IL PUNTO Le notizie di LiberaUscita Febbraio 2008 - N° 43 SOMMARIO LE LETTERE DI AUGIAS 701 - Spada e aspersorio dei crociati antiaborto 702 - Il mio parroco e la semplicità della sua fede 703 - Cosa significa interrompere una gravidanza 704 - Adoro mia figlia ma avrei scelto l’aborto 705 - Ipocriti e fanatici al capezzale delle donne 706 - Il dolore di una donna per un figlio mai nato 707 - Io, medico dell’infanzia, vorrei parlare di pietà 708 - I cattolici adulti delusi dalla chiesa ARTICOLI E INTERVISTE 709 - Sempre più distanti chiesa storica e Gesù risorto – Luigi De Paoli 710 - Indietro tutta (if you think Islam is) - Mark Steel 711 - Il pericolo dell’ondata neoguelfa – Aldo Schiavone 712 - I medici sacerdoti ai confini della vita – Adriano Prosperi 713 - La gamba tesa del vaticano - Gad Lerner 714 - Gli infermieri: “no all’eutanasia” – Mario Reggio 715 - Le antiche strade della chiesa – Aldo Schiavone 716 - Se è in pericolo il destino dei diritti - Stefano Rodotà 717 - Feti, embrioni e scienziati - Ignazio Marino 718 - Il cristianesimo semplice – Francesco Merlo 719 - Quanto è costata la battaglia per l’aborto - Federico Orlando 720 - Valori e diritti nei conflitti della politica – Gustavo Zagrebelsky 721 - I diritti dimenticati – Stefano Rodotà 722 - Le religioni, la fratellanza e il totalitarismo - Ulrich Beck 723 - Ingerenze e condiscendenze - Margherita Hack DALLA ASSOCIAZIONE 724 - Presentazione a Bologna del libro “non sono un assassino” 725 - “Non sono un assassino” – Recensione di giuseppe licandro 726 - Lettere dai soci PER SORRIDERE…. 727 – Le vignette di Ellekappa – Relativismo etico LiberaUscita Associazione per il testamento biologico e l’eutanasia Sede: via Genova 24, 00184 Roma Telefono e fax: 0647823807 Sito web: www.liberauscita.it - email: [email protected] 701 - SPADA E ASPERSORIO DEI CROCIATI ANTIABORTO - CORRADO AUGIAS da: la Repubblica di mercoledì 6 febbraio 2008 Gent. mo Dott. Augias, un’offensiva contro la legge 194 in nome dei valori cristiani. Alcuni medici discutono in astratto di rianimazione ad ogni costo. Non importa a quale prezzo, rianimato anche per poche ore o costretto a una breve vita impossibile, l’importante è assecondare le teorie dei vescovi: anche mezz’ora di vita impossibile servono a dimostrare che l’aborto è un omicidio e che quindi le donne sono assassine. L’uso strumentale e politico dei feti per imporre la sovranità della gerarchia cattolica sulla libertà del popolo è un crimine degno di una dittatura. Roberto Martina – [email protected] Caro Augias, il ‘pronunciamento’ delle Università dice in sintesi: A) il feto, se vivo, è da considerarsi un ‘prematuro’; se può essere rianimato, deve esserlo. B) «anche» se la madre non vuole! Perché questa insidiosa aggiunta? Solo per tirare in ballo la 194 la quale di suo, all’articolo 7, prevede appunto quanto riassunto sotto il punto A. Insomma la Sapienza (mai nome fu meno appropriato) ha colto l’occasione per uscire dall’angolo: che abbia associato le altre università fa sospettare che l’iniziativa abbia registi (romani) più autorevoli e manovrieri. Paolo Todescan - Vicenza - [email protected] Risponde Augias L’articolo 7 della 194 dice appunto che quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, il medico che segue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarne la vita. Allora perché quell’uscita di alcuni medici se non per aggiungere un ulteriore elemento emotivo a una discussione che ha assunto toni da crociata? Già l’equiparazione con la pena di morte è una forzatura priva di logica; già lo slogan “sì alla vita” è assurdo; c’è forse qualcuno che vuole sostenere “no alla vita”? E poi di quale vita si sta parlando? Qualche giorno fa il caso di una bambina sopravvissuta a un aborto terapeutico dopo la diagnosi che al feto mancavano i globi oculari. Non cieca, completamente priva dell’organo della vista. Nata alla 22esima settimana, pesava 500 grammi. Dopo dieci giorni ha subito un intervento al cuore, un’emorragia cerebrale le ha provocato una quasi totale sordità, a 15 mesi pesa 6 chili e le sue condizioni continuano a rimanere critiche. Riferisco questo tragico caso non per accrescere a mia volta l’enorme emotività del tema ma solo per dire che ogni aborto è un caso a sé, ogni dramma è diverso da un altro dramma, e che una donna non decide (quasi) mai di abortire a cuor leggero. Bisognerebbe ragionare di più sulle persone e meno sui principi, accantonare le ideologie e scendere nella vita delle persone, dialogare e non brandire la spada e l’aspersorio. Soprattutto, come ha detto il prof Veronesi, se si vuole evitare l’aborto bisogna mettere in atto misure preventive adeguate, insegnare davvero l’uso corretto delle pratiche anticoncezionali. 702 - IL MIO PARROCO E LA SEMPLICITA’ DELLA SUA FEDE - CORRADO AUGIAS da: la Repubblica di sabato 9 febbraio 2008 Gentile dottor Augias, giorni fa sono stata al funerale del parroco del mio paesino di provenienza, nell’Altopiano di Asiago. Un parroco legato alla sua tonaca nera, sempre sorridente, che andava a trovare gli ammalati all’ospedale e portava la Comunione ai vecchi delle contrade. Una vita sobria, semplice, quasi povera, dedicata all’amore per Dio e i suoi parrocchiani, anche per quelli non praticanti. Vedendo la bara con sopra solo la sua stola e il vangelo, profondamente commossa, non ho potuto fare a meno di pensare agli avvenimenti che in questi giorni hanno riguardato la Chiesa. E ho pensato che la Fede e la ricerca spirituale sono ben altro da quello che abbiamo visto e sentito. L’amore per Dio e il desiderio di sacro non hanno bisogno di colti discorsi teologici, di esibizioni di titoli accademici, di prove matematiche dell’esistenza di Dio come pretenderebbe il deputato Buttiglione. 2 La Fede sgorga dal cuore, nonostante i segni e i miracoli che molti di noi non cercano, e passa tramite l’esempio di vite anche semplici, dedicate all’Assoluto e all’amore per il prossimo, più che a quello per la filosofia e per lo studio dei sacri testi. Se la Chiesa tornasse a questo, forse recupererebbe anche le pecore che, come me, si sono allontanate, per continuare a credere. Monica Lunato - [email protected] Risponde Augias La forza della chiesa cattolica si misura anche da questo: traffico di capitali attraverso il mondo ma anche parroci che si affannano a fare del bene; fasto e ricchezza ma anche dignitosa parsimonia; raffinate esegesi teologiche ma anche la fede che ‘sgorga dal cuore’, come scrive Monica Lunato. Pochi giorni fa, per la giornata della Memoria, discutevo con altre persone del comportamento di papa Pio XII durante il nazismo. Su un piano diverso si possono dire anche per quegli anni tragici le stesse cose. La straordinaria prudenza, c’è chi dice complicità, del Vaticano verso il nazismo ma anche l’aiuto di conventi e case cattoliche che si aprirono generosamente ad ospitare e nascondere i perseguitati. Se volessimo allargare il discorso per tentare, dal funerale di un parroco di montagna, un’osservazione più generale, si potrebbe aggiungere che l’intera storia della chiesa si è sviluppata lungo questo doppio registro: il potere e la lotta al potere, il fasto e la povertà, l’accomodamento e l’eroismo. Somma astuzia, o sapienza, è stato riuscire a tenere insieme per tanti secoli questi due livelli facendo anzi in modo che il secondo, quello più umile e nascosto, servisse come schermo per meglio dissimulare il primo. Più la vera fede s’è rarefatta, più questo schermo ha funzionato, più è avanzata la secolarizzazione e il disinteresse più è stato facile nascondere la differenza abissale tra la chiesa del potere e quella della cura di anime e di corpi. I soldi né danno la felicità né sono sterco del demonio. Con la fede avrebbero pochissimo a che fare, però aiutano, come scrive Petronio arbitro, a navigare con vento sicuro. 703 - COSA SIGNIFICA INTERROMPERE UNA GRAVIDANZA – CORRADO AUGIAS da: la Repubblica di domenica 11 febbraio 2008 Caro Augias, ho 37 anni e poco tempo fa ho fruito dei diritti sanciti dalla legge 194: ho abortito, volontariamente. Non le descrivo (per riservatezza e perché ciò non aggiungerebbe nulla) le circostanze e i sentimenti che mi hanno indotto a interrompere la gravidanza. Però, dopo aver vista la 194 attaccata in ogni sua piega, ascoltato sentenze pronunciate da chi, sentendosi senza peccato, ha scagliato la prima pietra (e molte altre), non resisto più. Vorrei chiedere a questi censori che ne sanno dell’amarezza e del dolore di constatare che un figlio non è - in certi frangenti - opportuno né auspicabile. Che ne sanno dello sforzo sovrumano che una donna dovrebbe accollarsi per allevare una creatura non potendo provvedere - come si deve — nemmeno alla propria esistenza? Come si permettono di decidere della nostra vita, di definirci assassine? Se la 194 dovesse esser sovvertita, io ho la possibilità economica e “culturale” di andare a Lione o Berlino o Madrid: abortire e poi prendermi — forti come un pugno - le conseguenze di una decisione amara perché così è: molto amara. Ma la donna che non può recarsi altrove, che fa? Valeria Serra Sassari Risponde Augias Ho ricevuto molte lettere di donne con esperienze simili. Hanno in comune due elementi: la rivendicazione di un diritto acquisito, il ricordo del dolore provato. Mi ha scritto Francesca Pieri ([email protected]): «A ottobre 2006 ero in attesa di una bambina e mi sono sottoposta a un’ ecografia che ha riscontrato nel feto una gravissima malformazione cerebrale, di quelle che capitano una 3 volta su diecimila. Sarebbe nata (e anche su questo c’era da dubitare) una creatura gravemente malata, con scarsissime possibilità di sopravvivenza. Da lì la decisione di interrompere la gravidanza. La trafila è stata faticosissima, piena di formalità e di intoppi. Tra medici obiettori e burocrazia, c’è voluta una settimana vissuta in totale sospensione di spazio e di tempo. Poi il ricovero. Due giorni di travaglio senza supporto emotivo da parte della struttura, senza la possibilità di avere qualcuno accanto. Solitudine, sofferenza fisica, un senso di abbandono e di violenza che non riesco ancora a raccontare senza sentire il carico di tanto dolore e umiliazione. Che cosa significa per una madre interrompere una gravidanza? Cosa sarebbe successo se non avessi avuto la possibilità di scegliere? E come raccontare tutta la sofferenza? E soprattutto chi ha il diritto di parlare e di decidere per me? Chi può puntarmi il dito contro? Chi più di me conosce il valore di una singola vita? A distanza di più di due anni, con un figlio nato e il progetto di un altro, ancora mi sento chiamata in causa, ancora non riesco a dimenticare». Anche se questa è particolarmente toccante, le lettere che le donne scrivono sono così. Ci vuole davvero molto coraggio, potrei dire cinismo, per contrapporvi la fredda sterilità di un’ideologia. 704 - ADORO MIA FIGLIA MA AVREI SCELTO L’ABORTO - CORRADO AUGIAS da: la Repubblica di martedì 12 febbraio 2008 Gentile Augias, un «bravissimo» medico non è stato in grado di leggere da una ecografia che mia figlia sarebbe nata con una grave malformazione cerebrale. Oggi la mia bimba, poco più di 2 anni, è persona pluridisabile, invalida al 100 per 100. Frequentando i reparti di neuropsichiatria infantile incontro decine di bambini nati prematuri. Sono per lo più ciechi o ipovedenti, come la maggior parte dei nati pretermine. Quasi sempre il deficit visivo si accompagna ad altri danni, cerebrali o motori, irreversibili. Ho conosciuto famiglie sbriciolate, unioni distrutte, donne sprofondate nella depressione. Non tutti hanno la forza fisica, gli strumenti psicologici, i mezzi economici, la cultura che ci vuole per combattere contro la burocrazia, la crudeltà di certi medici e l’inciviltà imperante, la solitudine e la stanchezza, infine, contro se stessi e la propria inadeguatezza. E’ per queste persone, soprattutto, che le scrivo. La chiesa, la politica, la medicina smettano di guardare alle donne come a puttane che uccidono i propri figli. L’aborto è una scelta dolorosa per chi la compie, ma è una scelta e va garantita. Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta. Ma se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l’aborto terapeutico. Ai medici che vogliono rianimare i feti anche senza il consenso delle madri dico di uscire dai reparti di terapia intensiva, andare a vedere cosa sono diventati quei bambini, a quale eterno presente hanno condannato quelle madri. Ada d’Adamo - [email protected] Risponde Augias Dalle tante lettere di madri come Ada d’Adamo che ricevo, ricavo l’impressione di donne magnifiche, consapevoli, capaci di esprimere con rigore e partecipazione il dolore. Se posso dirlo applicandolo a un tema tragico: anche stilisticamente molto belle. Ma ne deduco anche un’informazione che va nel merito della campagna scatenata dalla chiesa. Ogni affermazione di principio sull’aborto, che prescinda cioè dalle circostanze personali sempre diverse da caso a caso, è crudele e irricevibile. La saggezza della legge 194 di cui parlava il ministro Livia Turco è proprio nel cercare di prevedere, di distinguere, di offrire alcune garanzie proporzionate. Ovviamente nei limiti in cui può farlo una legge; al resto deve pensare la coscienza dei genitori in primo luogo, del medico poi. 4 Mi ha scritto da Firenze Cristina Gucciarelli: «E’ una pena sentir parlare di prematuri del peso di 500 gr mentre scorrono belle immagini di bimbi di 4 kg. E’ riprovevole che si dia notizia del miracolo, quando si tiene artificialmente in vita un prematuro di 21 settimane, vittima di gravissimi e irreversibili danni, e si nasconde il drammatico futuro di non-vita che avrà, se sopravvive». Questa campagna è cinica, soddisfa solo il fanatismo, prepara il terreno a nuovi diritti negati. Non è un caso che non si osi sondare direttamente il parere delle donne e si proceda invece per le vie traverse della politica. 705 - IPOCRITI E FANATICI AL CAPEZZALE DELLE DONNE - CORRADO AUGIAS Da: la Repubblica di giovedì 14 febbraio 2008 Caro Augias, sono una donna di 49 anni che ha sempre pensato di vivere in un paese dove certi diritti erano acquisiti dopo lotte e democratici referendum; dopo ciò che si legge sui giornali, in relazione a quella sala operatoria in un ospedale di Napoli mi viene da chiedere se sia possibile una tale barbarie. Una donna ha il sacrosanto diritto di decidere se volere o no una maternità. Basta con i falsi perbenismi di alcuni ipocriti Gabriella CotoIa - gabry [email protected] Gentile Dott. Augias, non ho mai abortito e il mio bambino è nato forte bello e sano. Ero considerata a rischio e mi sottoposi ad amniocentesi. Ricordo ancora l’ansia mentre aspettavo il risultato. Mi dicevo “e se?...” L’idea di un aborto per una donna è devastante, forse gli uomini non riescono a capirlo. Ancora pochi giorni fa, un’amica che aborti quando aveva 17 anni mi diceva: «ci penso sempre, adesso avrebbe 23 anni». E’un dolore che ti porti dentro per sempre. Ho letto di Napoli: è una vergogna! Antonella Schiaretti - [email protected] Risponde Augias Ci vorrebbero più consultori, ci vorrebbe più informazione anticoncezionale. Invece tutto si riduce a una campagna furibonda che a Napoli ha dato frutti adeguati al fanatismo che la distingue. Poi c’è la strumentalizzazione politica. Berlusconi in un primo momento aveva aderito all’idea della cosiddetta ‘moratoria’ che in pratica vorrebbe dire sospendere o abolire la legge 194. Ben consigliato, forse da se stesso, ha poi frenato per vari motivi non esclusi, ritengo, quelli personali. Nel 2005, alla vigilia del referendum sulla procreazione assistita (Legge 40) sua moglie Veronica Lario confidò al Corriere della Sera (8 aprile) di aver abortito al settimo mese cioè ben oltre i termini di cui ora si discute: « Ho avuto un aborto terapeutico, molti anni fa. Al quinto mese di gravidanza ho saputo che il bambino che aspettavo era malformato e per i due mesi successivi ho cercato di capire, con l’aiuto dei medici, che cosa fosse più giusto fare. Al settimo mese di gravidanza sono dolorosamente arrivata alla conclusione di dover abortire. E stato un parto prematuro e una ferita che non si è rimarginata. Ancora oggi è doloroso condividere pubblicamente quell’esperienza». Veronica Lario aggiunse opportunamente: «Negli anni Settanta, ricordo, la discussione sull’aborto ruppe quel muro di silenzio e di vergogna che opprimeva l’animo di una donna costretta a quella scelta. Nell’aborto non c’era soltanto il rischio di morire e la morte che dolorosamente si infliggeva, ma anche il silenzio, tremendo, che accompagnava la scelta». Parole che possiamo fare nostre, che ritrovo nelle decine di lettere che ricevo. Abolire o sospendere la legge che regola l’aborto significherebbe semplicemente tornare alla barbarie della situazione precedente, quando l’aborto voleva dire spesso mettere a rischio la propria vita. 706 - IL DOLORE DI UNA DONNA PER UN FIGLIO MAI NATO – CORRADO AUGIAS da: la Repubblica di giovedì 21 febbraio 2008 5 Gentile Augias, ho 42 anni, sono sposata da 14, dai 30 ai 35 mi sono sottoposta invano a tecniche di fecondazione assistita per sterilità di coppia. A 38 anni resto incinta. Alla 20a settimana si scopre nel feto una gravissima malformazione cardiaca (Sindrome del ventricolo sinistro) incompatibile con la vita se non con l’ausilio di tecniche invasive di assistenza circolatoria fin dai primi minuti. Si sarebbe dovuto procedere poi con interventi di ricostruzione anatomica, senza il conforto di un ragionevole risultato. Sono infermiera presso un Centro di Rianimazione Cardiologica, la mia esperienza e le spiegazioni dei ginecologi mi hanno permesso, nonostante il trauma, di decidere con mio marito in piena coscienza. Abbiamo affrontato l’aborto terapeutico per quel figlio desiderato che la natura aveva deciso di non farci abbracciare solo per evitare l’accanimento terapeutico cui sarebbe andato incontro. Tutto è avvenuto attraverso i dettami della 194, dopo ulteriori consulenze mediche, la mia valutazione psichiatrica e l’autorizzazione del responsabile di Ostetricia. Sono passati 4 anni, non siamo diventati genitori, abbiamo avuto la forza di risollevarci da tanto dolore, ma l’assenza di questo bimbo è «presenza» costante. Chi per motivi ideologici, politici o religiosi, si arroga il diritto di giudicare, dovrebbe fare un passo indietro, sospendere il giudizio, avvicinarsi con pietà ai grandi temi che governano il diritto alla vita e alla morte. Lettera firmata Risponde Augias Giorni fa il quotidiano dei vescovi ironizzava sulle lettere che molte donne indirizzano a questa rubrica. Scrivetegli, si diceva, vi pubblicherà. Fare del sarcasmo su casi come quelli che qui sono stati raccontati, compreso quello di oggi, non so se sia un atteggiamento cristiano, di sicuro è ripugnante. Come è ripugnante lo sfruttamento della parola ‘vita’: sì alla vita, vogliamo la vita. Come se gli altri volessero la morte. Difende la vita chi si batte perché ci sia assistenza, aiuto alle donne, luoghi dove mandare i bambini quando si lavora. Non difende certo la vita la signora Moratti che nega l’asilo ai figli degli immigrati. Non la difende chi ostacola l’educazione sessuale, le tecniche di contraccezione, i preservativi nelle scuole, la pillola del giorno dopo. Quando c’è stata la manifestazione di donne a Napoli le croniste riferivano che un prete di passaggio le apostrofava «Assassine, assassine!». So di una badante ucraina che lavora a Roma. Clandestina, precaria, appesa solo alla sua possibilità di lavorare, di mandare i soldi a casa grazie a quelle umilissime incombenze. E’ rimasta incinta, se avesse avuto il bambino tutto il quadro della sua esistenza sarebbe fallito, non solo la sua vita ma anche quella delle altre persone di famiglia. Ha abortito, clandestinamente, come clandestina è la sua intera esistenza. E’ andata bene, non è morta. Due ore dopo l’intervento era di nuovo al lavoro. Vorrei vedere quel prete di Napoli chiedere perdono a questa donna. 