Molto si parla e si è parlato di una sostanziale idiosincrasia
tra l’architettura contemporanea e la gente. L'idea qui
proposta non è certo nuova ma, a mio parere, ben si adatta a
stimolare un confronto sul tema della architetture a forma
curvilinea e sul rapporto che tali modelli possono avere
sia nella concretezza costruttiva che nella didattica. In tal
senso la questione centrale è identificare un modo
mediante il quale l’adesione ad un idea di architettura sia
esplicita e manifesta. L’urgenza di tale questione è da
ricercarsi in un sempre maggiore ricorso a “previsioni
digitali” che per propria natura non ammettono giudizi di
natura analogica delle qualità che il progetto esprime.
Claudio Umberto Comi
Pongo architetture
gnoseologia delle architetture freeform
Claudio Umberto Comi (1960) è
architetto e ricercatore universitario e si
occupa di disegno del paesaggio e di
architettura. E’ autore di numerosi libri
tra cui: lezioni zen (1998); sul paesaggio
(2001) la pratica del modello (2008),
spazio, tempo e città (2009), e, quaderno
di rappresentazione (in stampa).
OPINIONI MINUTE
Claudio Umberto Comi
Pongo architetture
gnoseologia delle architetture freeform
Indice
“non voglio abitare in una
lattina schiacciata”
9
Lego e pongo
15
Il problema del nome
33
La percezione dell’architettura
contemporanea
45
Forme dell’architettura
61
“Gli uomini che hanno una
tempestosa vita interiore e
non cercano sfogo o nei discorsi o nella scrittura, sono
semplicemente uomini che
non hanno una tempestosa
vita interiore.”
Da: “il mestiere di vivere” di
Cesare Pavese
Oggi, più che mai nel passato, la comunità
scientifica s’interroga sul valore effettivo
di una “pubblicazione”. In un impeto di
trasparenza, finalmente anche in Italia, si
chiede alla scienza di mettersi “in rete”1.
Per alcune materie vi sono riviste affermate e riconosciute nel mondo che ogni, tanto
accade, prendono anche una svista2. Per
altre, forse figlie di un Dio minore, non c’è
È allo studio un sistema di pubblicazione online, sul web, della produzione scientifica di ogni
singolo docente.
1
2 Jacques Benveniste e l’articolo sulla ”memoria
dell’acqua” (Human basophil degranulation triggered by
verydilute antiserum against IgE), pubblicato su Nature, n.333, 1988, pp. 816-818) del quale lo stesso
direttore della rivista in numero successivo diede
smentita.
5
rivista che valga. Vi sono dei temi di cui
non parla nessuno. Anche coloro che li approfondiscono, ormai, parlano poco tra loro. E il dibattito langue. Succede anche
per l’architettura che continua a “cambiare
la pelle”3. Si vede che quello che c’era da
dire sì e detto. Oggi guardiamo tutti stupiti “il nuovo” che viene da fuori. Non so
dire se sia un’idea provinciale. So soltanto
che bisogna buttare un sasso nell’acqua
che stagna e vedere se succede qualcosa.
Questo libretto, probabilmente non avrà
mai un impact factor4 elevato. Non ci tiene
Aldo Castellano, “l’architettura cambia pelle”,
L’Arca, n. 227
3
O, fattore di impatto. È la misura della frequenza delle citazioni che un articolo o in testo
scientifico riceve.
4
6
nemmeno. Ha ambizioni davvero modeste.
Si accontenta di innescare una qualche
reazione. Sempre che qualcuno lo compri e
dopo averlo sfogliato abbia qualcosa da dire. E’ solo il primo di un’idea che costerà
davvero fatica5. Riprodurre “i millelire”6,
adeguando il valore alla moneta europea,
non è certo un idea originale. La vera idea
sta nel offrire un spazio a “opinioni minute”. Cioè i pensieri che tutti facciamo e che
Nel convincere un editore ad aprire una collana
foriera di modesti guadagni e un grosso lavoro
editoriale.
5
Collana proposta dal 1989 dalla casa editrice
Stampa Alternativa che consisteva in libretti in
formato 10x15 rilegati a sella di un determinato
numero di quartini
6
7
non trovano spazio in un libro destinato a
far avanzare la scienza. Qualcuno potrebbe obbiettare che la rete offre mille occasioni per esprimere idee, dialogare, animare il
confronto. La realtà è che nella rete non
trovi mai niente di davvero nuovo. Trovi
si, infiniti pensieri, ma se li vuoi approfondire o per poterli obbiettare devi aprire anche tu il tuo blog.
8
“non voglio abitare in una
latina schiacciata”
Da quando un amico, che non si occupa di architettura, mi ha chiesto perché gli architetti da qualche anno a
questa parte hanno cominciato a flettere, curvare, “spiegazzare” le loro costruzioni, ho cominciato a pensare in
un modo diverso alle apparenti fascinazioni che tale tipo di architetture determinano. Per rispondere, così su due
piedi, non ho trovato di meglio che
dire che ciò accade perché il computer
permette di esplorare nuovi “valori
plastici” e quindi reinterpretare un interesse alla sinuosità della forma che,
9
partendo dal gotico ed ancora nel periodo barocco ha comunque attraversato anche parte dell’architettura del
‘900. La sua replica, a dire il vero laconica, è stata: sarà, ma a me non va di
abitare in una “lattina schiacciata” e la
cosa è finita li. Ripensando a tale
scambio di battute, mi è venuto però il
sospetto che forse solo tra gli architetti
vi sia una consapevolezza, a dire il vero molto autoreferenziale, sulle ragioni per le quali legittimare un approccio alla costruzione che intende privilegiare valenze iconiche spesso prevalenti sulla funzione a cui la costruzione dovrebbe rispondere. Considerato
che, in un certo qual senso, tali aspetti
esteriori finiscono con il penalizzare le
ragionevoli aspettative di coloro che di
tali abitazioni o spazi vorrebbero sem10
plicemente fruirne. Per scacciare questo pensiero, ho quindi provato a ripercorrere mentalmente il complesso e
confuso scenario di un architettura a
cui ancora oggi è difficile dare un nome. Ed proprio pensando al problema
del nome, inteso come possibile categoria a cui iscrivere episodi diversi per
presupposti, metodiche di concezione
e risultati, che sarebbe opportuno definirla “architettura nominalista”. Ovvero un architettura in cui il carattere
prevalente, oltre alla stravaganza delle
forme, è il nome che il progettista vi
associa. Per la gente comune,
l’architettura di Gehry, equivale a
quella di Fuksas, quella di Ben Van
Berg a quella di Eisesman, quella di
Meier a quella di Forster, quella della
Hadid a quella di coop Himmelbau. Le
11
differenze se vi sono, e vengono percepite, sono solitamente riconducibili
alla relazione con il contesto in alcuni
casi e, nella suggestione mediatica che
tali edifici intendono affrancare, negli
altri. La natura intrinseca di tali architetture agli occhi della gente comune è
quella di affermare, al pari delle griffe
più trasgressive della moda, un fenomeno che direi di costume. Quasi che
l’intenzione, nemmeno troppo velata
di tali progetti, sia conseguenza di un
prevalente bisogno di apparire e non
come
normalmente ci si aspetta
dall’architettura di rispondere ad un
insieme di bisogni reali. Ponendo poi
la questione dell’”abitare” una “lattina
schiacciata” ad altri architetti, le risposte hanno finito con il delineare uno
scenario che, seppur con i dovuti di12
stinguo, non sa o non riesce a dare risposte. Le chiavi di interpretazione, in
funzione del carattere di ognuno tra gli
interlocutori, non giungono mai a giudizi compiuti e pongono in luce, con i
dovuti distinguo, alcune perplessità:
ora sulla forma, ora sulla funzionalità,
ora sul senso stesso del progetto.
