Suore Orsoline di Gandino
Sabato 28 dicembre 2013
COMPASSIONE
don Alessandro Dehò
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1. COMPASSIONE, EDUCARE LO SGUARDO
LA PAROLA
Dal Vangelo secondo Luca 10, 25-37
25Ed
ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che
cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella
Legge? Come leggi?».27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo
prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».
29Ma
quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».30Gesù riprese:
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli
portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo
morto.31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide,
passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.33Invece un
Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide
e ne ebbe
compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo
caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno
seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò
che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato
prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto
compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così».
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LE PAROLE DELL’ARTE
Caravaggio, David e Golia, 1609
Roma, Galleria Borghese
L’immagine che ci accompagna in questo primo
tratto di strada è drammatica. Davide tiene in
pugno la testa di Golia, il suo però non è lo
sguardo soddisfatto di chi ha vinto… è uno
sguardo quasi meditativo. A cosa sta pensando
Davide? A chi sta pensando mentre guarda la
testa di Golia? Non lo sappiamo; certo lo
sguardo rimane ben oltre il taglio della spada: la
lama si abbassa, lo sguardo no, la violenza e la
morte si compiono, si abbattono, la riflessione
permane.
Pare che il volto di Golia sia l’autoritratto del
Caravaggio, genio inquieto e in fuga, violento
assassino… con che sguardo spera di essere
guardato una volta vinto? Con che sguardo
spera di incrociarsi una volta giunto al cospetto
del Figlio di Davide?
Davide emerge dal nulla, dalla notte, raccoglie
la luce e trattiene la testa del nemico, perché?
Non si alza così un trofeo, un trofeo si esibisce!
Questa testa, invece, è come in sospensione, è
sollevata per essere guardata.
Lo sguardo è il vero protagonista di questa tela.
E se fosse lo sguardo della compassione?
Guardate gli occhi del gigante (gli occhi del
Caravaggio) e poi gli occhi di Davide.
C’è una vita dentro… dietro… raccontano…
Sarà la conoscenza del testo biblico, ma
l’impressione è che Davide cerchi di assumere
quello sguardo carico di compassione di cui lui
stesso avrà bisogno più avanti. Anche lui
assassino… come Caravaggio.
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IL COMMENTO
DONNE DI COMPASSIONE - DONNE DI SGUARDI DI BELLEZZA
Lo sguardo della compassione
Cominciamo allora dallo sguardo. Come assumere gli occhi del buon samaritano? Come arrivare ad
incidere la vita con la stessa capacità del buon samaritano, che riesce a trasformare il “vedere” in
“compassione”, al contrario degli uomini che lo hanno preceduto che pure “vedono”, ma
rimangono esterni, non com-patiscono: non assumono la fragilità del fratello?
Molto tempo fa mi è capitato di leggere un bel libretto di Xavier Lacroix, un filosofo francese, “Il
corpo e lo Spirito”, edito dalla Qiqajon. Questo, tra le prime pagine, riporta una specie di piccola
educazione dello sguardo, pagine molto semplici eppure molto efficaci; le ho utilizzate molto negli
anni. La ripropongo quest’oggi, a dialogare con il Caravaggio, a dialogare con il buon samaritano
che “vide e…” amò. A dialogare, spero, con ciascuno di noi, chiamati a imparare l’arte dello
sguardo. L’impressione, leggendo il brano di Vangelo, è infatti che il samaritano NON sia più
“buono” (cosa significhi poi è tutto da vedere…) rispetto a chi l’ha preceduto, ma che lui sappia
vedere qualcosa che i primi non vedono. Cosa ha visto il samaritano? Questa è la vera domanda.
Cosa ha visto in quel quasi cadavere lasciato ai bordi della strada? Cosa ha visto che gli altri non
sono riusciti a vedere? Scusate se insisto su questo punto, ma credo che molto della nostra capacità
di compassione si giochi qui. COSA E COME GUARDIAMO IL MONDO? Con quali categorie
rileggiamo quello che noi chiamiamo “il reale”? Perché, se non ho occhi capaci di vedere, io avrò
sempre mille scuse per “passare oltre”. E scommetto che il sacerdote e il levita, una volta giunti a
casa, disfatti i bagagli, si saranno concessi un meritato riposo senza aver il minimo sentore di aver
fatto “qualcosa di sbagliato”, anzi… Se non sistemiamo lo sguardo tante parole ci arrivano e,
invece di scuoterci dal torpore, confermano solamente le nostre sicurezze. Non basteranno certo le
mie parole a commento dello schema di Lacroix per cambiare le cose, ma mi interessa individuare
per me e per voi il luogo dove germoglia la compassione: lo sguardo.
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La compassione è uno sguardo
sulla bellezza plastica
Lo sguardo vede e apprezza la bellezza. Quella bellezza
fatta di armonia di forme e volumi. Varia per cultura o
epoca. Non è molto diversa da quella verso un oggetto
d’arte. Si parla di bellezza però è una bellezza
oggettivante. Interessante che sia anche la forma più
variabile nel tempo e nelle culture. Una moda.