707 - IO, MEDICO DELLINFANZIA, VORREI PARLARE DI PIETÀ’ – CORRADO AUGIAS da: la Repubblica di mercoledì 27 febbraio 2008 Caro Dr. Augias, sono un medico, neuropsichiatra infantile. Ho lavorato per anni in un reparto di neurologia infantile, ho seguito bambini prematuri con esiti di gravi lesioni cerebrali. Nei dibattito attuale sull’aborto di feti malformati e sulla rianimazione di neonati molto prematuri, non ho letto alcun cenno relativo al dolore fisico cui vanno incontro molti dei bambini che sopravvivono. Tutti si pronunciano su aspetti etici, ideologici, sulle sofferenze dei genitori, ma non si parla mai del dolore di questi bambini. Già nell’incubatrice, fra cannule, aghi, elettrodi per monitorare i parametri vitali, la loro sofferenza viene spesso trascurata perché l’attenzione è rivolta agli aspetti tecnici delle cure. Poi negli anni successivi, i bambini con gravi cerebrolesioni presentano spesso complicazioni gastrointestinali e del sistema muscoloscheletrico, che danno dolori cronici. Questa sofferenza la possono esprimere solo con il pianto, che spesso i genitori non decifrano. 6 Di fronte a un dolore non lenibile con i farmaci, il medico si sente impotente, si chiede perché gli sia riservata una tale sofferenza. Mi auguro che nell’affrontare questi temi ci sia posto anche per la «pietas», che non sembra alberghi né nella mente né nel cuore di chi sostiene urlando di voler difendere la vita di questi bambini. Ermellina Fedrizzi - [email protected] Risponde Augias. Chi sostiene urlando, come giustamente scrive la dottoressa Fedrizzi, di difendere questi bambini, ha in mente solo un’ideologia da affermare, non pensa nemmeno per un istante quale esistenza, quale vita, sarà quella che proclama di voler sostenere. Ho letto con sgomento domenica scorsa le parole del cardinale polacco Grocholewski, prefetto per l’educazione cattolica: «I cattolici devono sempre dire ad alta voce e senza esitare che la vita va difesa in qualsiasi momento, che l’aborto non è mai lecito, che l’embrione va sempre salvaguardato, che le manipolazioni genetiche non sono ammesse». Chiusura totale, su tutta la linea: aborto mai, dunque nemmeno nel caso in cui il feto presenti malformazioni orribili che renderebbero l’esistenza del nuovo nato una penosa caricatura della vita, ne farebbero un povero essere portato alle sofferenze di cui la dottoressa Fedrizzi è stata, come scrive, testimone impotente. Chiusura totale anche sull’educazione sessuale, sulle tecniche contraccettive, che sarebbero il rimedio ideale e incruento per prevenire gravidanze non desiderate o difficili da sostenere, che eviterebbero insomma il problema prima ancora che si presenti. Eppure nel recente documento dei rappresentanti degli ordini dei medici anche questo è scritto: «sostenere la legge 194 incrementando l’educazione alla procreazione responsabile, il supporto economico e sociale alla maternità». Sono l’irragionevolezza, il fanatismo cieco, gli aspetti medievali di questa discussione. E’ la mancanza di pietà che la rende orribile. 708 - I CATTOLICI ADULTI DELUSI DALLA CHIESA - CORRADO AUGIAS Sig. Augias, un tempo mi ritenevo un cattolico praticante, ora, e non senza sofferenze, mi sono allontanato dai modi e dalle scelte che ha questo clero di «proporre» la parola di Dio. Attaccare i principi cardine della Costituzione, la libera coscienza individuale, non aiuta a riempire le chiese vuote; fa aumentare il distacco, molti ormai coltivano la fede solo nel proprio intimo. A. Pietropaolo - Genova - tony.zena@fastwebnet. It Caro Augias, che sconforto! E’ incomprensibile a chiunque non sia credente come mai la Chiesa abbia bisogno di avere leggi che rispecchino il suo ordinamento; come se i credenti non fossero all’altezza di comportarsi da cattolici. Una dimostrazione di sfiducia e disprezzo verso i fedeli incapaci di osservare i precetti della religione se non costretti dalla legge. Flavia De Petri - flaviadepetri@virgilio. It Caro Augìas, dov’è finita la Chiesa profetica che ci ricorda che il Figlio di Dio si è fatto uomo non solo per i credenti ma per tutti, ha condiviso la vita e la sofferenza degli uomini, è morto per i loro peccati, il Gesù della salvezza, delle beatitudini, della misericordia, quello che parla di amore, il Cristo che dà senso alla vita di ognuno di noi anche quando a qualcuno sembra che questa vita non ne abbia nessuno. Gisella Bottoli – Brescia - [email protected] Risponde Augias Il rapporto diventato così difficile tra cattolici e non cattolici diventa ancora più complicato se si considerano anche i cattolici che una volta sono stati definiti ‘adulti’, quei credenti consapevoli della loro fede ma che si sforzano di essere anche ‘boni cives’ che osservano le leggi e, prima di ogni altra, la Costituzione della Repubblica. Ormai non passa giorno senza che si ripeta l’offensiva delle gerarchie che entrano senza più ritegno nella vita politica, che 7 anzi sono diventate parte della campagna elettorale e arriveranno certamente, prima della fine, a dare precise indicazioni di voto come nei peggiori momenti degli anni Cinquanta. D’altra parte non è certo un caso se la battaglia sui temi etici viene condotta passando al di sopra delle persone reali, nella quale si evita di sondare l’opinione diffusa nel Paese, in particolare delle donne. Una brutta guerra, nella quale si mettono a confronto da una parte i principi, dall’altra la vita. Nulla è peggio di vedere contrapposto il gelo di un’ideologia alle esperienze e ai drammi di chi ha dovuto affrontare una nascita, o una morte, difficili. Quella che vediamo da noi (e in Spagna) è una chiesa che ha ridotto la dottrina a lotta per gli interessi, che discute le candidature, ammonisce sulla famiglia ma tace, quando fa comodo, su chi di famiglie ne ha due o tre, sui mafiosi che strozzano una città o una regione, purché ‘votino bene’, che concede funerali sontuosi ai dittatori più sanguinari mentre li nega ai poveri cristi afflitti da troppa sofferenza. Così lontana da Gesù, così vicina al potere. 709 - SEMPRE PIÙ DISTANTI CHIESA STORICA E GESÙ RISORTO - LUIGI DE PAOLI da: ADISTA n. 34262 Di fronte alla carenza di ricerche psicoanalitiche su questo tema, "mente e passione mi hanno progressivamente animato a intraprendere un viaggio nelle ‘viscere’ di un organismo così complesso ed eterogeneo qual è il Cristianesimo". Sono le parole con cui Luigi De Paoli – psichiatra, già coordinatore nazionale di "Noi Siamo Chiesa" – introduce Psicanalisi del Cristianesimo (113 pgg., disponibile gratuitamente online sul sito www.tevere.org), una ricerca che intende "individuare l’evoluzione delle dinamiche inconscie che caratterizzano l’organizzazione storica del Cristianesimo". "La premessa d’obbligo per chi desidera fare un percorso ‘psicoanalitico’ – spiega De Paoli – è che la mente umana lavora sulla base di due ‘logiche’": un processo di elaborazione "primario" (inconscio-non razionale) ed un processo "secondario" (cosciente-razionale, tipico delle scienze moderne). Queste due logiche convivono mantenendo in equilibrio libertà e creatività da un lato, ordine e stabilità dall’altro. Per studiare il Cristianesimo occorre dunque sapere che "in una prospettiva psicoanalitica tutti gli aspetti fondamentali dell’esperienza ‘cristiana’, come la fede nel Figlio di Dio, il Risorto, i miracoli, la salvezza, l’Eucarestia, la vita eterna, ecc., hanno la loro radice ‘anche’ nei processi primari, che per loro natura sono a-spaziali e a-temporali, totalmente incuranti delle contraddizioni, per cui un soggetto può essere contemporaneamente umano e divino, morto e vivente, adulto e infante". Secondo De Paoli, riferendosi esclusivamente ad una logica di tipo secondario (come fanno ad esempio le scienze cosiddette esatte), persino la Resurrezione, perno che fonda e sorregge l’intero credo cristiano, rischia di apparire come una grande menzogna, o quantomeno una ‘magia’ difficilmente corroborabile. Inoltre, i Vangeli sinottici non brillano per coerenza: la testimonianza della resurrezione, infatti, è affidata a due (o tre) donne, che hanno creduto alla testimonianza di due angeli (o un angelo o, forse, solo un giovane raggiante). Dunque, nessuno ha ‘visto’ il Nazareno risorgere. E l’osservazione empirica è proprio il requisito che valida la conoscenza nel mondo occidentale moderno. "Detto ciò, ridurre la Resurrezione ad allucinazione collettiva (…) significa privarsi della possibilità di spiegare come schiere di poveri, di infermi, di schiavi, di donne possano aver sopportato montagne di ingiustizie, di vessazioni e di dolori identificandosi con le sofferenze del Nazareno e con la speranza di una Vita Nuova". Mons. Romero, che - afferma De Paoli è "la copia fotostatica" di Gesù, così ha interpretato la sua ‘resurrezione’: "Se mi uccidete io risorgerò nel popolo salvadoregno". De Paoli sfrutta a piene mani le categorie della teoria psicanalitica per contestualizzare, nell’ambito della disciplina, Gesù e la Chiesa di oggi, ricostruendo così le differenti manifestazioni del Cristianesimo nei secoli successivi alla morte di Gesù. E non lo fa per 8 desacralizzare un’eventuale menzogna millenaria, quanto piuttosto per svelare i meccanismi di una visione del mondo fluida, in dialogo continuo con il contesto storico-sociale e con l’inconscio individuale e collettivo, che sono alla base di ogni interpretazione della realtà, compresa quella cristiana. Rispetto alle prime comunità cristiane, ad esempio, il Concilio di Nicea (indetto nel 325 da Costantino) ‘trasforma’ Cristo da "malfattore crocifisso" a "Re della gloria", da Figlio sottomesso a "Signore che trionfa sul mondo". E i cristiani, da perseguitati che erano, diventano i nuovi persecutori. De Paoli parla anche dell’eredità di S. Agostino, divenuta poi patrimonio indiscutibile della dottrina ecclesiastica. Agostino reinterpreta il "disordine pulsionale" – identificato da Gesù nell’accumulo di beni e di potere – con la "concupiscenza della carne" e, passando per Adamo ed Eva, istituisce una gerarchia tra uomo e donna, anima e corpo, "Città di Dio e città terrena", sconosciuta ai primi cristiani. Lo studio dell’"inconscio istituzionale" comporta quindi il disvelamento delle logiche sotto cui la Chiesa cattolica si è allontanata dall’esempio del "falegname-profeta-guaritore-martire e risorto" e si è discostata sempre più dalla "struttura fraterna, comunitaria, paritetica, autogestita, povera, non stanziale inaugurata da Gesù". Questa affermazione acquista maggiore rilievo se si considera che la morale, la dottrina e soprattutto l’organizzazione della Chiesa non discendono da specifici dettami evangelici ma dai Concili ecumenici del primo millennio, che hanno progressivamente distanziato il "Gesù Risorto" dal "Gesù storico". 710 - INDIETRO TUTTA (IF YOU THINK ISLAM IS) - MARK STEEL da: The Indipendent del 16 gennaio 2008 Il papa avrebbe dovuto visitare l’università La Sapienza di Roma. Ma non l’ha fatto, avendo avuto sentore di una protesta che avrebbe messo in ombra la coraggiosa sfida al regime dei monaci birmani. La punizione per questa sfida sarebbe stata un’eternità da passare tra i tormenti dell’inferno. Il bersaglio della manifestazione, Benedetto XVI, è considerato da studenti e professori dell’università un nemico della scienza. I capi delle Chiese contemporanee, in genere, negano di esserlo e provano a trovare spiegazioni scientifiche per le idee bibliche, come la teoria dell’intelligent design (alcune caratteristiche dell'universo e delle cose viventi sono spiegabili meglio attraverso una causa intelligente, ndt). In questo modo, possono fare affermazioni del tipo: “I recenti studi sui fossili suggeriscono che un tempo c’era una specie di balena nella zona della Galilea che aveva la gola delle dimensioni di una villetta odierna e avrebbe potuto essere arredata come un appartamentino con riscaldamento centralizzato, il che prova che è tranquillamente possibile che Giona abbia potuto vivere confortevolmente al suo interno per vari mesi!”. Il papa deve rispondere ad una critica specifica: cioè quella di aver citato, quando era ancora un semplice cardinale, l’affermazione che il processo a Galileo da parte dell’inquisizione nel 1633 fu “ragionevole e giusto”. Il risultato del processo, per il crimine di aver ribadito che la Terra gira intorno al sole, fu una condanna a morte, poi ridotta agli arresti domiciliari a vita. Potrebbe sembrare una sentenza troppo dura, cosicché un tipico difensore moderno della sentenza, lo scrittore Vittorio Messori, l’ha giustificata spiegando che “Galileo non fu condannato per ciò che disse ma per la maniera in cui lo fece”. Questo è il problema, allora: al Vaticano non davano fastidio le teorie sull’universo di Galileo ma il fatto che le difendesse a bocca piena. Il problema di questa spiegazione è che la sentenza di Galileo era conforme alla mentalità della Chiesa dell’epoca. Essa sosteneva che la ragione fosse “corrotta”, il che suggerisce che una lezione di scienza tenuta dai cardinali del XVII secolo non prevedesse degli esperimenti particolarmente convincenti. Un insegnante chiedeva, “Chi sa dirmi perché il rame tende a diventare verde?”. E se un bambino avesse alzato la mano e detto “È la 9 reazione degli atomi che si combinano con l’ossigeno in un processo noto come ossidazione, signor professore”, questi avrebbe gridato “No, ragazzino. Diventa verde perché è un miracolo!”. In effetti, quando il filosofo Vanini cercò di trovare la prova dell’esistenza dei miracoli, l’iniziativa venne considerata dal Vaticano un’interferenza con la volontà di Dio e quindi gli tagliarono la lingua, lo strangolarono e lo bruciarono. Ragionevole e giusto, in effetti, perché avreste dovuto sentire la maniera in cui lo diceva! Le scoperte scientifiche dell’epoca di Galileo portarono al dissenso nei confronti della Chiesa. Per esempio, c’era questo prete ricco e radicale, Picot. A quanto sembra, in punto di morte, offrì una fortuna a quel prete che gli avesse amministrato l’estrema unzione senza formule, litanie o incensi. Un prete accettò e, poco dopo, Picot entrò in coma. Dopo tre giorni, il prete al capezzale di Picot non poté più trattenersi e cominciò a salmodiare, al che Picot si alzò a sedere sul letto e disse: “Posso ancora toglierti i soldi, sai?”. Ma forse, l’aspetto più interessante della difesa da parte di Benedetto XVI dei suoi predecessori del XVII secolo è immaginare lo scandalo che scoppierebbe se un simile atteggiamento fosse tenuto dall’Islam. Se un leader del mondo musulmano dichiarasse che fu ragionevole e giusto mandare a morte una delle menti più brillanti della storia, decine di commentatori ci direbbero che questa è la prova che l’Islam è un credo medievale, ignorante e incompatibile con i valori occidentali. Ci si chiede perché allora Martin Amis (scrittore inglese contemporaneo, ndt) non abbia scritto un libretto pieno di pompose insulsaggini sul genere: “Nell’orbita degli studi di Galileo ci siamo io, te, la nostra sapientizzazione e la nostra trionfante astuzità. Quindi, ponderando questo catechistico affronto del papa alla cerebralità, sento un impeto dell’anima a schiacciare tutti i redentoristi in un enorme confessionale e dare fuoco a tutti loro. Voi no?”. Perché non ci sono articoli di persone che rivendicano il proprio femminismo, e spiegano che “i cattolici devono capire che, se vogliono lasciare la Polonia o l’Irlanda per venire qui, devono adottare i nostri valori tolleranti verso i gay e l’aborto”? Perché non ci sono politici che annunciano che non parleranno con i loro elettori a meno che non si mettano il preservativo? Christopher Hitchens (scrittore e commentatore politico inglese, ndt) ha lamentato che l’Islam è incapace di passare attraverso una Riforma. Ma allora neanche il cattolicesimo, visto che la ragion d’essere della Riforma era quella di prendere il suo posto. Quindi perché non chiede di bombardare l’Italia? Presumibilmente, avremo presto degli intellettuali che ci spiegheranno che il rifiuto di Galileo evidenzia che ci troviamo in mezzo a uno scontro di civiltà, e la prova è il fatto che i sandinisti, l’Ira e Guy Fawkes erano tutti terroristi e cattolici. I manifestanti di Roma avevano progettato di rovinare la visita del papa mettendo “musica rock ad alto volume”, dato che una volta aveva detto che il rock è “opera del demonio”. A volte mi sembra una scelta difficile: ateismo o satanismo… non riesco proprio a decidermi. 711 - IL PERICOLO DELL’ONDATA NEOGUELFA – ALDO SCHIAVONE da: la Repubblica di martedì 5 febbraio 2008 Un’onda “neoguelfa” — lunga, persistente, di fondo—sta scuotendo il Paese. Non trovo di meglio che questo aggettivo di sapore risorgimentale (ma la parola originaria arriva dal cuore tedesco e italiano dell’Europa fra dodicesimo e quattordicesimo secolo) per descrivere un atteggiamento culturale e politico che da qualche tempo si sta proponendo come uno dei poli del nostro dibattito pubblico. Un compatto movimento di idee che tende ad attribuire alla figura del Papa l’esercizio di una specie di protettorato “superpartes” nei confronti dell’intera vita civile italiana, fino a fare del magistero della Chiesa il custode più alto della stessa unità morale della nazione. 