D’altro canto si sa che gli architetti sono una specie in cui la critica sul lavoro degli altri, spesso gratuita e molto
argomentata, è una specie di malattia
esantematica, che fa il paio con l’innata
propensione a sovrapporre riferimenti
e citazioni di dubbia coerenza sui propri progetti. Per chiudere il cerchio e
vederci più chiaro non mi restava che
interpellare i miei studenti. Trattandosi di studenti di architettura uno si aspetta che essi mostrino quantomeno
13
un interesse, se non una conoscenza
compiuta, verso alcune di tali architetture a loro coetanee. Bene, in merito
alla conoscenza molte della architetture che affastellano il contemporaneo
sono per loro entità sconosciute, o realtà metafisiche. Come metafisici alla
fine risultano i giudizi, spesso frutto di
malintese interiorizzazioni di esegesi
che imperversano in rete7. Messi poi
alle strette sull’ambizione di abitare in
una “lattina schiacciata” emerge, come in molti dei loro progetti,
un’affezione verso modelli abitativi
più prossimi alle “villettopoli”.
Il web pullula di siti, blog, pagine e quant’altro
che trattano di tali architetture
14
7
Lego e Pongo
Mi sono poi chiesto se tali architetture
abbiano invece una strana ragione.
L’ho trovata nei giochi che facevamo
quando si era bambini. Esiste una sottile differenza tra il Lego e il Pongo
ma, non ha tutti è dato di conoscerla.
Vi starete chiedendo quale importanza
possa avere scoprire le differenze tra
questi due giochi. Ebbene chi avrà la
compiacenza di seguirmi arriverà forse
a capirla. Per chi non avrà costanza e
attenzione, spero che comunque questo tornare indietro nel tempo li possa
aiutare a comprendere i fatti e gli eventi che hanno segnato il divenire di
15
quest’ultima metà del secolo. Per i più
giovani, o per coloro che non sono mai
stati in Danimarca e quindi non hanno
avuto il piacere di visitare Legoland8,
cercherò di sintetizzare quello che il
Lego, una filosofia di vita prima che
un gioco, ha rappresentato per una
generazione che si appresta oggi ad
affrontare la boa dei cinquant’anni. Il
Lego si presentò timidamente nei primi anni della nostra vita. Di solito veniva regalato in confezioni che, in base
alle disponibilità economiche del donatore, potevano spaziare da scatolette
in plastica di cui il coperchio era una
piastra grigia che sarebbe servita quale
Parco di divertimento tematico costruito dall’
azienda Lego in Danimarca.
16
8
base per la costruzione, a ricche cassette in legno con diversi scomparti in cui
riporre, per i più ordinati, i vari mattoncini divisi per dimensione, forma e
colore. Quello del riporre con ordine
era a, dire il vero, un esercizio maieutico di ordine logico propedeutico ad un
ordinata tenuta del progressivo affastellarsi di cose che ha caratterizzato la
maturità della società dei consumi.
Evoluzione di cui il Pongo di cui diremo più avanti é stata la prima avvisaglia. Il Lego sin dalla sua apparizione,
forse inconsciamente, si apprestava a
soppiantare il successo del Meccano.
Quel gioco che consentiva di costruire
automobiline, gru, aeroplani e cinematismi, unendo pezzetti di lamiera forata e verniciata con viti e dadini. Credo
che buona parte del successo del Lego,
17
sia dovuta a quello che oggi verrebbe
definito come un ampliamento del
“target” dei consumatori. Con il Meccano potevano giocare solo i bambini
più grandicelli. Tante ragioni comportavano per il Meccano una specie di
handicap. In primo luogo un oggettiva complessità della logica costruttiva.
Un limite invalicabile per un bimbo
nato negli nato nel ‘60 che sin dalla più
tenera infanzia si addormentava al
suono di un carillon con le api che girano. Un altro fattore era il potenziale
pericolo dovuto alla lamiera e un elevato fattore di rischio di ingestione di
viti e bulloni. A differenza del Meccano, il Lego poteva andare in mano anche a bambini di quattro o cinque anni
dato che, per la felice intuizione posta
alla base dell'idea ispiratrice, i matton18
cini non comportavano alcuna difficoltà di logica costruttiva. Al più i risultati erano scadenti ma con il tempo e la
pratica sarebbero in ogni caso arrivati.
Dal punto di vista del pericolo la plastica che li costituiva difficilmente si
sarebbe rotta e quindi il pericolo di ferirsi era minimo. Mentre per il pericolo
di ingerimento il rischio continuava ad
esistere, ma questa generazione dimostrava in modo sufficientemente generalizzato una scarsa propensione al
cibo, figurarsi se ci saremmo mangiati
dei blocchetti di plastica. Il Lego deve
parte del suo successo al fatto che si
fonda su di una formula di prefabbricazione aperta e consumo “end-user”,
ovvero un sistema di sviluppo che
prevede il progressivo ampliamento
delle possibilità di gioco. Una logica
19
questa, in parte mutuata dal Meccano,
con la differenza però che nel caso del
Lego, almeno nelle prime versioni, ogni elemento era perfettamente omologo a quelli già posseduti. Rispetto a
tutti gli altri giochi che in seguito con
formule più ho meno riuscite cercarono di imitare questo principio, solo il
Lego riscosse un grande successo perché chi con cento mattoncini riusciva a
costruire una casetta quando avesse
raggiunto i mille poteva alternativamente in base alle propensioni sociali
e culturali costruire un falansterio o un
castello. Qualche anno dopo arrivò anche il Pongo, una pasta modellabile in
vari colori. Anche questo gioco, consentiva in base alla quantità di materiale posseduto di realizzare varie cose, ma a differenza del Lego, anche con
20
un quintale di Pongo ed anni di pratica
e con complessi calcoli strutturali per
l’armatura strutturale in filo di ferro,
non saresti mai riuscito a costruire un
castello. Questa breve digressione mette in luce solo un aspetto peraltro marginale delle differenze tra i due giochi
e si è resa necessaria per approfondire
la genialità sottintesa alla concezione
del Lego. Fulcro del sistema del Lego
era il mattoncino “modulo oggetto”9
che determinava in modo proporzionale la passione per il gioco e la classe
sociale di appartenenza. Ogni bambino
aveva comunque del Lego, i più ricchi
9
C.G.Argan , “Progetto e oggetto”, Medusa Edizioni,
Milano 2003, già nella rivista “La Casa”-Quaderni
di architettura e di critica, n.2 , 1958.
