituisce la prima reale forma di sinergia
e di collaborazione che, lo auspichiamo, offrirà nuovi e
stimolanti occasioni di incontro ai soci del circolo e alla città
tutta. E’ proprio il caso di dire, imitando un Presidente da
pochissimo rieletto “the best is yet to come” ovvero il meglio
deve ancora arrivare.
Veniamo ora alle programma proposto per l’anno
2012/2013. Come sempre la finestra sul mondo che apriamo,
grazie ai film selezionati, spazia sull’intera produzione
cinematografica disponibile sul mercato italiano e sulle più
recenti produzioni. Come ogni anno non ci faremo mancare
il genere commedia che tanto ci diverte ed affascina. Le
commedie sono si raccolte nel primo ciclo Sesso, bugie
e… chocolat ma, li troveremo anche nelle diverse sezioni
tematiche che costituiscono l’intero programma proposto.
In Sesso, bugie e… chocolat sono state raggruppate le opere
che più hanno appassionato il pubblico d’oltrealpe con una
predilezione per quelle che meglio evidenziano il carattere
fondamentale del genere: l’inclusione del nuovo nel corpo
della società. Inclusione che avviene attraverso la messa
in evidenza, ironica ed intelligente, delle contraddizioni che
si creano tra i desideri e le pulsioni dei protagonisti e le
norme che regolano la società. Un disvelamento, leggero nel
tono ma profondo nella sostanza, capace di far ridere nello
momento stesso in cui evidenzia i problemi da risolvere.
Lo vedremo nella Londra vittoriana di Hysteria e nella
contemporaneità di Cena tra amici e Emotivi anonimi. Un
confine tra volontà e realtà caratterizzato dalla leggerezza
del tocco.
Con I volti della luna ci soffermeremo su uno dei terreni
più prolifici ed interessanti dell’ultimi anni: la condizione
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femminile e i temi della reale parità di diritti tra i sessi.
Spazieremo nel tempo, nello spazio geografico ma anche
nella particolarità degli sguardi che daranno forma ai
diversi mondi rappresentati. Inizieremo con una delicata
storia adolescenziale della regista Céline Sciamma per
finire con la maturità della protagonista dell’opera di Lee
Chang-dong, spostandoci dall’Europa all’Asia attraverso
la realtà americana. Tomboy ci racconterà una delicata
storia adolescenziale in cui la scoperta della sessualità
implicherà una più complessa azione di consapevolezza
del proprio corpo e delle proprie aspettative; il tutto con lo
sguardo innocente e trasparente dalle giovane protagonista.
Angèle e Tony affronterà i temi della condizione femminile
nell’europa contemporanea: l’ingannevole parità raggiunta
e i problemi del sua reale praticabilità. In Young Adult
sarà la realtà americana ad evidenziare uno stato delle
cose complesso quanto contraddittorio; lo iato tra una
condizione di apparente appagamento sociale ed economico
e la sottostante insoddisfazione della protagonista sempre
in bilico tra l’essere e l’apparire. Fill the Void ci condurrà
all’interno di una comunità israeliana ortodossa. Il film,
acclamato dalla critica a Venezia, si segnala per la coerenza
con la quale l’autrice cerca di “gettare un ponte” tra i luoghi
chiusi delle storie familiari e la necessita, della stessa autrice,
di aprirsi ad una necessaria opera di reciproca comprensione
ed interrelazione. Nessuna tesi precostituita da mostrare,
piuttosto il coraggio di aprirsi mostrando, con sincerità
e in assoluta buona fede, la complessità di una specifica
situazione che, a ben guardare mostra le contraddizioni che
accomunano ogni e qualsiasi forma di aggregazione sociale.
Concluderà il ciclo Poetry. La scoperta dell’arte, della poesia
e della bellezza quale risorsa vivificante - potente quanto
illimitata - a cui ricorrere per un ritrovato equilibrio con il
mondo e con se stessi.
Con Strade dell’Est rivivremo l’esperienza del viaggio
quale esperienza fondamentale della condizione umana.
Viaggio alla scoperta dei territori geografici ma anche di
spazi interiori e psicologici. C’era una volta in Anatolia e
Silent Souls ci prenderanno per mano in una esplorazione
di luoghi e di sentimenti, tipici dalle civiltà dell’est: l’Anatolia
e le terre russe disveleranno, magistralmente, i sentimenti
dei protagonisti profondamente intrisi della cultura natia.
Almanya ci mostrerà, con grande leggiadria ed ironia, il
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viaggio a ritroso verso la propria patria e le proprie radici:
L’ineludibile necessità di un tempo per la riflessione, per un
bilancio del proprio attraversare il mondo.
Trainers, ovvero il nuovo termine con il quale si
designano gli antichi precettori, i formatori, i maestri, i
professori. Come sfuggire alla tentazione di soffermarci
su questa particolare “etichetta” tanto in uso nella nostra
contemporaneità nazionale. Mosse Vincenti ci introdurrà,
in maniera scanzonata ed irriverente, nel mondo di chi, per
mestiere, pratica la formazione; della pluralità di fini che
una tale missione implica e, molte volte, cela e nasconde.
Proprio di questa complessità di fini e di atteggiamenti
ci racconteranno, con tono più serio e partecipato,
Detachment e Monsieur Lazhard. Esperienze coinvolgenti.
Di quelle che lasciano il segno in entrambi i protagonisti
della formazione: docenti e discenti.
Family Life. Le condizioni della famiglia d’oggi. Dall’Italia
all’Australia per scoprire quanta violenza si esprime nel
nucleo primario,nella cellula, costitutiva di tutte le forme
sociali. Una violenza che, nostro malgrado, avvicina mondi
lontanissimi uniformandoli ed assoggettandoli a regole
primordiali quanto pervasive . Killer Joe, in maniera ironica
e ammiccando alla rilettura di alcuni generi cinematografici,
sarà la prima tappa di questa esplorazione. Qualche nuvola,
sarà la tappa italiana di avvicinamento - in tutti i sensi verso le condizioni raccontate in Animal Kingdom dove
non solo il contesto familiare e l’intera situazione sociale
(quella australiana) rievoca e richiama alla mente i territori,
a noi così prossimi, di San Luca e Plati.
Coming Soon sarà, come sempre, lo spazio per recuperare
quello che - come Cesare deve Morire (presentato nello
scorso anno) - non trova spazio nelle nostre sale cittadine.
Dunque una sorpresa.
A presto a tutti
Claudio Scarpelli
Presidente Circolo Chaplin
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22 novembre 2012
Sesso, bugie e…chocolat
Hysteria
Regia: Tanya Wexler;. Sceneggiatura: Jonah Lisa Dyer;
Produttore: Informant Media, Beachfront Films; Fotografia:
Jon Gregory ; Montaggio: Dana E. Glauberman; Scenografia:
Sophie Becher; Interpreti;Maggie Gyllenhaal, Hugh Dancy,
Jonathan Pryce, Rupert Everett, Ashley Jensen. Durata:
durata 100 min. - Gran Bretagna, Francia, Germania 2011
In piena epoca vittoriana, un medico (Hugh Dancy) e un suo
amico (Rupert Everett) si propongono di porre fine a quella
che considerano una vera tragedia, l’isterismo femminile
che, di punto in bianco, cambia l’umore delle donne con cui
hanno a che fare, rendendole piene di rabbia, nevrotiche e
spesso anche depresse senza alcuna ragione.
La repressione sessuale sta alla commedia inglese come le
corna a quella all’italiana.
Hysteria”, divertente commedia della regista statunitense
Tanya Wexler, debutta, per la prima volta, nelle sale
cinematografiche italiane dopo la partecipazione alla 6ª
edizione del Festival Internazionale del Film di Roma tra i
titoli in concorso. Dedicato all’invenzione del vibratore,
strumento nato come strumento terapeutico per la cura
dell’isteria negli ultimi anni dell’Ottocento, il film ha
impiegato ben 7 anni per venire alla luce a causa della
difficoltà nel reperire produttori e distributori disposti a
partecipare al progetto .
Tanya Wexler può ritenersi soddisfatta del risultato
ottenuto: “Hysteria” si presenta al grande pubblico come
una divertente e ironica commedia dai toni rosa, in grado
di far ridere e sorridere il pubblico senza scadere nell’ovvio
e nella volgarità che potrebbe portare alla mente un tema
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che, a oltre un secolo di distanza dall’epoca vittoriana in cui
è stato inventato l’oggetto della miracolosa cura, è ancora
ritenuto scabroso dai più, un vero e proprio tabù del quale si
fa fatica a parlare in pubblico come nel privato.
Dagli sguardi stupiti e sconvolti dei due medici professionisti
e del dandy incallito, ruolo che calza a pennello a un Everett
esilarante, all’approccio scientifico delle pazienti che si
sottopongono ai “trattamenti” per curare una malattia che,
in molti casi, non è altro che una maschera del rapporto
freddo e distaccato tra consorti – niente di nuovo ieri come
oggi -, la pellicola si dipana tra l’ironia e la leggerezza che
gli si addice e la rocambolesca storia d’amore tra Dancy e
la Gyllenhaal; una relazione, quella tra i due, che oltre a
comportarsi da vera protagonista sullo sfondo narrativo
della vibrante invenzione mette in luce le doti dell’attrice
di New York, capace di portare a galla tutto la grinta e il
carattere combattivo della sua Charlotte Dalrymple, figlia
ribelle del dottore.
Vibratore o no, Hysteria è fedele al suo tono di commedia
brillante dai risvolti romantici senza pretendere né più né
meno di quanto gli spetti. Non aspira di certo a diventare
la pellicola di rottura sul tema scottante della sessualità
come potrebbe sembrare a prima vista ma, molto più
semplicemente, vuole – e ci riesce – divertire il pubblico
concedendogli poco più di un’ora e mezza di spensierata
leggerezza che merita.
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29 novembre 2012
Sesso, bugie e…chocolat
Cena tra amici
Regia: Alexandre de La Patellière, Matthieu Delaporte;
Sceneggiatura: Matthieu Delaporte; Produttore: Chapter
2, Pathé, TF1 Films Prod; Montaggio: Célia Lafitedupont;
Musiche: Jerôme Rebotier; Costumi: Anne Schotte;
Interpreti: Patrick Bruel, Valérie Benguigui, Françoise Fabian,
Charles Berling, Guillaume De Tonquedec; Titolo originale:
Le Prénom; Durata: 109’; Nazionalità: Francia, Belgio 2012
Una casa confortevole in un quartiere elegante di Parigi.
Amici e familiari: una coppia di docenti, un musicista, un
agente immobiliare di successo che presto diventerà padre.
Una cena insieme. Potrebbe essere la solita tranquilla
serata, ma una banale domanda darà l’inizio a un catena
di discussioni e dibattimenti serrati, con conseguenze
tragicomiche inimmaginabili.