10 E’ un pensiero forte e invasivo, che si riflette in mille segni e iniziative che stanno riempiendo le nostre cronache: il Foglio e le sue campagne ne sono diventati ormai il simbolo e la bandiera, capaci di mescolare con raffinata sapienza snobismo intellettuale e populismo mediatico (Giuliano Ferrara ha così completato il suo percorso, concluso per ora in una sorta di formula trinitaria, efficace ma non senza contraddizioni: Berlusconi in Italia, l’America nel mondo, il Papa su tutto — il Papa, si badi, non Dio, che vorrebbe dire ben altra cosa). Aver scomodato un nome che viene addirittura dal nostro passato medievale, per definire l’orientamento cui misto riferendo, aiuta a capire come non vi sia niente di davvero nuovo nel suo nocciolo concettuale. Siamo invece di fronte al ripetersi di un’antica tentazione della storia politica e intellettuale italiana: quella del neoguelfismo come attitudine nazionale, definitivamente fissata con la Controriforma negli infelici esordi della nostra dimezzata modernità — quando a noi toccò la parrocchia, mentre gli altri, in Europa, costruivano gli Stati. «Non si può tenere stati secondo coscienza, perché (...) tutti sono violenti (...) e da questa regola non eccettuo (...) e manco e preti, la violenza de’ quali è doppia, perché ci sforzano con le arme temporale e con le spirituale», così Guicciardini, nei Ricordi, intorno al 1528: la Francia ci aveva già invaso, e meno di venti anni dopo sarebbe iniziato il concilio di Trento. Questa inclinazione a sottomettere il Paese al sentimento religioso storicamente dominante ha però sempre nascosto dentro di sé — nella sua lunga durata — un elemento oscuro, un radicato vissuto di inferiorità e di impotenza: la percezione che L’Italia fosse troppo fragile e debole per farcela da sola, e che ci fosse un insopprimibile bisogno di consegnarla nelle mani di una potenza più grande, più efficace e più solida di quanto apparissero le sue istituzioni e la sua vocazione civile: la forza universale del cattolicesimo e degli apparati che su di esso si fondano. Si è determinato così una specie di riflesso condizionato, che riaffiora nei momenti di crisi e di sconnessione. Esso spinge a rinunciare allo Stato, e ad affidarsi alla comunità dei fedeli (oggi irrobustita dall’apporto degli atei devoti). È il segno di una patologia, non ne è il rimedio: dobbiamo saperla curare, non abbandonarci a lei. Il nome dell’Italia sembra ormai impronunciabile, se non accompagnato dall’evocazione del suo declino. Fra i molti — veri o presunti — degradi, quello della nostra cultura politica e della nostra etica pubblica sono certo i più visibili e pericolosi. Ed è nel vuoto lasciato aperto da queste ferite che trova spazio la suggestione neoguelfa: se lo Stato si dissolve nelle sue inadempienze, se il Parlamento diventa un’arena, se i partiti si decompongono nella mancanza di progetti e di idealità, se la misura della moralità si identifica con l’interesse privato o con il capriccio soggettivo, si metta fin dove possibile al loro posto la Chiesa e la sua dottrina: l’assemblea dei vescovi sarà comunque migliore delle riunioni di qualunque sgangherata maggioranza di governo. Ora il problema è di riuscire a capire e a spiegare come in questa scelta non è sbagliata tanto la preferenza in sé — e che quindi sia meglio anteporre Veltroni a Ruini, o Bobbio a Ratzinger, oppure il Consiglio dei ministri alla Cei — ,no; è sbagliata l’idea stessa che sia comunque possibile, oggi, nelle condizioni date, una supplenza, una sostituzione (totale o parziale, esplicita o nascosta) della Chiesa e del suo magistero nei confronti dello Stato e del dibattito etico di una società complessa; che una religione - quale che sia, anche una religione di verità — possa occupare il posto della politica e del suo discorso, e mettere la sfera pubblica sotto tutela. Ci sarebbe, in una simile scelta, un’attitudine così radicalmente antimoderna (attenzione: non di critica ad alcuni aspetti, anche fondamentali, della modernità, che è sempre benvenuta, ma di contrapposizione disperata e radicale con essa), da renderla fallimentare e improponibile E non è un caso se anche la Democrazia cristiana, negli anni del suo fulgore, ha evitato sempre di farla propria, decidendo di essere fino in fondo un partito politico, e non una congregazione di devoti. Non sarà la Chiesa a salvare l’Italia, mettendola sotto la sua protezione L’Italia si salverà da sola, se ne sarà capace, rigenerando la sua cultura politica e ricostruendo la sua etica 11 pubblica. Ma la Chiesa potrebbe contribuire a rovinarla, se, nella pretesa di sostituirsi allo Stato approfittando della sua inconcludenza, volesse trasformarsi a sua volta in soggetto politico, in parte impropriamente opposta a un’altra parte, come accade appunto nelle cose politiche. C’è tuttavia una ragionevole speranza che — a dispetto delle molte sollecitazioni — questa strada non verrà intrapresa. Tutto il Cristianesimo moderno si è formato nella separazione fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio. Oggi per la Chiesa, per ogni credente, c’è più che mai bisogno di definire ancor meglio questi confini capitali, di proiettarli con convinzione su nuovi territori, non di confonderli o di cancellarli. È distinguendo, non oscurando, che la parola di Dio rigenera la sua forza. Questo vale anche per l’Italia, anche per noi, per quanto incerti si possa apparire. Il nostro smarrimento chiede rispetto, non tutori. Perché dopotutto non siamo indifesi, e, soprattutto, siamo diventati moderni. 712 - I MEDICI SACERDOTI AI CONFINI DELLA VITA – ADRIANO PROSPERI da: la Repubblica di martedì 5 febbraio 2008 «Nell’ora della nostra morte»: la preghiera antica dei cristiani si chiude ancora con queste parole. In quell’ora di tutti, una persona era chiamata al capezzale del morente: il prete. A lui spettava confortare la famiglia sbigottita e assistere le persone nel momento del trapasso. Oggi un’altra figura lo ha sostituito: il medico. Ma la sua non è più — salvo eccezioni sempre possibili – la presenza sollecita e soccorrevole del medico di famiglia, amico e depositario dei segreti e della fiducia delle persone al pari del (e per lo più insieme al) prete della parrocchia. Egli è l’emissario impersonale di una macchina della salute che si impadronisce del morente e lo porta nella struttura sanitaria che potrà forse prolungargli provvisoriamente la vita ma dove comunque un giorno dovrà morire. L’esperienza di cui era depositario il prete, testimone di tutte le morti, gli serviva per portare speranza: quella di un’altra vita, certo, perché il suo compito di «onesto mercante del Cielo» (così lo definì un generale dei Gesuiti nel ‘600) era pur sempre fissato dalla Chiesa nel dovere di guadagnare un’anima al Paradiso. Ma intanto quell’assoluzione da ogni peccato che la religione riservava ai morenti aveva il potere di alleggerire l’angoscia estrema. E per i non credenti che resistevano all’ultimo tentativo di convertirli restava il conforto recato comunque al morente dalla persona amica, capace di ascoltare e di restare vicino nel momento estremo. Il mondo cambia velocemente. Tutto questo appartiene a un passato che è diventato improvvisamente remotissimo. Oggi quella preghiera deve essere cambiata: l’assistenza religiosa si è trasferita all’altro capo dell’esistenza. Bisognerà dire: «Nell’ora della nostra nascita». E qui che si è spostato il fronte della guerra per salvare non più le anime ma le vite terrene. E i medici, che nella nostra tradizione cattolica hanno imparato presto a nascondere o a cancellare del tutto l’abito dello scienziato positivista, scettico e irridente verso la fede, sono mobilitati anche qui al posto delle presenze sacerdotali. Spossessati della morte, lo saremo adesso anche della nascita? così pare. E ci prende un sentimento di nostalgia per l’antica religione dei parroci di campagna che benedicevano le nascite e assistevano alle morti come fatto di natura, da vivere dove si viveva normalmente, nel proprio letto, accanto alle persone amate e alle cose d’ogni giorno. E’ difficile adattarsi a questa nuova religione predicata da teologi «laici» e da consorzi medici attraverso gli schermi televisivi: una religione che ha i suoi rappresentanti non più nei parroci ma nei medici. Sono questi gli specialisti che decidono della nascita e della morte. Ma vorremmo sommessamente osservare una cosa che forse non tutti hanno notato: quello che la Chiesa chiede ai medici di fare essi lo stanno già facendo da tempo. La novità, se c’è, è la proposta di una alleanza tendente a colorare religiosamente l’obbligo che l’intera società contemporanea, i suoi poteri politici e i suoi più corposi interessi economici hanno delegato 12 alla corporazione dei medici: farci nascere a ogni costo e farci vivere il più a lungo possibile, allontanare la morte o almeno nasconderla come un rifiuto imbarazzante. E questo compito i medici lo stanno svolgendo con risultati sotto gli occhi di tutti. Un solo esempio: la durata media della vita si è allungata. Non importa molto se la vita più lunga che ci regalano qualche volta la vorremmo ridare indietro. Si leggano le testimonianze raccolte dalla dottoressa inglese lona Heath in un piccolo libro delicato e amaro di cui ha parlato su questo giornale Umberto Galimberti e forse altri ancora parleranno: un libro che prova a insegnare ai medici quel che dovrebbero fare per riprendere un ruolo antico e prezioso, per imparare insomma che il loro mestiere non è far vivere a ogni costo ma rispettare i viventi e aiutarli a chiudere la loro esistenza in modo umano. Bisognerà comunque rassegnarsi. Non è il primo esperimento che si fa di un controllo del potere sulla nuda vita. Non molto tempo fa — più o meno tre secoli — medici e giudici controllavano le gravidanze di donne sole (vedove, prostitute, mogli di emigranti) per prevenire il rischio di aborti procurati o di infanticidi: allora si trattava di salvare l’anima delle creature perché rischiavano di morire senza battesimo e dunque di andare all’Inferno o al massimo a quell’inferno mitigato che era il Limbo. E per salvare quelle anime fu praticato — con la benedizione delle autorità ecclesiastiche e di alcune autorità politiche — il cesareo su donna vivente: si apriva chirurgicamente il ventre delle gestanti quando il parto minacciava di finire male, per estrarne il feto e battezzarlo, seppellendolo poi insieme alla madre. Inutilmente le donne gridavano la loro disperazione quando vedevano avanzarsi il chirurgo insieme al prete. La vita eterna dell’anima umana era un bene incomparabilmente superiore a quello della loro esistenza. Già allora, dunque, i medici avevano invaso con delega ecclesiastica il momento della nascita: ma si trattava della salvezza eterna dell’anima. Intanto nel segreto delle famiglie la pratica degli aborti e degli infanticidi continuava senza soste: uno studio di uno storico inglese, Gregory Hanlon, sulla demografia seicentesca di un paese dell’Italia centrale — Torrita di Siena — ha dimostrato che la percentuale dei maschi battezzati alla metà del ‘600 era più che doppia rispetto a quella delle femmine. Lo squilibrio tra maschi e femmine aveva dimensioni che oggi si trovano solo in Cina o in India. Vogliamo tornare a quel mondo? Anche se volessimo — e non lo vogliamo — sappiamo bene che non è possibile. E l’argine legale eretto a fatica contro l’aborto clandestino avrà dei difetti ma ha avuto anche in Italia il merito di ridurre quella che era la vera e propria «sindrome cinese» del controllo nascosto delle nascite. Però è lecito almeno sperare in un’alleanza di tipo diverso tra una religione che ha imparato a rispettare la vita terrena e le coscienze individuali e una scienza medica che sta invece provando l’ebbrezza faustiana di un patto col diavolo. Perché che altro è quello che si fa nei suoi santuari se non garantire vita più lunga, corpo più giovane, capelli fluenti e rinnovati piaceri amorosi a chi vi entra con le rughe, calvo e con istinti cancellati dalla vecchiaia? Cose del genere nella Chiesa di un tempo erano condannate con asprezza e potevano portare sul rogo. Ma non ci scandalizziamo dell’attuale benevola tolleranza; e comunque non è certo alla Chiesa che vogliamo dare consigli. Invece a questi medici vorremmo ricordare che non sono loro i padroni della vita e della morte. Ne sono, nei casi migliori e se ci riescono, i servitori: in scienza e coscienza. 713 - LA GAMBA TESA DEL VATICANO - GAD LERNER da: la Repubblica di lunedì 11 febbraio 2008 Ho provato molta curiosità, l´altra sera, quando il Tg1 ha annunciato con rilievo, nei suoi titoli d´apertura, un´intervista al direttore di Avvenire, Dino Boffo. Che cosa sta per comunicarci di così importante il mio amico Boffo, la cui relazione fiduciaria con il cardinale Ruini prosegue da quasi vent´anni? Si esprimerà sulla difesa della vita, sul ruolo della famiglia, sulla controversia teologica con gli ebrei? Macché, la parola gli viene data nei primi minuti del 13 telegiornale, quelli dedicati alla politica interna, subito dopo un resoconto sul braccio di ferro nel centrodestra fra Berlusconi e Casini. Premesso, come di consueto, che la Chiesa non fa scelte di schieramento, il direttore di Avvenire dice finalmente quel che premeva rendere pubblico a lui e a Ruini: "E´ interesse dei cattolici, ma anche dello stesso centrodestra, che sia salvaguardata la presenza in quello schieramento di un partito che fa direttamente riferimento alla dottrina sociale cristiana". Così noi telespettatori abbiamo potuto arguire che dalla Cei viene trasmesso un duplice invito: all´Udc perché rimanga nel centrodestra; e a Berlusconi perché rettifichi il suo perentorio invito alla confluenza dell´Udc nel Popolo delle libertà, pena la fine della coalizione elettorale. Poco m´importa stabilire se la dichiarazione di Boffo al Tg1 vada considerata un´ingerenza oppure no. Certo però che un tale singolare, minuzioso interessamento alla sfera partitica, declina assai modestamente il diritto rivendicato dalla Chiesa a intervenire nel dibattito pubblico. Va bene che la religione entra sempre più spesso, a proposito o a sproposito, nei discorsi politici. Va bene che la Chiesa rivendica il diritto-dovere di esprimersi su leggi e regolamenti, come si suol dire, "eticamente sensibili". Ma dubito esistano argomenti spirituali in favore della salvaguardia di un partito cristiano nel centrodestra. Di conseguenza vi sono altre domande che rivolgerei a Boffo. Forse Ruini avrebbe preferito che un omologo partito di matrice cattolica sopravvivesse anche nel centrosinistra? La speranza delusa della Chiesa era di ispirarli entrambi, magari nell´attesa che rinasca al centro una nuova Democrazia cristiana? Fatto sta che il sorprendente intervento a gamba tesa della Chiesa nel dibattito in corso nel centrodestra, denota una sua preoccupazione mondana. Viene il dubbio che alla Chiesa dispiaccia la formazione di due grandi partiti alternativi. Non per motivi religiosi, ma perché un sistema tendenzialmente bipartitico indebolirebbe l´esercizio dell´azione lobbistica in cui s´è specializzata, avvantaggiandosi della frammentazione parlamentare. La politica della Seconda Repubblica è stata afflitta da un crescente degrado morale, ma ciò paradossalmente ha favorito la Cei nel reperimento di interlocutori strumentalmente clericali. La nascita del Pd e del Pdl da questo punto di vista rappresentano un´incognita. Ricordiamo bene il rammarico con cui Ruini aveva preso atto dell´incontro fra la Margherita e i Ds. Un´ostilità dedicata in particolare ai cattolici di sinistra, primo fra tutti Prodi, che hanno voluto il Partito democratico anche perché lo concepivano come diversa relazione tra fede e impegno politico, cioè come superamento degli anacronistici steccati religiosi. Oggi la Chiesa si impegna pubblicamente per scongiurare che un´analoga fusione venga realizzata sul versante conservatore. Poco le importa che questo sia già stato l´esito felice di una democrazia matura nel resto d´Europa. Meglio che niente, si aggrappa alla possibilità che sopravviva un piccolo partito cristiano a destra. Calcolando che i cattolici di sinistra già ripetutamente accusati da Avvenire di subalternità al pensiero radicale e di disobbedienza alla dottrina, tornino prima o poi sui loro passi. Non ho la più pallida idea di come andrà a finire il braccio di ferro fra Berlusconi e Casini. Ma in compenso adesso mi è più chiaro il disegno politico perseguito da Ruini. Guarda caso il leader dell´Udc, non appena subito l´aut aut degli alleati di centrodestra –o vieni in lista con noi, o corri da solo – s´è premurato di far sapere qual è stata la sua prima telefonata: al vicario di Roma, che non è più presidente della Cei ma conserva l´anomalo ruolo di leader politico dei vescovi italiani. Dispiace che per diventare una democrazia matura l´Italia debba imbattersi pure in questo ostacolo. Dispiace che la Chiesa viva con fastidio la nascita di due grandi partiti alternativi, all´interno dei quali i cattolici possano trovarsi a loro agio. Senza bisogno di rappresentanze parlamentari separate, che a me sembrano piuttosto dépendances curiali per cardinali appassionati di politica. 