con le Costituzioni - che sono rimaste di
lui.
Ne traggo suggerimenti per la mia vita
spirituale, e anche indicazioni precise per
la comunità cristiana, soprattutto per
quella che lo venera come Patrono e della
quale sono a servizio.
SAMZ è un uomo deciso che suona la
sveglia, la sentinella che lancia il grido
d’allarme alla città addormentata: non
può la comunità cristiana rimanere tranquilla nel solito tran tran, e neppure isolarsi nella quiete di un terreno privilegiato. Infatti un nemico prepotente sta trionfando senza incontrare resistenza, il peccato, cioè la negazione oppure l’effettiva
emarginazione di Dio dalla vita
dell’uomo. E ciò è male, soprattutto è
ingiusto! Nel cuore del vero credente arde
una prepotente necessità, quella di gridare l’amore di Dio.
Del resto l’uomo non raggiungerà mai la
gioia alla quale aspira se non in Dio,
perché è fatto proprio per andare a Dio.
Ogni altra meta alternativa lo svilisce.
Il primo impegno della comunità cristiana
è dunque la santità: deve lasciarsi
“toccare” da Dio, diventare sua, realtà
malleabile plasmata dalle sue mani. Deve
riconoscere, contemplare, accogliere e
gustare l’amore. Possiede tutti i mezzi che
le occorrono.
Questo impegno di santità è in funzione
della realizzazione della missione che
Gesù Risorto le assegna, quella di proclamare pubblicamente le opere di Dio e
farsi tramite del suo amore a ogni uomo.
SAMZ ha riassunto il tutto in quattro parole: occorre riformarsi per riformare.
Quel “riformarsi per riformare” mi martella sempre nella mente, mirabile sintesi
di una vita tutta fuoco. Mirabile sintesi di
un programma spirituale e pastorale modernissimo.
Don Gregorio Valerio
Le vicende del mio ministero pastorale
mi hanno fatto incontrare a 60 anni S.
Antonio Maria Zaccaria (SAMZ). Morì
nel 1539 a 37 anni, quindi quasi cinque
secoli fa. Vidi subito in lui, nonostante
la giovane età, un maestro eccezionale.
E nel suo ministero una modernità e
attualità incredibili.
Ho letto qualche biografia, soprattutto
due di carattere divulgativo pubblicate
in occasione del quinto centenario della
nascita (a esse, che sono A. Montanari,
Fuoco nella città, ed. Paoline e A.M.
Erba e A. Gentili, Il Riformatore, ed.
Ancora, mi sono ispirato per le osservazioni che seguono). Ho letto le poche
lettere e i sette sermoni, uniche parole 1
Il carisma di Antonio Maria Zaccaria
(1502-1539) è molto importante e anche
attuale. Carisma è un dono di cui lo Spirito santo arricchisce la Chiesa, dato al
singolo per l’utilità comune.
Zaccaria operò tenacemente per la
“rinnovazione del fervore cristiano”.
Ecco il suo carisma: una decisione ferma
di operare per riportare il vangelo in una
società ormai pagana, per riplasmare lo
stile della vita della Chiesa e della società
con la verità e gli ideali del Vangelo.
Si adoperò con tutte le sue forze per diffondere “la vivezza spirituale e lo spirito
vivo dappertutto”, come desiderava facessero pure le sue amate Angeliche (lettera
5).
Ce n’era bisogno. Basta un minimo di
infarinatura di storia per conoscere la
decadenza spirituale dell’età nella quale
visse (la prima parte del XVI secolo).
Siamo in pieno Rinascimento. “Il Rinascimento con l’ideale di vita paganeggiante finì per penetrare nella compagine
ecclesiastica raggiungendone i vertici”
(cfr.Erba-Gentili, Il Riformatore, p. 76).
L’uomo al centro, Dio a margine. Un
dato che ci riguarda come Milanesi, molto significativo: i Vescovi normalmente
non abitavano in diocesi, ne godevano
soltanto i “frutti” da lontano. Milano praticamente non vide mai il suo Arcivescovo dalla fine del ‘400 a s.Carlo (siamo
appunto nella prima metà del ‘500, il
tempo in cui visse il nostro Santo, dal
1502 al 1539).
Per rinnovare la vita della società c’era
bisogno di “uomini nuovi”. “Antonio
Maria si inserì nella grande corrente riformatrice che ebbe il suo coronamento con
il Concilio tridentino (1545-1563) e
l’opera di s. Carlo Borromeo (15381584)” (id. p.77).
Dunque un ideale altissimo nel cuore di s.
Antonio, ma anche l’astuzia di una tattica
vincente: se vuoi costruire un mondo nuovo, ti servono collaboratori come te infiammati del tuo ideale; non solo, ti servono collaboratori che prima di cercare di
convincere gli altri, si sforzino di cambiar
vita essi stessi: collaboratori umili
Il suo progetto di riforma tendeva a coinvolgere tutto il popolo di Dio. Già nel
1528, anno della sua ordinazione sacerdotale, aveva dato vita, a Cremona, a un
Oratorio di laici adulti impegnati nella
pratica integrale del vangelo. E qualche
anno dopo, a Milano, fondò i Chierici
regolari di san Paolo, l’Istituto delle Suore
Angeliche di san Paolo e infine promosse
il gruppo dei cosiddetti Maritati.
Abbiamo la fortuna di possedere una
specie di profilo del “riformatore” tracciato dal nostro Santo nel libro delle Costituzioni, al cap. XVIII. Scegliamo tra tutti,
due i lineamenti caratteristici e fondamentali (ne riparleremo più avanti diffusamente): il riformatore è un uomo di preghiera, e in secondo luogo a lui è richiesta
una “grandemente bassa umiltà”. La meditazione e l’orazione tengono l’uomo
forte innanzi al trono di Dio: per questo
conosce che cosa convenga fare e che
cosa lasciare. E poi la sua umiltà non è
soltanto consapevolezza del proprio limite
contro ogni presunzione, ma detta anche
un certo modo di accostare l’altro, improntato alla tolleranza, all’affabilità, alla
compassione.
Dal rapporto con Dio la forza d’agire,
dall’umiltà uno stile di intervento rispettoso e persuasivo.
Non è difficile riconoscere l’attualità del
messaggio del nostro Santo. Dal punto di
vista ecclesiale il nostro tempo è indubbiamente molto migliore. Se però guardiamo alla cultura dominante, troviamo
molte analogie tra il nostro e il suo tempo.
2
Anzi, sembra che oggi l’emarginazione di
Dio sia molto più accentuata, abbiamo sostituito a Dio le cose, al cielo la terra.
L’uomo non conosce Gesù né la sua opera
di salvezza. Lo stile di vita è indubbiamente pagano, materialista e sensuale. Il Vangelo non è regola di vita. Addirittura
l’uomo ha cancellato i comandamenti di
Dio. Non è giusto emarginare l’Amore.
Non è bello, anzi è radice di ogni iniquità
dimenticare Dio: il Dio che ci ha creati, che
ci ha redenti e liberati dalla morte con il
dono di sé. Un cristiano che dice ogni giorno il Padre nostro non può non infiammarsi d’amore per il Padre e di passione per i
grandi ideali per i quali prega, e che furono
gli ideali di Gesù. Un cristiano che ama
l’uomo non si rassegna davanti alla diffusissima ignoranza religiosa, e vorrebbe a
tutti parlare delle “cose mirabili” compiute
da Dio nei confronti dell’uomo.
Ecco l’ardore interiore di s. Antonio M.
Zaccaria.
Ma come raggiungere oggi questo uomo
così saccente, così distratto, così prevenuto? La strada è la stessa indicata dal nostro
Patrono cinque secoli fa: la riforma di se
stessi. “Occorre riformarsi per riformare”.
una spiegazione negli scritti di Antonio
Maria, il quale nella predicazione e nella
direzione spirituale punta a una conversione “violenta” delle anime, proprio come
quella improvvisa di Saulo sulla via di Damasco. Volontà decisa e “fuoco” dello spirito sono alla base di tutto il suo pensiero e
della sua attività: si tratta di distruggere
l’uomo vecchio e di edificare quello nuovo
(cfr Fuoco nella Città, p. 74).
Innamorato di san Paolo, egli vuole vivere
e trasmettere il fuoco dello Spirito che ardeva nel cuore dell’Apostolo perché coglie
in lui il modello di un combattimento continuo e implacabile contro la mediocrità,
l’esempio luminoso proprio di chi ha abbracciato la “stoltezza della Croce” - per
giungere alla “sublimità della conoscenza
di Cristo Gesù, mio Signore”.
Il passaggio da Saulo (“figura dell’uomo
imperfetto”) a Paolo (“vivo esempio” di
Cristo) è indice del cammino di conversione. “Ecco Saulo, cioè la faccia del primo
uomo nostro e la similitudine delle prime
nostre male inclinazioni ovvero passioni”.
Ed ecco Paolo, che ha raggiunto “un essere
interiore ed esteriore da santo” (cfr Il Riformatore, pag 72).
“Evidentemente, Antonio Maria aveva
scelto Paolo per modello anche perché vi
scopriva non comuni consonanze sul piano
del carattere. Dell’apostolo gli piacevano
soprattutto la capacità risolutiva, il rifiuto
di ogni compromesso e della mediocrità, lo
spendersi senza risparmio e quel misto di
intransigente durezza e di tenerezza nei
confronti dei suoi, nonché l’aver dato retta
a Cristo una volta per tutte. Il tipo ideale,
insomma, per un “decisionista” come lui”
(cfr. Fuoco nella città., p. 75).
L’incontro con san Paolo
Fondamentale fu l’incontro di Antonio
Maria Zaccaria con san Paolo: gli è stato
maestro nell’amore e nella sequela di Cristo.
Le memorie più antiche presentano lo Zaccaria come fidelissimus sectator, un autentico appassionato seguace dell’apostolo
Paolo, che viene indicato come patrono,
guida e modello delle tre congregazioni da
lui volute per la riforma della Chiesa, le
prime nella storia della Chiesa ispirate
all’Apostolo delle Genti. Ci si può domandare il perché di questa scelta: ne troviamo
L’uomo esiste per essere di Dio, santo
Un avvocato di Cremona scrisse un giorno
3
ad Antonio M. Zaccaria per chiedergli
qualche consiglio per comportarsi da buon
cristiano nella sua professione.
Il Santo, in quei tempi, aveva dovuto abbandonare la sua città, Cremona appunto,
ma vi aveva lasciato un vivo desiderio di
rinnovamento spirituale che la sua infuocata predicazione aveva acceso. Erano molte
le persone che, ascoltatolo, avevano deciso
di cambiare vita, di “riformare” se stesse
secondo un programma rigoroso e impegnativo.
Non sono poche le raccomandazioni che il
Nostro fa per vivere bene la quotidianità in
famiglia: delicatezza verso la moglie, cura
della santità del rapporto coniugale, corretta educazione dei figli, rispetto nei confronti degli anziani...