21
con il loro patrimonio personale potevano realizzare a casa loro ciò che meglio credevano. I più poveri con il loro
misero sacchetto di mattoncini solo
“qualcosa”. Però mettendo insieme ad
altri bambini, poveri, i loro mattoncini
e sfruttando le doti creative e logiche
del gruppo, si riusciva a realizzare costruzioni ancora più ricche e belle di
quelle degli spocchiosi bambini ricchi. Quest'ultimi, se non ricadevano
nella infamante categoria di coloro
“che non sentono la loro puzza, perché
non hanno il naso”, spesso umiliati da
questo schiacciante confronto, supplicavano per qualche giorno di essere
ammessi nel gruppo ed una volta accolti, ponevano il loro ingente patrimonio di mattoncini a disposizione
della collettività. Questa specie di as22
sociazione in partecipazione senza fine
di lucro, era possibile per un motivo
molto semplice. I mattoncini del Lego
erano tutti uguali, al più cambiava il
colore, quindi una volta che sapevi
quanti ne avevi portati, smontata la
costruzione ognuno si riprendeva i
suoi e tornava a casa felice. Viceversa,
nessuno che ebbe la sventura di mettere in comunione con gli altri la propria
quota di Pongo ebbe mai il piacere di
riprenderselo. Altro non fosse perché
nemmeno con una bilancia di precisione ed uno spettrofotometro saresti
stato in grado di determinare quanto e
di quale colore fosse stata la tua parte
di Pongo. Credo che quelle esperienze
di gioco abbiano avuto una ricaduta
sul futuro professionale di molti ed
anche di alcuni architetti. Un altro a23
spetto fondamentale del gioco del Lego era legato alla quasi totale mancanza di fatica per praticarlo. In primo
luogo si trattava di un gioco sedentario, dato che si giocava seduti per terra e quindi consentiva la pratica anche
ai bambini gracilini che spesso lo prediligevano ad altri giochi più pericolosi e quindi per loro proibiti. Poi era un
gioco pratico e pulito dato che l'incastro era facile, sicuro e sembrava perfetto. Lo smontaggio era altrettanto
veloce, tanto che con un pugno o buttando per terra, la costruzione si
scomponeva in tanti tronconi che poi
facilmente avresti suddiviso per mattoncini riponendoli nella loro confezione se eri di indole ordinato. Se già
mostravi una propensione per il disordine e alla mancanza di regole,
24
buttavi invece tutto dentro la scatola e
poi la volta dopo smontavi man mano
per ricostruire. Questo aspetto lo differenziava sia dal meccano, che comportava una lenta procedura di montaggio, avvita, avvita, avvita e, se sbagli, svita e ri-avvita, ed una identica
operazione per lo smontaggio. Sarà
per questo che qualcuno un po’ più
grandicello si convertì ben presto al
Lego ed anche dal Pongo. Un gioco
che per propria natura non consentiva
alcuno smontaggio e troppo spesso ti
costringeva a trasformare la tua creazione in una massa informe di un colore marroncino striato di venature variopinte. A qualcuno sorgerà legittima
una domanda: - tutto questo a me cosa importa? Lascerò che sia il Lego a
rispondevi. Dato che, pur senza parla25
re, il Lego era in grado di dare risposte
a quasi tutti i quesiti della vita di noi
bambini. Il primo quesito che però durava molto poco consisteva nel capire
perché ti avevano regalato il Lego. Tu
solitamente non lo avevi chiesto, allora
non c'era la pubblicità nella tv dei ragazzi e i giocattoli nemmeno nel “Carosello” trovano posto. Quindi come
avevano fatto a pensare al Lego? Chi ti
regalava il Lego aveva solitamente
giocato con il Meccano ma, essendo
ormai un adulto e perciò, responsabile,
vedeva nei bulloncini un oggettivo pericolo. Poi, quelli del Lego erano persone corrette dato che, in base alla disponibilità di mattoncini della confezione, mettevano sulla scatola solo
immagini di cose realizzabili. Non voglio pensare alla frustrazione che a26
vremmo provato se più furbescamente
avessero applicato un metodo diventato di moda qualche anno più avanti e
non solo nei giochi. Cioè il trucco di
farti vedere cose impossibili da realizzare perche ti mancava sempre qualche pezzo. Da questo punto di vista
l’unico problema era come fare a realizzare quelle costruzioni. Uno cominciava a provarci. Solitamente, dato che
nessuno "nasce imparato10", non ci riusciva, quindi smontava tutto e ricominciava e così via sino a quando non
raggiungeva il risultato. La capacità di
ricominciare da capo per imparare a
fare qualcosa è una peculiarità dei
10
Titolo del libro di Camillo Albanese su Napoli.
27
bambini che hanno giocato con il Lego.
Già alcuni miei amici che ci hanno
giocato molto meno, quando qualcosa
non gli riesce prendono e buttano via
tutto. Quelli nati dopo, che ho avuto
modo di avere come studenti, se non
trovavano scritto come fare, non iniziano neanche a giocare. Un altra domanda consisteva nell'ipotizzare le
possibilità di sviluppo e quindi stimare il fabbisogno di mattoncini per realizzare costruzioni sempre più belle e
più grandi. Questo esercizio comportava una oculata strategia per fare in
modo di ricevere in regalo in ogni occasione altri mattoncini. Raggiungere
questo obiettivo presupponeva l'obbligo di dimostrare una smodata passione per questo gioco affinché i grandi
percepissero con chiarezza e precisio28
ne che ogni investimento per nuovi
mattoncini sarebbe stato un regalo
gradito. Poi si passava ad una azione
di coinvolgimento dei genitori nel gioco con lo scopo, nemmeno troppo celato, di sviluppare in loro un certo interesse e la comprensione del problema.
Solitamente queste due azioni bastavano e per far si che al compleanno o a
Natale arrivassero nuovi mattoncini.
Se l'operazione falliva potevi sperare
che un amico più grande, in un impeto
di generosità ti regalasse la sua dote di
mattoncini. Perché il Lego diventava
così intrigante? In primo luogo perché
era in prevalenza una sfida con te stesso. Una specie di gara di cui tu solo
scrivevi le regole, davi gli ordini, sceglievi le mosse e giudicavi se il risultato fosse degno di essere mostrato ai
29
grandi. E già in questo c'è l'essenza di
una metodologia che partendo dal
progetto deve portare al risultato
comportando inoltre una adeguata
dose di autocritica anche perché se il
risultato non era un gran che quando
lo mostravi ai grandi quel “bravo” detto a mezza voce e con tono di sufficienza era peggio di un sincero: "che
schifo" e quindi preferivi evitarlo.
Quale conseguenza di questo primo
aspetto c'era il fatto che il risultato aveva una vita molto breve, dato che si
sarebbe dovuto smontare in fretta per
recuperare i mattoncini per qualche
nuova realizzazione. Questo aspetto ci
ha insegnato che il conseguimento di
ogni risultato vale in quanto tale e salvo poche ed eccezionali realizzazioni
la durata di ogni sforzo e commisura30
ta al bisogno di raggiungere nuovi risultati. Vi starete chiedendo tutto questo cosa possa centrare con le architetture di oggi? Le certezze del Lego erano espressione compiuta di un pensiero positivista. L’informale che il Pongo
introduce sono le premesse di una relatività ormai pervasiva. Di fronte alle
forme che dicono siano decostruttiviste11 viene da chiedersi come chiamarle.