14 714 - GLI INFERMIERI: “NO ALL’EUTANASIA” – MARIO REGGIO Da: la Repubblica di mercoledì 13 febbraio 2008 Obiezione di coscienza e no all’eutanasia. Il nuovo codice deontologico degli infermieri è ormai in dirittura d’arrivo. La federazione nazionale dei collegi Ipasvi ha iniziato ieri a Roma l’esame delle nuove regole che riguardano la professione di 360 mila operatori sanitari. Le principali novità sono quelle che impegnano gli infermieri sui temi etici. Ecco i punti principali. Obiezione di coscienza: «nel caso di conflitti determinati da diverse visioni etiche, si impegna a trovare una soluzione attraverso il dialogo. Qualora vi fosse o persistesse una richiesta di attività in contrasto con i principi etici della professione e con i propri valori, si avvale dell’obiezione di coscienza», facendosi però «garante delle prestazioni necessarie per l’incolumità e la vita dell’assistito». Accanimento terapeutico: «tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica coerenti con la concezione da lui espressa della qualità della vita, quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà tiene conto di quanto da lui espresso in precedenza e documentato. Eutanasia: «l’infermiere non partecipa a interventi finalizzati a procurare la morte, anche se la richiesta proviene dall’assistito».Le altre novità riguardano le modalità di assistenza: l’infermiere orienterà la sua azione «al bene dell’assistito di cui attiverà le risorse sostenendolo nel raggiungimento della maggiore autonomia possibile anche quando vi sia disabilità, svantaggio, fragilità» Sperimentazione: «riconosce il valore della sperimentazione clinica e assistenziale», ma «si astiene dal partecipare a sperimentazioni nelle quali l’interesse del singolo sia subordinato all’interesse della società». Critico sull’obiezione di coscienza Amedeo Santosuosso, docente all’università di Pavia e magistrato presso la corte d’Appello di Milano. «Il richiamo all’obiezione di coscienza» così come presentato nel nuovo codice deontologico degli infermieri, «non solo non è vincolante, ma è illegittimo», commenta Santosuosso. «L’obiezione di coscienza — spiega il giurista— è una eccezione che va riconosciuta dalla legge, e che risponde al principio dettato dalla Costituzione della libertà di coscienza. Dove non esista una legge specifica non esiste la possibilità di violare il contratto di servizio che si ha con il proprio datore di lavoro ma anche con i pazienti». Il pericolo maggiore sta «nel riferimento non solo ai valori etici della professione — aggiunge — ma a quelli personali. Sembra che ci sia l’intenzione di estendere al di là della legge 194 la possibilità dell’obiezione di coscienza, che potrebbe coinvolgere anche i trattamenti estetici, la fecondazione assistita, il cambiamento di sesso. Non si può fare infermierismo ‘a la carte’ — conclude — l’obiezione non può essere esercitata in modo ‘privato’, senza leggi che la vincolino». Replica Annalisa Silvestro, segretaria nazionale dell’Ipasvi: «Rispetto il pensiero di Santosuosso, anche se sono convinta è doveroso che gli operatori sanitari vengano tutelati nella difesa dei propri valori etici. Siamo pronti al dialogo con tutti». Commento. La federazione nazionale degli infermieri sta approvando un nuovo codice deontologico che prevede, tra l'altro, che in presenza di richieste dei pazienti "in contrasto con i principi etici della professione e con i propri valori, l'infermiere si avvale dell’obiezione di coscienza". Mi chiedo: 1. Il diritto all'obiezione di coscienza da parte degli infermieri può essere fissato da un semplice codice professionale oppure deve discendere da una legge, come per esempio il servizio militare? Ossia, il cittadino ha diritto alle prestazioni sanitarie per le quali paga le tasse oppure dipende dai principi etici dei codici professionali e dei singoli infermieri? 15 2. Il diritto all'obiezione di coscienza - ammesso che esista - appartiene soltanto agli infermieri o a tutti gli italiani? Ossia, se i "valori etici" di un tassista palestinese fossero contrari a trasportare un infermiere israeliano, o viceversa, che cosa succede? Si va dal giudice e si attendono 10 anni per la sentenza? Non soltanto questo paese sta scivolando dallo stato di diritto allo stato etico, ossia dai principi votati dal popolo ai "superiori" valori stabiliti dalla Chiesa cattolica (vedi il caso di Napoli), ma con l'obiezione di coscienza generalizzata scivoleremmo addirittura nell'anarchia. Motivo di più per non riconoscerla a pochi (gps). 715 - LE ANTICHE STRADE DELLA CHIESA – ALDO SCHIAVONE Da: la Repubblica di mercoledì 13 febbraio 2008 Fra le storie dei grandi Paesi europei, la storia d’Italia è insieme la più ricca e complessa, ma anche la più incompiuta. Le due cose — molteplicità e incompletezza — si tengono insieme, come in certi romanzi, o in certe musiche. Ognuno vi cerca (e i trova) quel che vuole, senza che lo sguardo riesca mai a stringersi davvero su un punto fermo, su un “questo siamo” che non ammetta repliche, e non possa rovesciarsi nel suo contrario. Abbiamo aperto la strada della modernità — con il Rinascimento — e l’abbiamo subito perduta. Abbiamo gettato le basi teoriche e politiche dello Stato nazionale, ma non abbiamo saputo costruirne mai davvero uno. Abbiamo inventato il fascismo e la forma occidentale del comunismo, senza aver mai elaborato in profondità e non semplicemente rimosso, il nucleo drammatico (e incomparabile) di quelle esperienze, superandolo in una matura sintassi democratica. Il filo di questo pensiero mi è ritornato in mente leggendo le riflessioni lucide e appassionate che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato (sul “Corriere” di martedì) a quanto avevo scritto su “Repubblica” di qualche giorno prima a proposito dell’ondata neo- guelfa che sta attraversando il nostro Paese. Proverò a dire perché. Mi sembra che Galli della Loggia non neghi l’esistenza del fenomeno in quanto tale (“l’impressione — come egli dice — di un che di eccessivo, di strabordante, del discorso religioso specialmente su temi etici”), ma contesti in modo deciso la spiegazione che ne prospettavo. E lo fa opponendomi due ragionamenti, anch’essi centrati su una valutazione della storia d’Italia — singolarmente simmetrica alla mia, ma in modo rovesciato, speculare. Il primo argomento si rivolge alla mia concettualizzazione di quanto sta accadendo. Parlare neoguelfismo, secondo lui, è fuorviante. Sarebbe solo il segno di una (cattiva) abitudine della cultura italiana a riportare ogni novità, anche la più radicale, nell’ambito di dicotomie tradizionali — “Stato-Chiesa, laico-clericale, — ormai vuote di contenuto, eredità inerte di “un’impalcatura ideologica Otto-novecentesca” oggi diventata non più di “un reperto archeologico”. Bisogna invece saper cogliere tutta la portata inedita del ritorno in grande stile del discorso religioso nel mondo contemporaneo, come risposta alle domande e ai bisogni di spiritualità e di eticità indotti dalla rivoluzione tecnologica che sta sconvolgendo le nostre esistenze (un punto su cui insiste molto anche Gaetano Quagliariello, nella sua risposta al mio articolo). Ebbene: sono del tutto d’accordo nell’enfatizzare al massimo il carattere di assoluta novità del tempo che stiamo vivendo, dove il rapporto fra tecnica e vita sta assumendo aspetti impensabili fino a qualche decina di anni fa. E sono d’accordo a collegare l’inatteso riemergere della religiosità alle angosce indotte da quello che appare letteralmente come un salto nel vuoto dell’umanità oltre se stessa, per così dire. Ma il problema è come la Chiesa stia rispondendo - soprattutto in Italia - a questa domanda, e che capacità essa per prima stia dimostrando di accogliere il nuovo e di darvi spazio. Se ce lo chiediamo davvero, la risposta è preoccupante. La Chiesa sta reagendo arroccandosi, invece di guardare avanti. Sta resistendo a fatica alla tentazione di politicizzare il proprio messaggio, riempiendolo di dogmi, quando avremmo 16 bisogno piuttosto di profezia. E gli “atei devoti” la stanno spingendo esattamente su questa china, mentre dovrebbero metterla in guardia. La cultura italiana sarà anche arretrata, come dice Galli della Loggia, ma qui non c’entra. E’ la Chiesa che sta rischiando di ripercorrere antiche strade, non noi. Se la cosa è vecchia, non può essere che vecchio il nome per indicarla. E’ vero: neoguelfismo è una parola che viene dal profondo del nostro passato. Saremmo felici di poterla dimenticare in pace. Ma come, se c’è chi non sa far altro che cercare di riproporne i contenuti? E che il futuro del Cristianesimo, e in particolare della versione cattolica, sia nella totale depoliticizzazione del suo insegnamento, come unica condizione perché la sua voce entri davvero nell’intreccio fra tecnica e vita, e gli possa dare un senso: quello dell‘emancipazione e della libertà - se vogliamo, del ricongiungimento con Dio, oltre la naturalità costringente della specie. La disconnessione del legame originario fra religione e politica - di cui Jan Assmann (un autore ben noto al Papa) ha magistralmente descritto l’archeologia — è la grande missione che aspetta la Chiesa nel tempo che si apre. Il secondo argomento di Galli della Loggia riguarda il giudizio storico sul nostro Stato e sulla nostra politica. Se oggi la Chiesa e il suo discorso hanno da noi tanto ascolto, ciò non nascerebbe - come a me pareva - dal vuoto della politica e dello Stato, ma al contrario da un’eccessiva “iperpoliticizzazione (...) della compagine statale italiana”, che avrebbe origini lontane, sin dalle debolezze del nostro Risorgimento (ancora la storia d’Italia), e arriverebbe fino a una sorta di paralizzante “corto circuito politica-cultura”, in grado di produrre ormai solo vaniloqui (la “cultura del nulla” cui allude Giuliano Ferrara nella sua sobria e pacata replica al mio intervento). Di nuovo, credo di condividere il cuore di questo ragionamento; al di là dell’immagine del “vuoto” che avevo usato, la sostanza resta, anche se forse leggiamo in modo diverso - ma tutti e due legittimamente - alcuni passaggi della nostra storia: siamo di fronte a un desolante silenzio di pensiero critico “di fronte ai grandi temi del Paese e dell’epoca”, sostituito da un chiacchiericcio politico quasi sempre settario e ideologicamente prevenuto. Ma tuttavia: siamo sicuri che a questa patologica ”iperpoliticizzazione” la cultura cattolica più direttamente riconducibile alle posizioni della Chiesa non abbia dato nel corso del tempo e sino a oggi il suo potente contributo, confondendo troppo spesso quel che è di Cesare con quel che è di Dio, mischiando sacralità e potere, etica e precettistica, Vangelo e ragion di Stato? A me pare che noi si debba tutti lavorare a un ricongiungimento storico fra religione e modernità, nel segno di un’etica dell’eguaglianza, della speranza e dell’emancipazione. Questo non presuppone confusione e indistinzione, né tantomeno abdicazioni e supplenze, ma il disegno di nuovi confini e di nuove mappe: nei paesaggi dell’anima, non meno che nel tessuto delle nostre istituzioni. 716 - SE È IN PERICOLO IL DESTINO DEI DIRITTI - STEFANO RODOTÀ da: Repubblica di giovedì14 febbraio 2008 Quale sarà il destino dei diritti e delle libertà civili nel nuovo tempo della politica che si è appena annunciato, e che assumerà tratti più netti dopo il voto del 13 aprile? Da Napoli è appena arrivata una inquietante risposta, tanto più grave perché dà la misura di un mutamento di clima. Un mutamento di clima che, senza bisogno di cambiare le norme in vigore, determina una vera e propria aggressione nei confronti di chi altro non ha fatto che valersi dei diritti che le riconosce la legge sull´interruzione della gravidanza. Il racconto della donna è davvero un caso di scuola di violazione della dignità della persona, dunque di uno dei principi fondativi della convivenza, come si legge nella nostra Costituzione e nell´articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». 17 Non basta dire, infatti, che s´era ricevuta una segnalazione anonima e che era necessario effettuare accertamenti. Proprio il carattere anonimo delle segnalazioni esige sempre prudenza nella loro utilizzazione, altrimenti la libertà e la dignità di ciascuno di noi vengono consegnate nelle mani di qualsiasi mascalzone. Vi erano molti modi per accertare se davvero si stava violando la legge, senza bisogno di piombare addosso alla donna e di farle domande assolutamente illegittime, come quella riguardante il padre. Ma ci si comporta così quando si ritiene di essere assistiti da un consenso sociale, quando si pensa che l´aria sia cambiata e che nell´agenda politica ed istituzionale a diritti e libertà spetta ormai un posto marginale. La vicenda napoletana ci ha purtroppo dato la tragica conferma di una regressione civile già in atto. Sarebbero urgenti, a questo punto, una reazione politica ed una istituzionale. Chiunque abbia il senso delle istituzioni, merce purtroppo sempre più rara, dovrebbe esigere, nell´interesse di tutti, un chiarimento del modo in cui magistratura e polizia si sono comportate a Napoli, e l´individuazione delle specifiche responsabilità, come hanno chiesto le componenti del Csm. Siamo di fronte ad una violenza di Stato, che esige un immediato e pubblico ristabilimento della legalità. Solo così sarà possibile cancellare, almeno in parte, l´effetto intimidatorio che quella irruzione può avere nei confronti di tutte le donne che intendono far ricorso alla legge 194. Per quanto riguarda la reazione politica, sono ovviamente benvenute le proteste, le condanne. Ma non bastano. Non siamo di fronte ad un caso isolato ed isolabile, ma appunto alla rivelazione di un clima. E questo clima può essere cambiato solo se, con adeguata forza, si rifiuta l´agenda politica che l´ha determinato e a questa se ne oppone una più civile, rispettosa delle persone e della loro umanità, che rimetta al primo posto il riconoscimento e il rispetto dei diritti. Dal centrodestra sono venuti segnali insistiti e chiarissimi. La radicale messa in discussione dell´aborto è netta, ha ormai una forte evidenza nella campagna elettorale, ben poco offuscata dalle variazioni tattiche di Berlusconi rispetto alla lista di Giuliano Ferrara, visto che lo stesso Berlusconi ha rilanciato proprio la parola d´ordine di Ferrara di proporre all´Onu ben più di una moratoria sull´aborto - il pieno riconoscimento del diritto alla vita del concepito. A queste proposte si aggiungono la posizione ostile ad ogni aggiustamento della legge sulla procreazione assistita, anche a quelli che una provvida giurisprudenza ha rigorosamente introdotto, mettendo in evidenza gli eccessi di potere del governo Berlusconi; la dura linea sulle questioni della sicurezza; la "questione privacy" proposta sostanzialmente come mezzo per limitare il ricorso alle intercettazioni anche in materie dove appaiono necessarie e per incidere sulla libertà d´informazione; e l´ipotesi di procedere ad una revisione anche della prima parte della Costituzione, quella appunto delle libertà e dei diritti. Se questo è il catalogo, ormai evidentissimo, del centrodestra, quali segnali sono venuti dal Partito democratico e dalla Sinistra arcobaleno? Flebili, comunque privi finora della evidenza necessaria per presentarsi come un programma forte e coeso, capace di imporsi all´attenzione dell´opinione pubblica e modificare così l´agenda politica. Per il Partito democratico questo è anche il frutto di una difficoltà interna, testimoniata dalla pubblica adesione della senatrice Binetti alla proposta berlusconiana sull´aborto. Per la Sinistra arcobaleno è probabilmente l´effetto determinato dal ritardo di una effettiva elaborazione comune. La passata legislatura lascia un´eredità pesante. Testamento biologico, unioni di fatto, disciplina delle intercettazioni sono lì a ricordarci una impotenza dell´Unione, la difficoltà estrema nel gestire politicamente situazioni complesse. Soprattutto per i primi due casi, si constatò in modo sbrigativo che non v´era la necessaria maggioranza parlamentare, e questo favorì all´interno dell´Unione le operazioni di chi volle chiudere nel cassetto testi significativi. Non si tenne conto che si trattava di materie che riguardano la vita di tutti, le decisioni sul morire e l´organizzazione delle relazioni affettive (e il nascere, legato alle nuove 18 linee guida sulla procreazione assistita), sì che sarebbe stato necessario avere non solo un più netto atteggiamento davanti all´opinione pubblica, ma anche più coraggio parlamentare, portando in assemblea i disegni di legge, obbligando i senatori ad assumere esplicitamente le loro responsabilità e consentendo così ai cittadini di valutare meriti e colpe all´interno di entrambi gli schieramenti. In altre materie, quelle legate alla sicurezza pubblica in particolare, vi è stata una eccessiva propensione a soluzioni sbrigative, con una riduzione di problemi complessi a questioni di puro ordine pubblico, rendendo indistinguibile la posizione del governo da quella dell´opposizione. Di queste debolezze si è avuta una conferma ulteriore nelle materie sbrigativamente indicate con il termine privacy, che sono poi quelle che riassumono molti dei diritti legati al diffondersi delle nuove tecnologie. Un solo esempio. Con il decreto "milleproroghe" si è portato ad otto anni e mezzo il tempo di conservazione dei dati sul traffico telefonico, un non invidiabile record mondiale. Che cosa potrà accadere nel prossimo Parlamento? La previsione più facile induce a concludere che, se prevarrà il centrodestra, la linea sarà quella della riduzione dell´autonomia delle persone nel decidere della loro vita (ricorso alla procreazione assistita, aborto, rifiuto di cure, decisioni di fine vita, unioni di fatto), dell´indebolimento delle garanzie in nome della sicurezza, della limitazione del controllo di legalità da parte dei giudici, che è una componente essenziale della tutela dei diritti. Ma questo non significherà necessariamente abbandono di una nuova normativa sul testamento biologico o sulla procreazione assistita. Regole su queste materie potrebbero servire per una finalità esattamente opposta a quella per la quale erano state finora pensate: chiudere ogni varco alla possibilità di giungere comunque al riconoscimento di diritti delle persone sulla base delle norme della Costituzione, come hanno fatto con grande rigore alcuni giudici. La necessità di un diverso e chiaro programma in materia dei diritti è evidente. Questo programma, in primo luogo, deve essere dichiaratamente "conservatore", nel senso che deve consistere in una intransigente difesa dei principi costituzionali e in un loro coerente sviluppo nelle direzioni segnate dall´innovazione scientifica e tecnologica. È vero che queste innovazioni ci obbligano a confrontarci in modo assolutamente inedito con i temi della vita, dell´umano. Ma questa riflessione, e le conseguenze pratiche che se ne traggono, devono trovare la loro collocazione nel quadro di valori democraticamente definito, appunto quello costituzionale. Questo non esclude il confronto, la discussione, la prospettazione di punti di vista anche radicalmente diversi. Esclude, invece, la pretesa di imporre un altro quadro di principi, imposto autoritativamente, ritenuto "non negoziabile" perché espressione di verità non discutibili. Giungiamo così al vero nodo politico e culturale, alla revisione costituzionale di fatto che si vuole realizzare avendo le prescrizioni delle gerarchie ecclesiastiche come unica tavola dei valori. Questo è uno dei punti condivisi di cui si vanta il Popolo delle libertà. Questa è la vera radice del rischio che corrono libertà e diritti, che non ha nulla a che vedere con l´anticlericalismo o con il "laicismo", ma ha molto a che fare con la democrazia. Un rischio che si aggrava ogni giorno, visto che l´interventismo delle gerarchie vaticane si traduce sempre più spesso in una precettistica minuta. Quale società si sta delineando? Le debolezze politiche e culturali del passato centrosinistra sono nate anche su questo terreno, e si è rivelata sbagliata la linea di chi ha ritenuto che un atteggiamento morbido avrebbe consentito un progressivo superamento delle difficoltà. Il "politicismo" del rapporto esclusivo con le gerarchie vaticane non ha pagato e, anzi, ha aperto varchi sempre più ampi al loro intervento, mentre veniva trascurato e mortificato il rapporto con il mondo cattolico più aperto. Chiedere maggiore consapevolezza di questa situazione non significa incitare allo scontro. Significa mettere in chiaro, nella fase democraticamente essenziale della campagna elettorale, i propositi e le prospettive di 19 azione di ciascuno. Anche su questo si costruirà il consenso delle forze politiche di centrosinistra e di sinistra. 