Dunque la risposta all’avvocato Magni
(così si chiamava), è un piccolo capolavoro
di spiritualità, redatto davanti al Crocifisso
(è lui il maestro, lì è la “cattedra”): “stando
davanti al Crocifisso, per voi, continuamente, facendomi imparare quello che a
voi vorrò poi insegnare”.
Tra i suggerimenti, il primo è quello di
tenersi uniti continuamente a Dio, nei vari
momenti della giornata, in ogni maniera
(ciascuno può cercarsi quella che maggiormente gli si addice), soprattutto prima dei
vari impegni. L’obiettivo della preghiera,
almeno uno dei più importanti, è introdurre
Dio nella concretezza della vita, perché da
Lui provengano l’ispirazione e la forza
delle decisioni. Soprattutto nei dubbi e nelle difficoltà, occorre “ragionare” con Cristo
esponendogli la situazione, dirgli la soluzione che si ha intenzione di prendere,
chiedergli il suo parere che senz’altro non
mancherà: basta insistere. “Fate mo’, Carissimo...: che così ragioniate famigliarmente
- come fareste con me - e confabuliate ( =
discorriate) delle vostre cose col Crocifisso, e con quello ve ne consigliate...”.
Capita anche di trovare difficoltà a racco-
gliersi, “per essere l’uomo ( = giacché
l’uomo è) naturalmente vagabondo con
l’intelletto”, oppure essere affaccendati in
cose che “disuniscono”. Con Gesù bisogna
allora comportarsi come con un amico, che
ci sta a fianco e ci osserva mentre svolgiamo i nostri doveri. Pittoresco il riferimento
alla vita concreta: può succedere, dice
press’a poco, che ti venga a trovare un amico in un momento in cui sei parecchio affaccendato, non puoi interrompere il lavoro, lasciare i conti a metà. Ti rivolgi a lui,
lo fai sedere, gli spieghi la situazione, e poi
continui il tuo lavoro: egli ti osserva, e anche tu di tanto in tanto lo guardi, l’inviti a
pazientare ancora un po’. La presenza
dell’amico non disturba affatto, anzi. Così
si dovrebbe condurre la giornata, nella certezza che Gesù ci sta a fianco e ci guarda,
rivolgendo di tanto in tanto anche noi
l’attenzione a lui. “Se terrete questo modo,
vi abituerete a fare orazione facilmente...
Altrimenti facendo, sarete buon uomo, ma
non buon cristiano”.
Interessante è anche il suggerimento di
sforzarsi durante la preghiera di conoscere
l’esercito agguerrito dei propri difetti e
ammazzarli tutti, a cominciare dal
“capitano”, cioè dal difetto principale.
“Trovatelo e ammazzatelo”, conclude il
Santo. “Se osservate queste cose predette,
facilmente andrete al Crocifisso e Croce”.
L’esortazione alla santità è l’esortazione
finale che SAMZ rivolge ai coniugi Laura e
Bernardo Omodei, in una lettera inviata
quindici giorni prima della morte.
“Spasimo di desiderio della vostra perfezione - scrive -, guardatemi il cuore, che io
ve lo mostro aperto. Io son per ( = sono
pronto a) spargere il sangue per voi, purché
facciate questo”. “Vorrei che aveste
l’occhio vostro a fare ogni dì qualche cosa
di più, e scemare ( = diminuire) ogni dì
qualche appetito ( = tendenza) e sensualità,
4
esterne. “Estrinsecamente ti convertirai
a Dio leggendo qualche cosa della
Scrittura, dicendo Salmi ovver cantandoli; e in più offrendogli il sacrificio...,
il sacrificio principalmente che è il sacrificio dei sacrifici, la Santissima Eucaristia”. “Non c’è da meravigliarsi se
l’uomo si è intiepidito e diventato bestia: perché non frequenta questo Sacramento. La principale adunque conversione che fai a Dio, si è di ( = consiste in) questo cibo. Vacci, carissimo,
vacci: non v’è cosa che più ti possa
santificare, perché ivi è il Santo dei
Santi”.
ancorché vi fosse concessa; e questo per
amore di voler crescere in virtù, e diminuire le imperfezioni, e fuggire il pericolo
di cadere in tiepidezza”... “Vorrei, e desidero - e voi siete atti, se volete - che diventiate gran santi, purché vogliate crescere ( = sviluppare) e restituire più belle
quelle parti (doti, talenti) e grazie al Crocifisso, dal quale le avete avute. Io, per
tenerezza e affetto d’amore che vi ho ( =
che ho per voi), pregovi vogliate essere
contenti di compiacermi in questo”.
Il primo passo: la conversione
S. Antonio parla di santificazione soprattutto nel sermone terzo, quando tratta del
terzo comandamento “Ricordati di santificare il sabato...”.
Che cosa significa santificazione?, si
chiede. “Santificazione vuol dire purità di
mente... Santificazione vuol dire lasciare
l’uomo vecchio e seguire l’uomo nuovo,
cioè lo spirito e così camminare al bravìo
( = premio) della patria celeste... Santificazione vuol dire amare Dio sopra tutte le
cose; e per suo rispetto, il tutto; e amare
gli amici in lui e amare i nemici per lui...
Santificazione vuol dire convertirsi a
Dio...”.
Già s. Agostino diceva, rivolgendosi a
Dio: “Felice chi ama te, l’amico in te, il
nemico per te” ( Confessioni, libro IV,
9.14).
C’è un cambiamento interiore da conquistare, soprattutto tramite la preghiera, in
particolare la meditazione dei propri peccati e quella dei benefici di Dio. “E’ necessario unirsi con Dio, elevare la mente,
fare l’orazione e in più contemplare”.
Ecco: rimettere Dio al centro della vita,
perché sia lui a dirigerla.
Occorre inoltre compiere alcune azioni
Tutti sono chiamati alla santità
“L’uomo è fatto e posto in questo
mondo principalmente e solo acciocché
vada a Dio, e tutte le altre cose lo aiutano a questo”, si legge nel sermone sesto. E anche: “Sarebbe una gran cecità,
se tu non riconoscessi di essere fatto
per questo: acciocché cammini a Dio”,
per fare della vita un cammino verso
Dio.
Essendo Dio inaccessibile, la scala per
salire a lui sono le creature. Le creature
sono “il Libro che doveva leggere
l’uomo per camminare al suo Signore”.
“Prima che l’uomo peccasse, questo
Libro aveva le lettere belle, fresche,
ben formate e appariscenti. Dopo il
peccato dell’uomo, le lettere di questo
Libro contrassero una certa imperfezione ed oscurità: e non si cancellarono,
no; ma diventarono tutte vecchie, mal
leggibili e quasi invisibili”.
“Che fece Dio? Fece un altro Libro,
cioè il Libro della Scrittura, nella quale
riparò quel primo e gli pose dentro
quello di buono che era delle creature”.
5
volta”.
Dunque, in conclusione, “quanto più la
creatura è eccellente e nobile, tanto maggior obbligo ha di rendergli maggior frutto”.
Ma non è tutto. Dio è venuto incontro
all’uomo facendosi uomo: “Ha voluto
ancora congiungersi al tempo, alle tenebre, alla corruzione e alla sentina delle
imperfezioni”. Gli infuse “un desiderio
inestinguibile di gustare Dio..., un continuo scontento in tutte le cose del mondo
e un continuo bramare le cose del cielo”
“Oh, bontà grande! Oh, inestimabile
carità! Dio farsi uomo! E perché? Per
ridurre l’uomo a Dio, per insegnargli la
strada, per dargli lume. E poi come dir
potrai che Dio non ti abbia fatto per andare a lui?”. “Come negherai di non
esser fatto solamente per andare a Dio?
Sarebbe una gran cecità, se tu non riconoscessi di essere fatto per questo: acciocché cammini a Dio”.
In che cosa consiste la vita spirituale?
Leggiamo nel sermone secondo: “La vita
spirituale vera consiste in questo: che
l’uomo abbia sempre l’intenzione sua a
Dio, e altro non brami che Dio, e di altro
non si ricordi che del medesimo Dio, anzi,
che ogni sua incepta ( = azione) la incominci (dopo avere) invocato il nome del
suo Signore, ed a Lui la redrizzi ( = diriga); e brevemente ha raccolto ogni suo
intendere, volere e smemorare ( = ricordare), sentire e operare nella Bontà divina; e
insieme il cuore e la carne esultano nel
Dio vivo (salmo 83,2); e Cristo vive
nell’uomo, e non più esso uomo (Gal
2,20); e l’anima sua è governata dallo Spirito di Dio come il corpo dall’anima; e lo
spirito suo gli rende testimonio che sono
figli di Dio (Rom 8,16) e che sono un esemplare vivo di Cristo, tanto che dicono
con l’Apostolo: ‘Siate imitatori di noi,
come noi di Cristo’ (1 Cor 4,16), quasi
dicessero: Volete il vivo esempio di Cristo? Guardate in noi”.
Queste indicazioni hanno un’anima,
partono da un fuoco: la scoperta, lo stupore, la gioia, il grazie per l’amore che
Dio nutre nei confronti dell’uomo. Tali
attenzioni del cuore l’uomo alimenta
soprattutto la domenica. Infatti la domenica è da valorizzare per l’apertura a
Dio al fine di lasciarsi conquistare dal
suo amore. “Dio ti concede di lavorare
per sei giorni; ti comanda che in quel
settimo tu ti converta a Dio” (terzo sermone).
Dio ha faticato per l’uomo, ha “creato
per lui il cielo, l’aria, la terra e ciò che in
loro si contiene” e “matto” è chi non lo
riconosce. “Ingiusto però sarebbe chi
“non gli concedesse qualche frutto e
ricognizione (= riconoscenza)”.
E poi Dio ci governa con amore. “La
nutrice, il pedagogo ha il suo stipendio:
E Dio è più che nutrice, più che pedagogo, più che padre e madre”.
Inoltre Dio ci protegge e libera.
“Considera da te stesso come mirabilmente Dio ti aiutò la tale e la tal altra
Possiamo notare l’impostazione trinitaria
della vita spirituale: Dio come unico e
costante riferimento, oggetto vero del desiderio dell’uomo; Cristo come vita
dell’uomo; lo Spirito santo come maestro
interiore, testimone del rapporto filiale
con Dio, che rende ciascuno simile a Gesù.
“Questa vita non è impossibile da conseguire”. SAMZ nel primo sermone dice:
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scrive “ai molto onorandi Messer Bartolomeo Ferrari e Messer Giacomo Antonio Morigia” una lettera la cui motivazione compare alla fine: si tratta di una specie di rimprovero per due inadempienze.
La prima: Siete molto negligenti circa il
finire di stampare il libro. La seconda:
Non ho notizie di come stia andando la
“cosa” del “poveretto Giovanni Hyeronimo”. “In me ben vi voglio scusare, ma
guardate mo’ voi nella coscienza vostra
se siete degni di scusa o di riprensione”.