11 Ovvero architetture che si ispirano al pensiero
del filosofo Jacques Derrida, che ha dato luogo
alla mostra “Deconstructivist Architecture” organizzata a New York nel 1998
31
32
Il problema del nome
In un probabile futuro, di molte delle
architetture che animano il dibattito
culturale di questo secolo da poco iniziato, come molte altre del passato
prossimo e remoto, resterà traccia solo
nei libri di storia. Certo è che affrontare le architetture del nuovo millennio
pone in essere un primo problema che
riguarda i numerosi tentativi di denominarle ed in qualche misura classificarle per genere. Architetture decostruttiviste, architetture non standard,
architetture free form, architetture
topologiche o a topologia complessa,
architetture high-tech, architetture ad
33
alta densità tecnologica, architetture
organiche, architetture new wave, architetture digitali, architetture delle
nurbs, architetture blobboidali, architetture fluide e in estrema estensione
architetture liquide, transarchitetture e
Wilfing architettura12; sono forse solo
alcune delle possibili denominazioni
che chi ne abbia parlato o scritto, prevalentemente nel web, ha tentato di
adottare. E’ al contempo corretto dire
che tali denominazioni, in parte coniate dagli stessi autori, in parte da chi a
vario titolo ed in varia misura ne abbia
tentato, più che una analisi, un esegesi,
sono state adattate di volta in volta a
Sono tutti nomi di blog, siti o recensioni che si
trovano nel web.
34
12
episodi tra loro estremamente diversi
ed eterogenei. In questo senso basta
chiedersi come possano essere assimilabili il cinema UFA di Dresda, una
delle prime architetture di ampia risonanza di Coop Himme(l)bau, e gli interventi per il NYSE del gruppo Asymptote. Appare quindi chiaro che al
di la di essere unanimemente riconosciute come architetture, in quanto edifici o spazi a vario titolo fruibili ed abitabili, che sicuramente esprimono una
valenza formale se non unitaria perlomeno assimilabile nella spettacolarità del loro apparire, di per se stesso il
problema del nome è un falso problema che condizionando la cronaca, attende paziente il giudizio della storia.
In questo senso, confesso che alcune
delle architetture di cui parlo, almeno
35
per quelle di cui ho avuto esperienza
diretta, mi confermano nella convinzione che al di là del gioco formale,
della
curiosità
per
il
nuovo,
dell’interesse per la soluzione tecnica
costruttiva, più o meno risolta, hanno
lasciato in me il dubbio, in parte confermato dai fatti, che a differenza di
altre architetture, alla seconda o terza
visita non avrebbero avuto più nulla
da dire. In alcune di esse, e qui penso
al Gugghenaim di Bilbao di Gehry, alla
Cupola di Foster per il Reichstag di
Berlino all’Arcade Center di Piano
sempre a Berlino, seppure piene di
gente, quindi animate e vitali, il senso
delle relazioni tra l’uomo e lo spazio
risulta fortemente alterato e in parte
irreale. Al punto di spostare la concentrazione dai caratteri che tale spazio
36
esprime, al senso che esso intende affermare. Altre invece come il museo
ebraico di Libeskid quando era ancora
vuoto e Notre Dame de Haut, che però certo non rientra nel nuovo
dell’architettura, pur volutamente
pensate per operare uno straniamento
spaziale nel visitatore, sapevano comunicare con naturale immediatezza
le scelte sottintese al controllo dello
spazio prodotto. Sicuramente questi
sono giudizi viziati dalla soggettività e
quindi di per se stessi relativi. Sono
comunque un impressione che ha radicato in me la convinzione che la novità architettonica fine a se stessa, la
ricerca di una magniloquenza minimalista dello spazio ed in alcuni casi la
reiterazione di modelli altrimenti risolti e funzionali come per le architetture
37
della tradizione, determinano casi riusciti e casi irrisolti. Diverso però deve
essere l’approccio alla possibilità di
definire per esse delle categorie omogeneamente valide per classificarle. In
realtà il bisogno di classificazione è
intrinseco alla natura stessa del loro
essere, o voler essere, architetture ed in
quanto tali, omologabili a ciò che sino
al loro avvento è stata più o meno unanimemente considerata architettura.
Ammettendo il fatto che il valore intrinseco di un architettura, specie agli
occhi di uomo comune, sia e resti
l’empatia emozionale che essa sa trasmettere. Di fronte ad una costruzione
ciascuno di noi cerca il rasserenante
senso di ricovero che questa sa offrire,
una commisurata gestione degli spazi
che esprimano un ordine idealmente
38
ricercato, una coerente e funzionale
integrazione tra le parti e gli elementi
che la costituiscono. In subordine a
ciò, un architettura può destare stupore o meraviglia, curiosità ed interesse,
in alcuni casi anche sgomento ma ciò
sono sensazioni e giudizi che per effetto della loro natura effimera tendono a svanire nel disinteresse
dell’abitudine. Ho usato deliberatamene
il
termine
disinteresse
dell’abitudine, vuoi per la sua assonanza con il senso
intrinseco
dell’abitare, vuoi perché credo che tra
le categorie che a torto o ragione condizionano il giudizio sull’architettura,
ogni spinta all’ innovazione comporti
nei potenziali fruitori quel senso di disagio che ha portato molti ad asserire
che gli architetti: pensano le case per la
39
gente e poi si arrabbiano perché la
gente non ci vive come loro avevano
immaginato. Ora anche se da più parti
si va teorizzando l’avvento di un uomo cibernetico, ovvero un uomo talmente integrato al variegato mondo
dei nuovi media istruiti da logiche digitali, che trarrà beneficio e benessere
da una progressiva sinapsi con realtà
virtuali, confesso che è una prospettiva
che oltre a vedermi oltremodo scettico
mi spaventa. Mi spaventa al pari della
visione di un amico d’infanzia che ci
immaginava soli, seduti in una poltrona, come in un cinema, a veder scorrere la nostra vita con la quale comunque interagivamo in una specie di realtà virtuale ante litteram. Ma certo è che
oggi in tempi di global-network e second-life, l’idea di progettare per un
40
abitante nomade cibernetico se non
facilita il compito, sicuramente smaterializza il giudizio su quelle che storicamente e universalmente sono state
riconosciute come qualità intrinseche
di un architettura. Ed in tal senso, senza scomodare le molteplici e ormai discrezionali terne vitruviane, è sicuramente più semplice riferirsi ai caratteri
determinanti di ogni manufatto architettonico: la struttura, o se si preferisce
l’impianto strutturale inteso come sistema di elementi portanti o autoportati che conferiscono stabilità alla costruzione. Lo spazio, ovvero la conformazione che i possibili elementi che
costituiscono la costruzione determinano tra loro, con gli ambienti che generano e con l’intorno. Intendendo
con ciò i molteplici approcci che tale
41
spazio consente in termini di percezione, percorrenza, fruizione o uso e le
relative possibilità di descrizione geometrica. Da ultimo le superfici, ovvero le infinite variabili tra riflessione e
permeabilità alla luce che i materiali
adottati consentono e determinano.