Il film è la trasposizione cinematografica di un testo teatrale
strepitoso di Bernard Murat , che porta in eredità più di 250
repliche in tutta la Francia tra il 2010 e il 2011.
Più teatro fotografato che cinema; i registi usano come
interpreti gli stessi attori che l’hanno replicata tante volte
sul palcoscenico. E sebbene non sempre cinema e teatro
facciano un buon matrimonio, bisogna pur riconoscere che
dopo averla recitata due o trecento volte, un attore conosce
bene la parte. E in un film tutto basato sulla parola il risultato
è sublime, divertente, brillante, intelligente, perfetto nei
tempi comici dai dialoghi sferzanti.
Meglio avrebbe fatto la distribuzione italiana a tradurre
letteralmente il titolo originale o, comunque, a rievocarne
la specificità. È “il nome” (le prenome, appunto), non
tanto la cena il perno attorno a cui ruota tutto il film. A
partire dai curiosi titoli di testa, in cui i cognomi di chi ha
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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collaborato alla riuscita dell’operazione sono rigorosamente
esclusi; proseguendo poi con un monologo in voceover su
quanto sono macabri i toponimi parigini. Il resto del film è
concentrato su un gruppo familiare in un interno. Vincent,
immobiliarista sulla quarantina prossimo a diventare padre
per la prima volta, rivela ai commensali il nome del bebé: un
nome tabù che sconvolge tutti. È solo l’inizio di una resa dei
conti tra amici con tanti sassolini nelle scarpe, una specie di
Carnage, ma con protagonisti con un passato di relazioni e
di non detto che finisce per prendere il centro della scena.
Altra disparità con Carnage riguarda lo sviluppo dei caratteri:
ed è proprio qui che il raffinato congegno narrativo di Cena
tra amici subisce, forse, un intoppo. Al termine del film di
Polansky infatti, quei personaggi educati, cortesi, ben vestiti
e ben pettinati gettano la maschera, rivelando la natura
violenta, ipocrita, facilmente corruttibile di un modello di
vita asservito alla falsità delle convenzioni borghesi.
Alla fine di Cena tra amici invece, risulta arduo affermare di
sapere qualcosa di più sui protagonisti che hanno cercato
di mettersi vicendevolmente a nudo le coscienze. Pierre si
rivela un altezzoso e polemico intellettuale, tale e quale
ci era apparso sin dalla prima scena; allo stesso modo i
personaggi di Vincent, beffardo e arrogante, Babou, gentile
e frustrata dalle incomprensioni del marito, Claude, mite e
bonario e Anne, amorevole, ma determinata, non vengono
demoliti da una regia pronta a svelare ciò che si nasconde
oltre il perbenismo del vivere civile, ma, anzi, confermati nelle
loro nature, negli atteggiamenti, persino nelle reciproche
incomprensioni. E il finale, allegro ed accomodante, se
consente di uscire dal cinema con la soddisfazione di chi
vede riconciliati i torti ed appianati i contrasti, non nega un
certo rammarico nel constatare l’immobilità dei protagonisti.
Resta dunque allo spettatore la scelta della chiave di lettura
più o meno amara da dare al film: amicizia come strumento
per sopportare le meschinità della vita o per indulgere alle
proprie?
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6 dicembre 2012
Sesso, bugie e…chocolat
Emotivi anonimi
Regia: Jean-Pierre Améris Sceneggiatura:; Jean-Pierre
Améris, Philippe Blasband Produttore: Pan Européenne
Production, Studio Canal, France 3 Cinéma; Fotografia:
Gérard Simon ; Montaggio: Philippe Bourgueil; Interpreti:
Benoît Poelvoorde, Isabelle Carré, Lorella Cravotta, Lise
Lamétrie, Swann Arlaud, Pierre Niney,Stéphan Wojtowicz,
Jacques Boudet, Alice Pol, Céline Duhamel Durata: 80’;
Nazionalità: Francia, Belgio 2010
Jean-René, direttore di una fabbrica di cioccolato e Angélique,
cioccolataia di gran talento, sono due persone molto timide.
E’ la loro passione per il cioccolato che li accomuna. La loro
timidezza tende a tenerli lontani. Ma a poco a poco le cose
cambieranno
La commedia sentimentale scritta e diretta da Jean-Pierre
Améris ha conquistato il pubblico francese, con oltre un
milione di spettatori in patria Natale 2011). I protagonisti
di Emotivi Anonimi sono due degli attori più popolari del
cinema francese, Benoît Poelvoorde e Isabelle Carré, che in
questi ultimi anni si sono affermati anche in Italia grazie
ad una serie di film molto apprezzati dal pubblico nostrano.
Ancora una volta Poelvoorde si conferma mattatore della
commedia francese, grazie ad una comicità travolgente,
che non si ferma alla battuta, ma si sprigiona anche dalla
gestualità e dalla mimica facciale. La Carré, che interpreta
un personaggio candido, innocente e ingenuo, si cala
perfettamente nella parte della timida incallita, ancora poco
abituata a gestire il rossore delle gote. Il regista gioca sulla
tensione comica generata dall’ipertimidezza, che può creare
delle situazioni assurde, lì per lì tragiche per la persona
timida, ma, viste dall’esterno estremamente, comiche.
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Améris ha dichiarato che, tra i suoi film, Emotivi Anonimi è
sicuramente il più personale e autobiografico: “Ho sempre
saputo che un giorno avrei raccontato una storia sulla mia
iper-emotività, sul panico che talvolta mi prende fin da
quando ero piccolo”. Una godibilissima commedia romantica,
che scatena la risata al momento giusto, ed incentrata sulla
timidezza, vista come limite comico, che può essere superato,
aprendosi alle emozioni senza avere paura di mostrarsi per
quello che si è.
Un film che celebra la timidezza, l’emotività’ come il
piu’ genuino dei sentimenti, così come puri, demodé e
irresistibilmente teneri risultano i due fantastici protagonisti,
che hanno il volto interessante, comico e buffo di Benoit
Poelvoorde e ancora bello, etereo e rasserenante di Isabelle
Carré, mai cosi’ convincente. L’emotività’ e’ tra l’altro un
sentimento sempre più’ dimenticato e tenuto nascosto,
proprio oggi che per stare a galla tra i flutti sempre più’
vorticosi di una società’ che non ammette tentennamenti
e indecisioni, chi solo accenna a un moto di insicurezza
e’ spacciato e sopraffatto. Proprio come i due splendidi
protagonisti.
Altro ingrediente fondamentale è costituito da quella festa
per gli occhi e per le papille gustative che è la cioccolata:
mille gusti e mille colori, che danno vita ad un’atmosfera
calda e intima, giusta per il clima pre-natalizio.
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13 dicembre 2012
I volti della Luna
Tomboy
Regia: Céline Sciamma; Sceneggiatura: Céline Sciamma;
Produttore: Bénédicte Couvreur /Hold Up Films & Productions;
Fotografia: Crystel Fournier; Montaggio: Julien Lacheray;
Musiche: Para One; Scenografia: Thomas Grézaud; Interpreti:
Zoé Héran: Laure/Michael, Jeanne Disson: Lisa, Malonn Lévana:
Jeanne, Sophie Cattani: la madre, Mathieu Demy: il padre
;Durata: 82’; Nazionalità: Francia 2011; Distribuzione italiana:
Teodora Film; FORMATO: Colore 35mm – 1.85:1 – Dolby SRD
La decenne Laure. si è recentemente trasferita in una nuova
zona di Parigi con i suoi genitori e la sua sorellina più piccola,
Jeanne. E’ estate e tutti gli altri ragazzi del vicinato giocano
all’aperto, ma Laure è sola perchè non conosce ancora nessuno
dei suoi coetanei. Un po’ per gioco Laure decide di presentarsi
ai nuovi amici come fosse un maschio, Mickaël: il modo in
cui si veste e si pettina, l’impeto con cui si azzuffa e gioca a
calcio, non sembrano lasciar dubbi sulla sua identità così
Mickaël è accettato nella comitiva. Un giorno incontra Lisa,
una ragazza che ha la sua stessa età. Laure lascia credere a
Lisa di essere un ragazzo. Col passare dei giorni la relazione tra
Laure e Lisa diventa sempre più intima, generando una serie di
complicazioni... L’inizio della scuola però è dietro l’angolo e il
gioco dei travestimenti si complica, tanto più che i genitori sono
all’oscuro di tutto ....
Laure è trattata dalla sua famiglia come una ragazza sebbene
guardandosi allo specchio ella si renda conto che il suo
aspetto non è come quello delle altre ragazze. In fondo è quel
tipo di bambina alla quale non piacerebbe truccarsi o fare
danza classica, come la sua sorellina, che è il suo opposto e si
veste sempre di rosa. Con i nuovi amici gioca a calcio, nuota
nel fiume vicino casa, parla con Lisa, la sua “ragazza”.
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La sua famiglia si presenta unita, il rapporto con il papà e
la mamma incinta è affettuoso, con la vezzosa sorellina, che
aggiunge un tocco di humour con le sue battute, c’è complicità.
Perché, allora, Laure sceglie di diventare Mickail e di partecipare
ai giochi scatenati dei ragazzini, assumendosi il peso di
ritoccare il proprio corpo e la propria gestualità per non tradire
la sua identità femminile?
La storia di Laure non è mai scontata, facendo leva più sui
silenzi che sulle parole, ha un finale aperto che rispetta la
capacità degli spettatori di immaginarsi un seguito e di
decidere se l’inganno di Laure sia il prodromo di una futura
omosessualità o la sperimentazione tipica dell’età in cui è
ancora lecito giocare a «fare finta». In definitiva spetta a noi
decidere se quell’estate sarà solo una parentesi nella vita della
bambina oppure se ne segnerà il futuro. Céline Sciamma, alla
seconda regia, si ripresenta, (dopo Water Lilies/ Naissance des
pieuvres,), tornando ad affrontare le tematiche della scoperta
della sessualità spostando l’attenzione dalla fase adolescenziale
a quella preadolescenziale. Sciamma osserva il microcosmo dei
bambini con tenerezza e acume ma senza facili semplificazioni.