Il Santo si trova quindi dinanzi ad
alcuni adempimenti non condotti a termine. E la cosa potrebbe denotare la presenza di un vizio: la irrisoluzione, la mancanza cioè di fermezza di volontà nel
condurre a termine un impegno. Può non
essere questo il caso, ma certo quella
“mala erba” è molto diffusa.
La lettera è una messa in guardia contro tale vizio. Pare quasi di leggere qualche brano di san Paolo quando approfitta
di situazioni concrete per offrire indicazioni generali di vita spirituale molto
importanti.
Dio vi conceda “stabilità e risoluzione”, è la preghiera con la quale inizia la
lettera.
Quando Dio ha fatto l’uomo, l’ha
voluto “volubile e mutabile”, quindi non
un fossile. Ma per finalità positive: perché non si stabilizzasse nel male, ma
passasse al bene e perché da un bene
passasse a un altro migliore. Diremmo
che è fondamentale per la vita spirituale
la possibilità di progredire mutando.
In realtà l’uomo fa un uso cattivo di
questa capacità: fa uso della sua mutabilità non tanto nel fuggire il male quanto
nell’impigrirsi nei confronti del bene. Il
Santo si stupisce delle indecisioni sulla
via del bene, l’irrisoluzione “regna”,
quindi è molto diffusa. E ammette: “Già
Non puoi accusare Dio di comandarti
cose sproporzionate alle tue forze. “La
legge tua è legge di amore; la legge tua è
il soave giogo; la legge tua è il refrigerio
del cuor tuo; il riposo tuo e la vita tua”,
perché Gesù è venuto in terra per darci la
vita e in maniera sovrabbondante.
Ciò non toglie però che la vita spirituale
sia “difficile”.
Per fortuna esiste in ciascuno un “gusto”
di Dio che fa da motore inarrestabile verso di lui. “Questo è un cibo, che chi ne
mangia ancora ne desidera; ed è un bere,
che chi l’ha gustato ancora ne vorrebbe;
e, in un certo modo, ti estingue la sete e te
la causa; e chi non lo gusta non lo intende, e chi non lo sperimenta non sa
l’effetto di questo vino”.
Inoltre Dio stesso rende possibile la vita
spirituale, perché ama sempre, il suo amore è più forte di ogni altro amore. Dio
“si fa tuo amoroso ( = amante), e figliuolo, e padre, e madre insieme, e sempre sta
con te; anzi, se tu fornichi e sparti da lui
( = se lo tradisci e te ne allontani), Egli ti
ricerca, ti chiama e di continuo ti invita. E
pochi sono stati quelli che l’abbiano gustato e siano spartiti ( = si siano divisi) da
Lui... Beati quelli che stanno nell’abisso
di quella Dolcezza eterna!”.
Senza
nulla
un fermo proposito non si fa
“Concludi, dunque, e dì: Io voglio vivere spiritualmente, io voglio diventare un
medesimo spirito con Dio, io voglio che
la mia cittadinanza sia in cielo, io voglio
avere Dio sempre nel cuore” (sermone
secondo).
Importante la fermezza della decisione
iniziale.
Da Cremona, il 4 gennaio 1531 SAMZ
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molti anni è regnata nell’anima mia”.
“Sono certo, se considerassi profondamente i mali che procedono da tale irrisoluzione, già molto tempo fa avrei estirpato questa mala radice”.
L’irrisoluto non si muove, si trova
attratto da opposte calamite che lo bloccano perché non sa risolversi né per
l’una né per l’altra. Di uno che vuole
amare due cose contrarie il proverbio
dice: “Chi due lepri caccia, una fugge, e
l’altra smappa ( = scappa)”.
Non solo, l’irresoluto è “uomo mutabile come la luna”, perennemente inquieto e volubile.
E’ irrisoluto l’uomo non guidato
dallo Spirito Santo e quindi superficiale.
Lo è l’uomo “tiepido”: “questa irrisoluzione è effetto e causa della tiepidezza”
perché l’uomo tiepido, quando prende in
esame una certa situazione, sa evidenziare le ragioni per l’una o per l’altra
eventuale presa di posizione, ma non si
decide per nessuna. Questa incapacità a
prendere posizione si allarga a macchia
d’olio: “Se dapprima eravate dubbioso
un dito, ora vi lascia dubbioso un braccio”. “L’uomo irrisoluto si raffredda ed
intiepidisce”. “Mentre l’uomo dubita,
non opera”.
Due sono le vie indicate dal Santo
per fuggire questo vizio: una è, diciamo
noi, offerta dalla Provvidenza e coincide
con l’urgenza di dover prendere certe
decisioni. In questo caso “eleviamo la
mente a Dio, pregandolo di ispirarci
quello che dobbiamo fare” e se seguiamo “l’istinto dello Spirito non fallaremo
( = sbaglieremo)”. L’altra strada è quella
di stare alle indicazioni del “padre
dell’anima nostra”.
Pessimo effetto della irrisoluzione è
la negligenza. Dio non la vuole. Possiamo sì e dobbiamo ponderare bene la
situazione e nell’eventualità chiedere consiglio, ma poi occorre passare all’azione.
“Nella via di Dio la potissima ( = prima fra
tutte) cosa che si ricerca è la prestezza e
sollecitudine”.
E poi “i veri amatori di Cristo sono sempre stati ferventi e diligenti, e non negligenti, alla barba nostra”.
La conclusione del discorso: “Orsù,
fratelli, levatevi ormai, e venite meco insieme, che voglio che estirpiamo queste male (
= cattive) piante (se pur si trovano in voi);
e, se non sono in voi, venite ad aiutare me,
perché le ho piantate sopra il mio cuore”.
L’allarme che il Santo lancia è innanzitutto
per se stesso e a partire dalla propria esperienza negativa soprattutto del passato. Parla della sua “negligenziaccia” e di “tardità
nell’opera” ( = lentezza nell’agire) che gli
impediscono di iniziare l’opera “ovvero
almeno la conduco tanto alla lunga che mai
non la finisco”.
Occorre alla irrisoluzione contrappone
l’azione decisa soprattutto nel servizio
all’altro visto come “sacramento” di Dio. E’
al termine della lettera la frase famosissima:
“Se finora in noi è stata alcuna irresoluzione gettiamola via, insieme con la negligenza: e corriamo come matti non solo a Dio,
ma ancora verso il prossimo, il quale è il
mezzo che riceve quello che non possiamo
dare a Dio, avendo egli bisogno dei nostri
beni”.
La tiepidezza, massimo ostacolo sulla
via della perfezione
L’irrisolutezza può nascere dalla tiepidezza, “questa pestifera e maggior nemica
di Cristo Crocifisso, la quale sì grande regna nei tempi moderni”, scrive nella lettera
quinta alle Angeliche.
Data la sua idea battagliera della vita
8
La motivazione profonda della ferma
decisione dell’uomo nel rispondere a Dio
sta in Dio stesso, che tutto si è donato,
senza riserve. “Dio non ha abbandonato
tutta la roba, tutto l’onore, tutta la sanità
per te, e - come ha detto Egli - che ha potuto fare e non abbia fatto (Is 5,4)? E mo’
tu vorresti servirlo, amarlo, onorarlo limitatamente, e non di più? Non dir mai più
così!”.
Ciò che SAMZ dunque non poteva
sopportare è la mediocrità, il non rispondere subito “sì” agli appelli dell’ideale, in
altre parole la tiepidezza, “pestifera e maggiore nemica di Cristo Crocifisso”. La sua
è una proposta di radicalismo evangelico
che finirà per scuotere un mondo religiosamente languido come quello del Cinquecento (cfr. Fuoco nella città, p. 30).
Della tiepidezza parla diffusamente
anche nella già citata ultima lettera ai coniugi Omodei: “Dandovi a Cristo, desidero
di voi che non cadiate in tiepidezza, ma
che cresciate di continuo; perché se per
caso vi lasciaste allacciare dalla tiepidezza,
non diventereste spirituali, ma sareste più
presto carnali, e sareste diventati più presto farisei, che cristiani e spirituali”. Il
fariseismo è per lui la mediocrità, e precisa: “Il tiepido, ovvero fariseo, fa questo:
che, convertendosi, lascia i peccati grossi,
ma si diletta poi di quelli piccoli, ovvero
non ha rimorso di coscienza dei peccati
piccoli”.
spirituale, considera la tiepidezza come
l’ostacolo più minaccioso per il fervore,
che è per lui caratteristica dei “veri amatori di Cristo”.
In una serie di Sermoni egli si riprometteva di analizzare le cause della tiepidezza e i modi per eliminarle. Purtroppo
ci è rimasta soltanto la seconda parte del
sermone sesto che ne parla.
Si chiede da dove nasca questo atteggiamento spirituale tanto nefasto.
Dall’accontentarsi del minimo indispensabile, risponde. E’ vero che Gesù indica
alcune cose come indispensabili, altre
invece come consiglio. Ma lo fa non perché ci si limiti alle prime trascurando le
altre, ma perché lo scoraggiamento non
prevalga, perché si proceda verso il meglio con gradualità. Occorre essere incoraggiati a iniziare “e poi, firmati ( = stabilizzati) alquanto, pian piano ascendere
alla perfezione”. “Incomincia pure a fare
il bene, che di necessità andrai più avanti
e
diventerai
migliore”.
Insomma
l’aspirazione concreta verso la perfezione
non deve venire mai meno.
Purtroppo, l’insegnamento di Gesù è
stato mal interpretato, e così non si cammina più verso il meglio indicato dai consigli. Con il grosso rischio di arrivare al
punto di non osservare più neanche i precetti. Il Santo così ammonisce: “Chi vuol
fuggire il pericolo di non cascare contro i
precetti, è necessario che osservi i consigli”. “Chi si dimentica delle piccole cose,
casca nelle grandi”. “Vuoi tu non cascare
nell’acqua? non le andare appresso. Vuoi
tu non rompere ( = trasgredire) i precetti?
Osserva i consigli. Vuoi tu non far peccati mortali? Fuggi i veniali. Vuoi tu fuggire i veniali? Lascia qualche cosa lecita e
concessa”.
“Il non andare avanti nella via di Dio
e lo stare fermi, è un ritornare indietro”.
Il cammino verso la perfezione è un
cammino graduale
“E’ necessario che l’uomo che vuole
andare a Dio vada per gradi, e ascenda dal
primo al secondo e da quello al terzo, e
così successive ( = di seguito)”, spiega nel
primo sermone. Se noi dobbiamo verifica9
re poco profitto nella vita spirituale è
perché dimentichiamo questa legge della
gradualità. “La causa dunque del nostro
poco profitto... è perché non osserviamo
il debito ordine; e vogliamo essere maestri avanti che discepoli”.
E’ necessaria una certa gradualità per
andare a Dio, come appunto salire su
una scala: “Non può incominciare dal
secondo gradino e lasciare il primo,
perché le gambe sue sono troppo corte, i
passi suoi sono troppo brevi”.