Prima di addentrarci in un tentativo di
lettura di alcune di tali architetture
mediante i caratteri sopraesposti è opportuno ritornare un momento sulla
componente nominalista che molte di
esse presentano. Il concetto stesso di
nominalismo sottintende la citazione o
il riferimento ad una altro e diverso
oggetto o concetto da cui tali architetture dicono di trarre origine. Alcune
di esse, forse quelle che finiscono per
essere le meno curiose ed originali,
mutuano per affrancare un processo
42
morfogenetico di natura topologica
figure geometrico-matematiche come
le superfici minime, il nastro di Moebius o la bottiglia di Klein. In ciò vi è
una sola novità rispetto al passato, ed
è il fatto che mediante sistemi di rappresentazione e prefigurazione istruiti
da algoritmi basati su funzioni polinomiali, sia possibile operare con relativa facilità operazioni di discretizzazione delle geometrie curvilinee che
definiscono tali oggetti. Consentendo
così nella generalità di tali casi una
modellazione plastica delle superfici
da cui derivare, quando possibile, una
matrice strutturale coerente. In tale ottica si giustifica una altro nome che
tali architetture ogni tanto assumono:,
“architetture delle pelli”, intendendo
con ciò in senso estensivo la natura
43
stessa della pelle che non solo assolve
la funzione di rivestimento al corpo
umano ma essendo anch’essa organo
vitale e sensibile può ricevere e trasmettere segnali e messaggi.
44
La percezione dell’architettura
contemporanea
Confrontarsi con alcune delle architetture contemporanee comporta dunque, oltre ad una radicale revisione
delle categorie di giudizio, la definizione di nuovi paradigmi atti a inquadrare il fenomeno esperito. Certo è
che, scorrendo la cronaca di architettura, che spesso finisce con il confondere
la critica con il giudizio storico, forse
prematuro e comunque ancora troppo
vivido per una pacata valutazione, saremmo portati a pensare che il presente delle architetture free-form, possa
condizionare e istruire il futuro delle
45
nostre città. Più di un motivo può pero portarci a pensare che così non sarà
dato che ognuno di tali episodi, spesso
frutto di oculate operazioni di marketing, legati allo star system dell’architettura, è di per se stesso unico e, si
spera, irripetibile. Perché se così non
fosse assisteremmo, come in alcuni casi già accade, ad una perniciosa clonazione di stilemi impropri che, laddove
replicati serialmente oltre a perderne il
senso già di per se stesso impalpabile,
risulterebbero di una stucchevole incoerenza logica, formale e funzionale.
Per alcuni versi pare che in tali architetture si riverberi quella che è stata
l’atassia del design degli anni ‘90. Dove ad una non sempre coerente definizione del design inteso come spinta
innovativa si è sostituita una reitera46
zione delle tecniche di morphing, fortemente coniugata a semplici operazioni di styling concentrate sulla valorizzazione degli aspetti esteriori ottenuta enfatizzando solo il trattamento
delle superfici, ovvero la “pelle dell’
oggetto”. Non è quindi un caso che in
molte di tali architetture, se tali poi
possono
essere
considerate,
l’involucro, cioè la pelle, sia proprio la
determinante e la ragion d’essere. Ed
altro non poteva essere dato che se
mediante le nurbs è possibile condizionare e definire le geometrie della
forma apparente ben altra cosa è la definizione dell’ impianto strutturale che
conforma gli spazi, un compito in molti di tali casi demandato a complesse e
non certo di uso comune operazioni di
enginnering. Queste prime considera47
zioni non devono però trarre in inganno, dato che credo che l’unico atteggiamento mediante il quale confrontarsi con edifici sicuramente ricchi di
suggestione ed in quanto edificati, ascrivibili al rango di architettura, sia
un sano spirito agnostico. Già in queste prime righe ho usato tre termini
per definire tali episodi: architetture,
edifici, fenomeni. Dei tre il più coerente è probabilmente fenomeno, in quanto seppur edificati e quindi fruibili al
pari di altre architetture del passato e
del presente, tali spazi si propongono
in primo luogo di stupire e far parlare
di se. Tale componente per così dire
mediatica che li accompagna, spesso
ancor prima di vedere la luce, è forse
la cifra che li accomuna tutti e li pone
in una aura di meravigliato stupore
48
gravido di pregiudizi artatamente veicolati. In tal caso, la necessità di ridefinire oltre alle categorie usuali con le
quali siamo soliti valutare, e per molti
versi giudicare, un architettura: ordine
delle generatrici geometriche organizzazione funzionale degli spazi, giustapposizioni dei volumi, impianto
strutturale e soluzioni tecnologiche.
Aspetti abitualmente considerati quali
parametri della coerenza del progetto
all’uso per il quale si propone, il paradigma, ovvero l’assunto metodologico
mediante il quale condurre una lettura e trarre sintesi, non può prescindere
da un rigore logico che vada oltre alla
semplice
percezione
sinestetica
all’apparenza unico medium che molti
di tali edifici propongono. Paradigma
che, condiviso o meno che sia, non
49
può prescindere dal considerare le relazioni tra episodio (di architettura) e
contesto: socio-economico, culturale,
politico e nella specificità del caso tecnologico. In tempi di globalizzazione,
spesso conclamata e poco rispondente
ai provincialismi che invece contraddistinguono i vari localismi che ancora
contraddistinguono il pensare sociale,
la vera novità che molti di tali edifici
pongono in essere è proprio la sostanziale decontestualizzazione su cui si
fondano. Recentemente un architetto
italiano li ha definiti paracadutati e
credo che non sbagliasse di molto ad
asserire che ciascuno di tali edifici avrebbe potuto trovare posto in ogni
luogo , che poi in sostanza equivale a
nessun luogo. In effetti un primo equivoco che appare evidente è la contrad50
dizione tra architettura e oggetto di
design, quali tali edifici sono e credo
segretamente ambiscano ad essere. La
prima nasce in luogo e con tale luogo
dialoga in quanto in quel luogo permane. Il secondo in una valigia, o nella
stiva di una nave, può raggiungere
ogni punto del globo. Con il diffondersi di strumenti informatici di disegno
assistito, nell’ambito delle discipline
riconducibili alla previsione delle modalità di costruzione dell’architettura,
si aprono numerose questioni che a
vario titolo interessano il rapporto
dualistico che lega procedimenti tecnologico-costruttivi e disegno. La prima di queste, con valore ordinatore,
riguarda le condizioni di identità biunivoca tra capacità di prefigurazione
del componente e sua effettiva com51
prensione. Alla tradizione fondata sulla necessità di pre-figurare, con finalità
di verifica e comunicazione, mediante
sistemi e codici grafici condivisi e perciò intellegibili, forma e caratteri del
componente edilizio fosse questo concepito o conosciuto, si va sostituendo
una pratica di tipo simbolico per effetto della quale il componente e di conseguenza le sue modalità di utilizzo ed
applicazione vengono considerate date
ed in quanto tali note. Un esempio significativo di tale atteggiamento è riscontrabile nella consuetudine di disporre e quindi avvalersi nei diversi
software di disegno assistito di blocchi
grafici precostituiti e poco importa se
questi, spesso definiti in relazione a
contesti edificatori, culturali o territoriali differenti, poco e male si adattino
52
allo specifico del progetto in cui vengono applicati. Un secondo aspetto,
non certo secondario nel definire la
questione, interessa il fattore di scala.