Maschi e femmine in formazione non sono quegli esseri
asessuati che gli adulti vorrebbero che fossero. Natura e società
impongono le loro leggi e i loro modelli con cui confrontarsi e
scontrarsi. Così Laure, mentre decide di trasgredire facendosi
passare per maschio, finisce inconsciamente per aderire a quelle
che ritiene debbano essere necessariamente le caratteristiche
dell’altro sesso. Céline Sciamma nulla spiega e ci immerge
invece nel cuore di un contraddittorio universo infantile dove
fra incosciente spensieratezza e inquiete pulsioni la sessualità
assume confini ambigui lasciando lo spettatore con domande
più ampie intorno alla definizione della sessualità propria di
ogni individuo. La regista si rivela una naturale erede del cinema
fenomenologico della Nouvelle-Vague, con i personaggi colti
nel loro manifestarsi e raccontati attraverso il loro agire: non
c’è giudizio! L’innocenza dei bambini che crescono con tanti
dubbi e incertezze, soprattutto sulla loro identità sessuale, viene
restituita nella sua intatta freschezza senza interpretazioni o
psicologismi. Céline Sciamma ha realizzato Tomboy (come dire
“ragazzo mancato”) con un minimo di mezzi: una telecamera
Canon 5D, troupe ridotta all´osso, venti giorni di lavorazione,
cinquanta scene in due-tre ambienti. Eppure il suo piccolo
film , una parabola intelligente e affettuosa sui labili confini
dell´identità sessuale, riesce ad appassionarti come si trattasse
di un “suspenser”.
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10 gennaio 2013
I volti della Luna
Angèle e Tony
Regia: Alix Delaporte; Sceneggiatura: Alix Delaporte;
Produttore: Hélène Cases; Fotografia: Claire Mathon;
Montaggio: Louise Decelle; Musiche: Mathieu Maestracci;
Interpreti: Clotilde Hesme, Grégory Gadebois, Evelyne Didi,
Jérôme Huguet, Antoine Couleau; Durata: 85’; Nazionalità:
Francia 2010
Angèle è una ragazza allo sbando appena uscita di prigione
perché ritenuta responsabile della morte del marito; suo
figlio è affidato dal tribunale ai nonni paterni e la tratta con
distacco. Per riaverne l’affidamento cerca un contratto di
lavoro e un uomo da sposare se la prima non è cosa facile
la seconda risulta ancora più complessa e soprattutto
lenta, decide di ricorrere ad un annuncio sul giornale. A
rispondere è Tony, un pescatore abituato al lavoro duro e alla
vita solitaria che porta in cuore il dolore per la scomparsa
in mare del padre. Al primo incontro i due non riescono a
entrare in sintonia ma la posta in gioco per Angèle è troppo
alta e continua ad insidiare Tony, e lentamente le due anime
solitarie iniziano ad entrare in contatto a comprendersi e,
forse, amarsi.
Alix Delaporte esordisce dietro la macchina da presa con
una scommessa infatti il film sulla carta rischia di chiudersi
in se stesso dentro la tristezza e la povertà dei protagonisti.
Si parte invece da uno spunto autobiografico, la Delaporte
da bambina passava le sue vacanze in Normandia dove
poteva osservare i pescatori al lavoro ed in giro per la
città. Un fotogramma indelebile nella mente e forse nel
cuore della regista di un mondo diverso, duro che ti mette
sempre in gioco che ha altri tempi e modi rispetto a quello
delle città, conosciuto solo da chi lo vive giorno per giorno
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su una barca con la consapevolezza che il mare è generoso
ma chiede sacrificio in cambio anche il più estremo. L’ occhio
della regista rimane comunque oggettivo, i suoi movimenti
di macchina minimi, necessari e sufficienti: tanto sono i suoi
protagonisti che vivono di luce propria, e hanno abbastanza
sfumature da far vibrare da soli il film. La semplicità registica
con la quale la Delaporte riprende i suoi attori è spiazzante,
soprattutto dal momento in cui ad una tale essenzialità
corrisponde una sensibilità trapelante ad ogni inquadratura
- dovuta, chissà, ad un talento naturale o a fortuita ingenuità
della tropue. La macchina da presa compie movimenti minimi:
non cerca forzatamente la drammaticità, si limita a mostrare
il tutto con occhio oggettivo. Lo strano rapporto amoroso
fra Angéle e Tony riflette il tormento interiore di persone che
combattono contro la solitudine, bisognose di qualcuno in cui
rifugiarsi e che per questo sono pronte a darsi e a innamorarsi
istantaneamente. Angèle corre sulla sua bicicletta, metafora
di una fatica di vivere; Tony è in mare, su un altro pianeta
che lo plasma conferendogli un profondità tale che lo porta
a respingere le immediate provocazioni sessuali della donna:
vorrà il suo corpo solo quando potrà avere anche la sua mente.
Più che i dialoghi, le stasi, le movenze, la semplice presenza dei
personaggi creano sentimentalmente la storia; le situazioni
in cui si trova Angèle (la colazione, il lavoro con la madre di
Tony o la corsa in moto con il fratello, gli incontri con il figlio)
raccontano con una naturalezza estrema i tanti sottotesti
non sempre esplicitamente dichiarati. Nel buio gradualmente
illuminato dei due protagonisti, la comparsa di Anabel (Lola
Dueñas, attrice feticcio di Pedro Almodóvar) è come un raggio
di sole per la sua convenzionale normalità, una normalità a cui
aspira anche la coppia. Delaporte debutta ammirevolmente
dietro la macchina da presa, con un film piccolo e senza
pretese ma che rivela una profondità e una sensibilità che
presagiscono ottimi risvolti futuri. Ma è ovviamente la
splendida Clotilde Hesme (Les amants réguliers) ad avere la
parte più forte. Forse perché aveva già collaborato in passato
con la regista, che ha scritto il ruolo di Angèle pensando a lei,
o forse semplicemente perché è ogni volta più brava, ci regala
un’interpretazione magnifica. La sua iniziale schiettezza, che
nasconde la fragilità di un’anima ferita che però non vuole
arrendersi, conquista man mano che il film prosegue. Perché
il pubblico partecipa alla sua lotta. La lotta di una donna che
sa che questa è l’ultima possibilità per vivere. Ora o mai più.
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17 gennaio 2013
I volti della Luna
Young Adult
Regia: Jason Reitman; Sceneggiatura: Diablo Cody; Produttore:
Denver and Delilah Productions, Indian Paintbrush, Mandate
Pictures; Fotografia: Eric Steelberg Andrew Dunn; Montaggio:
Dana E. Glauberman; Scenografia: Roshelle Berliner; Interpreti:
Charlize Theron, Patrick Wilson, J.K. Simmons, Elizabeth Reaser,
Patton Oswalt, Emily Meade, Collette Wolfe, Louisa Krause
Durata: 94’; Nazionalità: USA 2012
Mavis Gary è una bellissima trentasettenne, scrittrice della
famosa collana Waverly Prep appartenente alla categoria
Young Adult, di cui si appresta a pubblicare l’ultimo capitolo. La
vita di Mavis non è però perfetta come sembrerebbe apparire:
la donna non è soddisfatta del suo lavoro, in cui sente di non
avere alcuna identità autoriale, e conduce un’esistenza molto
travagliata, segnata da una dipendenza dall’alcool. Una
mattina riceve una e-mail con allegata la foto del figlio dal suo
ex ragazzo del liceo, Buddy Slade, e di sua moglie Beth. La donna
interpreta l’accaduto come un segno e decide di ritornare nel
suo paese di nascita, Mercury, in Minnesota,
Il cinema americano, anche nelle sue forme più raffinate
o in quelle più indipendenti che godono di maggiore
libertà creativa, propone spesso dei percorsi di crescita
dei personaggi che sfociano nella redenzione. La
sceneggiatrice Diablo Cody, riprendendo il sodalizio con il
regista Jason Reitman dopo lo straordinario e inaspettato
successo commerciale di Juno (2007), in Young Adult
decide invece di seguire, con audacia e intelligenza, una
direzione decisamente differente.
Il risultato è Young adult termine con il quale il marketing
di prodotti culturali identifica quel pubblico che ruota
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
18
intorno ai 18 anni (in un lasso dai 14 ai 21 circa) ma
anche, non incidentalmente, l’ossimoro del titolo che ben
identifica il personaggio di Mavis Gary: bella, indipendente,
di successo.
Una wonderwoman moderna. Una femmina alfa. Peccato
che sia solo facciata, apparenza, immagine. Su questo
luccicante altare emergono crepe. La regia di Jason
Reitman le illustra con tecnica misurata e minimalista,
sempre al servizio dell’azione all’insegna della tradizione
più classica. Fino al paradigmatico finale. Mavis è figlia
del post-femminismo, dell’esperimento drogato del self
made woman, del mito dell’emancipazione affettiva e
professionale.
Il suo psicodramma, non risolto, forse insolubile, è quello di
chi non può più essere quel che vuole (il tempo è passato)
e non sa diventare ciò che deve. Né Young né Adult, ibrida
nella terra di mezzo. Ma é davvero così semplice, nella
vita di tutti i giorni, imparare dagli errori o analizzare
il nostro vissuto per poi cambiare e, di conseguenza,
modificare i nostri comportamenti? Il film sembra avere
le idee chiare a riguardo e la risposta non è quella che ci si
potrebbe facilmente aspettare da un film hollywoodiano.
La confessione è delle più amare e coraggiose tra quelle
portate al cinema negli ultimi anni. Facile scorgere dietro
questo atroce ritratto di signora la stessa sceneggiatrice,
Diablo Cody, ma anche il coinvolgimento della Theron strepitosa e respingente oltre misura - appare sospetto.
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24 gennaio 2013
I volti della Luna
Fill the Void
Regia: Rama Burshtein; Sceneggiatura: Rama Burshtein;
Produttore: Assaf Amir; Fotografia: Asaf Sudri; Montaggio:
Sharon Elovic ; Musiche: Yitzhak Azulay ; Scenografia:
Roshelle Berliner; Interpreti: Hila Feldman, Razia israeliano,
Yiftach Klein, Renana Raz , Ido Samuel ; Durata: 90 min. Israele 2012
Tel Aviv. Shira è promessa sposa ad un giovane della sua stessa
età e della stessa estrazione sociale. Durante la festività del
Purim, la sorella maggiore Esther, muore di parto mettendo
al mondo il suo primogenito. Quando la suocera scopre che
Yochay potrebbe lasciare il paese con il suo unico nipote,
propone un’unione tra Shira e il vedovo. Shira dovrà dunque
scegliere se ascoltare il suo cuore o seguire la volontà della
famiglia…
Shira ha 18 anni e non vede l’ora di sposarsi. Spia nel reparto
latticini del supermercato il promesso sposo, poi guarda
sua madre con un sorriso soddisfatto: il ragazzo le piace,
le trattative per il matrimonio possono continuare. Con
questa scena si apre Fill the Void di Rama Burshtein, unico
film israeliano in concorso alla Mostra del cinema di Venezia
2012. E si apre così allo spettatore il mondo della comunità
ebrea ultraortodossa degli Hassidim. Un mondo chiusissimo,
avverso a qualsiasi forma di modernità, niente tv e niente
cinema. Dall’aspetto riconoscibilissimo, gli uomini vestono
in abiti scuri, cappelli neri e boccoli, le donne copricapi e
abiti castigatissimi. Non hanno quasi contatti con l’esterno
e seguono rigidi precetti. Quasi nessuno, prima di oggi,
era riuscito a raccontare la vita degli Hassidim. A farlo in
questo film che è una delle sorprese del Festival, è la regista
newyorkese Rama Burshtein, che fa parte della comunità.