Per giungere per esempio a seguire la
legge di Cristo, occorre premettere
l’osservanza dei precetti del Decalogo,
soprattutto del primo precetto, quello
dell’”onore di Dio”. Se tu ti osservi attentamente “ti riconoscerai prevaricatore
di questo comandamento: e, in prima ( =
innanzitutto) che tu hai gli dei alieni nel
cospetto di Dio”.
Risultano molto utili le indicazioni
sintetiche del due lettere sopraccitate
all’avv. Magni e ai coniugi Bernardo
Omodei e Laura Rossi. “Voglio dirti che
Dio comincia dall’alto e viene in basso;
ma l’uomo, volendo ascendere, comincia dal basso e va all’alto; cioè l’uomo
lascia prima l’esteriore ed entra nel suo
interiore, e da quello va alla cognizione
di Dio”.
Per prima cosa egli dovrà pregare in
ogni tempo e senza interruzione...
“Quello che vuole diventare spirituale... comincia a tagliar via da sé, e
quando un dì ha tagliato via una cosa,
l’altro dì ne taglia via un’altra, e così va
perseverando”...
“Bisogna che sempre tu intenda di
passare più avanti e in cose più perfette”... “Cerca sempre di aumentare quello
che hai incominciato e in te e negli altri,
perché la sommità della perfezione è
infinita”.
E, sempre nella lettera più volte citata
agli Omodei, scrive: “Non dico che facciate ogni cosa in un giorno, ma ben dico:
vorrei che aveste l’occhio vostro a fare
ogni dì qualche cosa di più, e scemare ( =
diminuire) ogni dì qualche appetito ( =
tendenza) e sensualità, ancorché vi fosse
concessa; e questo per amore di voler
crescere in virtù e diminuire le imperfezioni, e fuggire il pericolo di cadere in
tiepidezza...”.
La provvidenzialità e i pericoli delle
passioni
Per camminare verso Dio è fondamentale la lotta contro i vizi. E’ necessario che l’uomo conosca i propri difetti e
“maxime il difetto e vizio che è il capitano generale in voi e ottiene il principato
sopra gli altri in voi”, scrive all’avv. Magni.
E nel sermone quarto: “Se l’uomo
deve andare a Dio ed acquistare l’amor
suo, è necessario che si purghi ( = liberi)
da tutte le passioni, le quali per la maggior parte sono fondate nel corpo e perciò
hanno bisogno di rimedi corporali....”. Fa
un certo elenco di passioni.
Di esse SAMZ parla diffusamente nel
sermone quinto. Riflessioni che riprendiamo volentieri.
Le passioni sono un bene per l’uomo:
è questa l’affermazione iniziale. Infatti
esse sono naturali, cioè vengono da Dio e
da Dio non può venire che bene.
“Maligno sarebbe o ignorante chi dicesse
che le predette inclinazioni o passioni
essere male e cattive; perché, essendo
naturali e per conseguenza da Dio, incolperebbe esso Autore”. Da parte sua Dio
“ha posto nell’uomo le passioni per utilità
sua. Se le vuole mo’ ( = ora) adoperare in
10
male, faccia come vuole: il danno sarà
suo”.
Ed ecco allora la seconda affermazione: le reazioni istintive o passionali
di fatto possono avere un duplice effetto, buono o cattivo (SAMZ introduce a
questo punto una digressione per ricordare i troppi mali che derivano dalla
passione dell’ira: “Ti fa povero di ogni
virtù e schiavo di tutti i vizi, e un vasello pieno di perturbazioni”).
Dunque è doveroso per l’uomo governare le passioni: “le può governare
oltre i primi moti, i quali ancora - se
vuole - li può sminuire e smorzare in tal
modo, che poco danno facciano a quelli
che sono savi e stano sempre svecchiati
( = con gli occhi aperti)”. E lo può perché dotato di libero arbitrio, un dono
questo preziosissimo: “ E’ tanta
l’eccellenza del libero arbitrio, mediante
la grazia di Dio, che l’uomo può diventare e demonio e Dio, secondo che gli
pare”; “Oh, miseria e felicità degli uomini, se la conoscono: perché in loro
potestà è di diventare buoni e mali, secondo che loro pare!”.
Ma il male, sembra dire il Santo, è
inevitabile. Però anche questa situazione
deprecabile ha una sua provvidenzialità,
conduce infatti all’umiltà. In tuo potere
è non soltanto scegliere tra male e bene,
ma anche fare sì che “il male ti sia utile
e proficuo”. L’uomo ne guadagna soprattutto in umiltà. “Dai peccati già
commessi o dai beni omessi, l’uomo ne
cava una profonda cognizione della viltà
e della miseria sua, per la quale non si
reputa degno di vivere, manco poi di
fare cosa grata a Dio: dalla quale estimazione nasce una profondissima umiltà, la quale, di quanta utilità sia, lo sanno coloro che hanno in se medesimi
questa virtù”.
I due grossi pericoli della superbia e
dell’uso perverso della lingua
In
contrapposizione
all’elogio
dell’umiltà viene in mente, forse anche
per il calore col quale ne parla, quello che
SAMZ ritiene “il primo nemico di Dio, la
superbia”. Siamo nel primo sermone.
L’inizio dell’apostatare da Dio è la superbia. Lo fu anche per il demonio. E “non
v’è maggior superbia del giudizio e non
v’è cosa, per la quale Dio più abbandoni
l’uomo, che per il giudizio. Per ogni luogo
della Scrittura Dio grida che non giudichiamo gli altri, bensì noi; e tanti esempi
recitano i Santi nel condannare questo
giudicare, che si finirebbe il giorno pur a
contarne una particella. Abbia questo per
conclusione: che il principio del rovinare
il vivere spirituale si è il giudizio”.
Parole severe contro il difetto sempre
diffusissimo di sparlare e di giudicare,
bollato come il maggiore atto di superbia.
Difetto mortale per ogni convivenza
nell’amore.
E così sono quanto mai attuali gli ammonimenti sull’uso perverso della lingua:
“Custodisci i tuoi sensi, e, sopra tutti gli
altri, la lingua tua, perché è piccolo membro, ma spesso causa di gran male”. “Il
principio della rovina tua e che la mente
tua vada vagabonda, è che la tua lingua
non è corretta ed emendata”. “Concludi e
dì: la causa della mia imperfezione e che
io non ascenda alla stabilità della mia
mente, è la mia lingua... Perché la mente
tua (continua il nostro Santo sempre nel
sermone secondo) è come un mulino
nell’acqua, il quale ha la ruota sua che
sempre cammina; così, la mente tua sempre lavora”. Riprendendo san Giacomo
11
(1,26) conclude: “Chi dice sé essere
religioso e non raffrena la lingua sua, la
Religione di costui è vana”.
La meta del cammino di santità è la
carità
“La carità è sola quella che vale;
tutto il resto delle virtù, senza quella,
non giova un pistacco ( = nulla)”. Conviene leggere qualche passo del sermone
quarto, dove il tema della carità è trattato con una certa ampiezza.
C’è chi pone tanta cura e attenzione
alle parole che dice, nell’illusione magari di essere per ciò stesso perfetto. Ora
l’eloquenza senz’altro ha la sua utilità.
Nondimeno è “poco utile, anzi molto
nuoce senza la carità, perché è piena di
foglie e ha pochissimi frutti”. Si rischia
di essere come la campana “la quale
chiama gli altri all’uffizio e alla predica,
e mai ci va”.
Allo stesso modo, senza la carità la
“scienza poco vale”, e così la
“cognizione delle cose segrete”, perfino
l’elemosina, a volte anche lo stesso martirio. “E’ necessario, è necessario - ti
dico - avere questa carità, che è l’amore
di Dio, che ti rende a lui gradito”.
“Senza l’amore di Dio non si fa nulla; da
questo amore ogni cosa dipende”. La
motivazione sta nella vita
e
nell’insegnamento di Gesù.
Ma come acquistare la carità? Il
modo di acquistare, aumentare e crescere la carità, e che per altro offre un chiaro criterio di verifica mostrando se essa
ci sia o meno, è l’amore verso il prossimo.
“Dio ha posto l’uomo per nostro
assaggio ( = prova), perché se hai un
amico caro, ancora avrai a caro quelle cose
che lui ama e delle quali ha stima. Pertanto
avendo Dio tanta stima dell’uomo quanto
ha avuto, saresti ben crudele e poco amatore di sua Maestà e Bontà se di una cosa, che
così carestiosa ( = assai cara, come sono
assai cari i beni comperati a prezzo di carestia) gli costa, non ne facessi grandissimo
conto”.
In parole povere: tu dici di amare Dio.
Devi dimostrarlo amando quello che lui
ama. In primo luogo l’uomo: egli lo ama
infinitamente, non esita a spendere tutto pur
di riaverlo. Se ami Dio, non puoi non amare
l’uomo!
“Vuoi tu, carissimo, santificarti? Imita
Cristo, imita Dio, sii misericordioso..., ciba
il famelico, abbevera il sitibondo, vesti
l’ignudo, accogli il pellegrino, visita
l’infermo, libera il carcerato; prevedi le
opere tue, falle per amor di Dio, abbi
l’intenzione retta; eleggi il meglio, eseguisci il bene, in tutto la carità ti muova”.
La ricerca della perfezione è orientata
all’apostolato come al suo scopo
Campo privilegiato per l’esercizio della
carità è l’impegno per la salvezza spirituale
del fratello. SAMZ fu il riformatore del suo
tempo, tempo difficile, lontano da Dio.
L’ideale che l’animava era risvegliare lo
spirito religioso nel clero secolare e nel
popolo di Dio. Invitò altri in quest’opera
difficile. “Il nostro divin Padre (cioè fra
Battista da Crema, che SAMZ ebbe come
direttore spirituale, considerato allora dai
Barnabiti
e
dalle
Angeliche
addirittura “primo nostro padre e fondatore”) - scrive nella VII lettera - “voleva che
fossimo piante e colonne (1 Tim 3,15) della
rinnovazione del fervor cristiano”.
I suoi tre istituti erano visti più o meno
12
come milizie scelte, da preparare, perché
fossero poi in grado di intervenire adeguatamente. Una volta conseguito il radicale rinnovamento all’interno delle milizie scelte come sono gli istituti religiosi,
si potrà puntare con successo all’ardua
impresa di rivitalizzare il tessuto morale
della società (cfr. Il Riformatore, p. 77).
Abbiamo già parlato delle due qualità
specifiche fondamentali del Riformatore,
lo spirito di preghiera e l’umiltà. Soffermiamoci
ora
più
diffusamente
sull’identikit del Riformatore a partire dal
cap. XVIII delle Costituzioni.
Al Riformatore raccomandava innanzitutto di prendere atto della situazione:
“Quando vedrai e ... comprenderai che i
buoni costumi sono posti al basso e che la
tiepidezza è in alto, allora alza gli occhi
sopra l’Onor di Dio e lo Zelo delle anime,
ed esperimenta se in qualche modo puoi
mettere in alto i buoni costumi”. Come a
dire che all’azione si giunge se c’è dentro
un fuoco che brucia, il fuoco dell’amore
per Dio e il desiderio della salvezza delle
anime.