717 - FETI, EMBRIONI E SCIENZIATI - IGNAZIO MARINO da: la Repubblica di venerdì 15 febbraio 2008 Caro direttore, potremmo immaginare che al vertice mondiale di Davos partecipassero persone che non hanno mai studiato economia? Oppure che al salone dell’automobile la novità dell’anno fosse descritta da un esperto di gastronomia? Sono situazioni che fanno sorridere ma che purtroppo accadono con preoccupante sistematicità quando si dibatte di scienza e delle sue implicazioni. Nei giorni scorsi abbiamo assistito, infatti, alla pioggia di commenti e dichiarazioni su due importanti questioni: il documento sottoscritto da quattro università romane sull’ assistenza ai neonati prematuri e la possibilità di curare malattie gravi grazie a quello che è stato definito, impropriamente, un embrione con tre genitori. Per chi lo ha letto, il primo documento è una dichiarazione di intenti che afferma principi assolutamente condivisibili: se un feto, durante una normale gravidanza, nasce prematuro lo si deve assistere con tutti i mezzi a disposizione della medicina. Se poi si valuta che tale assistenza diviene accanimento terapeutico è opportuno sospendere le terapie e limitarsi alle cure compassionevoli per far spegnere il bambino senza ulteriori sofferenze. I commenti si sono invece concentrati sulla legge sull’aborto, se va modificata o se non va toccata, tutti a dibattere di tutto ma soprattutto di concetti che nel documento non erano assolutamente affrontati. Pochi giorni dopo si è scatenato un secondo dibattito mediatico su un esperimento, condotto all’Università di Newcastle in Inghilterra, riguardante il trapianto di mitocondri in un embrione, alla ricerca di un metodo per fare nascere un bambino sano anche quando la madre è portatrice di un difetto genetico. Si è parlato di aberrazioni, di follia inglese e via di seguito. Ma qualcuno, prima di esprimersi, si è chiesto in che cosa consiste questo azzardatissimo esperimento? Proviamo a riassumere. All’interno delle nostre cellule ci sono degli organelli, chiamati mitocondri, che funzionano da fonte energetica: trasformano alcune sostanze del cibo in energia che il corpo usa per ogni sua attività. Se questi organelli sono alterati a causa di un difetto genetico, le parti del corpo che dipendono dall’energia come il cervello, il cuore, i muscoli, o funzioni come la vista o l’udito, saranno danneggiati anche gravemente. Per esempio, il danno muscolare può causare un deficit respiratorio sino a minacciare la vita. I dati più recenti indicano che nella sola UE vi sono 350 mila persone affette da malattie dei mitocondri. Gli scienziati inglesi hanno immaginato che con un trapianto di mitocondri, si potrebbe fare nascere un bambino sano. Per capirci meglio, hanno pensato di conservare il nucleo di una cellula fecondata con le informazioni genetiche del papà e della mamma e di sostituire la parte della cellula contenente i mitocondri malati con mitocondri sani prelevati da un’altra donna, con la stessa logica di un qualunque trapianto. In un paziente affetto da cirrosi, per esempio, si toglie il fegato malato e lo si sostituisce con uno sano prelevato da un donatore. Capisco che il fatto che questo procedimento venga eseguito su un embrione possa colpire il nostro immaginario ma non può farci né spaventare né urlare contro una presunta manipolazione della vita. Posso assicurare che tutte le volte che si esegue un trapianto di fegato si trasferiscono nel corpo del paziente, oltre al nuovo organo, anche alcune cellule del sangue con le caratteristiche genetiche del donatore. La prova è riscontrabile nei linfonodi di donne che hanno ricevuto il fegato di un uomo e che, anche dopo venti anni dal trapianto, presentano cellule con il cromosoma Y che posseggono solo i maschi. Qualcuno si scandalizza oggi, o 20 si scaglia contro il successo dei trapianti perché nell’impianto di un organo c’è stato uno scambio di materiale biologico? Non mi pare, certamente non i pazienti trapiantati che vivono mentre pensavano di morire. Insomma, quello che la stampa ha definito la creazione di un embrione con tre genitori è in realtà un esperimento di trapianto di materiale biologico. Non mi sfugge che gli embrioni così costituiti non possano essere impiantati in utero e siano stati distrutti dopo sei giorni, perché questo prevedono i regolamenti inglesi. Per tutti coloro che si pongono dubbi sulla manipolazione dell’embrione umano questo atto costituisce ovviamente un grande ostacolo etico. Ma perché non chiamare le questioni con il proprio nome e spaventare i cittadini con giudizi fantasiosi quanto inesatti scientificamente come quelli su fantomatici embrioni con tre genitori? La conoscenza scientifica non può fare a meno della sperimentazione ed io, con sincera umiltà, non me la sento di dire cosa sia giusto e cosa non lo sia per la società nel suo complesso. Ho delle convinzioni personali, che ad alcuni sembrano troppo prudenti e ad altri di frontiera ma non credo sia giusto anche solo immaginare di imporle ad altri o addirittura, nel mio lavoro di legislatore, al Paese. Certamente non condivido una visione che descrive gli scienziati come dei pazzi sconsiderati con manie di padreterno che creano, manipolano o distruggono la vita e per questo da tenere sotto stretto controllo e da inibire il più possibile. Penso invece che un organismo di valutazione e di giudizio su ciò che riguarda la vita debba esistere ed avere poteri concreti e debba esprimersi in modo autorevole, così come accade in altre nazioni; ma penso anche debba essere costituito da persone competenti, scientificamente preparate e profondamente convinte di non conoscere a priori ogni verità. E chiedere troppo? 718 - IL CRISTIANESIMO SEMPLICE – FRANCESCO MERLO da: la Repubblica di sabato 16 febbraio 2008 Caro Giuliano Ferrara, hai trovato su Google «testicoli piccoli e mammelle grosse» che dici di avere anche tu, come i malati di Klinefelter. Non sono un testicolologo nè un medico specialista e dunque non contrappongo la mia ignoranza dinamica, attiva, a questa tua lettura allegra della sindrome di Klinefelter, da te ridotta - come mi scrivi, sul Foglio, in una lettera articolo - a una svirilizzazione. Pure a me capita di cercare i miei umori su Google e anche a me di sentirmi, in certe mattine, un aborto mancato, inadatto alla vita extrauterina: uno sfrattato. Dici anche di volermi mostrare quanto sono piccoli i tuoi testicoli e mi viene in mente che Hemingway voleva esibire a Scott Fitzgerald quanto erano grandi i suoi. Io non li tiro fuori per nessuno e taccio sulla sindrome di Klinefelter. Non voglio fare l’errore di chi, come te, pensa di sapere tanto chiaramente cos’è la vita da surrogare ogni genere di competenza, anche medica, con le pienezze etiche della propria ideologia vitalistica. E però il silenzio che, nel mio articolo su Repubblica, ti avevo proposto, e che tu mi hai appunto rimproverato sul tuo giornale, non riguardava (ancora) le malattie cromosomiche, ma le dolorose decisioni che aveva preso quella signora di Napoli sottoponendosi, nella ventunesima settimana di gravidanza, all’aborto terapeutico previsto, e non imposto, dalla legge 194. Ora, io capisco bene che ti faccia più piacere avere di fronte non il silenzio triste e solidale di quelli come me, ma il linguaggio a te più chiaro delle femministe che rivendicano in piazza il diritto all’aborto: «Sono meno eleganti di te - scrivi - ma vivaddio si capisce di che cosa parlano, che cosa vogliono o pensano di volere». “Diritto all’aborto” è un’espressione che io non userei, e non perché coltivo l’eleganza, ma perché mi fa pensare ad un altro dei tanti ossimori italiani, qualcosa come il diritto all’amputazione. I diritti li coniughiamo con cose che potenziano la persona: il diritto di esprimere il proprio pensiero, il diritto di andare in vacanza, il diritto al lavoro... Chiedere in 21 una manifestazione il diritto all’aborto è, secondo me, una paradossale banalità intellettuale. E non solo perché l’aborto è sofferenza. Penso che anche rivendicare in piazza il diritto alla felicità sarebbe una sciocchezza. Né aborto né felicità appartengono al campo dei diritti, Il primo è un drammatico meno peggio, una concreta disgrazia personale; la seconda è una insondabile grazia personale. E tuttavia quell’espressione così scopertamente perdente nasconde una questione complessa perché rimanda ai tempi in cui rispondeva, semplificando, ad una proibizione crudele dello Stato. Immaginiamo che ci sia qualcuno (qualche testimone di non so quale Geova) che voglia impedirmi l’amputazione della gamba, della mia gamba malata, «perché così te l’ha data Dio e bla bla». Come potrei semplificare la mia paradossale situazione di aspirante sciancato se non rivendicando il diritto a farmi tagliare la gamba, a ridurre cioè il dominio della sofferenza che è uno degli scopi della civiltà del diritto? In realtà nessuno si fa amputare la gamba per esercitare un diritto: stringe i denti, e lo fa. E lui che decide e non c’è nulla da dire. Comunque sia, capisco che “il diritto all’aborto” è un’espressione che tu non molli perché ti permette di sovrastare l’avversario nel senso di volteggiargli sopra come un rapace. Anche la lite di ieri con Pannella, il tuo rifiuto all’ultimo momento di confrontarti con lui è stato un volteggiare. Lo hai piantato nello studio tv dove eravate tutti e due invitati. Ma Pannella non merita di essere trattato così. Neppure la polizia di Mario Scelba l’avrebbe fatto. Nessuno ha il diritto di eliminare Pannella con il prezzemolo, di abortirlo già bello e fatto. E lo dico benché in qualche misura anche io non condivida gli argomenti che usa oggi Pan- nella, gli stessi del 1978, con un lessico e un tono che sono usurati come quelli delle vecchie femministe, un linguaggio troppo duro per un tema di sofferenza viva. In realtà tu che parli di omicidi perfetti e di eugenetica usi lo stesso identico linguaggio. Ti piace la piazza, ti è sempre piaciuta. E apertamente dici di preferirla a me. Molto più difficile è infatti contrastare il silenzio sbigottito che ti propongo, a meno di non deformarlo polemicamente nel silenzio del tartufo, nel ponziopilatismo, nella deficienza morale. Come io non deturpo la tua generosità e la tua passione, che conosco e apprezzo, così tu devi trattare il mio silenzio per quello che è: la rispettosa malinconia davanti a una donna che, assistita da uno, cento, mille dottor Google, e confortata da una legge rigorosa e seria, ha preso una decisione che l’ha fatta soffrire e la farà soffrire. Il silenzio che ti propongo è la modestia di non parlare per lei, di non arrogasti il diritto di metterti ai posto di quella signora, o peggio di impartirle delle lezioni di medicina e di etica, spiegarle quando nasce la vita umana, a che mese e giorno il nascituro diventa persona, e addirittura persona giuridica. Nessuno può imporre agli altri le proprie soluzioni a problemi controversi che dividono scienza e religioni, a problemi insolubili: quando uno è ancora feto e quando è già bambino; e quali sono i protocolli affettivi e i protocolli medici davanti alle gravi anomalie cromosomiche; e come rispettare ogni religione senza intolleranze laiche ma senza violare, per intolleranze religiose, la volontà di una madre di non mettere al mondo un infelice menomato. Ci sono cose essenziali, come il desiderio e il bisogno di maternità e di paternità; come l’ottimismo radioso e il pessimismo cosmico; come l’amore di due persone che stanno assieme, si stringono per le mani e decidono di riprodursi; come il momento nel quale la scienza medica ti chiama a scegliere tra l’aborto terapeutico e il terribile futuro di un figlio malato; ci sono insomma alcune cose che, alla fine, esigono un lungo, terribile momento di solitudine e dalle quali i nostri umori, la politica, i giornali, le liste elettorali, le passioni pubbliche, anche le più generose, devono restare lontani. Uscendo dalla sala operatoria, ancora intronata dall’anestesia, quella signora non ha trovato ad accoglierla il silenzio solidale delle persone più vicine, del suo compagno, dei medici, di un fratello, di un amico o un’amica, di una società pronta a offrire dignità al suo dolore, ma le domande della poliziotta, il sequestro del feto, le accuse, le indagini, i giornali, e poi le tue lezioni sulla vita e sulla morte, una disputa da talk show... E vero che tra i poliziotti c’era una 22 donna - oddio! - e io non l’ho scritto perché non lo sapevo. Ma ecco cosa ha dichiarato questa poliziotta con involontaria comicità: «Non è stato un interrogatorio, le ho solo fatto qualche domanda». Dire adesso, da un giornale così importante come il tuo, che la signora di Napoli è un’omicida o un’infanticida è fare molto peggio di quella poliziotta: è farle subire, a pistola culturale spianata, non solo la predica, ma la condanna a vita. Che maniera è la tua di soccorrere una donna in sofferenza? Perché non moderi i termini? Vuoi vendicare un feto facendo impazzire la madre? E perché pensi che i medici siano tutti dei Goebbels che non hanno neppure capito quanto è piacevole vivere con la sindrome di Klinefelter? Non sono tanto illuminista da dire che tu sei il mandante morale di quel blitz della polizia in sala operatoria: «In nome di Ferrara, alzate le mani». Ma io ho studiato dai preti, come tu mi ricordi invitandomi a correre alla più vicina chiesa per confessare il peccato di averti invitato al silenzio. Ti aggiungo che ho avuto più di un sacerdote tra i miei zii (anche un cardinale). Ebbene, i migliori di loro mi hanno insegnato non «un cristianesimo semplice e distratto», come tu mi rinfacci. Non distratto ma solo semplice, Giuliano, era il cristianesimo italiano prima che arrivaste voi, da altre parrocchie armati, a tentare di fare di ogni cattolico un soldato di Cristo. Pensa: gli italiani, che non sono mai stati soldati di niente, ora dovrebbero diventare soldati di Cristo. Ecco il punto: qualunque cosa io sia diventato, ricordo bene che in quel cristianesimo semplice il silenzio era la sconfinata via dello spirito. Io credo che ammutolire dinanzi all’aborto terapeutico scelto da quella donna è sentire in se stessi l’abisso di un mistero universale. Nel silenzio che ti propongo io non c’è il fracasso elettorale che renderebbe incandescente e gonfierebbe di intolleranze qualsiasi dibattito su quella cosa strana che si chiama vita, ma c’è la forza indagatrice dell’intelligenza, che è sempre stata la tua forza. Non so il tuo Ratzinger, ma Sant’Ambrogio diceva che in casi come questi la parola è il tugurio miserabile dello spirito: «Prigione dell’anima è la parola». E dunque, visto che né tu né io possiamo sostituirci alla signora Silvana di Napoli, e che la buona legge ce l’abbiamo, facciamo silenzio, Giuliano. Sssssss. 719 - QUANTO È’ COSTATA LA BATTAGLIA PER L’ABORTO - FEDERICO ORLANDO da: Europa di sabato 16 febbraio 2008 Cara Europa, dobbiamo ringraziare Giuliano Ferrara: finalmente le donne sono tornate in piazza. Adesso spieghino alle figlie perché. Emanuela Riva – Pescara Risponde Federico Orlando Cara signora, credo d’aver capito il suo laconico messaggio: ragazze e ragazzi non sanno che le liberta e i diritti di cui godono oggi nonostante i sabotaggi di medici e infermieri trent’anni fa non c’erano. Non c’erano neanche le impiccagioni, le lapidazioni, le fustigazioni in pubblico di cui godono tuttora le donne islamiche, ma la cultura del nostro codice penale e di una parte della morale piccolo borghese era quella: talebana. E talebana si cerca ora di farla tornare, attraverso una battaglia “culturale” che, se non sarà fermata dalla rivolta femminile e maschile (senza le idiote separatezze femministe “di genere”), non avrà bisogno di essere cancellata dalle minacce delle varie Burani Procaccini (che promette aborti solo rarissimi e pene “severissime” per medici e parasanitari: speriamo che Berlusconi, anelante al ruolo di persona seria, la faccia ricoverare). Dunque, non ci sarà bisogno di retromarce legislative perché le donne non troveranno più nessuno negli ospedali pubblici che le assista. In Italia sono obiettori (in pubblico) l’80 per cento dei ginecologi, il 46 per cento degli anestesisti, il 39 per cento dei paramedici. Adesso per aggirare le leggi dello stato anche i farmacisti fanno obiezione di coscienza sulla pillola del giorno dopo o altri contraccettivi (che chiamano intercettivi) e altrettanto faranno gli infermieri. Del resto, con tutti i medici che pullulano in Italia, meno aborti si fanno in ospedale 23 e più se ne fanno negli studi privati (vedi San Timoteo di Termoli) e magari ben fuori dei termini di legge (vedi clinica Spallone di Roma, definita anni fa “il macello”). Ma per qualcuno di questi obiettori macellai finiti in galera, quanti sono a piede libero? Nel rileggere La sfida radicale, un libro del 1977 (SugarCo), ritrovo decine di pagine sugli arresti dei leader e delle leader del Partito radicale, quando insieme ai socialisti e a pochi liberali, repubblicani e qualche dc, facevano le lotte contro la barbarie del codice fascista, fino alla depenalizzazione. Consiglierei a Pannella e a Bonino, anche in vista del dialogo col Pd, di farlo ristampare: bisogna restituire alle vecchie generazioni la memoria perduta e che non hanno trasmesso ai figli. 