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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«Sentivo che la comunità ultraortodossa, che fa sentire la
propria voce con forza sul piano politico, è praticamente muta
su quello culturale», racconta la regista. «Fill the Void apre una
piccola finestra su una realtà molto speciale e complessa. Forse
può costruire un ponte tra noi e “gli altri”». Da questa piccola
finestra, si osserva la storia di Shira, interpretata dalla giovane
e talentuosa Hadas Yaron. Le sue nozze vanno a monte quando
la sorella maggiore muore dando alla luce un bambino. Shira è
indecisa se sposare o no il vedovo, se seguire la volontà della
famiglia o i propri desideri. I matrimoni ultraortodossi non
sono mai obbligati: si combinano assieme ai figli, si decide
insieme. Ma l’ultima parola spetta sempre agli sposi», spiega
Burshtein. Per chi guarda dall’esterno, le abitudini e il modo
di vivere restano comunque integraliste. Uomini e donne non
si possono sfiorare, i fidanzati si incontrano solo in casa con
la mamma dietro la porta, chi non riesce a sposarsi soffre la
vergogna e l’umiliazione. «Le donne hanno un grande ruolo:
governano la casa, lavorano, curano i figli. Sono superdonne.
Non mi sento per niente discriminata. Anzi, penso che il nostro
modo di esprimere la femminilità sia molto sexy».
Fill the Void (che, per inciso, ha come voce narrante un
membro effettivo della comunità) descrive in maniera
perfetta i riti solenni e arcaici della comunità, non prendendo
posizione ma esaltando efficacemente il contrasto tra una
realtà molto viva e politicamente ben schierata, eppure così
tremendamente ignorante in ambito culturale. La scommessa
(vinta) dell’esordiente Rama Burshtein è stata quella di
osservare e riferire allo spettatore quanto visto, seguendo uno
stile rigoroso ed equidistante e lasciandolo libero di giudicare
senza condizionamenti.
Girato tutto in interni, come un intenso melodramma da
camera, questo film d’esordio dellaBurshtein ha il merito di
fotografare concretamente la dimensione sociale ed umana
della giovane protagonista e di tutta la struttura familiare
(sia la propria che quella della nazione i generale). Lo fa con
un taglio deciso ma mai eccessivo, che vale come monito
nei confronti del mondo intero. Occorre con occhi sgombri
da pregiudizi, con la voglia di accostarsi a un prodotto ben
diretto e socialmente utilissimo.
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31 gennaio 2013
I volti della Luna
Poetry
Regia: Lee Chang-dong; Sceneggiatura: Lee Chang-dong;
Produttore: Pine House Film; Fotografia: Hyun Seok Kim;
Montaggio:Hyun Jim; Scenografia: Sihn Jeomhui; Interpreti:
Da-wit Lee, Yong-taek Kim, Jeong-hee Yoon, Yun Junghee;
Durata: 135’; Nazionalità: Corea del Sud 2010
Mija, a 66 anni, fa la badante e vive con un nipote liceale in
una piccola città di provincia sulla riva del fiume Han. Per
caso scopre l’amore per la poesia e una sensibilità da scrittore,
contemporaneamente a degli spiacevoli vuoti di memoria ed
a un episodio di violenza che la coinvolge molto da vicino.
La realtà l’aggredisce ma Mija, paradossalmente, trova nella
ricerca della bellezza gli strumenti, o gli anticorpi necessari per
affrontare l’orrore come merita.
Poetry, in originale Shi (che suona come “lei” in inglese), è
un’opera che fa sorridere, turbare, commuovere, con una mano
delicata e tremenda. Premiato a Cannes 2010 per la migliore
sceneggiatura (scritta dallo stesso regista), è imbastito con un
candore poetico trasparente che parla all’anima, ma che parla
di vita, come la poesia fa, e dell’atrocità della vita, come la vita
sa essere.
Protagonista del film è un personaggio femminile, che gli
spettatori di tutto il mondo potranno riconoscere e amare per
la sua forza e per le sue debolezze. Attraverso gli accadimenti
che segnano l’età matura di questa donna, Poetry parla delle
stagioni del corpo e dello spirito, del sesso e della memoria,
della violenza e della bellezza del mondo, e lo fa in modo
molto ispirato ma anche piuttosto diretto, riuscendo a
mostrare come la poesia (l’arte) possa essere una terapia e
come la vera poesia (arte) nasca da una sofferenza autentica.
Dove si trovi poi, e se abbia senso (nella vita), Lee Changdong
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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pare volerlo lasciar decidere al suo pubblico, attraverso
un film carico di elissi e di omissioni, di spazi bianchi - o
rossi - da riempire a piacere, secondo le proprie capacità e
la propria sensibilità. Ma quel che pare più chiaro, o più
probabile, attraverso i contrasti di cui si nutrono il film e il suo
personaggio principale, è che la chiave per una vita di poesia,
per il recupero della purezza dello sguardo, risieda nella
rinuncia a una visione del mondo e di sé fatta di negazione e
apparenze e nel recupero di dimensioni empatiche e di verità
anche quando sono scomode o dolorose.
Ma raggiungere una consapevolezza del genere non
basta, ricorre nel film anche un bisogno quasi famelico
di comunicazione, una necessità di linguaggi utili alla
condivisione, una continua sinestesia percettiva che cerca una
forma di restituzione e comunione col mondo.
Da quando la figlia ha divorziato e si è trasferita, Mija le è
legata dal solo telefonino, strumento molto presente nel film,
inoltre la donna si trova costretta a rendersi conto di non
riuscire più a penetrare il muro di incomunicabilità del nipote
adolescente. Deriva da questo disagio il tentativo vissuto
come un’impresa, di scrivere la sua prima poesia. “Credo di
avere una vena poetica: mi piacciono i fiori e dico cose strane”
, sorride al telefono parlando con la figlia lontana. Ed è al
corso di poesia poi che l’insegnante le spiega che “per scrivere
bisogna vedere”, che il foglio bianco è una sorta di “mondo di
prima della conoscenza” per capire il quale bisogna guardare
e scrivere il mondo.
La pellicola è costruita in modo circolare, con le bellissime
scene d’apertura e di chiusura dedicate alle acque, al fiume
e alla campagna che circondano la città (non una metropoli)
dove Mija vive. È quindi un’opera curata sin nei minimi dettagli,
dove tutto torna e dove nulla è mostrato a caso, sorretta da un
impianto visivo attento ma non ostico, che affronta temi non
facili ma universali e vuole essere esso stesso un linguaggio.
Purtroppo la parola non ha una grande resa visiva, soprattutto
a un occhio occidentale, e ciò che è poetico nella vita reale
non lo è automaticamente al cinema, dove il filtro della
finzione può fare apparire tanti passaggi come furbi. E’ ciò può
capitare guardando questo film, che paga anche una durata
forse eccessiva per tenere il cuore tra le nuvole, dondolando
tra cielo ed inferi.
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7 febbraio 2013
Strade dell’Est
Almanya - La mia famiglia va in Germania
Regia: Yasemin Sandereli; Soggetto: Yasemin Sandereli e
Nesrin Sandereli; Musiche: Gerd Baumann; Produzione:
Roy Film; Distribuzione: Teodora Film; Interpreti: Vedat
Erincin; Aylin Tezel; Aylin Tezel; Trystan Win Puetter; Rafael
Koussouris Durata :101’; Nazionalita’: Germania 2011
L’anziano Huseyn Ylmaz vive con la sua famiglia in Germania
da tre generazioni,dopo essersi trasferito dalla Turchia, per
motivi di lavoro, negli anni sessanta.Durante un pranzo,
comunica ai suoi familiari l’acquisto di una casa per le
vacanze in Anatolia e li invita a seguirlo per aiutarlo nei
lavori di sistemazione.Pur tra lo scetticismo generale, la
famiglia si aggreghera’ al patriarca in un viaggio che segnera’
l’occasione per tracciare un bilancio familiare degli ultimi 50
anni e per prendere coscienza degli effetti di straniamento
psicologico e culturale che l’emigrazione ha prodotto su tutti
i componenti della famiglia dai piu’ anziani ai piu’ giovani.
Nonostante le tensioni,alla fine, l’unita’ sara’ salvata.
Scintillante esordio per le sorelle Sandereli, Yasemin, la
regista e Nesrin, la sceneggiatrice,due giovani cineaste di
Dortmund, che riversano nel film la personale esperienza
della emigrazione della propria famiglia turca in Germania.
Il film, giustamente premiato al Festival di Berlino del 2011,
per la migliore sceneggiatura,si inserisce nel filone della
cosiddetta commedia sull’integrazione, genere inaugurato,
anni fa dalla pellicola “ East is East” e proseguito da
“ La sposa turca” di Fatih Hakin, che gia’ nel 2004 aveva
focalizzato l’attenzione sulla comunita’ turca di Germania.
Per inciso,rammentiamo che l’emigrazione di lavoratori
turchi verso il paese teutonico, iniziata negli anni 60,
e’ risultata di ampie proporzioni, al punto che oggi la
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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comunita’ turca ammonta a circa 1800000 unita’, ma essa
ha generato problemi di integrazione ben piu’ ardui rispetto
all’inserimento di immigrati di origine latina.Se la pellicola
di Hakin presentava un alto tasso di drammaticita’, Almanya
invece adotta due registri ora quello drammatico ora quello
divertente, inserendo nel racconto episodi di sicura comicita’
che allentano la tensione e lo rendono particolarmente
gradevole.Inoltre il meccanismo narrativo fa largo uso del
flashback con continui salti tra il passato e il presente, tra
le vicende dei piu’ anziani e quelle dei piu’ giovani e tale
taglio impresso al racconto, ben evidenzia l’evoluzione
avvenuta nel corso del tempo nei costumi e nella visione
di vita della comunita’ turca.Da notare che il congegno del
flashback e’ innescato dal racconto che la nipote di Husseyn
fa al piccolino della famiglia, raccontando l’intera storia del
trasferimento dei nonni dall’oriente all’occidente. Proprio
questo stile altalenante tra serio e comico, tra rievocazione
del passato e descrizione del presente e’ all’origine
dell’ottima accoglienza riservata dal pubblico alla pellicola.
Si pensi che il film costato quattro milioni, ha incassato nella
sola Germania 15 milioni di euro, registrando ben 2 milioni
di spettatori, a riprova che con idee intelligenti si possono
ottenere ottimi incassi pur avendo a disposizione un budget
ristretto.