Sono otto le qualità del buon Riformatore.
Occorre che agisca con prudenza, che
sia “pieno di occhi davanti e dietro” e
quindi non sia “né precipitoso, né troppo
tardo”, scegliendo l’opportunità, il luogo,
il tempo, nonché collaboratori convenientemente virtuosi.
Secondo: “Bisogna che tu sia di cuore
e animo grandi, perché contro questa impresa si levano tanti e tanti contrari ( =
contrarietà), tante e tante cose di dentro e
di fuori, che sogliono sbattere e soffocare
gli animi deboli...”.
Terzo: “Bisogna che nella tua impresa
tu sia perseverante perché molti incominciano gagliardamente e poi cessano...”.
Quarto: “Bisogna che tu sia di grandemente bassa Umiltà. A chi non son dolci
in cibo gli obbrobri, chi non gusta nel bere
gli scherni, chi non cerca con sommo studio e non ritrova l’umiltà: a questi non
conviene riformare i costumi...”.
Quinto: “Bisogna che tu sia, per la
molta Meditazione e Orazione, sempre
sospeso...”, che viva cioè in costante clima
di preghiera.
Sesto: “Bisogna che tu sia di grandemente buona e dritta intenzione”. Su questa qualità SAMZ si sofferma ricordando
tentativi falliti di riforma a causa della
mancanza di questa “buona e dritta intenzione”. “Sia adunque diritta l’intenzione,
per il puro Onore di Dio; sia buona, per
l’utilità del prossimo: sia stabile e ferma,
per il disprezzo di se stesso”.
Settimo: “Bisogna che sempre tu intenda ( = ti proponga) di passare più avanti e in cose più perfette... Vuoi tu ben riformare i costumi? Cerca sempre di aumentare quello che hai incominciato in te
e negli altri, perché la sommità della Perfezione è infinita”. Il lavoro di riforma
personale ed ecclesiale è un cammino non
mai terminato, ha in sé un dinamismo
inarrestabile.
Da ultimo occorre una illimitata fiducia in Dio: “Bisogna che sempre tu confidi
nell’Aiuto divino e conosca per esperienza
che quello non ti deve mai mancare. Le
cose divine non si pertrattino ( = siano
esercitate) se non dai divini”.
L’uomo è realtà preziosissima per
Dio
L’impegno per la riforma traduce
l’amore per Dio nell’amore per l’uomo
13
che per Dio è realtà preziosissima. Chi
ama Dio non può non amare l’uomo,
operando per la sua salvezza. Abbiamo
già incontrato poco sopra quel termine
curioso “carestioso”. L’uomo a Dio costa caro, come costano care le cose in
tempo di carestia. Ma non esita a
“spendere” pur di riavere l’uomo, diremmo noi. Colui che ama veramente Dio,
non può non accendersi della stessa passione e generosità per l’uomo. Rileggiamo queste righe: “Se hai un amico caro,
ancora avrai care quelle cose che lui ama
e delle quali ha stima. Pertanto avendo
Dio tanta stima dell’uomo come ha avuto, saresti ben crudele e poco amatore di
sua Maestà e Bontà se di una cosa, che
così carestiosa gli costa, non ne facessi
grandissimo conto” (sermone quarto).
Come SAMZ ha appreso che l’uomo
è così caro a Dio?
La risposta è evidente: contemplando
la Croce. La Croce è il prezzo del riscatto per l’uomo, l’icona più alta
dell’amore di Dio per l’uomo.
A chi vuole intraprendere l’azione
riformatrice raccomanda: “Con audacia
esalta la Croce (quanto più) potentemente potrai sopra la tiepidezza, in favore
dei buoni costumi”.
La contemplazione di Cristo Crocifisso, il Figlio che il Padre celeste ci ha
donato “in servizio, in prezzo, in morte”,
avrebbe dovuto trasformare non solo i
seguaci di Antonio Maria, ma quanti essi
raggiungevano con la loro azione apostolica, in veri “figli della Croce”, perfettamente assimilati a Cristo (Il Riformatore, pp 101 s.). Era solito raccomandare che “nel convertire le anime attendessero ad attaccarle a Cristo Crocifisso
e che non si affaticassero molto in altro;
poiché, innamorato che sia uno del Cro-
cifisso, da se stesso poi detesta e abomina
ogni vanità, delizie superflue e ogni altra
cosa ripugnante alla buona disciplina cristiana” (id. p.103).
E’ cominciato nel Duomo di Milano da
parte dei discepoli di SAMZ, per poi estendersi nelle parrocchie, l’uso di suonare
l’Ave Maria (cioè le campane, come abitualmente si fa alla mattina e alla sera) alle
tre del pomeriggio di ogni venerdì, a ricordo della morte di Gesù sulla Croce.
Un’altra pratica raccomandata dal Santo è
l’adorazione eucaristica: essa è vista come
incontro con il Crocifisso vivo. Abbiamo
già notato quanto fossero difficili dal punto
di vista religioso gli anni in cui visse
SAMZ (1502-1539). Si avvertiva fortissimo
il bisogno di riforma della Chiesa, ma proprio i “capi” erano per lo più sordi o distratti. A livello popolare però nascevano gruppi
spontanei, religiosamente vivi. A Milano
era famoso il gruppo dell’Eterna Sapienza,
costituitosi presso il monastero agostiniano
di s. Marta. Si dice che le Quarantore siano
nate in questo gruppo ristretto e riprese poi
e pubblicizzate in maniera solenne da S.
Antonio e dai suoi.
Il SS.mo veniva esposto per 40 ore di seguito, di giorno e di notte. 40 ore perché si
pensava che tante fossero le ore trascorse da
Gesù nel sepolcro. All’esposizione si conferiva particolare solennità soprattutto con la
luce delle candele. S’è verificato anche, la
prima volta probabilmente nel 1537, che il
SS.mo a Milano rimanesse esposto ininterrottamente per parecchi mesi di fila: terminata l’esposizione in una chiesa, si iniziava
in quella vicina, seguendo le “porte”: da
porta orientale a porta romana, a porta ticinese...: “così che, dice un collaboratore del
Nostro, continuamente in Milano ci fossero
persone che pregassero e ottenessero grazie
dal Nostro Signore per la conservazione
14
loro, e infine, pentiti, si accendano ad
amare Dio”.
“Quanto a noi, Dio nella sua misericordia ci ha tolti dal mondo, benché indegni, acciocché - a Lui servendo - passiamo di virtù in virtù, e nella pazienza riportiamo abbondanti frutti di carità...”.
“E, come un tempo la Chiesa Cattolica,
benché travagliata da fierissime persecuzioni, non veniva meno, ma cresceva
ogni giorno di più, così questo suo piccolo membro (la nostra Congregazione)
non sarà distrutto dalle ingiurie, ma, se
resisteremo, aumenterà; e diventerà più
forte, benché numerosi guai la opprimano”.
Al Riformatore preannuncia difficoltà:
“Ti accadranno, o Riformatore, molte
cose contrarie; ma quanto più le vedrai
gagliarde, tanto più fortemente tu devi
confidare”. Le difficoltà maggiori provengono dalla gente tiepida con la quale
si abita, la quale in fondo si vergogna
che ci sia qualcuno migliore di sé.
“Questa
gente
suole
chiamare
‘singolarità’ se, oltre il corso di loro tiepidi ( = diversamente dalla loro condotta
tiepida) qualcun altro vuole condurre a
Cristo. Questa per te sarà la battaglia più
grave di tutte le altre”.
della nostra città in generale ed anche in
particolare, e per tutto il cristianesimo”
(Morigia).
Era la riscoperta e l’affermazione pubblica della reale presenza di Gesù
nell’Eucaristia.
Le difficoltà non possono mancare
Il sermone settimo, l’ultimo, parla delle
persecuzioni, inevitabili. E’ chiaro il riferimento ai fatti dolorosi ai quali dovettero
sottostare SAMZ e i suoi seguaci. Un
capitolo interessante che non prendiamo
in considerazione. Probabilmente ai ben
pensanti danno fastidio coloro che cercano di vivere il vangelo in maniera anticonformistica, e lo fanno vedere anche in
pubblico. “Lo Zaccaria e i suoi seguaci
“erano mal veduti da parecchi così religiosi come secolari” - si legge nelle Attestationi di padre Battista Soresina -; erano
considerati come tanti matti, ipocriti, di
poca onestà per il modo con cui si mortificavano o correggevano alle volte i propri difetti nelle quotidiane collazioni o
riunioni di comunità” (Il Riformatore, p.
67).
Nel discorso ai suoi per incoraggiarli nel
momento difficile della denuncia alle
Autorità civili e religiose, SAMZ dice:
“Non è da meravigliarsi, né da temere, se
ora ci travagliano le varie insidie della
diabolica fraude, ovvero gli assalti aperti
e le calunnie degli uomini del mondo”.
Gesù aveva predetto per i suoi incomprensioni e persecuzioni. Col suo esempio ci indicò anche come superarle. I nemici “invece di odiarli e detestarli, dobbiamo compiangerli e amarli. Anzi dobbiamo pregare per loro... perché essi,
vedendo la nostra pazienza e la nostra
bontà, restino confusi dalla malvagità
Se vogliamo rileggere secondo la nostra sensibilità questo programma che
ricorre spesso sotto la penna dello Zaccaria, diremo che il vero intento della riforma è la causa del Regno di Dio, la quale
comporta la salvezza degli uomini, cui ci
si dona interamente in attitudine di totale
distacco da se stessi e di servizio pieno e
disinteressato (cfr Il Riformatore, pp. 81
s.)
“I santi provocano sedizione, ma amando”: la vera rivoluzione è quella
dell’amore.
15
CONCLUSIONE
Una sintesi scheletrica ma efficace
delle indicazioni spirituali di SAMZ la
troviamo nell’elogio che si trova in una
lettera scritta alle sue religiose, “alle mie
Angeliche e divine Figliole in Cristo”, la
lettera V. Le elogia
- perché sono amatrici e desiderose di
patire per Cristo
- perché sono profondamente distaccate dalle cose, anzi anche da se stesse
- perché cercano di condurre il prossimo “al vivo spirito e vero disprezzato
Cristo Crocifisso”
- perché tutte sono apostole non solo
per rimuovere ”la idolatria e altri difettoni grossi delle anime, ma per distruggere
questa pestifera e maggior nemica di
Cristo Crocifisso...: la tiepidità”.