720 - VALORI E DIRITTI NEI CONFLITTI DELLA POLITICA - GUSTAVO ZAGREBELSKY da: la Repubblica di sabato 23 febbraio 2008 Non si parla mai tanto dl valori, quanto nei tempi di cinismo. Questo, a mio parere, è uno di quelli. Le discussioni e i conflitti sulle questioni che si dicono “eticamente sensibili” (come se le questioni, non gli esseri umani, fossero sensibili) sono un’ostentazione di valori. Tanto più perentoriamente li si mette campo, tanto più ci si sente moralmente a posto. Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti. Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E’ un fine, che contiene l’autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica mezzi. Tra l’inizio e la conclusione dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell’etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un’altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte. Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di “tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico. Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un’immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l’azione c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, 24 quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce “per principi” si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d’una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all’autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all’etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie. Passando ora da queste premesse in generale alle loro conseguenze circa il modo di legiferare sulle questioni “eticamente sensibili” di cui si diceva all’inizio, avvicinandoci così alle discussioni odierne sul tema dell’aborto, qui prese a esempio (ma ci si potrebbe riferire anche ad altro, come l’eutanasia, la fecondazione assistita, ecc.), si può stabilire un’altra differenza a seconda che si adotti l’etica dei valori o quella dei principi. Nel primo caso (il caso del valore), saranno appaganti le norme giuridiche che proteggono in assoluto il bene assunto come valore prevalente, e inappaganti le norme giuridiche che danno rilievo, cercando di conciliarli relativizzandoli l’uno rispetto all’altro, a beni diversi. Possiamo parlare, per gli uni, di assolutismo etico-giuridico; per i secondi, di pluralismo (non certo, evidentemente, di relativismo etico, equivalente a indifferenza morale). Nell’assolutismo, si trovano a casa propria tanto coloro che parlano dell’aborto, né più né meno, come di un assassinio (oggi si dice “feticidio”), quanto coloro che ne parlano come diritto incondizionato. Assassinio e diritto sono due modi per dire il riconoscimento assoluto, come valori, della vita o della libertà. I primi, in nome del valore prevalente della vita del concepito, si disinteressano di tutto il resto: la salute e la vita stessa della donna, messa in pericolo dagli aborti illegali e clandestini; i secondi, in nome dell’autodeterminazione della donna come valore prevalente, si disinteressano della sorte del concepito. Costoro, pur su fronti avversi, si muovono sullo stesso terreno e possono farsi la guerra. Ma, tutti, si troveranno insieme, alleati contro coloro che, ragionando diversamente, non accettano il loro assolutismo. Questo ragionar diversamente, cioè ragionar per principi, è certo assai più difficile, ma è ciò che la Costituzione impone di fare: la Costituzione, ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi. Orbene, la Costituzione, attraverso l’interpretazione della Corte costituzionale, dice che nella questione dell’aborto ci sono due aspetti rilevanti, due esigenze di tutela, due principi: l’uno, a favore del concepito la cui situazione giuridica è da collocarsi, “con le particolari caratteristiche sue proprie”, tra i diritti inviolabili della persona umana, il diritto alla vita; l’altro, a favore dei diritti alla vita e alla salute, fisica e psichica, della madre, che può essere anch’essa “soggetto debole”. Quando entrambe le posizioni siano in pericolo, occorre operare in modo di salvaguardare sia la vita e la salute della madre, sia la vita del concepito, quando ciò sia possibile. Quando non è possibile, cioè quando i due diritti entrano in collisione, deve prevalere la salvaguardia della vita e della salute della donna, “che è già persona”, rispetto al diritto alla vita del concepito, “che persona non è ancora”. Dunque: si parla di diritti della donna e del concepito, ma non si parla mai di aborto come (dicono i giuristi) “diritto potestativo” della donna, né, al contrario, di dovere di condurre a termine la gravidanza. Ci si deve districare tra le difficoltà e non ci sono soluzioni a un solo lato. Non interessa, ora, se la legge 194 bene abbia svolto il suo compito. Interessa il modo di ragionare e di porsi di fronte a questo “problema grave”, un modo non intollerante, carico di tutte le possibili preoccupazioni morali, aperto alla considerazione di tutti i principi coinvolti. Se nel dibattito pubblico, si usano quelli che si sono detti “esangui fantasmi in lotta per 25 diventare i tiranni unici delle coscienze”, cioè i valori, la legge che ne verrà sarà solo sopraffazione. C’è poi un altro aspetto della distinzione valore-principi, importante per il legislatore. Il ragionare per valori è compatibile, anzi esige leggi tassative: tutto o niente, bianco o nero, lecito o illecito, vietato o permesso. Il ragionar per principi spesso induce la legge a fermarsi prima, rinunciare alle regole generali e astratte e a rimettere la decisione ultima alla decisione responsabile di chi opera nel caso concreto. Prendiamo la discussione odierna circa la sorte degli “immaturi”, i nati diverse settimane prima del tempo, portatori di deficienze nello sviluppo di organi e funzioni destinate a pesare più o meno pesantemente sull’esistenza futura, sempre che ci sia. C’è un qualunque legislatore che possa ragionevolmente imporre una regola assoluta circa il che fare? Per esempio, la rianimazione sempre e a ogni costo, senza considerare nient’altro? Solo la cieca assunzione della vita come valore assoluto, della vita come mera materia vivente, potrebbe giustificarla. Ma sarebbe, in molti casi, un arbitrio. Ogni caso è diverso dall’altro e i rigidi automatismi legali, quando si tratta di principi da far valere in situazioni morali di conflitto, si trasformano in sopraffazione. C’è un dialogo classico tra Alcibiade e Pericle, riferito da Senofonte, che ci fa pensare. Il discepolo chiede al maestro, semplicemente: che cosa è la legge? Pericle risponde: ciò che l’assemblea ha deciso e messo per iscritto. Anche la sopraffazione, decisa e messa per iscritto? No, questa non sarebbe legge. E’ legge solo quella che riesce a “persuadere” tutti quanti, il resto è solo violenza in forma legaIe. Chi professa valori assoluti non si propone di persuadere ma di imporre. Chi ragiona per principi può sperare, districandosi nella difficoltà delle situazioni complicate, di essere persuasivo; naturalmente a condizione che si sia ragionevoli, non fanatici. 721 - I DIRITTI DIMENTICATI – STEFANO RODOTA’ da: la Repubblica di lunedì 25 febbraio 2008 Negli ultimi giorni l’agenda elettorale è cambiata. Sembrava che i temi riguardanti i diritti civili, le questioni «eticamente sensibili» dovessero rimanerne fuori, per una tacita intesa tra i grandi contendenti, timorosi di discussioni difficili che potevano rendere più polemici i confronti, e così provocare divisioni all’interno di Pd e Pdl. Le cose sono andate diversamente.perché qualche irriducibile non si rassegnava a questa rimozione e, soprattutto, perché una cronaca impietosa mostrava una realtà insensibile agli ammiccamenti tra i partiti, com’è avvenuto a Napoli quando una donna che aveva appena interrotto una difficile gravidanza si è trovata nelle mani della polizia. Da qui una fiammata di consapevolezza, con le donne che si riprendono la piazza e la parola; con categorie professionali abitualmente assai prudenti, come quella dei medici, che assumono posizioni nette; conl’arrivo nel Pd delle candidature «scandalose» dei radicali e di Umberto Veronesi. Qualcuno dirà, ancora una volta, che le elezioni si vincono dando risposte precise ai bisogni materiali, che oggi sono quelli dell’economia, del fisco, del lavoro, della crescita dei prezzi, della sicurezza. In tempi tanto difficili, i diritti civili vecchi e nuovi appartengono ad un «secondo tempo» della politica, sono un lusso che ci si può permettere solo dopo aver risolto le questioni davvero urgenti. «Prima la pancia, poi vien la morale» - canta alla fine del secondo atto dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht «il re dei mendicanti», Mackie Messer. Ma può la politica vivere senza ideali, senza gettare il suo sguardo al di là delle contingenze, non per sfuggire ad esse, ma per coglierne il significato più profondo? «L’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio».Anche il non credente coglie in questo passo del Vangelo di Matteo un insegnamento che non può essere trascurato, e che consiste appunto nella necessità di trarre ispirazione da qualcosa che non consista solo nell’amministrazione del quotidiano. 26 Ma - si può ancora obiettare - tutti i sondaggi ci mostrano che temi come il testamento biologico o le unioni di fatto raccolgono un consenso modesto. Ora, a parte la considerazione che i risultati dei sondaggi sono fortemente influenzati dal momento in cui sono effettuati e dal modo in cui sono strutturate le domande, l’esistenza di un gruppo di elettori sia pur limitato, ma che farà le sue scelte proprio in base al modo in cui i partiti si pronunceranno su quelle questioni, deve far riflettere quanti sottolineano che il risultato elettorale dipenderà probabilmente dall’orientamento di fasce ristrette dell’elettorato. E, se si vuole rimanere nella dimensione dei sondaggi, vale la pena di ricordare che, quand’era ministro della Salute, Umberto Veronesi aveva un gradimento altissimo, superiore a quello degli altri suoi colleghi di Governo. Nasce forse da qui il risentimento di alcuni ambienti per le candidature dei radicali e di Veronesi, per il comunicato sui temi della nascita della Federazioni dei medici. Si chiede chiarezza, ma in realtà si è disturbati proprio dal fatto che quelle candidature sono chiarissime, comprensibili per i cittadini senza distorsioni tattiche. Disturbano perché rifiutano il monopolio dell’etica da parte di chicchessia, perché manifestano convinzioni forti, ma in nome del dialogo e del confronto, non della pretesa di schiacciare gli altri sotto il peso di «valori non negoziabili». E’ buona cosa per la democrazia quando tutte le opinioni possono stare in campo con eguale forza e dignità. Alle considerazioni contenute nel comunicato della Federazione di medici dovrebbero essere riservati lo stesso rispetto e attenzione che ambienti e giornali cattolici dedicarono, qualche settimana fa, a quel che disse un gruppo di primari medici romani sulla necessità di rianimare i feti nei casi di aborti tardivi. Si è sostenuto, da parte dell’«Avvenire», che quel testo non corrisponde al documento effettivamente votato. Chiarimenti a parte su questo aspetto, è bene ricordare che lo stesso giornale riconosce che nella Federazione sono ufficialmente emerse posizioni critiche sulla legge sulla procreazione assistite e di pieno sostegno alla legge sull’aborto ed alla pillola del giorno dopo. Come si diede piena legittimità alla privata presa di posizione dei primari romani, allo stesso modo si deve riconoscere rilevanza ad una posizione espressa nell’ambito della massima organizzazione dei medici, se non altro perché smentisce la tesi tante volte avanzata di un massiccio rifiuto dei medici delle nuove tecniche che la scienza mette a disposizione delle donne. Arricchita l’agenda elettorale con gli ineludibili temi che riguardano la vita delle persone e i loro diritti, si tratta ora di vedere come questa novità sarà gestita politicamente. La salute si presenta giustamente come un tema centrale, che sollecita l’autocandidatura di Giuliano Ferrara ad occupare quel ministero e fa nascere il timore che, invece, il ministro possa essere proprio Umberto Veronesi. Al futuro ministro, quale che sia, conviene ricordare che, proprio in materia di salute, l’articolo 32 della Costituzione stabilisce che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E’, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Il governo del corpo e della vita appartiene all’autonomia della persona. Un principio non ispirato da una deriva individualistica, ma memore dell’orribile sperimentazione dei medici nazisti, processati proprio mentre si scriveva la nostra Costituzione. E da quella esperienza nacque il Codice di Norimberga, che subordina ogni intervento sul corpo al consenso dell’interessato. Tornando al presente, si deve sperare che non si avvii una spirale «compensativa», un bilanciamento affidato a candidature cattoliche. Se così fosse, il Pd diverrebbe prigioniero di una schizofrenia paralizzante, la stessa che nella passata legislatura ha impedito ai disegni 27 di legge sul testamento biologico e sulle unioni di fatto di arrivare in aula. E, poiché è tempo di programmi e di promesse e Veltroni ha parlato della immediata presentazione in Parlamento di una serie di proposte se vincerà il suo partito, si può chiedere un altro impegno. Qualora il Pd non raggiunga la maggioranza, presenti lo stesso le sue proposte e usi gli spazi e i tempi riservati alle opposizioni dai regolamenti parlamentari per chiederne la discussione e sollecitarne il voto. Certo, in questo modo si corre il rischio della bocciatura. Ma sarebbe peggiore il silenzio, e il rifiuto di chiedere il consenso sociale, di promuovere in concreto la cultura dei diritti. Vi sono comportamenti «impolitici» che sono il miglior antidoto all’antipolitica. 722 - LE RELIGIONI, LA FRATELLANZA E IL TOTALITARISMO - ULRICH BECK Da: la Repubblica di venerdì 29 febbraio 2008 L’umanità della religione reca in sé una tentazione totalitaria. L’universalismo della religione genera la fratellanza al di là della classe e della nazione, ma anche l’ostilità mortale. Così come può civilizzare gli uomini, Dio può anche barbarizzarli. Prima tesi. La religione presuppone un valore assoluto: la fede - tutte le differenze e i contrasti sociali sono subordinati ad essa e irrilevanti. il Nuovo Testamento dice: «Davanti a Dio tutti sono uguali». Questa uguaglianza, questa cancellazione dei confini che separano le persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane). Ne consegue però che, con la medesima assolutezza con la quale sono superate le differenze sociali e politiche, viene istituita una nuova distinzione fondamentale e una nuova gerarchia: quella tra fedeli e infedeli, dove agli infedeli viene negato (in base alla logica di questo dualismo) lo status di persona. Le religioni possono gettare ponti tra gli uomini là dove esistono gerarchie e confini; nello stesso tempo, scavano nuovi abissi religiosi tra gli uomini, là dove prima non ne esistevano. L’universalismo umanitario dei credenti si basa sull’identificazione con Dio e sulla demonizzazione del Dio che gli si oppone, quello dei «servi di Satana», per usare l’espressione di San Paolo e di Lutero. Il germe della violenza che si richiama a motivazioni religiose è radicato nell’universalismo dell’uguaglianza dei credenti, che toglie a chi non ha una fede o ha una fede diversa ciò che promette al credente: la dignità umana in un mondo di estranei. Gli dei unici e le loro verità eterne creano le categorie, odiose e gravide di violenza, del nonuomo o del sottouomo - «eretico», «pagano», «superstizioso», «idolatra», ecc. Il «male» rappresentato da questi «figli delle tenebre» si riferisce ad azioni e pensieri al di là di qualsiasi immaginazione, di qualsiasi giustificazione, di qualsiasi possibilità di difesa. Questo fa temere che, come rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione, incomba una nuova era di oscurantismo. I ministeri della Salute avvertono: la religione può uccidere. La storia della colonizzazione è un esempio evidente di come la categoria dell’infedele, che deve essere convertito per la salvezza della sua anima, sia servita a «legittimare» inimmaginabili violenze e crudeltà. Lo confermano con aperta brutalità le parole di Cristoforo Colombo, per il quale la diffusione della fede «e la riduzione in schiavitù degli infedeli sono strettamente legate tra loro». La demonizzazione religiosa dell’«altro» è efficacemente illustrata anche dalla «guerra dei matrimoni misti» tra cristiani cattolici e protestanti, infuriata nel XIX e nel XX secolo e tuttora in corso. Questo fondamentalismo confessionale, che non vuole vedere e riconoscere nell’«infedele» l’altro cristiano, incontra un rifiuto sempre più deciso proprio da parte dei fedeli praticanti. Qui, come riferisce Hans Joas, è avvenuta un’inversione dell’onere della prova riguardo alla cooperazione ecumenica: «A dover essere giustificata è sempre più la sua mancanza, non la sua presenza». Seconda tesi. Già solo la domanda: Cos’è la religione? Rivela un riflesso eurocentrico. Infatti, la religione è intesa come sostantivo, e questo sottintende un insieme ben definito di 28 simboli e pratiche che costituiscono un aut-aut: vi si può credere o non credere e, se si appartiene a una comunità di fede, non si può appartenere nello stesso tempo a un’altra. In questo senso è opportuno e necessario tracciare una distinzione tra «religione» e «religioso», tra la religione come sostantivo e come aggettivo. Il sostantivo «religione» ordina il campo religioso in base alla logica dell’aut-aut. L’aggettivo «religioso», invece, lo ordina in base alla logica del «sia ... sìa». L’essere religioso non dipende dall’appartenenza a uno specifico gruppo o a una specifica organizzazione; piuttosto, definisce un determinato atteggiamento nei confronti delle domande esistenziali che riguardano la posizione e l’autocomprensione dell’uomo nel mondo. Forse, allora, l’ambiguità tra amore per il prossimo e inimicizia mortale deve essere riferita non tanto al «religioso», quanto piuttosto alla «religione». Questo aut-aut monoteistico, gravido di violenza, può essere relativizzato, aggirato, attenuato da una tolleranza sincretistica del «sia... sia»? L’autorità di principio della fede rianimata è l’Io sovrano, che si costruisce un «Dio tutto suo». Ciò che cosi si delinea non è la fine della religione, ma la rinascita di una nuova anarchia della fede soggettiva, che travalica tutti i confini di religione e si adatta sempre meno alle strutture dogmatiche approntate dalle religioni istituzionalizzate. L’unità di religione e religioso viene meno. Anzi, religione e religioso entrano in contrasto. Nelle società occidentali, che hanno interiorizzato il principio dell’autonomia dell’individuo, la singola persona si crea, in un’indipendenza sempre più ampia, quelle piccole narrazioni di fede - il «Dio tutto suo» - che si adatta alla «propria» vita e al «proprio» orizzonte di esperienza. Questo «Dio tutto suo» non è più il Dio unico che prescrive la salvezza reclamando per sé la storia e autorizzando all’intolleranza e alla violenza. Stiamo assistendo a un ritorno dal monoteismo della religione al politeismo del religioso sotto il segno del «Dio tutto nostro»? Che questa tolleranza sincretistica non solo si diffonda nello spazio della religiosità svincolata da appartenenze confessionali, ma venga praticata con grande naturalezza anche in forme istituzionali, è un fatto che può essere osservato ad esempio in Giappone. Qui le persone non vedono alcun problema nel frequentare in certi periodi dell’anno un tempio shintoista, nel celebrare il matrimonio con una cerimonia cristiana e nell’essere sepolti da un monaco buddista. Il sociologo della religione Peter L. Beger cita il filosofo giapponese Nakamura, che riassume così la questione: «L’Occidente è responsabile di due errori fondamentali. Il primo è il monoteismo - “c’è un solo Dio?” -; l’altro è il principio aristotelico di non contraddizione - “qualcosa è A o non-A?”