I critici piu’ malevoli hanno sostenuto che Almanya altro
non e’ che una lunga sequela di consunti stereotipi sul tema
dell’emigrazione, ma in prevalenza la critica piu’ autorevole
ha riconosciuto i meriti delle sorelle Samdereli che in maniera
brillante fanno intuire allo spettatore come al di la’ dei
sacrifici e delle ristrettezze di tanti lavoratori turchi, l’effetto
piu’ doloroso della emigrazione e’ stato quello di produrre
una profonda crisi di identita’ non solo nei piu’ anziani
sradicati dalla propria patria e catapultati in una realta’
profondamente diversa, ma soprattutto nei piu’ giovani
che nati in Germania avvertono di essere estranei alla terra
dei padri, ma percepiscono anche la loro diversita’ rispetto
alla popolazione autoctona che li discrimina in ragione della
loro origine. La regista sembra volere indicare nella saldezza
della famiglia, l’ancora di salvezza per superare le difficolta’
quotidiane e trovare un equilibrio in una realta’ ostile e tale
appare essere il segreto e consolante messaggio del film.
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14 febbraio 2013
Strade dell’Est
C’era una volta in Anatolia
Regia: Nuri Bilge Ceylan; Sceneggiatura: Ebru Ceylan, Nuri
Bilge Ceylan, Ercan Kesa; Produttore: Fida Film, Zeynofilm,
Production 2006, Turkish Radio & Television (TRT), Imaj,
NBC Film, 1000 Volt; Fotografia: Gokhan Tityak; Montaggio:
Bora Goksingol; Scenografia: Dilek Yapkuoz; Interpreti:
Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel, Ahmet
Mümtaz Taylan, Firat Tanis, Ercan Kesal.; Durata: 150’;
Nazionalità: Turchia, 2011
Tre auto vagano nella notte nel cuore delle steppe
dell’Anatolia. A bordo ci sono il medico Cemal (Muhammet
Uzuner), il commissario Naci (Yilmaz Erdogan), il procuratore
Nusret (Taner Birsel), pochi poliziotti e soldati, un assassino
Kenan (Firat Tanis),e il fratello complice, accusati dell’omicidio
di un loro amico. Cercano il cadavere dell’ uomo ucciso, ma
vagano durante tutta la notte senza risultato.
I ricordi dei fratelli sono infatti annebbiati e vaghi. La ricerca
continuerà fino all’alba del giorno dopo. A metà percorso
gli uomini si fermeranno a mangiare a casa del sindaco del
villaggio, alle prime luci dell’alba le macchine riprenderanno
il loro cammino e, finalmente, dopo aver ritrovato il cadavere,
dovranno ingegnarsi per trasportarlo (privi dell’attrezzatura
adeguata). A quel punto, per la sua ultima tappa, l’indagine
si sposterà nella sala dell’autopsia dove avverrà anche
il riconoscimento del cadavere da parte della moglie del
defunto.
Il film, racconta di una lunga, faticosa e dolorosa notte,
durante la quale si svolge un’indagine che non serve tanto
a dare risposte sul crimine, quanto, per i personaggi, a
guardarsi intorno e dentro. Nell’infinita ricerca del cadavere
i protagonisti, si svelano, si raccontano, concedendo
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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allo spettatore un’interiorità tormentata, affranta, se
non addirittura dilaniata. Il regista esplora l’animo dei
suoi personaggi facendone uscire passato e sentimenti
particolari. Personaggi che per stessa ammissione di Ceylan
sono scaturiti da quattro novelle di Checov ma nei quali
ha anche usato echi di I Fratelli Karamàzov. Mano a mano
che si va avanti con la storia la ricerca in atto si intreccia
con una graduale messa a fuoco dei singoli protagonisti,
che mostrano allo spettatore le loro peculiarità attraverso
i dialoghi. Durante il percorso narrativo, il personaggio del
dottore da marginale diventa cruciale, il regista mette la
macchina da presa sempre nelle vicinanze del suo sguardo
e il dottore diventerà il punto di riferimento per gli altri
protagonisti, è a lui che si confesseranno cercando una
sorta di assoluzione.
Il film si svolge quasi totalmente di notte, in zone di
selvaggia bellezza resa per lo più invisibile dalle tenebre, la
riuscita del racconto è legata a filo doppio alla fotografia,
che Tiryaki, abituale direttore della fotografia nei lavori
di Ceylan, cura in modo ineccepibile avvolgendo le
meravigliose colline dell’Anatolia in un bagliore soffuso
che non diventa mai luce, regalandoci un’Anatolia cupa,
infinita, illuminata dalla luce dalla luna o dal caldo fuoco
di una lanterna. Un panorama sempre uguale a se stesso
eppure cosi diverso che fa da sfondo alle piccole e grandi
vicissitudini di quegli esseri umani.
I lunghi dialoghi sono serrati e qua e là estenuanti, molte
scene che sembrano non voler dire nulla, trovano poi un
punto d’incontro nell’atteso finale. Non sono contemplati
né inseguimenti né sparatorie, nessun effetto speciale,
il film rifugge dai movimenti di macchina complessi ,
dagli espedienti di montaggio e da una colonna sonora
importante. Il film ci regala una scena di intensa bellezza
quando il ricevimento del sindaco viene interrotto da un
black –out e nel buio compare di colpo una figura femminile,
con un vassoio per gli ospiti, una lampada illumina un viso
di ragazza dalla bellezza assoluta, angelica, senza tempo,
la ragazza s’intravvede appena, illuminata dalla luce fioca
di una candela, ma la cinepresa racconta la sua bellezza
attraverso lo sguardo levato degli uomini.
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21 febbraio 2013
Strade dell’Est
Silent Souls
Regia: Aleksei Fedorchenko; Sceneggiatura: Denis Osokin;
Produttore: MIG Pictures Film Company:; Fotografia: Mikhail
Krichman; Montaggio: Sergey Ivanov ; Musiche:Andrei
Karasyov; Scenografia:Andrej Ponckratov; Interpreti: Igor
Sergeyev, Yuriy Tsurilo, Yuliya Aug, Viktor Sukhorukov. Durata:
75’; Nazionalità: Russia 2010
Alla morte dell’amata moglie Tanya, Miron, proprietario di una
cartiera, chiede ad un suo fidato dipendente, Aist, fotografo
e scrittore, di accompagnarlo per compiere il rito di addio,
secondo le tradizioni della cultura dei Merja, un’antica etnia
ugro-finnica di una remota regione del centro-ovest della
Russia, scomparsa circa quattrocento anni fa e di cui, come
ricorda il regista, le sole tracce rimaste, sono i nomi dei fiumi.
Il cadavere di Tanja verrà bruciato su una pira e le sue ceneri
saranno disperse nell’acqua. I due uomini partono per un
viaggio che li porterà per migliaia di chilometri attraverso terre
sconfinate, paesaggi spettacolari, freddi e silenziosi.
“Silent Soul – Soltanto l’amore non ha fine” prende spunto
da un racconto di Aist Sergeyev, “The Buntings”. Il titolo
originale “Ovsyanki”, significa zigoli, il nome della coppia di
uccellini, piccoli passerotti, che accompagna le due ‘anime
silenti’ durante il loro viaggio. Il regista, Aleksei Fedorchenko,
già premiato a Venezia nella sezione Orizzonti nel 2005 con
il suo primo documentario “First on the moon” affronta nel
film diversi temi: l’elaborazione del lutto, il sopravvivere
delle antiche tradizioni, la magnificenza della natura, il
viaggio come metafora del mutare della vita, tutto avvolto
da un’intensa tenerezza. In realtà, le usanze dei Meja, citate
nel film sono usanze inventate dal regista, ma attraverso
di esse Fedorchenko, crea un mondo parallelo in cui i due
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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protagonisti si muovono e riesce a rende poetica la vita di
persone comuni, ordinarie e “invisibili” come gli zigoli che il
protagonista acquista nella prima scena. Per l’assetto formale
del film il regista sceglie la struttura road movie, il viaggio è
circolare, il tempo è sospeso ciclico ed eterno. Un racconto
delicato, poetico, di un viaggio durante il quale Miron tiene
vivo il ricordo della moglie lasciandosi andare ad intime
confessioni, svelando i dettagli della loro vita intima, quasi per
voler ancora assaporare la viva fisicità dell’amata. L’amico Aist
si abbandona, invece, al ricordo della sua infanzia e di suo
padre, poeta del paese. Assistiamo così, lungo tutto il viaggio,
ad una riflessione sulla vita e sulla morte.
E’ un film che ci parla d’amore pur raccontando di morte,
poetico pur parlando di cose molto semplici e comuni. Una
vicenda dal sapore antico, anche se si svolge ai giorni nostri.
Il paesaggio intenso e sconfinato diventa coprotagonista
delle vicende, e la fotografia (premiata alla 67a Mostra
Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia con
l’Osella per il Miglior Contributo Tecnico alla Fotografia) gli
rende giustizia. Fedorchenko è riuscito, attraverso una storia
semplice, ad accedere a temi universali, a suscitare nello
spettatore sensazioni e pensieri che accomunano tutti gli
esseri umani. E’ stato capace di creare un equilibrio tra parole
ed immagini, alcune bellissime scene restano impresse per la
loro forza evocativa: il flashback della sposa “senza volto”,
con la veste alzata, che permette alle damigelle di ornarla;
le ombre di Aist ragazzo e suo padre Vesa che si allungano
sul Neya ghiacciato, lo slittino che trasporta la macchina da
scrivere, la splendida sequenza di immagini che descrivono la
città di Molochai.
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28 febbraio 2013
Trainers
Mosse Vincenti
Regia: Tom McCarthy; Sceneggiatura: TomMcCarthy;
Interpreti: Paul Giamatti, Alex Shaffer, Amy Ryan, Bobby
Cannavale, Jeffrey Tombor, Burt Young, Margo Martindale,
David Thompson, Mike Dilello, Nina Arianda, Sharon Walkins,
Penelope Kindred, Sophia Kindred, Clare Foley, Marcia
Haufrecht; Musica: Lyle Workman; Produzione: Twentieth
Century Fox; Distribuzione: Fox Italia; Durata 106’; USA 2011.
Mike Flaherty, modesto avvocato e coach di una squadra
liceale di lotta libera, per risolvere i vieppiù pressanti
problemi economici della sua famiglia,decide di farsi affidare
dal giudice, la tutela di un suo anziano cliente che relegherà
in una casa di riposo, per intascarne la pensione di $ 1500.
Ma il vecchietto viene cercato dal nipote Kyle, un adolescente
problematico, in fuga dalla madre, tossicodipendente.