Si tratta di un brano pittoresco, curioso,
che
nasce
dall’ammirazione
e
dall’amore del Santo per quelle donne,
tanto brave da far invidia per esse anche
al “divin Paolo”! Conviene leggerlo a
mo’ di conclusione: “Dolcissime e mie
dilette viscere, e unico spirito e conforto
mio, qual solo mi consola e mi conforta:
quando io penso al mio breve ritorno ai
miei nobili e generosi animi delle mie
amabili Figliole, corona e gloria mia, e
della quale un giorno farò invidia a quel
divin Paolo, in questo altro, cioè: che le
mie non sono manco ( = meno) amatrici
e desiderose di patire per Cristo, delle
sue; che le mie non manco disprezzano
ogni cosa, anzi se stesse, delle sue; che
le mie non manco cercano di condurre il
prossimo al vivo spirito e vero disprezzato Cristo Crocifisso, delle sue; anzi,
che le mie - non una sola, ma tutte - bandendo ogni propria riputazione e lec-
chetto ( = gusto) interiore (il qual le sue
per la maggior parte tanto amavano), sarebbero apostole per rimuovere non solo
la idolatria ed altri difettoni grossi delle
anime, ma per distruggere questa pestifera
e maggior nemica di Cristo Crocifisso, la
quale sì grande regna ai tempi moderni:
madonna, dico, la tepidità (= tiepidezza).
16
COLLOQUIO CON S. ANTONIO MARIA ZACCARIA
Carissimo sant’Antonio Maria Zaccaria, oso rivolgermi confidenzialmente a te,
dopo aver letto qualche biografia che ti riguarda, e soprattutto i pochi scritti tuoi
che ci rimangono.
Lo faccio confidenzialmente, perché sei molto più giovane di me. Oggi apparterresti alla categoria dei preti giovani.
17
Devo innanzitutto ringraziarti.
Non ti conoscevo affatto, se non per sentito dire e per quella statua che ho
visto fin da giovane nella casa di Eupilio. E per me sei stata una felice sorpresa.
Non prendertela. Succede spesso così: che le persone che mettono le fondamenta, oppure che dissodano il terreno, sono meno conosciute rispetto
all’architetto o al titolare dell’impresa. Avevo letto qualcosa di san Carlo e della sua fondamentale riforma della Chiesa milanese. E anche che nella sua opera
s’era avvalso molto dei tuoi discepoli, i Barnabiti, senza i quali probabilmente
non sarebbe riuscito così bene nel suo intento. Ma da quale fuoco fossero stati
accesi, non conoscevo.
Mi ha colpito molto la tua modernità.
Se tu fossi adesso al mio fianco, saremmo amici? Probabilmente sì (poi ti dirò
perché soltanto “probabilmente”).
Sì, perché vedrei in te un conforto, un sostegno, un ispiratore fantastico del
ministero che mi è stato affidato.
Ci troviamo in situazioni analoghe. Non identiche perché i tempi passano, e
anche perché la Chiesa oggi, almeno nei suoi Pastori, è molto migliore che non
ai tuoi tempi.
Non so se tu abbia mai visto qui a Milano l’Arcivescovo. E forse è meglio
così, stendiamo un velo pietoso.
Noi abbiamo un bravo Arcivescovo, ne abbiamo avuto un altro che stimo
moltissimo, anche perché ho avuto la provvidenziale fortuna di vivergli accanto
per parecchi anni. Sono uomini zelanti. Autentiche guide. Molto più avanti del
popolo che fatica a tenere il loro passo. Per non dire poi degli eccezionali Pontefici romani, uno più bravo dell’altro.
La riforma della Chiesa è il problema di sempre. La Chiesa terrena è un popolo in cammino, pellegrinate appunto, mai giunto alla meta, sempre bisognoso di
stimoli, di indicazioni, di rimproveri, di guide esperte e di sentinelle vigili. Noi
oggi le abbiamo. Forse tu no. Ai tuoi tempi, se capisco bene, la riforma auspicata dall’alto in realtà era condotta dal basso. Se lo Spirito non trova la docilità
dei Pastori, sa suscitare in alternativa carismi eccezionali tra la gente semplice,
come lo furono i gruppi suscitati da te a cominciare da Cremona, come lo era il
gruppo dell’Eterna Sapienza che trovasti a Milano.
Quindi io sono favoritissimo riguardo a questo punto. Oltre tutto la Chiesa di
oggi è animata da gruppi, associazioni, movimenti molto vivaci. Avranno i loro
difetti, correranno indubbiamente i loro rischi, perché il Diavolo non sta mai
fermo e sa confondere, intorbidare, accendere incomprensioni e rivalità, corrompere con atteggiamenti di superbia e presunzione... Ma indubbiamente sono
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un grande dono dello Spirito.
Esiste però una profonda analogia tra il tuo tempo e il nostro. Sono diversissimi, è vero, l’impostazione della vita, i sistemi di governo, le conquiste scientifiche (noi stiamo molto meglio di voi da questi punti di vista, non c’è paragone). Ma ci accomuna un grosso viziaccio: il peccato. Forse il peccato su vasta
scala ( come prodotto in serie, diremmo noi) ha cominciato ad affermarsi ai tuoi
tempi. La giusta riscoperta dell’uomo, l’esaltazione anzi dell’uomo fu condotta
purtroppo accantonando Dio. Ebbro di se stesso, l’uomo cominciò a spadroneggiare, dimenticando Colui che lo aveva creato. Coltivò l’illusione di costruirsi la
vita mettendo da parte Dio. Non Dio, ma le sue cose cominciarono a suscitare la
sua piena confidenza. Il peccato è proprio questo atteggiamento di rifiuto di Dio.
A me piace moltissimo la pagina del peccato originale, perché con una
“favoletta” dice verità tragiche profondissime. Gesù probabilmente definirebbe
la nostra impostazione di vita “stoltezza”.
Ebbene, l’illusione di raggiungere la pienezza della gioia senza Dio, confidando
nelle sue forze, nell’ebbrezza delle proprie conquiste, è il peccato grande
dell’uomo di oggi. Diffusissimo.
Oggi, a differenza di quando ero bambino, non si combatte più direttamente
Dio, almeno su vasta scala. E’ difficile trovare atei militanti. Ma c’è di peggio: te
lo lasciano Dio, ma tientelo tu, se ne hai proprio voglia, a casa tua, nessuno te lo
tocca. Ma non osare parlarne fuori di sacrestia, non osare introdurre comandamenti di nessun tipo nell’ordinamento sociale.
Forse ai tuoi tempi l’uomo peccava e sapeva di peccare. Oggi pecca ma non sa
di peccare. Pio XII diceva già cinquantanni fa che il peccato dell’uomo moderno
è proprio l’aver perso il senso del peccato.
Tu consiglieresti l’uomo a riprendersi in mano i due Libri che Dio gli ha
messo a disposizione. Innanzitutto il libro che è la natura. Le creature - tu insegni nel sesto sermone - sono il libro che l’uomo deve leggere per camminare
verso il suo Signore, un dono grande datogli proprio per questo da Dio. Aveva,
prima del peccato, lettere belle, fresche, appariscenti, ben formate. Purtroppo il
peccato ha reso difficile la lettura del libro delle creature. Mi piace molto
l’immagine della natura come libro da leggere, divenuto per il peccato libro di
difficile interpretazione: l’immagine è grandemente evocativa. E che fece Dio?,
continui. Fece un altro libro, cioè il Libro della Scrittura. Noi forse sul libro della
Scrittura siamo in grado di dire di più e di meglio rispetto alle poche parole che
tu aggiungi. So che ai tuoi tempi la discussione su come leggere la Bibbia era
piuttosto accesa, soprattutto nelle terre di Lutero. So anche che, purtroppo per
noi cattolici, la conclusione di tale discussione non è stata tra le più brillanti, per19
ché dai tuoi tempi in qua, praticamente la Bibbia rimase per i cattolici tabù. Ma
adesso no. Adesso abbiamo l’esortazione chiara di un Concilio a ritornare decisamente alla Bibbia, tantissimi aiuti a disposizione, non si fa altro che parlare
di lectio, e non pochi anche la praticano.
Quanto tu dici con l’immagine dei due Libri offerti da Dio all’uomo perché
cammini verso di lui, può essere riassunto nei due imperativi che hanno ispirato
le prime due lettere del card. Martini e che quindi sembra che anche tu condivida appieno: riscopri la dimensione contemplativa della vita è il primo. Diresti
anche tu press’a poco così: O uomo moderno, tu sei ammirevole per le cose che
fai e per le tante invenzioni di cui arricchisci l’esistenza. Ai miei tempi certe
cose non saremmo riusciti neanche a immaginare. Ma corri il rischio di affannarti senza sapere perché, di correre senza sapere dove; soprattutto di dimenticare che tutto quanto hai tra le mani è dono.
E l’altro imperativo è: in principio la Parola! All’uomo d’oggi diresti così:
Guarda che il peccato ha confuso le idee di molti, ha seminato dappertutto imperfezione e oscurità. Prima di prendere posizione su qualche pensiero o su
atteggiamenti da assumere, studia la Bibbia, chiediti che cosa ne pensi Dio:
metti prima la Parola! Opponiti alla mentalità vincente con una conoscenza
intelligente della tua fede. Bisogna zittire i maestri prepotenti, che non la smettono di impartirti lezioni, e scegliere invece l’unico vero Maestro che parla con
le parole della Bibbia. Mettiti in ascolto di Dio. Vinci la presunzione di sapere
già tutto.
E concluderesti così: Io ho usato le immagini dei due Libri per suggerirti che
dinanzi a Dio siamo sempre e soltanto alunni, piuttosto ignoranti, ma che per
fortuna, lui è per noi un Maestro eccezionale: occorre soltanto porci, come scolari attenti e desiderosi di apprendere, ai suoi piedi.
Ebbene, a te non andava bene quella situazione di degrado spirituale. Anche a me.
Tu fosti medico, hai cominciato a curare il corpo dell’uomo. Toccavi con mano le sue miserie fisiche tentando di alleviarle. Interessante questa tua vocazione giovanile. In fondo l’opera del medico assomiglia molto a quella del prete.
Ma a un certo punto, non so che cosa sia successo, ti accorgesti della nefasta
presenza di altre miserie, più profonde, spirituali. E ti facesti prete.
Perché questo cambiamento? Mi pare di averlo notato in un aggettivo interessante che ho trovato soltanto nei tuoi scritti: carestioso. E’ un aggettivo che si
rifà alla carestia (adesso noi qui non sappiamo che cosa sia, ai bambini di oggi
non manca nulla, basta che aprano bocca e hanno ciò che vogliono, non sappiamo che cosa sia fame o che cosa sia sete...). Ai tuoi tempi, a periodi di abbondanza si alternavano periodi di ristrettezza, mancavano cibo e vestiario,
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l’economia si bloccava per raccolti andati male e soprattutto per le continue
guerre. In tali momenti le cose salivano di prezzo, costavano tantissimo. Erano
“carestiose”, vendute a prezzo altissimo, di carestia appunto. Ebbene, tu dici che
l’uomo per Dio è così, “carestioso”: lo ha comperato a caro prezzo, e quindi per
lui è preziosissimo e indispensabile, come il cibo quando si ha fame.