. Qualsiasi persona intelligente in Asia sa che ci sono molti dei e che le cose possono essere sia A che non-A». Terza tesi. Se le religioni hanno superato frontiere territoriali e nazionali che sembravano invalicabili e hanno poi scavato nuovi abissi tra credenti e non credenti, qual è la novità, allora? Lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione e la vicinanza universale da esse consentita porta al contatto e alla compenetrazione delle religioni mondiali, provocando un clash of universalisms, cioè uno scontro onnipresente delle verità rivelate e una tendenza alla reciproca demonizzazione dei credenti di altre fedi. Qualsiasi persona, credente o non credente, di qualunque orientamento religioso o non religioso, si vede trasferita contemporaneamente nella patria dei credenti (o degli atei) e nella potenziale condizione exlege dei non credenti (agli occhi di chi appartiene a un’altra religione). Questo trasferimento coatto risveglia e alimenta paure diffuse, che caricano di significati religiosi i contrasti e i conflitti politici, facendoli esplodere violentemente. Clash of universalisms significa che nella vita privata e nei dibattiti pubblici mondiali si impone inevitabilmente un’esigenza di giustificazione e di riflessività, là dove prima predominava la sicurezza circolare in sé stessi. Rifiutare queste esigenze di giustificazione, cioè perseguire con ogni mezzo la riaffermazione dell’indiscutibilità delle certezze di fede 29 divenute problematiche è l’impegno principale dei movimenti fondamentalisti di ogni parte del mondo. Qui emerge una nuova linea di conflitto, forse destinata in futuro ad acquisire una straordinaria importanza, cioè la linea che separa le correnti religiose che danno spazio al dubbio e anzi vedono in esso una possibilità di salvezza della religione da quelle che, per difendersi dal dubbio, si barricano nella costruita «purezza» della loro fede. Il teologo Friedrich Wilhelm Graf constata che «le religioni rigide offrono molto ai consumatori: un’identità forte e stabile, un’interpretazione del mondo e del tempo, resistente alle crisi, strutture familiari ordinate e fitte reti di solidarietà». Nella lotta contro la «dittatura del relativismo» papa Benedetto XVI difende la gerarchia cattolica della verità, che segue la logica dello skat (gioco di carte tedesco, simile alla briscola, ndt): la fede vince sull’intelletto. La fede cristiana vince su tutte le altre fedi (in particolare sull’Islam). La fede cattolica-romana è il fante di fiori che batte tutti gli altri giocatori di skat della fede cristiana. E il papa è l’asso pigliatutto nel mazzo di carte della verità dell’ortodossia cattolica. Quarta tesi. Premesso che la speranza del secolarismo (più modernità avrebbe significato meno religione) si è dimostrata sbagliata, la questione di una convivenza civile tra religioni ostili si pone con rinnovata urgenza. Come è possibile un tipo di tolleranza interreligiosa dove l’amore per il prossimo non significhi inimicizia mortale, cioè un tipo di tolleranza il cui fine non sia la verità, ma la pace? Mahatma Gandhi trasformò la sua esperienza religiosa in politica che cambia il mondo: si tratta di diventare capaci di vedere il mondo, anche il mondo della propria religione, con gli occhi degli altri. Da ragazzo Gandhi era stato in Inghilterra per studiare diritto. Questo soggiorno in uno dei Paesi più importanti dell’Occidente cristiano non lo allontanò dall’induismo, ma anzi glielo fece comprendere meglio e rese più profonda la sua fede. Infatti, fu in Inghilterra che su consiglio di un amico Gandhi iniziò la lettura, per lui illuminante, della Bhagavad Gita - in traduzione inglese. Solo in seguito egli si dedicò allo studio intensivo del testo indù in sanscrito. Dunque, attraverso gli occhi dei suoi amici occidentali era arrivato a scoprire la ricchezza spirituale della propria tradizione indù. Ovunque si discute e si polemizza con foga sul «problema» dell’Islam nell’Europa «secolarizzata». Al di sotto delle battaglie combattute dai guerrieri religiosi di tutto il mondo per la difesa delle frontiere sta acquistando realtà e importanza l’astuzia del plusvalore cooperativo: i gruppi possono essere intolleranti per quanto riguarda la teologia dell’altro, ma possono comunque collaborare creativamente per realizzare obiettivi pubblici e condivisi. I custodi e i difensori a oltranza dei dogmi teologici potrebbero imparare da questa «ragione della doppia religione». Oggi la questione decisiva per la sopravvivenza dell’umanità è fino a che punto la verità può essere sostituita dalla pace. Ma la speranza in un amore del prossimo senza inimicizia mortale non è la speranza più inverosimile, ingenua, folle, assurda che si possa concepire? (Traduzione di Carlo Sandrelli) 723 - INGERENZE E CONDISCENDENZE - MARGHERITA HACK da: “Il papa oscurantista. Contro le donne, contro la scienza” - Micromega - marzo 2008 Papa Ratzinger, anzi l’emerito professor Ratzinger, è proprio l’esatto contrario di quello che fu papa Giovanni XIII, il papa di origine contadina, il papa dell’apertura, il papa padre amorevole. Evidentemente non sempre la cultura accademica serve ad aprire l’intelletto. Anche se il nostro cosiddetto Stato laico è sempre stato anche troppo accondiscendente verso il Vaticano, ora si sta andando oltre ogni limite. I privilegi di cui gode il Vaticano sono stati efficacemente ricordati in un bell’articolo di Flores d’Arcais apparso sull’Unità di qualche settimana fa, dal significativo titolo: «Chiagne e fotte». 30 In questi mesi di regno ratzingeriano sono stati ribaditi i no alle unioni di fatto sia etero che omosessuali (vade retro satana!) e al testamento biologico, sono stati riaffermati la supremazia della fede sulla ricerca scientifica e l’obbligo di accettare una vita comunque sia, perché dono di Dio, anche se questo dono è una continua insopportabile tortura, sono ricominciati, con l’aiuto degli «atei devoti», gli attacchi alla legge 194 fino a definire assassine le donne costrette ad abortire eccetera. Eppure sono dati obiettivi che indicano quanto siano diminuiti gli aborti da che è in vigore la 194. Ma con quale logica la Chiesa combatte l’aborto e, allo stesso tempo, si scaglia con altrettanto accanimento contro tutti i mezzi per evitare il concepimento: no al preservativo, anche se non usarlo significa esporsi al rischio dell’aids, no alla pillola contraccettiva, no a quella del giorno dopo, no a un aborto meno invasivo e traumatico, no a ogni forma di seria educazione sessuale. E ora l’ultima novità: rianimare un feto ancora vitale, anche contro la volontà della madre, per tirar su un povero individuo quasi certamente affetto da gravi problemi fisici e psichici. Quindi no alla ricerca sulle cellule staminali embrionali perché la vita di un embrione (che potrebbe averci già l’anima, anche se mi piacerebbe sapere che cosa sia davvero l’anima) è sacra, ma sì a esperimenti di rianimazione di un povero esserino, trattato come cavia, per donargli una vita da un futuro quanto mai incerto. Quello che offende è vedere quanto poco si rispetti la volontà della donna, che è quella che dovrà affrontare tutte le difficoltà connesse con la nascita di un figlio non voluto, per il quale non si sente preparata psicologicamente o per problemi economici legati al proprio lavoro, e come pontifichino sulle sue decisioni uomini che non hanno nessuna conoscenza o esperienza dei problemi che una donna che decide di abortire affronta. Come se non bastassero le polemiche sulla 194 e sulla ricerca sulle cellule staminali embrionali, sulle assurdità della legge 40 (su cui è opportunamente intervenuta la magistratura), c’è stata tutta una montatura sull’episodio dell’Università La Sapienza. Come ormai sanno anche i sassi, il rettore, senza nemmeno aspettare il parere del senato accademico, aveva invitato papa Ratzinger all’inaugurazione dell’anno accademico, addirittura a tenere la lezione magistrale. Molti docenti hanno ritenuto inopportuno questo invito e, come è loro diritto, hanno espresso il loro dissenso. È bastato questo perché si parlasse di pericoli di contestazione al papa, della necessità di mobilitare la polizia in sua difesa. Ora: un professore che tiene una lezione deve essere disposto ad accettare confronti, discussioni e contestazioni. E invece tutta la faccenda è stata gonfiata come se il papa corresse seri pericoli e fosse infine stato costretto a rinunciare alla cerimonia di apertura dell’anno accademico. Dovrebbe invece essere ben chiaro che il papa ha deciso liberamente di non partecipare, come liberamente i docenti e gli studenti che ritenevano inopportuno l’invito del rettore hanno espresso il loro parere, come si usa in ogni democrazia, che non c’è stata alcuna minaccia, ma solo l’espressione dell’opinione che l’inaugurazione dell’anno accademico dovrebbe essere l’occasione per fare un bilancio delle attività scientifiche e didattiche dell’università e che sarebbe meglio evitare inviti chiaramente di parte, soprattutto a persona che più volte ha ribadito la supremazia della fede sulla scienza, e di conseguenza anche il «giusto processo» subito da Galileo. La storia si ripete, oramai nessuno dubita che sia la Terra a girare attorno al Sole e non viceversa, ma rimane questione di fede che l’embrione abbia l’anima e perciò si vietano ricerche che potrebbero portare a straordinari progressi nella cura di malattie a tutt’oggi inguaribili. I 67 della Sapienza non saranno processati. Ma hanno avuto severe critiche da laici e credenti, da politici di destra e di sinistra per avere semplicemente esercitato un loro sacrosanto diritto. 724 - PRESENTAZIONE A BOLOGNA DEL LIBRO “NON SONO UN ASSASSINO” 31 Venerdì 14 marzo, alle ore 17:00, presso la sede dell’Istituto storico Parri dell’EmiliaRomagna in Bologna, Via Sant’Isaia 20 (tel. 051.3397211), si terrà un incontro su: “Bioetica e problematiche di fine vita: tra testamento biologico e diritto all’eutanasia. Il caso francese, il caso italiano”. Sono previsti interventi di: Giancarla Codrignani (istituto Parri), Mario Riccio (medico specialista in anestesia e rianimazione), Paolo Vegetti (direttivo nazionale di LiberaUscita), Christiane Krzyzyk (traduttrice del libro “Je ne suis pas un assassin”), Angelo Marchesini (consigliere comunale di Bologna), Rino Tripodi (direttore di LucidaMente). Nel corso dell’incontro, sarà presentato per la prima volta a Bologna il libro “Non sono un assassino” - Il caso Welby-Riccio francese. Come scrive nella prefazione all’edizione italiana Mario Riccio, il medico che ha assistito Piergiorgio Welby nella fase terminale della sua vita e che è stato protagonista – anche sul piano giudiziario – di una vicenda praticamente analoga a quella del medico francese Frédéric Chaussoy, autore del libro, «è un testo forte, crudo, diretto. Non si perde intorno al problema ma lo affronta direttamente. Così come non poteva non fare un medico dell’emergenza». Un libro che va alle radici del difficile dibattito sulle ragioni della vita e della morte. “Non sono un assassino” - Il caso Welby-Riccio francese - Di Frédéric Chaussoy, scritto con la collaborazione di Valérie Péronnet, prefazione di Mario Riccio, introduzione di Giancarlo Fornari, traduzione dal francese di Christiane Krzyzyk. Edizione italiana a cura di LiberaUscita, associazione nazionale laica e apartitica per la legalizzazione del testamento biologico e la depenalizzazione dell’eutanasia. inEdition editrice, collane di Lucidamente, pagine 176 - € 10,00. 725 - “NON SONO UN ASSASSINO” – RECENSIONE DI GIUSEPPE LICANDRO da: www.bottegascriptamanent.it - anno II, n. 7, marzo 2008 Luca Coscioni, Giovanni Nuvoli e Piergiorgio Welby sono stati, in Italia, i casi più eclatanti di persone inferme che hanno chiesto ai loro medici di interrompere un’esistenza ormai gravosa. Pur rendendoci conto che il tema dell’eutanasia è molto delicato e ferisce i sentimenti e le convinzioni etico-religiose di tante persone, ci domandiamo come si possano biasimare i tetraplegici che chiedono espressamente di porre fine ai loro tormenti esistenziali o i malati terminali che rifiutano inutili terapie, spesso consistenti in trattamenti medici coatti e dolorosi, che finiscono solo per prolungarne l’agonia. Nel 2004 Frédéric Chaussoy, medico responsabile del servizio di rianimazione dell’Ospedale eliomarino di Berck-sur-Mer, ha pubblicato lo scritto Je ne suis pas un assasin (Oh! editions), nel quale racconta il tragico caso di Vincent Humbert, un giovane pompiere francese di diciannove anni che il 24 settembre 2000 fu coinvolto in un grave incidente stradale. Ricoverato presso l’Unità dei risvegli dell’Ospedale eliomarino di Berck-sur-Mer, Humbert, dopo nove mesi di coma, si ridestò in condizioni disastrose: tetraplegico, muto e quasi cieco. Qualche tempo dopo iniziò a muovere il pollice destro, per mezzo del quale riuscì a comunicare con la madre Marie e a rivolgere all’allora presidente della Repubblica, Jacques Chirac, un appello che fu diffuso dalla stampa ed emozionò la Francia intera. In questa supplica Humbert chiese di poter esercitare “il diritto di morire”, ma la sua preghiera rimase inascoltata per tre anni, finché la madre non tentò di esaudire il suo desiderio, somministrandogli una forte dose di barbiturici. Trasferito d’urgenza presso il reparto di rianimazione, il giovane ottenne, infine, grazie all’intervento del dottor Chaussoy, quanto aveva lungamente richiesto. Je ne suis pas un assasin – che ha avuto in Francia un gran successo editoriale, vendendo ben 100.000 copie – è stato ora tradotto in italiano col titolo Non sono un assassino. Il “caso Welby-Riccio” francese (Prefazione di Mario Riccio e Introduzione di Giancarlo Fornari, 32 Edizioni di LucidaMente/inEdition editrice, pp. 176, € 10,00), a cura dell’Associazione “LiberaUscita”, che si batte per legalizzare il testamento biologico e depenalizzare l’eutanasia, e con la collaborazione di Valérie Péronnet. Nella Prefazione Mario Riccio – l’anestesista che ha aiutato Piergiorgio Welby nella fase terminale della sua vita e che è stato protagonista in Italia di una storia molto simile a quella di Chaussoy – così presenta il libro: «È un testo forte, crudo, diretto. Non si perde intorno al problema ma lo affronta direttamente. Così come non poteva non fare un medico dell’emergenza». Un’appassionata autodifesa Non sono un assassino è l’appassionata autodifesa di colui che ha permesso a Humbert di porre fine ai suoi insensati tormenti. Chaussoy narra tutta la sua vita e redige una sorta di diario, in cui ci fa capire come sia maturata in lui la decisione di aiutare Vincent a morire, alternando il racconto dell’affaire Humbert con brevi excursus sulla propria professione medica e su vicende personali. L’autore, tra l’altro, ci informa, di un particolare molto importante: in un primo tempo, ha provveduto a rianimare il giovane pompiere il 24 settembre 2003, lo stesso giorno in cui la madre gli ha somministrato i sonniferi. Due giorni dopo, essendosi nel frattempo interrogato a lungo sulla legittimità dell’eutanasia, decide di confrontarsi con l’èquipe medica del suo reparto per stabilire come procedere: Humbert, infatti, ha subito danni celebrali seri, non ha più ripreso conoscenza e sopravvive ormai tramite un respiratore meccanico. I colleghi convengono con lui sull’opportunità di «interrompere le terapie attive», cioè di non proseguire più il trattamento per mantenere in vita artificialmente il ragazzo. Chaussoy, a questo punto, compie un gesto coraggioso, senza pensare alle possibili conseguenze legali: stacca la spina del respiratore che tiene artatamente in vita Humbert e gli somministra due dosi di un neurosedativo, che ne accelerano la morte (altrimenti il paziente, senza più ossigeno, sarebbe morto lentamente per asfissia, dopo un’atroce agonia). L’accusa di omicidio e l’assoluzione Tutti gli atti compiuti da Chaussoy testimoniano la sua serietà professionale e la sua scrupolosità: infatti, egli avrebbe potuto liberarsi subito da ogni impiccio, lasciando che Vincent, giunto nel suo reparto già in coma, morisse avvelenato dai barbiturici. Il suo primo impulso, però, è stato quello di rianimarlo, operando secondo l’usuale prassi deontologica; solo in un secondo momento ha deciso di comportarsi diversamente, assumendosi fino in fondo le responsabilità della propria scelta. La notizia del decesso di Humbert rimbalza subito sui mass-media. E uno zelante giudice istruttore incrimina per omicidio Chaussoy, dopo aver ricevuto il verbale di un lungo interrogatorio cui è stato sottoposto dalla polizia locale. Il dottore ha raccontato con lealtà l’andamento dei fatti, ammettendo di aver sedato il paziente dopo avergli sospeso la “terapia attiva”. La sua sincerità gli costa una grave imputazione, che rischia di rovinare la sua vita e quella dei suoi familiari (Chaussoy ha ben cinque figli da mantenere!). Il medico di Berck-sur-Mer diventa, suo malgrado, famoso e migliaia di attestati di stima e di solidarietà gli giungono da vari colleghi, ma anche da tanti altri cittadini. L’indagine si protrarrà per un paio di anni, concludendosi nel 2006 con la piena assoluzione di Chaussoy e della madre di Humbert, perché, secondo il giudice, hanno agito in