L’avvocato ospiterà il ragazzo nella propria abitazione al
fine di inserirlo nella squadra di lotta, viste le sue innate doti
di lottatore. Ma presto, il rapporto umano tra il giovane e
la famiglia di Mike si approfondirà, aprendo nuovi scenari
esistenziali a tutti. L’equilibrio raggiunto rischierà di essere
compromesso dalla irruzione della madre di Kyle, che reclama
il ragazzo e la pensione e Mike sarà chiamato ad una difficile
scelta, per salvare gli affetti appena consolidati.
Dopo il sorprendente esordio nel 2003 con il film ”The station
argent”, bissato nel 2007 dall’acclamato “L’ospite inatteso”, il
regista indipendente Tom McCarthy, si riconferma con questa
terza convincente prova, in cui peraltro privilegia il suo tema
preferito, quello delle relazioni umane nate casualmente tra
persone profondamente diverse, ma comunque tormentate
da problematicità esistenziali, che approfondendo il
rapporto umano si aprono a nuovi orizzonti di vita in virtù
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di una reciproca maturazione. In ”Mosse vincenti”, i termini
del binomio sono rappresentati da Mike, l’avvocato pronto
a calpestare ogni scrupolo morale e deontologico, pur di
risolvere i problemi economici della propria famiglia e Kyle,
un ragazzo introverso e sensibile, bisognoso di affetto(
negatogli dalla madre scapestrata e tossicodipendente),
che nella sua purezza sembra essere l’esatto contrario del
cinico legale. Da questa situazione di partenza, il rapporto
gradualmente evolve verso un nuovo equilibrio in cui le parti
si avvicineranno e si influenzeranno in maniera sempre più
netta. Così Kyle troverà nella famiglia di Mike quel calore
umano che gli era stato fino ad allora negato e l’avvocato
capirà che accanto alle esigenze materiali vi sono valori, più
alti di cui non si può fare a meno.
Mike alla fine, posto dinanzi ad una scelta definitiva, preferirà
privilegiare i sentimenti, anche se questa scelta comporterà
per lui notevoli sacrifici.
Il film in generale ha avuto una positiva accoglienza, anche se
si è levata qualche voce fuori dal coro a rimarcare che l’opera
si riduce in sostanza ad una favoletta edificante, interessata
solo a fare trionfare i buoni sentimenti, per approdare verso
un consolatorio happy end. Tuttavia, non si può negare che il
lavoro di McCarthy sollecita nello spettatore una riflessione
di fondo circa il modo più appropriato di affrontare la crisi
economica che sembra non avere mai fine e che crea in tante
persone innumerevoli affanni. La vicenda narrata sembra
volerci dire che nella soluzione dei problemi economici, è
opportuno non perdere di vista le esigenze morali e i valori
affettivi ed infatti è lo stesso regista a definire il suo film
come un apologo morale ai tempi della crisi. In ragione di
questo suo significato non appare molto legittimo sminuire
i meriti dell’opera che invece riconferma le doti di Tom
McCarty già evidenziate nell’opere precedenti.
Si tenga presente poi che il film appare ben costruito sia
per la vivacità dei dialoghi che per l’interpretazione dei
protagonisti e cioè il collaudato Paul Giamatti ed il giovane
Alex Sheffer, un talento in erba destinato secondo molti ad
un radioso avvenire di attore. Le scene di sport assicurano
infine al film un corredo spettacolare atto ad aumentare il
gradimento del pubblico.
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7 marzo 2013
Trainers
Detachment - Il distacco
Regia: Tony Kaye; Sceneggiatura: Carl Lund; Produttore:
Paper Street Films, Appian Way, Kingsgate Films; Montaggio:
Michelle Botticelli, Barry Alexander Brown, Geoffrey Richman;
Scenografia: Jade Healy; Trucco: Mary Cooke, Musiche: The
Newton Brothers Interpreti: Adrien Brody, Lucy Liu, Bryan
Cranston, Christina Hendricks, James Caan, Renée Felice
Smith, Blythe Danner, Marcia Gay Harden, Tim Blake Nelson,
Sami Gayle, Doug E. Doug, Isiah Whitlock Jr.; Durata: 100’;
Nazionalità: USA 2012.
Henry Barthes è un insegnante di letteratura con un passato
dolente che sceglie di proteggersi dalle difficoltà delle relazioni
sfuggendole e mantenendosi “distaccato”. Ma un incarico da
supplente in un quartiere degradato di una periferia americana
lo costringe a fare i conti con la realtà, ed il dolore travolgente dei
suoi studenti rompe gli argini, azzerando quella distanza tra lui e
il mondo che lo protegge dalla propria angoscia.
La storia si svolge in tre settimane in un liceo statunitense di
una delle tante aeree periferiche degli Stati Uniti, in progressivo
degrado culturale e sociale prima che economico: adolescenti
violenti e senza speranza predestinati al fallimento e
all’emarginazione sociale sono la scoria prodotta da una società
in cui i genitori hanno perso cognizione del pur minimo senso
della vita. Laddove la scuola è l’unico punto di riferimento nei
microcosmi di adolescenti che affrontano il faticoso cammino
della crescita, il lavoro/missione dell’insegnante rischia di
infrangersi al cospetto dei fallimenti quotidiani. Allora il senso
di impotenza e frustrazione polverizzano ogni traccia dei primi
entusiasmi e idealismi, giungendo a infettare anche vite private
in lenta e inesorabile dissoluzione. Così, il desiderio di fare la
differenza diventa vana velleità e lascia il posto alla resa.
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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Forse è per questo che il protagonista del film sceglie di
continuare a fare il supplente, tentando, nel poco tempo di cui
dispone, di impartire insegnamenti significativi agli studenti.
Henry fa della precarietà emotiva la sua bandiera. In qualità di
supplente ha a che fare con alunni di tutti i ceti sociali, ma in
ogni caso non modifica il suo atteggiamento distaccato.
Già in American History X, Tony Kaye aveva rivelato la sua idea di
responsabilità dell’esempio come inevitabile fardello dell’essere
umano, ma mentre nei legami di parentela tale responsabilità
è in una certa parte attribuibile dal fato, il professor Barthes
sceglie di farne il suo mestiere, pur non riuscendo, per motivi
personali, ad abbracciare del tutto questo aspetto importante
del suo compito. A fare la differenza nella vita del protagonista
sono due studentesse in particolare, l’inquieta e sovrappeso
Meredith, e soprattutto la baby-prostituta Erica. L’evolversi delle
vicende legate alle due ragazze accompagnerà e rappresenterà
simbolicamente l’evoluzione interiore del protagonista.
L’ambientazione scolastica non deve fuorviare, perchè
Detachment non è un film di genere scolastico, non solo. E’
un’analisi malinconica e struggente dell’esperienza umana, un
caleidoscopio di emozioni scarne, estreme, vibranti, un viaggio
nei fallimenti e nelle speranze più sincere che appartengono
anche a chi è costretto ai margini della società.
Se da un lato però Kaye con coraggio cerca spietato di colpire
allo stomaco lo spettatore, non addolcendo la pillola nei
dettagli: crudezza diffusa, dialoghi rabbiosi, decadimento
fisico e persino il veloce dettaglio di una gonorrea (!). Dall’altro
sembra che spesso incanali tutta la volontà sovversiva in luoghi
comuni antitetici a queste intenzioni di freschezza: la prostituta
bambina ingenua e senza affetto richiama sin troppo l’analoga
suggestione di Taxi Driver, così come le peregrinazioni notturne
del protagonista. Schematici sembrano poi i traumi alcolici
e sessuali di un passato insostenibile, e meccanico il tragitto
interiore della complessata alunna con chili di troppo e padre
insensibile e sordo come nell’Attimo fuggente. Nonostante
questo la capacità di scavare nei volti e negli sguardi silenziosi dei
protagonisti fanno di Detachment un film solido, emozionante,
toccante ma anche ruvido e spigoloso, senza facili vie d’uscita,
senza redenzioni o rivincite. Non c’è messaggio facile o
consolatorio, ma c’è tutta la umana pietas, opposta al distacco,
tutto il coraggio di guardare nell’abisso dell’animo umano senza
pregiudizio nè indulgenza.
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14 marzo 2013
Trainers
Monsieur Lazhar
Regia: Philippe Falardeau; Sceneggiatura: Philippe
Falardeau; Produttore: Microscope Production, Les Films
Seville Pictures; Fotografia: Ronald Plante; Montaggio:
Stéphane Lafleur; Musiche: Martin Léon; Cosumi: Francesca
Chamberland; Interpreti: Mohamed Fellag, Sophie Nélisse,
Émilien Néron, Brigitte Poupart, Danielle Proulx, Louis
Champagne, Francine Ruel, Jules Philip, Sophie Sanscartier,
Seddik Benslimane; Durata: 94’; Nazionalità: Canada 2012
In Canada, nella città di Montreal, una giovane insegnante
si toglie la vita nella sua classe. A sostituirla sarà un
signore un po’ strano, un immigrato algerino, che si offre
di accompagnare i piccoli alunni nell’elaborazione del loro
lutto mentre ancora ne sta elaborando uno suo, familiare
e appartenente a un tempo e un luogo lontani. Il tempo
frutterà un legame forte tra Lazhar e i suoi scolari, un
legame che avrà un forte effetto sulle vite di entrambi,
porterà ad un affetto frutto della voglia di vivere e di andare
avanti, attraverso un percorso non semplice di accettazione
dell’ineluttabilità della morte, non solo come evento in sè, ma
come parte imprescindibile della vita stessa.
A ispirare il regista canadese è il dramma teatrale “Bashir
Lazhar” di Évelyne de la Chenelière. La sua trasposizione
cinematografica è stata un trionfo al Festival di Locarno
2011 dove ha conquistato il Premio del Pubblico ed il premio
Variety Piazza Grande Award.
Dopo l’indimenticabile “L’attimo fuggente” e il più recente
“La classe - Entre les murs” e varie serie televisive italiane e
straniere incentrate sulle esperienze docenti-alunni, era da
tanto tempo che non si vedeva una bella pellicola girata tra
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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i banchi di scuola. Felaurdeau senza troppa presunzione ha
cercato di creare un’immagine fruibile da qualsiasi tipo di
pubblico ma che attirasse per l’eleganza e l’immediatezza; la
sua è una regia apparentemente molto semplice ma in realtà
assai curata e ricercata.
I protagonisti principali sono tre figure di tutto rispetto:
Bachir Lazar, rifugiato algerino con alle spalle una dura
tragedia familiare. Improvvisato professore “un po’
all’antica”, che ha molto da insegnare a quelli moderni,
capace di arrivare al cuore dei suoi giovanissimi studenti,
porta dolcemente con sé il ricordo della moglie scomparsa
precocemente; Simon, pervaso dalla sofferenza e dal senso di
colpa che provocano attacchi di rabbia spesso diretti contro
la “preferita” di Lazhar, la piccola Alice, colei che affronta
di petto il dolore della perdita in una matura composizione
in prosa, dove “la prof.ssa dà un calcio alla sedia per poi
scomparire”.