Lo hai capito, mi pare, guardando alla Croce. La Croce possiede al riguardo una
eloquenza ineffabile. Mi spiace quasi parlarne, da incompetente, perché rovino
tutto. Dovrei abituarmi anch’io a mettermi in silenzio davanti a essa. E’ un libro
sul quale sta scritto il segreto di Dio e dell’uomo. E’ la cattedra, dalla quale, nel
silenzio della sofferenza e del dono, Dio si fa maestro dell’umanità. Tu imparasti
davanti alla Croce che l’uomo è troppo prezioso per lasciarlo andare su strade
perverse. E t’accendesti dentro. Hai diffuso anche l’abitudine a incontrare il Cristo Crocefisso vivo nell’Eucaristia. A Milano trovasti in un piccolo gruppo, quello dell’Eterna Sapienza, l’uso di pregare per 40 ore di seguito (le ore di Gesù nel
Sepolcro) davanti all’eucaristia esposta. La cosa ti piacque, la organizzasti, la
diffondesti. Di questo ti siamo estremamente grati. Vorrei prometterti anche di
continuare, nel mio piccolo.
Questa passione per l’uomo però rivela in te un’altra e radicale passione,
quella per Dio. Probabilmente conoscevi anche tu quella famosa frase di S. Agostino: Tu o Signore ci hai fatti protesi verso di te e il nostro cuore è inquieto finché non trova riposo in te.
L’uomo è opera di Dio, fatto a sua immagine e somiglianza. Tu fai uso di immagini efficaci che trai dall’esperienza per ricordare l’incredibile profondità e
gratuità dell’amore di Dio per l’uomo. Tutto Egli ha fatto per lui, il cielo, la terra,
l’aria e quanto essi contengono. E’ “matto”, dici, colui che non lo riconosce. E
profondamente ingiusto chi non mostra per tutto ciò riconoscenza. Le donne che
vedevi allevare i loro bambini con amore erano segno della tenerezza con la quale Dio segue ogni uomo. Il maestro che s’appassiona per insegnare è pallido riflesso di Dio educatore. “E Dio è più che nutrice, più che pedagogo, più che padre e madre”, dicevi. E non solo: aggiungevi: “Vedi da quanti pericoli ti ha liberato!”. Se uno si fermasse un po’, saprebbe riconoscere nella propria vita la cura
appassionata di un Dio che ama.
E tutto questo t’accendeva dentro.
Mi piace il titolo di una biografia su di te: “Fuoco nella città”. Mi piace, perché so che se questo fuoco manca, la vita illanguidisce nell’indifferenza e nella
noia. Mi piace perché vorrei averlo anch’io dentro di me. Un prete, me lo insegni, non è chiamato a ripetere lezioni imparate a memoria, magari anche ben costruite, ma a trasmettere l’amore. Mi piace perché mi richiama Gesù: lui fu tutto
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fuoco, lui venne per portare il fuoco sulla terra, lui vive nell’attesa che tutto il
mondo ne venga infiammato.
Dicono che hai imparato tutte queste cose da san Paolo, il tuo santo preferito.
E che san Paolo ti piacque per la decisione che caratterizzò la sua vita. Gli bastò
l’incontro con il Signore sulla via di Damasco per voltare decisamente pagina.
Un uomo risoluto, tutto d’un pezzo, ardente come fiamma. C’è una tua lettera
riguardo a questo atteggiamento di fermezza interiore molto interessante, indirizzata al Ferrari e al Morigia. Ti dava molto fastidio l’“irresoluzione”, la mancanza
cioè di fermezza nel condurre a termine un impegno.
Sopra ti dicevo che saremmo amici, incontrandoci adesso, “probabilmente”. E
qui siamo al punto. Accetteresti come amico uno “indeciso” come me? Tu ti stupivi della indecisione sulla via del bene, ti dava fastidio la diffusione della irresoluzione.
Mi conforta però sapere da te che anche nella tua vita l’irresoluzione è regnata
per molti anni. “Sono certo, scrivi, che se considerassi profondamente i mali che
procedono da tale irresoluzione, già molto tempo fa avrei estirpato questa mala
radice”. Parli della tua “negligenziaccia” e di “tardità nell’opera”. E mi piace
l’esortazione finale ai due, incoraggiante, che faccio mia: “Se finora in noi è stata
alcuna irresoluzione gettiamola via, insieme con la negligenza: e corriamo come
matti non solo a Dio, ma ancora verso il prossimo, il quale è il mezzo che riceve
quello che non possiamo dare a Dio...”. Possiamo continuare a essere amici?
Ho dunque letto i tuoi scritti. Aiutato anche da chi li ha studiati meglio di me,
ho cercato di dare al tuo insegnamento uno schema che a me pare logico. Anche
a te?
Permettimi di riprendere un po’ a casaccio qualche insegnamento. Forse non
a casaccio, ma a partire da alcune mie reazioni.
Innanzitutto noto una differente impostazione tra il tuo insegnamento e
quello che cerco di dare io.
Io devo svolgere un programma, non sono solo, come a me sembri a volte tu,
un magnifico Solitario. Dagli inizi degli anni ’70 i nostri Vescovi scelgono obiettivi da raggiungere a partire dalla situazione concreta, scelgono un grosso obiettivo per il decennio, e poi lo sminuzzano in altri più mirati. Per esempio, s’è notato - e qui ritorniamo appunto agli anni ’70 - che per fortuna continuava nella
Chiesa italiana la richiesta dei sacramenti, ma che malauguratamente il richiedente era totalmente o quasi all’oscuro della prestazione che richiedeva. Faceva
domanda del battesimo per il figlio, ma non conosceva praticamente nulla del
battesimo stesso. Da qui l’indicazione pastorale di approfittare della domanda
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per istruire ed evangelizzare. Ogni anno anche da me un gruppetto di giovani
chiede il sacramento del matrimonio, e meno male! Ma non conoscono Gesù, da
decenni non si confessano e non frequentano l’Eucaristia domenicale.
Ecco, io spendo tante energie per tappare alla meno peggio queste falle, con
risultati per lo più piuttosto deludenti.
Nel primo decennio del 2000, la Chiesa italiana vuole rinnovarsi nel campo
dell’evangelizzazione e ricercare vie efficaci per annunciare il vangelo “in un
mondo che cambia”. A Milano abbiamo concluso da tempo in queste linea un
triennio. Posso dire che dopo tale triennio la mia comunità sia più evangelizzante
oggi che non qualche anno fa? Dovrei storcere un po’ il naso per rispondere di sì.
Tu a questo punto mi suggeriresti: come ci si può sottoporre alle fatiche
dell’evangelizzazione senza che preventivamente sia stato acceso nel cuore il
fuoco dell’amore, per Dio e per il fratello?
Vorrei rassicurarti che l’impegno è tanto, e tanta la buona volontà. Incontrando
te ho però compreso - dando per acquisita l’opportunità della programmazione
pastorale su vasta scala - che alla base deve starci la formazione personale di uomini e donne decisi, appunto è impegno prioritario “accendere il fuoco”.
Tu avevi come obiettivo finale il rinnovamento di tutta la Chiesa e della società. Anche noi. E’ l’obiettivo del Vaticano II. Ma, se ho capito bene, indirizzasti i
tuoi sforzi più grandi e i tuoi insegnamenti a persone selezionate, a gruppi ristretti. Come a dire che il mondo nuovo lo costruiscono solo persone nuove.
Il tuo stile mette così in crisi un certo modo di esercitare il ministero, più da
funzionario che da testimone. Mi insegna a non confidare nei numeri e neppure a
rallegrarmi del successo di certe iniziative. Mi conferma nell’impegno, personale
innanzitutto e poi capillare, di rendere l’animo evangelico: Cristo deve essere la
mia vita e la vita di ogni autentico discepolo. Mi assicura che la cura per ogni
singolo non è tempo sottratto alla comunità: ogni singolo può essere un focherello capace di suscitare un incendio. Si può partire efficacemente a rinnovare la
Chiesa soltanto da qui. In altre parole: c’è bisogno di santi!
Se tu potessi parlare oggi a noi direttamente, che cosa diresti?
Mi sembra giusto, prima di rispondere direttamente, fare una premessa: visto
l’ardore del tuo animo, penso che oggi non ti limiteresti a parlare in una chiesa,
ma saliresti di corsa sul grande pulpito degli strumenti della comunicazione sociale. Lì si fa opinione, diresti. Lì bisogna essere. Così avrebbe fatto san Paolo, il
tuo amato san Paolo, per il quale ogni orizzonte era troppo stretto, perché Cristo
fosse proclamato a tutti. Ci rimprovereresti, perché siamo troppo assenti da queste grandi “piazze” nelle quali si costruisce il futuro del mondo.
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A parte questa premessa, ho l’impressione che il tuo discorso cambierebbe a
seconda dei destinatari. Hai logicamente cose diverse da dire a seconda
dell’interlocutore, se credente o incredulo.
Agli increduli (quanti!) tu diresti press’a poco così. “Siete matti e ingrati: matti
a non riconoscere nel cielo, nella terra, nell’aria e in ciò che in essi abita il grande dono che Dio fa all’uomo. Ingrati perché non lo ringraziate”. Ma lo diresti da
offeso: offeso tu, e colpito nell’intimo, da questa cecità e ingratitudine, perché
Dio è nel tuo cuore, Dio lo ami.
Accoglieresti con entusiasmo la lettera del papa Deus caritas est: bisogna che
l’uomo riparta da lì, dalla riscoperta estasiata dell’Amore che l’ha voluto e al
quale è indirizzato. E saresti d’accordo anche con quella affermazione un po’
nuova contenuta nell’enciclica: del Dio che per amore dell’uomo “si volge contro se stesso”. Penso che questa frase ti abbia commosso anche in Paradiso.
(Anche a te piacevano certe frasi a effetto, possedevi un vocabolario a volte
pittoresco, mi piacerebbe, per mio diletto, fare la raccolta delle tue affermazioni
più colorite: magari, chissà, un’altra volta!).
L’uomo non conosce e non ama Dio - aggiungeresti completando - per il fatto
che è troppo egoista, cioè per il fatto che non ama l’uomo.
E allora, per concretizzare l’invito a riconoscere Dio, a ringraziarlo e a ritornare
a lui, penso che insisteresti sulla formazione a precise virtù umane come
all’attenzione all’altro e alla compassione.
Sarei d’accordo anch’io. Questo infatti raccomando di solito ai genitori preoccupati per il futuro religioso del figlio. ( Tra parentesi: è arduo per un genitore
credente trasmettere la fiaccola della fede ai propri figli e sono non pochi quelli
che soffrono per insuccessi al riguardo. Un problema grosso, forse il primo problema riguardante l’evangelizzazione della Chiesa di oggi). “Se tiri su un figlio
egoista, sempre coccolato e accontentato in tutto, sarà rovina per lui, rovina anche per te. E Dio sarà per lui un perfetto sconosciuto, incomprensibile. Gli mancherebbero le antenne adatte per captarlo. Ma se lo educhi all’attenzione
all’altro, alla compassione, alla donazione, allora non temere: questa è
l’atmosfera di Dio, prima o poi lo incontrerà”.