Nel disegno analogico, la materialità
supporto su cui si sarebbe attuato il
tracciamento grafico, imponeva la previsione dell’intero impianto figurativo
introducendo la necessità di operare
preventivamente le necessarie riduzioni logiche e l’adozione di una coerente significazione semantica. Oggi in
uno spazio virtualmente illimitato e
basato su di una unità metrica sostanzialmente adimensionale, ogni elemento, componente o oggetto è concettualmente rappresentabile al reale anche se poi spesso tali rappresentazioni
difettano del dettaglio che tale scala
presupporrebbe o finiscono con il di53
venire ridondanti ove per la contingenza dei formati di output l’ammasso
di informazioni in esse contenute diviene illeggibile. Terzo ma non ultimo
fattore è il sistema grafico geometrico a
cui tali raffigurazioni si rapportano.
Anche in questo caso ad una consuetudine di scomposizione planare delle
viste, comunque tra loro interrelate e
quindi spazialmente comprensibili, si
va sostituendo una concezione ibrida
tra modellazione tridimensionale e
disegno bidimensionale che in concorso alle ragioni sopraesposte difficilmente riesce adeguatamente ad assistere un naturale e coerente sviluppo
del progetto. Vi è poi il problema, e
proprio di problema si tratta, della effettiva comprensione e conoscenza del
componente. In tal senso, ad un nume54
ro sostanzialmente limitato e circoscritto di elementi costruttivi spesso
tra loro conformi, vuoi per il naturale
processo di innovazione tecnologica,
vuoi per la progressiva ibridazione del
mercato dei componenti con materiali
e tecnologie mutuate dal comparto
industriale ed ancora per effetto di una
non sempre esaustiva e coerente manualistica e pubblicistica di informazione tecnica, molti dei nuovi elementi o componenti che concorrono alla
costruzione restano spesso ad un livello di conoscenza metafisica. Per
l’insieme di tali ragioni, si finisce così
per assistere ad un nuovo e diverso
modo di porsi nei confronti del progetto. Un modo, o forse è più corretto definirlo atteggiamento, per effetto del
quale andando perdendosi la cono55
scenza delle concrete potenzialità di
componenti e materiali, delle tecniche
e dei procedimenti tecnologici mediante i quali questi divengono idonei alla
costruzione e dei modi e delle regole
geometriche con cui si rappresentano,
ogni scelta sia essa formale o figurale
diviene in assunto possibile ed in
quanto, mediante la virtualità del disegno, essendo visibile, plausibile. In
questo senso è quindi indispensabile
dare corso ad un ripensamento dei
modi che ponga al centro di qualsivoglia proposta formativa, il grado di
consapevolezza a cui lo studente giunge in relazione alle scelte che si trova
ad operare. Con l’affermarsi di un
spazio virtuale o se si preferisce digitale, si impone un ripensamento sui codici mediante i quali gli oggetti archi56
tettonici entro di esso prendono forma.
Alla naturale capacità analogica di prevedere mediante scomposizioni planari la giustapposizione di elementi che
conformando gli spazi definivano i volumi, si assiste oggi ad un inversione
del processo per effetto della quale è
dalla costruzione del volume, costantemente pre-vedibile, che discendono
spazi ed elementi mediante i quali si
giunge ad una definizione dell’oggetto
architettonico. Di tale condizione, per
alcuni versi ancora incompiuta e ambigua, vuoi per l’inefficacia dei mezzi
strumentali a cui si ricorre , vuoi per
una specie di costante ibridazione tra
tendenza al nuovo e memoria
dell’esperienza, si deve comunque tener conto nel concepire un modello
contemporaneo di progetto formativo
57
all’architettura. In tal senso va inteso
questo scritto che si propone in primo
luogo come occasione di confronto e
discussione tra le differenti discipline
che ad essa concorrono ed al contempo
vorrebbe assistere gli studenti in un
processo di presa di coscienza sulla,
solo in via teorica dimostrabile, identità tra i mezzi medianti i quali il fine
che nel nostro caso è il fare architettura, vengano perseguiti. L’evidente inversione di termini determina, quale
prima ricaduta sui processi formativi,
una sostanziale revisione di un ontologia procedurale che fa discendere
l’insieme, inteso come risultato del
processo progettuale e formativo ottenuto per sommatoria dei fattori caratteristici, verso una proceduralità maieutica in cui da un insieme assunto a
58
caso di studio, vengono progressivamente estratti i caratteri specifici delle
diverse componenti che ad esso concorrono e lo caratterizzano sino a
giungere, cosa essenziale ai fondamenti scientifici e teorici su cui i diversi
contributi disciplinari si fondano Detto
in parole povere, dal insegnare a costruire il progetto si dovrà giungere
quantomeno ad un abitudine nello
smontare il progetto per comprenderlo
e processarlo.
59
60
Forme dell’architettura
L’architettura, qualunque architettura
quindi anche il più comune edificio
quello che Zevi ebbe a definire il
“volgare dell’ architettura” ovvero l’
espressione di una cultura ed un sapere diffuso e spontaneo, rispetta, per
legittimare la propria condizione di
esistenza, le leggi della fisica. In altre
parole si sviluppa nelle tre direzioni
dello spazio euclideo, che poi è l’unico
spazio con cui da millenni ci confrontiamo, operando un gioco di scarico
delle forze nel rispetto della gravità. In
questi due termini: spazio euclideo e
gravità sono ancora oggi a mio parere i
61
confini del fare architettura, anche se
qualche ingenuo ottimista pensa che
con l’apparente smaterializzazione offerta dai sistemi digitali si possano riformare tali paradigmi adducendo che
alcuni segnali già esistono, dato che La
grand’arche13 alla Defense incarna
l’idea dell’ ipercubo espressione della
quarta dimensione, e la sede dell’emittente televisiva CCTV a Pechino14, è la
materializzazione di una figura impossibile quale è la costruzione a 4 travi
incrociate che notoriamente esiste solo
Edificio costruito a Parigi a seguito del concorso del 1982 per la commemorazione del bicentenario della presa della Bastiglia. Concorso vinto da
Johann Otto Von Sprecklesen.
13
14
Rem Koohlas
62
a livello grafico percettivo. In merito a
ciò, come ho già detto, preferisco la
rasserenante abitudine degli spazi che
meglio conosco, ovvero quello euclideo governato dal sistema cartesiano,
da cui guardare con curioso interesse
le infinite trasformazioni che mi dicono si rendano possibili se al mio limitato spazio si venisse a sostituire un
continum topologico. Con estrema sincerità confesso che sebbene creda di
aver compreso, almeno in parte, la
portata rivoluzionaria di una altro e
diverso modo di concepire lo spazio e
la flessibilità progettuale che assicura
l’uso delle nurbs, constato che però poi
tali illuminate speculazioni, devono
tornare nel molto più prosaico mondo
della gravità. Tant’è che del continuum del nastro di Moebius, nella Moe63
bius haus di UNStudio si è persa proprio la continuità, dato che ragionevolmente il vero problema era convincere gli abitanti, per quanto motivati e
collaborativi fossero, a camminare a
testa in giù per ritrovarsi in salotto. In
merito a ciò, devo dire che da sempre
si parla del contributo che la matematica, e con essa le differenti geometrie,
possano apportare alla comprensione e
alla definizione dell’ architettura. In
realtà tale contributo sin dalle prime
formalizzazioni delle regole architettoniche sia nel comporre, che nel costruire, è stato centrale nella formalizzazione di regole, o magari “ricette”
che l’architetto standard e l’ingegnere
medio potessero applicare ottenendo
discreti risultati. Anche in passato
qualcuno più dotato o più curioso ha
64
mutuato leggi fisiche interpretate con
calcoli matematici per spingersi oltre,
sempre però con la consapevolezza
che le forze comunque le indirizzi e le
orienti alla fine si scaricano a terra.