Bachir è interpretato in maniera davvero splendida da
Mohamed Fellag, un attore e comico teatrale algerino. Una
figura di enorme dignità ed eleganza, che diventa un albero
solido su cui far sbocciare la crisalide in cui sono rinchiusi
i suoi alunni e lasciarli diventare delle farfalle, ancora
più reali per aver capito le dure leggi della morte e della
violenza. Un punto di vista diverso, quello di un esiliato, un
po’ fuori dal tempo, come il suo francese cristallino (“parla
come Balzac”), che pone una società matura e ossessionata
dal politicamente corretto di fronte alle proprie forzate
contraddizioni. Accanto al personaggio principale spiccano
i due “piccoli” protagonisti Sophie Nélisse (Alice) ed Émilien
Néron (Simon).
È un film commovente, non pietistico né moraleggiante, che
riflette sulla perdita ma fa riflettere anche noi su cosa ci
siamo persi per strada.
Le istanze sociali, quali il rischio di espulsione del maestro
dal paese o la solitudine famigliare di molti bambini,
contribuiscono al clima del film ma non sgomitano per
emergere là dove non servono. Il cuore del film resta la
relazione.
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21 marzo 2013
Family Life
Killer Joe
Regia: William Friedkin; Produzione: Voltage Pictures/
Ana Media, Worldview Entertainment, Picture Perfect
Corporation; Distribuzione: Bolero Film; Interpreti: Matthew
McConaughey, Emile Hirsch, Juno Temple, Thomas Haden
Church, Gina Gershon, Marc Macaulay; Durata: 102’;
Nazionalità: U.S.A.; Anno: 2011.
Per liberarsi della madre che gli ha causato un grave danno,
e oltretutto intestataria di una polizza assicurativa sulla vita,
il giovane spacciatore Chris e suo padre Ansel si rivolgono a
“Killer” Joe Cooper, un assassino prezzolato, ma con maniere
da gentiluomo, che si dimostra disponibile a risolvere la
faccenda dietro lauto compenso anticipato. I due committenti
sono a corto di denaro, ma Joe accetta come ‘caparra’ la
compagnia di Dottie, l’innocente sorellina di Chris. Tuttavia,
al momento di riscuotere il premio dell’assicurazione, Chris
scoprirà che la madre gli ha giocato un brutto tiro e lo stesso
Joe dovrà usare la sua abilità di investigatore per arrivare
alla verità e far pagare a tutti il prezzo dovuto.
Grande attacco: saranno passati sì e no 5 minuti ma ‘Killer
Joe’ ci ha già catapultato in un mondo dove il sordido
sconfina nell’abietto e la rapacità emana bagliori di pura
idiozia. Grande regista d’azione, ma del tutto a suo agio
anche con drammi e horror «domestici», Friedkin sa come
spremere il massimo di emozioni da un minimo di dettagli,
lasciando lo spettatore nel dubbio che tante sconcezze e
atrocità siano più un ghignante sfoggio di bravura che una
reale necessità. Adattamento del testo omonimo di Tracy
Letts, ‘Killer Joe’ è un capolavoro di humour nero - basato
su un campione di degenerati che rappresentano, nel loro
piccolo, tutta l’America - che esaspera la propria natura
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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tra pulp e white trash (cultura sottoproletaria dei bianchi).
Chi detesta il pulp storcerà il naso, chi lo ama pure. Friedkin
prende le distanze dagli uni e dagli altri facendo di quella
violenza instupidita un’apologia a tratti compassionevole
e ribaltando consapevolmente tutti gli stereotipi, a partire
dallo stesso personaggio ‘Killer Joe’, dalle buone maniere.
William Friedkin ci aveva terrorizzati con ‘L’esorcista’,
aggrediti con ‘Cruising’, mandati i nervi in tilt col ‘Il braccio
violento della legge’, ma mai era stato crudele come in ‘Killer
Joe’, pur definendolo una rivisitazione di Cenerentola in cui
il principe fa il serial killer (e la fanciulla più che la scarpetta,
perde ben altro). Scegliendo la tinta grottesca e una violenza
non solo morale, Friedkin non esclude che la vicenda possa
anche essere divertente nei suoi eccessi, ma è più che altro
un massacro a porte semichiuse in cui, scena già cult, si
mostra l’uso più piacevolmente improprio che sia mai stato
fatto di una coscia di pollo. Dentro l’atmosfera elettrica,
nella sua traiettoria sghemba, senza pause, nella dinamica
moralmente amorale, c’è tutta la cultura e lo squallore
dell’infelice provincia americana. In un’altalena di emozioni
contraddittorie, l’autore sfodera il tragico umorismo di una
ballata triste in cui si anticipa che l’America non è un Paese,
bensì un business e Matthew McConaughey, per la prima
volta davvero bravo, anticipa i suoi glutei poi star di ‘Magic
Mike’. Il cast è straordinario, da Emile Hirsch a Juno Temple
che esprime con tante sfumature la tragedia adolescenziale,
fino ai genitori (Thomas Haden Church, uomo invisibile che
soffre e la grande Gina Gershon, ex showgirl di massima
innocente volgarità). Il finale lascia aperte tutte le possibilità,
comprese le più folli visto che quello sceriffo dal grilletto
facile, estremo paradosso, sembra l’unico a possedere un
qualche barlume di senso morale. Per i cultori del sordido, la
black comedy del decennio. Gli altri si accostino con cautela.
Tutto è esagerato e strabordante, dalla recitazione ai
pestaggi fino alle ‘perversioni’ sessuali, tutto è falso e
artificioso ma soprattutto tutto sembra fatto per essere
programmaticamente cool e cult insieme. Piacerà a chi ha
un debole per i thriller imbevuti di grottesco che sono la
specialità dei fratelli Coen. Ma qui i fratellacci hanno il fatto
loro. E chi impartisce la lezione è nientemeno che un ragazzo
del 1939.
Fonti: Maurizio Porro (Corriere della Sera), Fabio Ferzetti (Il
Messaggero), Dario Zonta (L’Unità), Giorgio Carbone (Libero),
Paolo Mereghetti (Il Corriere della Sera).
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28 marzo 2013
Family Life
Qualche Nuvola
Regia: Saverio Di Biagio; Produzione: Minollo Film, Bartleby
Film, Relief, Dap Italy, Rai Cinema; Distribuzione: Fandango;
Interpreti: Michele Alhaique, Greta Scarano, Aylin Prandi, Primo
Reggiani, Giorgio Colangeli, Pietro Sermonti, Michele Riondino;
Durata: 99’; Nazionalità: Italia; Anno: 2011.
Diego è nato e cresciuto in un quartiere della periferia di Roma,
lavora in un cantiere edile ed è da sempre fidanzato con Cinzia,
che conosce da una vita e che a sua volta ha ben chiaro cosa il
destino ha riservato per lei: un futuro di moglie e madre. Intorno
a Diego e Cinzia, ruota una schiera di amici e parenti, tutti sempre
pronti ad aiutare e consigliare. Poi, un giorno, Diego incontra
Viola, la nipote del capo, tanto bella e così diversa dalle persone
che lui ha sempre frequentato e tutto, improvvisamente, prende
una piega diversa.
Ecco un buon debutto italiano che recupera i modelli della
commedia di buoni ma non ovvi sentimenti e che non sembra
- è un complimento - un film italiano, bensì europeo. Saverio Di
Biagio (classe 1970), regista con una buona esperienza sia nel
campo del cinema militante sia in quello dei documentari, dei
cortometraggi e delle sceneggiature, fa attenzione alle parole,
racconta una Roma invisibile, senza dimanticare la semplicità
che esprime la verità con un filo di poesia povera.
Presentata alla 68a Mostra di Venezia (Sezione “Controcampo
italiano”), la commedia di Saverio Di Biagio ha un tocco
lieve e uno sguardo non banale sulla realtà che descrive (il
quartiere romano del Quadraro, periferia romana ancora
non “sdoganata” dai trend cinematografici). L’affetto verso i
personaggi che descrive non scade mai nel manicheismo o nel
facile abbozzo: non c’è torto o ragione, tra un protagonista in
bilico tra due mondi lontanissimi e un’umanità convinta che la
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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vita si esaurisca all’interno dei propri confini di appartenenza,
in appartamenti ristrutturati poco distanti dai propri genitori,
questi ultimi specchio di una storia che sembra ripetersi senza
appello.
Il cast è ispirato e in parte, dai bravi protagonisti fino ai contributi
di Michele Riondino (l’amico sacerdote), Primo Reggiani (amico
“traffichino” di Diego ed ex fiamma di Cinzia), Pietro Sermonti
(un cinico, disincantato costruttore) ed Elio Germano (per lui un
ironico cameo, nei panni di un venditore di mobili), all’apporto di
caratteristi come Giorgio Colangeli e Paola Tiziana Cruciani, abili
prosecutori della tradizione della commedia all’italiana. Non ci
sono i soliti nomi, ma i protagonisti non li fanno rimpiangere,
anzi; la guerra dei sessi non ha le facezie e le iperboli caciarone
di Brizzi & Co., ma veritiere dinamiche di genere e un retrogusto
- a ben vedere - amarissimo. Tutti rendono alla perfezione
quella vena agrodolce, quel senso di frustrazione che a un
tratto, da individuale, sembra farsi collettivo, per poi stemperarsi
felicemente nell’ironico finale: un invito a provare sempre e
comunque a vivere un’esistenza diversa dalle altre e assieme,
un’accettazione della vita per quella che è. Disastrosa, lontana
anni luce dai propri sogni, ma concreta e reale. Al punto tale da
volerle bene, perché è l’unica che si possiede davvero.
La novità sta nell’occhio abbastanza diverso con cui Di Biagio
guarda ai suoi personaggi, alla loro storia, agli ambienti in cui si
muovono. Questi dilemmi, questi turbamenti Di Biagio li analizza
con disinvoltura, evitando con tocchi precisi il sentimentalismo
e sostituendolo, appunto, con un approccio insolito e quasi
critico nei confronti di quelle situazioni che si dipanano in un
contesto sociale, a cominciare dal condominio, tratteggiato con
accenti di cronaca quotidiana sostenuti per lo più da modi di
rappresentazione frutto di tecniche sicure.
L’opera prima di Saverio Di Biagio è un dramedy sentimentale
che gioca tra Roma periferia e Roma centro, manovalanza e
borghesia, coppia e scoppia, matrimonio e fuga. Lo fa senza
lirismo né surrealismo, accontentandosi del realismo ‘de noantri’:
non è Loach, ma i mattoni - protagonista il muratore Michele
Alhaique e la promessa sposa Greta Scarano, con Aylin Prandi a
triangolare - sono solidi, ben giustapposti tra scontro di classe
e affinità elettive, pragmatismo e desiderio. Appunto, nulla di
trascendentale, ma “Qualche nuvola” ha buone fondamenta
drammaturgiche e una discreta architettura di piani sequenza.