Quanto più si serve l’uomo, altrettanto si diventa sensibili al discorso religioso
e aperti a Dio. Quanto più invece si strumentalizza l’uomo alle proprie voglie di
tutti i tipi, altrettanto si diventa duri di cuore, e quindi ciechi e sordi dinanzi a
Dio.
A coloro invece che fanno parte della comunità cristiana e che si sentono a
posto nei confronti di Dio, che cosa diresti? Se tu fossi parroco al mio posto nella
parrocchia dedicata a te, che cosa inventeresti?
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Sono sicuro che per prima cosa, imparando da san Paolo, ringrazieresti il
Signore per la tua comunità. Io l’ho fatto dal primo istante in cui l’ho conosciuta,
spontaneamente. Devo però aggiungere che adesso lo faccio meno
“spontaneamente”, ma forse con maggiore convinzione. La sai benissimo che, tra
i tanti, abbiamo anche il viziaccio di apprezzare poco quanto ci è dato e, per
compenso, di lamentarci troppo per quello che manca. Ho bisogno di essere sempre messo sull’attenti al riguardo.
Comunque sia, quale sarebbe il tuo ringraziamento a Dio per la nostra comunità? Sopra ho ricordato il tuo entusiasmo per le Angeliche, che chiamasti
“dolcissime e mie dilette viscere”. Anche san Paolo te le invidiava, ne eri certo!
Per esse ringraziavi Dio e ne elencasti le motivazioni. Leggendole e confrontandole con la nostra situazione, fatichiamo a trovare somiglianze con quelle donne
che erano per te consolazione e conforto. Dovremmo invece arrossire: quanto
siamo lontani! Mi impegnerò, rileggendo in futuro le tue pagine, a cercare quali
potrebbero essere i motivi del tuo ringraziamento a Dio per la nostra comunità.
Io adesso farei uso un po’ della fantasia per immaginarti tra noi, in piena azione pastorale.
Io credo che raccomanderesti la preghiera.
Tu fai capire dal poco che di te abbiamo, che senza la preghiera non si dà cristiano autentico. Insisti anche sulla preghiera costante, come il tuo carissimo Paolo che voleva che i suoi pregassero in ogni momento, con assoluta confidenza,
perché la vita si costruisca soltanto sulla volontà divina.
Il Papa ci ha indirizzato una lettera bellissima, la Novo Millennio Ineunte, come
vademecum per il nuovo millennio. Tra le priorità pastorali della Chiesa
all’inizio del nuovo millennio ricorda la preghiera. “C’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera” (n.32). E auspica che
“le nostre comunità cristiane diventino autentiche “scuole di preghiera”, dove
l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche
in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto ardore di affetti, fino a un vero “invaghimento” del cuore” (n. 33).
Io credo che in questa linea promuoveresti le due devozioni, al Crocifisso e
all’Eucaristia. Cerco di farlo anch’io, con l’aiuto di tanti. Ma non trovo
l’adesione corale che auspicavo. Anche le Quarantore, che tu organizzasti ai tuoi
tempi e che si sarebbero propagate in tutta la Chiesa, riscuotono poca attenzione.
Noi cerchiamo di ripensarle adattandole all’epoca moderna (sai, l’epoca moderna
è quella nella quale a Dio sono riservati i “buchi”, le ore migliori della giornata
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sono reclamate invece dal “lavoro” e sinceramente non capisci come il povero
diavolo che si trova immerso nel sistema possa fare diversamente...). Qualche
piccolo progresso c’è stato. Qualcuno davanti all’Eucaristia (al “Crocifisso vivo”
come ami chiamarla tu), ha incontrato in maniera efficace quel Dio che magari
da decenni aveva riposto in cantina. Ci sono state autentiche conversioni. Troppo
poche!
Sempre nella lettera apostolica citata, il Papa, dopo aver ricordato nel primo
capitolo gli eventi eccezionali del grande Giubileo del 2000, inizia il secondo
capitolo riportando la richiesta che alcuni Greci rivolgono all’apostolo Filippo:
“Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21). Gli uomini del nostro tempo, magari inconsapevolmente (e io penso anche gli uomini del tuo tempo, di ogni tempo),
chiedono ai credenti non soltanto di parlare di Gesù, dice il Papa, ma “in un certo
senso di farlo loro “vedere”... La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente vuota - precisa - se noi per primi non fossimo contemplatori del
suo volto” (n. 16). Sei d’accordissimo, vero?
Recentemente, durante una quaresima ho sognato di porre la comunità davanti
al Crocifisso, seguendo alcune magnifiche indicazioni esposte dal papa nella sua
lettera “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”. Ne è risultata una
serie di incontri belli in sé, ma poco condivisi e partecipati.
Tu hai incontrato grossissime difficoltà, e proprio tra gli “abituali frequentatori”
della comunità cristiana. Certo che, non so tu, ma i tuoi seguaci tenevano anche
comportamenti un po’ stravaganti, che sembravano fatti apposta per suscitare
critiche e reazioni.
Le nostre difficoltà, a confronto con le tue, sono una bazzecola. Però dobbiamo
riconoscere, sia tu che io, che il Diavolo ci sa fare, è proprio “laureato” nell’arte
di dividere, e ha buon gioco anche nella comunità cristiana. Quanto t’è toccato
soffrire!
Mi piacciono molto le tue raccomandazioni circa l’uso della lingua. Certi la
fanno andare sempre, proprio come la ruota di un mulino quando scorre l’acqua,
come dici tu. Membro piccolo, ma terribile, la lingua.
Come pure mi piacciono le tue osservazioni severe contro la mania di sparlare
dell’altro, che a tuo giudizio è l’espressione più alta della superbia. Avrai ammirato anche tu san Domenico. Ebbene di lui, nella pagina tratta dalla “Storia
dell’Ordine dei Predicatori” che si legge nella sua memoria liturgica, sta scritto:
“Era assai parco di parole e, se apriva bocca, era o per parlare con Dio nella preghiera o per parlare di Dio”. In fondo tu non fai che riprendere l’insegnamento
chiarissimo di Gesù (e di san Giacomo), sempre dimenticato nella pratica.
Del resto, sempre l’indimenticabile Giovanni Paolo II, tra le priorità pastorali
per la Chiesa di oggi indica anche il compito di “fare della Chiesa la casa e la
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scuola della comunione”, una “grande sfida... se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde dell’uomo” (id., n. 43). Comprendi il mio rammarico? Anche perché subito dopo il Papa precisa che non si
tratta tanto di fare qualcosa al riguardo, ma di operare una conversione interiore
profonda, “promuovere una spiritualità della comunione” della quale elenca
quattro caratteristiche. Non te le ridico, ti confido soltanto che siamo lontanissimi
dall’averle. Forse perché se già le possedessimo, saremmo senza dubbio in un
anticipato paradiso!
Comunque, sono sicuro che partiresti da quelle due devozioni perché la tua
sensibilità avvertirebbe subito che ciò che manca, o è troppo esile, è un amore
autentico per Gesù alimentato da una fede invincibile. Io personalmente mi sono
chiesto spesso (di comunità cristiane ne ho incontrate tantissime, soprattutto
quando ero al servizio del card. Martini) se la comunità cristiana oggi abbia il
suo centro in Gesù conosciuto, amato, creduto con tutta la lucidità della mente e
l’ardore del cuore, oppure dia per scontati questa conoscenza e questo amore. Sai
che basta un romanzetto da niente come il Codice da Vinci per mandare in crisi
la fede di tanti?
Sto colloquiando con te in chiesa, una chiesa vuota. Ci passo alcune ore ogni
giorno, gli “avventori” sono pochi, forse perché è ubicata su un rialzo che è vera
barriera “architettonica” per le persone anziane. Comunque dei pochi che vengono, quasi nessuno si ferma davanti al Tabernacolo. Generalmente si compie il
solito giretto per accendere qualche lumino e dire una preghiera alla Madonna o
a san Pio da Pietrelcina, come se Gesù non fosse presente.
Pertanto, scusa il mio ardire, alle devozioni che piacciono a te, ne aggiungerei
una terza, quella verso la “Dimora”, la chiesa. Noi chiamiamo questo luogo chiesa, e lo sguardo si allarga alla comunità che qui viene da Dio convocata, la
“ecclesia” appunto. Io preferirei chiamarla “Dimora”, perché qui abita Dio, qui
lo incontri, qui puoi parlargli anche tu faccia a faccia come Mosè, qui può sbocciare e fiorire l’amore per Gesù...
Oltre alla promozione delle due devozioni, penso che cambieresti il confessionale, lo renderesti accogliente per ogni stagione, anche per quella rigida
dell’inverno, inviteresti a frequentarlo. Questo faresti perché oltre a notare la
debolezza della fede in Gesù, metteresti in evidenza la superficialità della vita
spirituale. Tu come medico (e lo fosti, medico dei corpi, nella tua giovinezza)
oggi avresti successo, perché si ha molta cura del corpo. Ma credo anche altrettanto e forse di più come direttore spirituale: eri un vero trascinatore, sapevi trasmettere quel fuoco che ti ardeva dentro. E poi conoscevi bene l’animo umano.
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Gli insegnamenti spirituali che ho evidenziato dai tuoi scritti sono anche molto
“moderni”.
Comunque cambieresti il confessionale per convincere, con un gesto simbolico,
che la vita spirituale va curata con precisione, che ci sono “esperti” che possono
dare una mano (a me piace dire che alcune persone, per missione, sono specializzate a far riscoprire a ciascuno la presenza nella propria vita di un “esperto” eccezionale, lo Spirito santo, e a essere attenti e docili alle sue indicazioni).
In questo confessionale rinnovato tu passeresti gran parte della giornata, perché
sei convinto che il mondo nuovo - e lo ripeto volentieri - può nascere soltanto
da uomini nuovi e non da nessuna iniziativa, sia pure spettacolare. E saresti in
buona compagnia. Difatti su questo punto ti troveresti in pieno accordo con Giovanni Paolo II che, sempre nella Novo Millennio Ineunte, al n. 30 scrive: “Non
esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quello della santità”. E al n. 31: “E’ ora di riproporre a tutti con convinzione questa
“misura alta” della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale
e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione”.
A questo punto dovrei orecchiare al tuo confessionale per ascoltare le tue ammonizioni, i consigli, i rimproveri, le esortazioni. Ho cercato di raccoglierli in
queste pagine alla meno peggio.
Per essere giusto, a questo punto dovrei, concludendo, stare zitto e lasciare a te
la parola, perché senz’altro tu hai ammonimenti, consigli, rimproveri soprattutto
per me che sono servitore della comunità che ti venera come Patrono. Ma in fondo, che cosa è stata la mia fatica se non il desiderio da parte mia di pormi in ascolto di te, per prestare attenzione ad ammonimenti, consigli e rimproveri?
Ringrazio il Signore che mi ha permesso l’incontro con un pretino tutto fuoco
e, nonostante la giovane età, così saggio.
Tu intercedi per noi!
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1 con le Costituzioni - che sono rimaste di lui. Ne