Oggi però sempre più spesso si sente
parlare delle infinite possibilità generative, magari anche auto elaborate,
che la matematica alla base del calcolo
elettronico offre. In questo caso, chiaramente non vi sono ricette da trasmettere, perché le ricette sono già implementate nel sistema di calcolo e definizione delle forme e quindi solo interagendo con il sistema stesso si potrebbero determinare variabili e discriminanti che vadano oltre alla naturale e per molti versi cognitivamente
incontrollabile mutevolezza della curva per punti. A questo punto è chiaro
65
che all’architetto e per molti versi anche all’ ingegnere non è più richiesta la
conoscenza dei presupposti geometrico matematici per governare gli esiti
formali e strutturali, ma bensì la conoscenza matematica necessaria per interagire con i presupposti stessi al fine di
determinare almeno in via ipotetica
nuovi esiti comunque poi da verificare
con la contingenza delle fattibilità tecnico costruttive. Si richiede dunque, ad
un sapere prevalentemente tecnico,
una diversa consapevolezza che per
necessità sconfina nella scienza, un territorio notoriamente di frontiera in cui
i paradigmi vengono definiti e ridefiniti in un costante divenire. In questo
caso si dovrebbe quindi riformare il
paradigma stesso su cui si fonda
l’architettura che notoriamente mira
66
coniugare l’arido dominio della tecnica
con la supposta ricchezza delle conoscenze umanistiche, ridefinendo così il
ruolo di una figura professionale che
già in proprio vive le contraddizioni di
un sistema socio culturale in cui conta
più ciò che appare nel firmamento dello star system che non la sostanza di
ciò che si cela dietro tale apparire.
Questo atteggiamento, che non temo
di definire deliberatamente reazionario, si fonda però su più di una magari
discutibile, ragione. La rincorsa del
nuovo per il nuovo, in architettura, ha
solitamente lasciato il tempo che ha
trovato. In questo senso si pensi alle
visionarie
utopie
di
parte
dell’architettura del primo dopoguerra,primo tra tutti Soleri e lo stesso Fuller, che appunto basava la propria ri67
cerca su presupposti matematici comunque fortemente connessi al mondo
della fisica, le cui architetture hanno
avuto riscontro e seguito prevalentemente nel mondo del fumetto. Architetture che solo oggi vengono riscoperte e in parte rivisitate proprio in quanto sgravate delle complessità matematiche da cui traggono origine in quanto
facilmente raffigurabili mediante operazioni di morphing di primitive geometriche e solidi in un comune sistema
di disegno assistito. Vi è poi la riscoperta dell’”architettura del calcolo”, in
questo caso statico. Millart, , l’ultimo
Le corbusier Nervi, Musmeci ed ancora Felix Candela, Reima Petilla e Otto
Frei anche se quest’ultimo con sistemi
di costruzione leggeri oggi riscoperti
in funzione di un rinnovato interesse
68
per il Problema di Palteau15 sulle superfici minime; hanno esplorato le potenzialità della sinergia di materiali
antitetici e complementari quali risultano essere ferro e cemento per ottenere con verifiche analitiche di tipo discreto, quello che oggi Mutsuro Sasaki
ed altri studiano mediante algoritmi
evolutivi, ovvero processi di calcolo
capaci di auto rigenerarsi al fine di
giungere potenzialmente alla defini-
problema matematico noto come Problema di
Plateau, dal nome del fisico belga J.A.F. Plateau
(1801-1883) che partendo dallo studio delle lamine saponose, tende alla definizione delle superfici
minime ed in ragione di ciò più efficaci alla reazione delle forze con esse interagenti
15
69
zione della forma migliore in base a
parametri dati. In questo caso, senza
essere luddisti, si comprende come il
demandare alla macchina la determinazione suppur probabilistica ed interattiva di scelte che interessano la forma, introduce processi meccanicistici
che molto assomigliamo alle innumerevoli funzioni od utility che ci propone oggi qualsiasi apparecchio elettronico. In questo senso esemplare è la
funzione di riconoscimento del volto
operata dalle più recenti macchine fotografiche digitali, un utility appunto
che se tento di fotografare un edificio
eclettico mi sfuoca la facciata per meglio definire il volto del fanone che
regge il balcone sopra il portone. Da
ultimo, ma non per questo secondario,
l’architettura deve oggi, per necessità,
70
ridefinire il proprio ambito speculativo, dato che da un lato le pratiche urbanistiche hanno ormai operato il superamento della fase prescrittiva e dei
modelli per giungere a dinamiche di
tipo negoziale. Un approccio questo
maggiormente orientato alle scienze
sociali ed alla definizione di matrici
culturali entro le quali il processo edificatorio risulta necessariamente un
fattore secondario e, dall’altro l’ormai
raggiunta autonomia del disegno industriale, che partendo in un certo
qual senso da una posizione di sudditanza rispetto all’architettura, ha già
avuto modo, altro non fosse che per
meglio definire una propria autonoma
fisionomia, di esplorare il complesso
mondo delle potenzialità di generazione della forma e controllo delle fasi
71
produttive offerte dai sistemi di modellazione informatica. Passando peraltro, ancor prima delle potenzialità
offerte dal mezzo informatico, nello
studio del biomorfismo quale generatore della forma. Ed è proprio pensando al design e ad alcune delle sue peggiori derive di questi ultimi anni16 che
l’architettura può trarre ulteriori criteri
di giudizio sulle questioni poste in essere da questa nuova forma espressiva,
quella del “free-form”, che forse è la
denominazione più coerente per molte
delle architetture di questi ultimi anni.
16 Si pensi allo “styling”, ovvero una ossessiva e
volte improduttiva attenzione al valore delle superfici, intese come unico fattore di innovazione
della forma.
72
Criteri che andranno in questo caso ad
interessare sia il processo tecnologico
di utilizzo dei materiali con la componente dell’effettiva durabilità delle
loro prestazioni che cosa sicuramente
di maggio importanza la differenza di
scala. In quanto quello che vale alla
scala dell’oggetto, che come tutti sanno
dove lo metto sta e li permarrà per un
dato tempo, non può valere per un architettura che, ci piaccia o meno, deve
comunque dialogare, magari anche in
modo contraddittorio e verboso, ma
comunque coerente sotto il profilo logico con il contesto al quale si relaziona e potendo ammortizzare nel tempo
gli investimenti che ha comportato
specie se come in questi casi molto
spesso accade mira ad essere unica e
potenzialmente irripetibile. Chiuse con
73
ciò le premesse ritenute necessarie per
delimitare il campo d’indagine è quindi possibile prospettare i metodi mediante i quali operare una lettura di
alcuni casi inerenti tali architetture.