Fonti: Maurizio Porro (Corriere della Sera), Gian Luigi Rondi (Il
Tempo), Federico Pontiggia, (Il Fatto Quotidiano).
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4 aprile 2013
Family Life
Animal Kingdom
Regia: David Michôd; Sceneggiatura: David Michôd ;
Produttore: Liz Watts ; Fotografia: Adam Arkapaw; Montaggio:
Luke Doolan; Musiche: ; Anthony Partos Scenografia: Jo
Ford ; Interpreti: Gabourey ‘Gabby’ Sidibe, Mo’Nique Imes,
Paula Patton, Mariah Carey, Lenny KravitzJames Frecheville,
Guy Pearce, Ben Mendelsohn, Luke Ford, Joel Edgerton, Jacki
Weaver, Sullivan Stapleton, Anthony Hayes,; Durata: 112 min’;
Nazionalità: Australia 2010
A Melbourne, dopo la morte della madre, Joshua “J” Cody, un
ragazzo di 17 anni, rimasto solo, è costretto a trasferirsi da
sua nonna e dai suoi zii. E’ il violento ingresso di Josh nella vita
adulta, che per lui sarà la vita del clan familiare. Josh è ancora
giovane e debole, e cerca di mantenersi ai margini. Ma quando
la polizia, per vendetta, uccide il più vulnerabile dei sui zii, Josh
si ritrova nel bel mezzo del conflitto, costretto a scegliere tra la
propria famiglia e il rischio di doverla tradire, per fare la cosa
giusta.
Debutto come regista di un lungometraggio per il trentottenne
regista e sceneggiatore australiano David Michôd. Animal
Kingdom è stato presentato con successo al Sundance
Film Festival e al Festival di Roma. Sentiamo qualche sua
dichiarazione: <<…Gli anni ’80 e 90 in Australia, si sono
caratterizzati come un periodo di forte criminalità che è
culminato in un evento che si può vedere in Animal Kingdom:
la vendetta a sangue freddo con l’uccisione di alcuni giovani
poliziotti da parte di una banda criminale. È stato un attacco
netto all’establishment che ha scioccato Melbourne. Da quel
momento, fino ai giorni nostri c’è stata una continua guerra
di territorio tra le gang per spaccio di droga... Quando ho
iniziato a scrivere Animal Kingdom non sapevo come scrivere
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
40
una sceneggiatura. Ma quando la mia scrittura è migliorata,
maturata, ho iniziato a lavorare su cosa volessi raccontare: fare
un film su una banda in declino... Ho deciso di scrivere questo
film per capire come vivono quelle persone in un mondo in cui
la posta in gioco è altissima e dove c’è un intero strato della
società che opera al di sotto di quello che noi consideriamo
morale e corretto. Avevo voglia di dirigere un film sul crimine
organizzato in Australia che fosse complesso e sfaccettato,
un film corale che raccontasse fedelmente come i criminali
si infiltrano nella nostra società e ci sono costantemente
accanto, anche se non ce ne rendiamo conto.. Desideravo
filmare Melbourne in una maniera totalmente diversa. …
Desideravo inoltre realizzare un film che a differenza delle
opere di Tarantino o Ritchie, si prendesse sul serio e fosse
ambientato in un mondo buio, brutto e pericoloso che fosse
però al contempo anche poetico e bello...>>. Nell’opera di
esordio di Michôd, emerge su tutti la figura di una madre
produttrice e divoratrice di vita e affetti, agghiacciante
dispensatrice di amore e di morte. Il giovane Joshua si trova
ad interpretare un romanzo di formazione nei meandri di una
famiglia stretta da legami di sangue dove il sangue stesso si
conserva e si versa. Nessuno ha la forza di opporsi a mamma
Janine, né i figli, che sanno benissimo d’incontrare la morte
ogni mattina, né le nuore, che sanno benissimo di diventare
vedove da un momento all’altro. Nemmeno un buon poliziotto.
I personaggi, più che a regole sociali sembrano obbedire a leggi
d’eternità, regole archetipiche, scolpite nella crosta tellurica del
pianeta. Nessuno dei folli e sanguinari, sia killer che vittime,
manifesta infatti soprassalti di tensione, scariche di energia,
irruenze del carattere: tutti piuttosto, sembrano docilmente
piegarsi al battito di un cuore che pulsa nelle viscere della terra.
Animal Kingdom è un reportage e un sogno: una cronaca nera
e un incubo abbacinante. La primissima inquadratura, bella e
potente, è esplicita in tale direzione: il giovane Joshua guarda
la televisione telecomando in pugno, seduto comodamente
sul divano con il cadavere della madre riverso al suo fianco. Il
giovane regista non giudica, però nulla risparmia della catena
di sangue. Catena che non s’interrompe alla fine del film e
nemmeno, presumibilmente, oltre i titoli di coda. L’effetto di
straniamento, come deve essere, coinvolge il pubblico anche
fuori della sala cinematografica. Una bella lezione per un
qualsiasi regista esordiente di qualsiasi angolo del pianeta.
Italia compresa.
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11 aprile 2013
Family Life
Polisse
Regia: Maiwenn Le Besco; Sceneggiatura: Maïwenn,
Emmanuelle Bercot; Fotografia: Pierre Aïm; Montaggio:
Laure Gardette, Yann Dedet; Musiche: Gabriel Yared ,Stephen
Warbeck Mario Grigorov; Scenografia: Nicolas de Boiscuillé;
Costumi: Marité Coutard; Interpreti: Karin Viard, Joeystarr,
Marina Foïs, Nicolas Duvauchelle, Maïwenn Le Besco,
Karole Rocher, Emmanuelle Bercot e Riccardo Scamarcio;
Distribuzione: Lucky Red; Durata: 127; Francia 2011
Il Ministero dell’Interno incarica la foto-reporter Melissa di
realizzare un libro sulla ‘Brigade de Protection des Mineurs’
(Squadra di protezione dei minori). Attraverso il suo obiettivo
conosciamo le giornate dei poliziotti dell’affiatatissima
squadra, costantemente impegnati in casi spesso simili ma
ognuno con una sua specificità. Bambini abusati, ladruncoli,
ragazzine dalla sessualità fuori controllo, interrogatori a
padri molestatori, sfruttatori, retate notturne per liberare
piccoli schiavi: questa la routine di ogni agente! Le quotidiane
violenze che devono fronteggiare minano il loro equilibrio al
punto che, spesso, non riescono a vivere serenamente neanche
le personali relazioni familiari e sociali. Il lavoro di squadra
gratifica riservando, momenti di vero cameratismo, spazi per
riflettere sui rapporti interpersonali e irrefrenabili risate nei
momenti più inaspettati.
Polisse, terzo lungometraggio di Maïwenn, attrice e regista
35enne che, nel film, si ritaglia il ruolo della fotografa, nasce
dalla suggestione scaturita dopo aver visto un documentario
trasmesso dalla tv francese. Il titolo “Polisse”, storpiatura
infantile della parola “police”, risulta essere perfetto per
un film che guarda in faccia la routine di una violenza che
convive con le grida di bambini strappati alle madri, il silenzio
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
42
delle vittime e le bugie dei colpevoli.
Film di finzione, girato con stile documentaristico, è basato
su casi di cui la stessa regista ha avuto diretta esperienza, su
indagini e azioni reali, sulle testimonianze raccolte o vissute in
prima persona durante il periodo di sopralluoghi trascorso a
stretto contatto con i veri poliziotti.
La sceneggiatura, scritta dalla regista con Emmanuelle
Bercot, ci immerge da subito in un inferno da cui bambini e
bambine cercano di sfuggire temendo però le conseguenze
che questo tentativo di fuga può loro procurare. Abilmente
la regia mette loro di fronte uomini e donne umanamente
incapaci di trasformare in routine contatti umani nei quali
la delicatezza è elemento fondamentale. La regista riesce
nell’intento di mostrare lo spaccato di un gruppo solido,
concentrato sull’obiettivo, e le contraddizioni che ne animano
la quotidianità, tanto nei rapporti interpersonali quanto nella
frustrazione di non poter aiutare tutti i bambini nello stesso
modo. Così come è abile nel presentarceli come esseri umani
che formano un’èquipe in cui le individualità sono spiccate
e al cui interno si sviluppano relazioni e contrasti come in
qualsiasi altro luogo di lavoro.
Rendendo chiaro sin dalle prime inquadrature il taglio estetico
dell’opera (a metà strada tra fiction e documentario), Maïwenn
ci propone un film che si colloca di diritto nell’ambito di quel
settore della cinematografia francese interessato a portare
sullo schermo la realtà pur rispettando le convenzioni della
fiction cinematografica. Si tratta di un complesso gioco di
equilibri in cui il risultato positivo può essere raggiunto solo
grazie a una sceneggiatura che tenga costantemente conto
del livello di verosimiglianza e di attori che sappiano ‘dire’
e ‘agire’ senza recitare. Gli attori sono convincenti ma si
riscontra qualche esitazione nell’intrecciare le scene ritagliate
dal vero e gli psicodrammi personali.
‘Polisse’, con il suo il ritmo, la tensione, la sensibilità a fior
di pelle, la velocità travolgente e senza soste mette in circolo
un disagio vero, un malessere palpabile. E si distacca in modo
deciso da tutti i modelli che il cinema europeo ha finora
adottato per mettere in scena la polizia.
Premio della giuria al Festival di Cannes, poche settimane
di girato, pochi soldi, esiguo incasso in Francia (soltanto
2.000.000 di Euro), per un progetto nato nella testa di
Maiwenn che, come dice lei stessa, voleva fare un film sulla
polizia, “senza rappresentarli come eroi e senza sminuirli”.
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Ciclo
Coming soon
L’ultimo ciclo di questa 45° rassegna 2012-2013 è dedicata
alle prime visioni. I titoli dei film scelti saranno comunicati
nel corso della rassegna. Il prezzo della tessera include la
proiezione di questo ciclo.
18 aprile 2013
Film anteprima
2 maggio 2013
Film anteprima
9 maggio 2013
Film anteprima
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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Schede a cura di
Claudio Scarpelli, Fabio Comi, Rosa Camera,
Silvia Raschillà, Giampiero Logoteta, Chiara
Labate, Francesco Mancini.
Libretto a cura di Saso Pippia
I materiali sono tratti da:
Rivista Cineforum, cinematografo.it,
mymovies.it, cineblog.it,
filmup.it, comingsoon.it.
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Tel. Fax. 0965.895818
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