base a ragioni di alto valore umanitario e «sotto l’influenza di una costrizione che esonera gli imputati da qualsiasi responsabilità penale». L’“imprudenza” di Chaussoy Una frase del libro riassume pienamente la filosofia che sta dietro la scelta di Chaussoy: «Dobbiamo sapere anche fermarci nella lotta contro la morte, con dolcezza e rispetto, 33 quando si è provato troppo a prolungare la vita, e questa diventa indegna». Non sarebbe stato, dunque, un atto di violenza, bensì d’amore quello eseguito dal medico francese. Bisogna, infatti, essere altamente altruisti per trovare la forza di compiere un gesto umanitario che potrebbe comportare dure sanzioni penali. Chaussoy ci fornisce, altresì, un significativo ragguaglio su ciò che spesso avviene, di nascosto, nei reparti di rianimazione degli ospedali: «La gente che muore nei reparti di rianimazione, superattrezzati di macchine per la vita, muore perché a un certo momento è stata presa la decisione di non utilizzare più queste macchine per mantenerla in vita». La cosiddetta “eutanasia passiva” – che consiste semplicemente nell’interrompere ogni cura per le malattie gravissime e irreversibili – è spesso praticata in silenzio, talvolta accompagnandola “attivamente” con iniezioni di anestetici che servono ad alleviare le sofferenze dei degenti e ne affrettano l’inevitabile decesso. L’“imprudenza” del dottor Chaussoy, quindi, è consistita proprio nell’aver detto la verità: se avesse omesso i particolari e si fosse limitato a parlare di «sopraggiunte complicazioni», non sarebbe stato coinvolto nell’inchiesta sulla morte del giovane pompiere. Sull’onda del dibattito fra “colpevolisti” e “innocentisti” suscitato dal “caso Humbert” (che ricorda in certo qual modo l’affaire Dreyfus di fine Ottocento), è stata poi approvata dal parlamento francese una legge che prevede la possibilità per i medici di interrompere le cure dei malati terminali, ma che non contempla, tuttavia, il ricorso ad alcuna forma di “morte dolce”. Eutanasia e testamento biologico Nelle Appendici del libro sono riportati, oltre a una serie di utili informazioni sull’Associazione “LiberaUscita”, anche la proposta di legge per la depenalizzazione dell’eutanasia e il disegno di legge per la legalizzazione del testamento biologico (i due testi sono stati già presentati in Parlamento nel corso della corrente legislatura). Senza entrare nel merito delle due proposte di legge ancora da discutere, vorremmo comunque fornire ai lettori alcuni chiarimenti in merito agli argomenti che vi vengono trattati. L’articolo 32 della Costituzione italiana dispone che: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Un’interpretazione corretta di tale articolo dovrebbe comportare che ogni malato, purché sia nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, possa rifiutare le terapie che gli vengono prescritte, anche a costo di morire. Il disegno di legge sul testamento biologico recepisce questa norma, permettendo a ciascuno di esprimere per iscritto – come spiega Giancarlo Fornari nell’Introduzione del libro – «il proprio consenso o dissenso nei confronti di determinate cure, esercitando così il diritto concesso a tutti i cittadini dalla nostra Costituzione». L’eutanasia, invece, consiste – usando sempre le parole di Fornari – nel «procurare, in casi prestabiliti e con tutte le necessarie garanzie, la morte di una persona, pienamente capace di intendere e di volere, che la richiede». Quindi, le due questioni vanno ben distinte e opportunamente valutate. Ci rendiamo conto che l’eutanasia è una pratica discutibile e assolutamente non generalizzabile. Ma questo non significa che, in talune situazioni di malattia e infermità particolarmente gravi e su esplicita richiesta dell’interessato, non possa essere quantomeno depenalizzata. Ci pare, viceversa, certamente auspicabile l’approvazione del “testamento biologico”, cioè di una legge che consenta ai cittadini, tra l’altro, di decidere per tempo se accettare o meno il trattamento medico coatto nel caso in cui incorrano in gravissime patologie o in traumi estremamente invalidanti (impedendo così il cosiddetto “accanimento terapeutico”, che in realtà è solo “accanimento” contro una persona indifesa, perché di “terapeutico” non ha un bel niente!). Sarebbe molto più intelligente, in alternativa, ricorrere per i malati terminali alle 34 “cure palliative”, ossia alla somministrazione controllata di farmaci antidolorifici e anestetici, presso appositi reparti ospedalieri o in cliniche specializzate. In conclusione, vorremmo citare un altro brano del bel libro di Chaussoy: « Al centro di ogni decisione deve essere l’interesse del malato, e di lui solo». Condividiamo pienamente questo punto di vista, perché siamo convinti che la medicina debba mirare a guarire gli infermi e a lenire il loro dolore senza porsi l’assurdo obiettivo di prolungare all’infinito la vita tramite opinabili artifici terapeutici, che forse servono solo a favorire i guadagni di gente senza scrupoli. 726 - LETTERE DAI SOCI Da: Margherita Fornari - [email protected] Data: Wed, 27 Feb 2008 11:28:52 Carissimo Giampietro, desidero informarti in merito all'interessante convegno organizzato dalla Parrocchia dei paesi di Medolla-Villafranca in provincia di Modena sul delicatissimo tema che interessa il faticoso confronto fra cattolici e laici riguardante il "Testamento di fine vita", oggetto: "L'alleanza terapeutica medico-malato: utopia o realtà?". Il pubblico numerosissimo, ha suscitato immediatamente la mia sorpresa, non avrei mai immaginato che in un minuscolo paesino come Medolla un argomento, che so venire affrontato con difficoltà dalla gente comune, riscuotesse un così vasto riscontro. La nostra presidente Maria Laura Cattinari, mi ha incaricato di rappresentare "LiberaUscita" in quanto impossibilitata a partecipare. Fin da subito, mi sono resa conto di trovarmi in una "fossa di leoni" poiché l'auditorio era composto, per la maqgior parte, da cattolici praticanti, mi sono comunque disposta ad ascoltare serenamente e senza prevenzione alcuna, la dotta e documentatissima esposizione del Prof. Melazzini che penso, si sappia essere affetto da una delle più terribili malattie che, attualmente, non consentono nessuna speranza di vita: la SLA ovvero sindrome laterale amniotrofica. Il Prof. Melazzini è un'insigne clinico: primario oncologo presso un grande ospedale del nord Italia ed è attivissimo nella battaglia contro l'eutanasia ed anche il testamento di fine vita, essendo un cattolico (detto da egli stesso) integralista, ha affermato di amare la vita sopra ogni altra cosa e che mai e poi mai, penserebbe di interromperla, avendo deciso di prolungarla con ogni mezzo che la scienza gli potrà mettere a disposizione. Ha proseguito esponendo le sue teorie di possibilità di prolungare la vita ad ogni malato in condizioni di vita irreversibili, stabilendo una alleanza fra medico e malato (non vuol usare il vocabolo paziente poiché lo ritiene umiliante) in maniera tale per cui il malato stesso diviene artefice del suo "benessere" acquisendo una indiscutibile voglia di vivere. Da quanto sopra esposto si può dedurre quanto la sua esposizione, sia verbale che fotografica, sia stata mirata a convincere i presenti circa l'assoluta necessità di prolungare la vita fino all'inverosimile. Non mi sono stupita che per rafforzare i suoi convincimenti, la conferenza fosse punteggiata, sovente, da frasi e scritti di papa Benedetto XVI che proiettava sul vidiwall. Ha proiettato, infine, un elenco lunghissimo inerente la bibliografia esistente che dovrebbe servire a divulgare ancor più ed ancor meglio le sue convinzioni. In coda, poi, ha effettuato la promozione della sua ultima pubblicazione, in ordine di tempo, che si può trovare in tutte le librerie. A quel punto, concessami la parola (unica dissenziente), ho effettuato il mio intervento incentrandolo sulle possibilità (se si abbiano delle convinzioni cattoliche) di poter esercitare il libero arbitrio o (se si abbiano delle convinzioni laiche) di poter disporre della propria vita/morte, perseguendo sempre e indiscutibilmente le regole che uno Stato laico detta e 35 che non devono né possono essere limitate o prevaricate da credi di qualsivoglia carattere religioso. Ho proseguito poi, affermando che, pur essendo vicina e comprendendo il tipo di battaglia che il prof. Melazzini persegue, osservata poi da un punto di vista così drammatico, doloroso ed umanamente difficilissimo, non avrei mai potuto condividerla poiché il mio approccio riguardante le tematiche afferenti la laicità, o come si usa dire attualmente con una locuzione lievemente ipocrita (a mio dire) e brutta: "eticamente sensibili", parte dal presupposto, non negoziabile (pur essendo io credente), che la libertà individuale è sacra più di ogni convincimento di qualunque carattere esso sia, ed inoltre il professore agisce e svolge la sua opera da un osservatorio privilegiato e di conseguenza il suo approccio logistico e culturale, nei confronti della malattia, gli consente di viverla in modo più consapevole e dignitoso rispetto a situazioni che ben si conoscono ma che da alcuni settori della società (politici e non) non vogliono essere condivise pur di affermare logiche di supremazia e/o convenienza. L'alleanza terapeutica, quindi, fra malato e medico, non solo la ritengo attualmente utopistica ma soprattutto retorica poiché inapplicabile vista l'organizzazione sanitaria del nostro paese: non solo il personale medico non è pronto per affrontare situazioni del genere ma il personale paramedico, al quale non è stato mai consentito di entrare nelle varie stanze dei bottoni, non potrebbe dirimere situazioni tanto delicate se non lo si renderà libero di poter decidere autonomamente (lo si sta di nuovo ricattando e intimorendo con l'obiezione di coscienza!) quando in uno stato di grave e drammatica necessità si trovasse costretto, sempre nell'ambito delle sue competenze, ad assumere decisioni rapide ed improcrastinabili liberamente, senza condizionamenti o vincoli di sorta, e ciò si dovrebbe attuare svincolandolo dalla subalternità che lo lega al medico. Fra l'altro il prof. Melazzini ha lanciato la proposta di poter costituire in Italia una consulta di medici, perchè le sue teorie possano essere attuate. Ho creduto opportuno controbattere che a me sembra che nel nostro paese ce ne siano fin troppe di consulte, commissioni, ..... ma se questa sua proposta si dovesse realizzare, per le ragioni sopra citate dovrebbe, per l'appunto, partecipare anche personale paramedico in maniera tale per cui le equipes che ne derivassero iniziando percorsi specialistici altamente qualificati, potrebbero essere in grado di poter veramente e coscientemente indirizzare i malati verso una sacrosanta, reale scelta libera, senza condizionamenti o vincoli di sorta. Forse così, (desiderio o meglio, sogno) cattolici e laici potrebbero, insieme, iniziare a risolvere un problema di così difficile soluzione, partendo da concetti di libertà imprescindibili. Ho concluso affermando che proprio nella sofferenza, non si può ancor più gravare un malato di problematiche che non lo riguardano perchè retoriche e lontane dal suo mondo e dalle sue convinzioni e che servono ad aggravare il suo dolore, dovendo egli, se cosciente, o la sua famiglia, se privo di coscienza, sopportare imposizioni contrarie alla sua volontà ed al nostro dettato costituzionale. Concludendo posso solo comunicarti che con mia immensa incredulità la platea mi ha tributato un caloroso applauso, spero quindi, che nel trasmettere queste mie considerazioni all'assemblea, possa essere stata in grado di lasciare, se non altro, una discreta impressione di "LiberaUscita". Un fraterno saluto. Margherita Fornari Da: Mina Welby - [email protected] Data: Wed, 27 Feb 2008 19:04:36 Caro Signor Sestini, 36 dopo aver letto la relazione stupenda di Margherita dove riporta la sua esperienza a Medolla-Villafranca voglio riportare quella mia avuta in un incontro dibattito a Firenze dove insieme a me come relatore trovai il pastore valdese Pawel Gajevski. Il titolo dell'incontro fu alquanto sconcertante: Diritto di morire. Come antagonisti trovai il prof. Carlo Casini e il dott. Mario Melazzini. Naturalmente difesero la vita ad oltranza a spada tratta come "bene indisponibile". Il teologo valdese spiegò in modo veramente accessibile alle persone, anche profondamente credenti, che prima della vita il bene e il valore più alto è la persona stessa. Essendo nati come creature libere nella nostra coscienza anche la vita è un valore relativo alle varie situazioni nella nostra esistenza. Spesso può avvenire che ci siano valori più alti da difendere con la nostra stessa vita. Io cercai di sottolineare le escursioni teologicofilosofiche, di Gajevski che spesso si riferiva a Hans Jonas,con la mia esperienza personale e come sia stata capace a conciliare una scelta di fine vita insieme a mio marito con la mia fede di cattolica praticante. Ho detto in modo molto chiaro che prima del medico è il malato stesso a poter dire se degli interventi medici siano o no sproporzionati e di volerne rinunciare e ho citato l'articolo 1278 del catechismo cattolico che recita:"L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire". Ho ribadito che mio marito già due anni prima cominciava a dirmi che sentiva che "tutto è finito". Naturalmente la platea era d'accordo con noi che abbiamo testimoniato per la libertà della persona, della sua coscienza. Metto sempre il punto di forza sulla libertà di scelta sia a favore che contro le terapie, dopo una esatta informazione da parte del medico e che sta lì il dovere del medico di assistere il malato, alleviando il suo trapasso e di non abbandonarlo a sofferenze estreme. Ho avuto in questo anno dopo la morte di Piergiorgio molte richieste per intervenire in convegni sui temi di fine vita e posso dire che sono sempre stata accolta con molta gratitudine. Lascio, come è giusto, sempre la porta aperta verso la libertà della coscienza delle persone. Ho trovato anche sacerdoti che erano assolutamente d'accordo. Basti ricordare la bellissima lettera del Cardinale Martini di un anno fa che è nota a tutti. Ora porto avanti il discorso per una legge sul testamento biologico. Più in là si comincerà a discutere sull'eutanasia. Ora non è il caso. Voglio dire a Margherita che le persone molto spesso provate da gravi sofferenze dei loro congiunti vengono in questi incontri per sentire queste parole di conforto e elaborare anche meglio il loro lutto. Anche questo è un capitolo molto difficile. Per oggi un caro saluto e grazie per avermi fatto partecipe di questa esperienza. Mina Welby Commento. Con piacere riporto il messaggio ricevuto da Mina Welby che, dopo aver letto la testimonianza di Margherita Fornari, ci racconta della sua partecipazione ad un convegno analogo tenuto a Firenze. Come a Medolla, a Firenze era presente l'ineffabile prof. Melazzini, il quale ha tutto il diritto di disporre della sua vita come ritiene meglio, ma non tollera che anche gli altri abbiano lo stesso diritto. A Mina e Margherita il grazie di tutta l'associazione.(gps) Da: Giuliano Degli Esposti Data: Thursday, February 28, 2008 4:31 AM < l'ineffabile prof. Melazzini, il quale ha tutto il diritto di disporre della sua vita come ritiene meglio, ma non tollera che anche gli altri abbiano lo stesso diritto< 37 Ho letto con particolare ammirazione e partecipazione i resoconti delle Sig.re Margherita Fornari e Mina Welby; sono state estremamente brave a sostenere le loro/ns opinioni davanti ad un sì tanto personaggio. Gli argomenti del testamento biologico e dell'eutanasia ritornano prepotentemente in campo assieme ad altri argomenti di carattere specificamente etico soprattutto adesso nella attuale contingenza politica. Stiamo assistendo a sempre più pressanti interventi della chiesa di entrare nel mondo della politica e, visto il periodo che stiamo attraversando, non si limitano più ad un confronto quasi teorico tra ragione e fede, ma siamo arrivati alla richiesta esplicita di leggi in linea con i dettati etici della chiesa cattolica, ad un richiamo ai parlamentari di fede cattolica, vera o bislacca (cfr. Ferrara), a che strutturino un gruppo di centro che sia il riferimento politico istituzionale della chiesa. Questa entrata a "gamba tesa" del trio ratzinger-ruini-bagnasco (ricordate AlbertosiBurgnich-Facchetti?) ha scombussolato l'intera Italia, dai politici ai magistrati ai parlamentari: e allora assistiamo a Veltroni che vagheggia la castrazione chimica per i reati di pedofilia (in questa sede lasciamo perdere gli esempi degli Stati Uniti, della Francia, Danimarca, Svezia, senza dimenticare il vastissimo uso della medesima da parte di delinquenti nazisti nei confronti e dei soliti bersagli: Ebrei, Zingari, Omosessuali e persone definite socialmente pericolose); pochi giorni fa un magistrato ha mandato i carabinieri in una sala parto a sequestrare un feto abortito per sottoporlo ad autopsia. Questa situazione italiana, rende più che mai attuale la questione della laicità dello stato, messa così pesantemente in pericolo dagli interventi cattolici, sia teocons, sia istituzionali. Non può non venirmi in mente una frase di Jacques Le Goff che a proposito della chiesa dice: "un'organizzazione totalitaria al servizio di una religione totalitaria". A proposito di questi argomenti, dalla laicità alle radici cristiane dell'Europa, consiglierei di leggere nel sito www.filosofia.it quattro scritti molto interessanti: Mauro Visentin che risponde ad un articolo sul Corriere di Emanuele Severino; Gianluca Miligi con un suo excursus storico sulle radici europee (molto interessante); una videointervista a Giulio Giorello; uno scritto di Paolo Flores d'Arcais dall'esplicativo titolo: "le tentazioni della fede e la necessità democratica di un illuminismo radicale, egualitario e libertario ( preferibilmente ateo e materialista-forse)". un cordiale saluto. Giuliano Da: Lucia Benini - [email protected] Data: Fri, 29 Feb 2008 17:29:11 Vi prego se potete di dare a Mina Welby tutte le mie più calorose congratulazioni per il messaggio che sta portando avanti in questo particolare momento di "buio medioevo moderno" e anche a voi "lodi" per il grande lavoro che fate! Una vostra associata Lucia Benini Da: Mina Welby - [email protected] Data: sabato 1 marzo 2008 5.43.05 Ringrazio la gentilissima Signora Lucia, sento unicamente di fare un mio sacrosanto dovere. Un caro saluto a tutti Mina Welby 38 727 – LE VIGNETTE DI ELLEKAPPA – RELATIVISMO ETICO 39