74
L’ho già detto, non ho scritto questo libretto per la gloria accademica. Qualcheduno
potrebbe obiettare che il bene supremo è la
scienza, e questo è un bel modo per perdere
tempo. Sia ben chiaro, le parole e i pensieri
che stanno qui dentro sono usciti nel tempo al di fuori dell’università. Un ambiente
in cui ormai si fatica a capire perché il
tempo passato a pensare sembra spesso
sprecato17. Per il tempo c’è poco da fare.
Sino a quando l’università sarà valutata
con criteri pseudo aziendali, comprimere il
tempo, incrementa il prodotto e la qualità
dello stesso entra nel conto in termini solo
17 L’università sta vivendo una sindrome di efficientismo, per effetto della quale termini stranieri,
prevalentemente in inglesi e muotati dal marketing
imperano.
75
numerici. Oltretutto la materia prima in
ingresso, cioè lo studente, a volte presenta
numerosi difetti18. Non voglio passare per
giovanilista, ma credo che la colpa non sia
del soggetto, cioè lo studente, bensì di un
sistema che lo ha abituato a pensare che la
cultura ha un valore prevalentemente economico. Non è dunque un caso che quelle
che ai mie tempi erano lacune di cui avevi
consapevolezza, oggi siano diventati “debiti formativi”. Oggi, come ai miei tempi, un
pezzo di carta non si nega a nessuno e il
dibattito continua a girare attorno al valore legale di quel pezzo di carta. Angelo Pa-
Si era soliti usare il termine “lacune”, oggi chissà perché rinominate “debiti formativi”.
76
18
nebianco19 recentemente20 ha teorizzato di
poter circuire il problema invertendo il
momento della verifica. Alla valutazione
finale di un percorso di studi, si andrebbe a
sostituire un esame in ingresso al successivo ciclo di studi. Così facendo, egli teorizza “seri esami obbligatori per l’accesso
alle università” avrebbero come benefico
effetto, un attenzione da parte di genitori e
studenti sulla qualità della formazione.
Chiudendo il suo pezzo invita al dibattito.
Gli studenti a cui mi rivolgo con questo
lavoro, sono entrati in una facoltà di architettura superando un test nazionale a detta
Politologo e saggista, è professore universitario
a Bologna presso la Facoltà di Scienze Politiche.
19
“Requiem per un esame”, Magazine del Corriere
della Sera del 2 aprile 2009.
77
20
di alcuni, anche, selettivo. Per come interpreto io la questione, bisogna che
l’università trovi il modo di uscire dalla
posizione di stallo in cui è suo malgrado è
finita. Da un lato abbisogna studenti21,
dall’altro per alcuni corsi di laurea ne ha
forse anche troppi22. Oggi è acceso il dibat-
Stando alla scheda tecnica allegata al D.M. n.
146 del 28.070.2004, il 30 % del Fondo di Finanziamento Ordinario di una università è legato al
numero di studenti iscritti, anche se poi intervengono correttivi in base al numero di laureati e ad
altri indicatori inerenti la ricerca. Una seconda
risorsa economica, non certo secondaria, sono le
tasse universitarie che sono direttamente proporzionali al numero e al reddito degli iscritti.
21
Questa è una mia considerazione ma, stando ai
numeri espressi dal rapporto del CRESME: il
mercato della progettazione architettonica in Italia, del
78
22
tito sulla “governace”23 delle università.
Quale che ne sarà la forma che la legge, se
viene emanata, vorrà delineare, resta il
problema del numero degli studenti e delle
qualità culturali che presentano al loro
ingresso. Per limitare numericamente gli
accessi, un sistema ragionevolmente sicuro
è aumentare le rette. È un sistema a dir
poco ingiusto e classista, ma porterebbe
allo scoperto la contraddizione di fondo per
2008 – il Sole 24ore, in Italia sono attivi 123.000
architetti e gli studenti di architettura sono 76.000.
Considerando che il numero programmato per il
2008 prevede circa 10.000 studenti in ingresso su
tutte le facoltà di architettura italiane è evidente
una sproporzione tra il fabbisogno e l’offerta.
Il termine governace è usato nelle Linee guida del
Governo per l’Università emanate dal Miur del
6.11.2008
79
23
la quale non si sa bene se lo studente è un
utente oppure un cliente o, più semplicemente, sta li senza saperne il perché. Nel
primo dei casi ha anche doveri, nel secondo
giustamente reclama solo diritti. Considerandolo utente gli dobbiamo qualcosa, se
invece è un cliente più logico è vendergli
quello che vuole. Se stesse li senza saper
nemmeno lui il perché, la questione è spinosa.
80
Molto si parla e si è parlato di una sostanziale idiosincrasia
tra l’architettura contemporanea e la gente. L'idea qui
proposta non è certo nuova ma, a mio parere, ben si adatta a
stimolare un confronto sul tema della architetture a forma
curvilinea e sul rapporto che tali modelli possono avere
sia nella concretezza costruttiva che nella didattica. In tal
senso la questione centrale è identificare un modo
mediante il quale l’adesione ad un idea di architettura sia
esplicita e manifesta. L’urgenza di tale questione è da
ricercarsi in un sempre maggiore ricorso a “previsioni
digitali” che per propria natura non ammettono giudizi di
natura analogica delle qualità che il progetto esprime.
Claudio Umberto Comi
Pongo architetture
gnoseologia delle architetture freeform
Claudio Umberto Comi (1960) è
architetto e ricercatore universitario e si
occupa di disegno del paesaggio e di
architettura. E’ autore di numerosi libri
tra cui: lezioni zen (1998); sul paesaggio
(2001) la pratica del modello (2008),
spazio, tempo e città (2009), e, quaderno
di rappresentazione (in stampa).
OPINIONI MINUTE
Molto si parla e si è parlato di una sostanziale idiosincrasia
tra l’architettura contemporanea e la gente. L'idea qui
proposta non è certo nuova ma, a mio parere, ben si adatta a
stimolare un confronto sul tema della architetture a forma
curvilinea e sul rapporto che tali modelli possono avere
sia nella concretezza costruttiva che nella didattica. In tal
senso la questione centrale è identificare un modo
mediante il quale l’adesione ad un idea di architettura sia
esplicita e manifesta. L’urgenza di tale questione è da
ricercarsi in un sempre maggiore ricorso a “previsioni
digitali” che per propria natura non ammettono giudizi di
natura analogica delle qualità che il progetto esprime.
Claudio Umberto Comi
Pongo architetture
gnoseologia delle architetture freeform
Claudio Umberto Comi (1960) è
architetto e ricercatore universitario e si
occupa di disegno del paesaggio e di
architettura. E’ autore di numerosi libri
tra cui: lezioni zen (1998); sul paesaggio
(2001) la pratica del modello (2008),
spazio, tempo e città (2009), e, quaderno
di rappresentazione (in stampa).
OPINIONI MINUTE
Scarica

cop opinioni 2.cdr - Politecnico di Milano