Attenzione, è una bellezza “buona”, è bellissimo
riconoscerla, è indispensabile, ma non è sufficiente. Vivere una vita fermandosi a questo livello
significa perdere una ricchezza enorme che abita “oltre”, in profondità. Esempio della bellezza
plastica è l’Antinoo, busto romano del II secolo d.C. conservato a Madrid nel Museo del Prado. E’
davvero il primo minimo passo, però… un cammino inizia con il primo passo. Amare le cose belle è
già un bel passo! Non aver paura di “ammirare”, senza dover per forza giustificare. Una bellezza
gratuita, libera, in-utile, un tentativo magari anche di svecchiare i canoni di “bello” che la chiesa
ostinatamente continua a portare avanti… (i fiori delle nostre chiese non sono quasi mai belli, le
immagini, i cartelloni, alcuni paramenti non sono belli, alcuni abiti liturgici non sono belli…) sono in
tema con le vetrine del centro… ma del 1800! Ma chi di noi guarda le vetrine del centro oggi? C’è
uno scollamento tra i canoni di bellezza e “la chiesa” che mi sembra preoccupante… Comunque la
compassione inizia in occhi capaci di riconoscere anche il bello “plastico”, quello fatto di equilibrio e
di forma. Non basta, ma è un inizio.
La compassione è uno sguardo
sulla grazia sensibile dell’espressione
Il secondo passo è la capacità di uno spostamento: spostamento
sul volto dell’altro. Il corpo non è solo manifestazione di una
qualche bellezza, ma è anche espressione. L’espressione non è mai
delle cose, ma è propria del soggetto. Il volto parla di sé, si esprime.
Sono volti attraenti (charme). Il punto importante da valorizzare in
questo secondo passaggio è il riferimento al volto. Già concentrare
attenzione sul volto ci permette di evitare indebite riduzioni (se ci pensiamo, la pornografia è la
riduzione per eccellenza!). Questo secondo passaggio non è, però, senza rischi: in primis quello di
fermarsi qui e selezionare impietosamente le relazioni in base al “fascino”. E’ un passo oltre la
bellezza plastica, però ancora non è sufficiente per conoscere la complessa bellezza dell’uomo!
Immagine della grazia dell’espressione è una litografia di Matisse. Noi impariamo la compassione se
sappiamo leggere le espressioni del volto. Io credo che la comprensione delle espressioni del volto
di certe fratelli e sorelle, che ci vivono accanto da una vita, non le abbiamo ancora imparate. E poi
noi guardiamo il volto di chi ci vive accanto? Fino a quando abbiamo la possibilità di non guardare
negli occhi non è così difficile passare oltre un corpo maltrattato abbandonato ai bordi della strada.
Passare oltre senza sensi di colpa. Pensiamo alle tante parole sprecate e banali o razziste e
terribili… dette senza guardare mai il volto dell’altro.
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La compassione è uno sguardo
sulla bellezza della presenza
Il nostro sguardo non è solo capace di bellezza plastica o di
quella legata all’espressione: il volto che si presenta nei nostri
occhi è un evento: cioè la manifestazione di una presenza. Più di
un volto bello, più di un volto attraente è la stupefacente ed
emozionante esperienza della vita di un soggetto. Noi possiamo
cominciare ad ipotizzare la possibilità della compassione, se
passiamo da questo punto! Sentite la sfida di questo primo
passaggio? Noi continuiamo a parlare di “compassione
evangelica” come se fosse un imperativo morale e, invece, c’è
una sapienza da costruire, c’è uno sguardo da imparare. E
questo passaggio è fondamentale! La manifestazione della presenza è la paradossale
manifestazione di un mistero. Il mio sguardo riesce a scorgere oltre il fascino e trova i tratti di una
storia particolare e unica. E’ un corpo che racconta di una vita! Servono occhi capaci di leggere
l’altro da me con l’attenzione meticolosa dell’amante. Devono emozionarmi le sue rughe e i suoi
capelli bianchi. Deve emozionarmi il racconto di una vita, la sua, dei suoi sogni, delle sue manie, dei
suoi errori e delle sue bellezze… deve emozionarmi sentire che il fratello che entra nel mio sguardo
è un mondo da scoprire. E’ il lavoro da compiere per imparare la vita spirituale, un lavoro di
profondità, una capacità di leggere, una curiosità buona per l’umano. Esempio dell’irradiamento
della presenza può essere l’opera di Rembrandt.
La compassione è uno sguardo sulla bellezza nascosta
“La presenza stessa può diventare velata, difficilmente percepibile o, al
contrario, spaventosa. Ci sono volti sfigurati, frantumati dalla vita,
passati per l’inferno, umiliati, o semplicemente sfavoriti dalla vita, al di
fuori delle nostre norme o misure. Li si può trovare difformi, ripugnanti,
mostruosi, o semplicemente poverini, insignificanti, noiosi. Questo è lo
sguardo abituale, quello che è portato dall’onda delle abitudini sociali e
dei criteri comuni, in cui chi vive solo alla superficie di sé, coglie degli
altri solamente la superficie. Ma ci sono momenti in cui chi è animato da
una qualche vita spirituale potrà percepire la gloria che si dà in quella
miseria. Una gloria segreta, come quella di Dio, alla quale è apparentata
e dalla quale proviene. Gloria di un essere unico, assolutamente unico, a
immagine di un Dio che a sua volta è stato sfigurato e schernito. Irradiamento ancora più misterioso di
quello della presenza e che non può essere percepito, in verità, se non per rivelazione. Rivelazione della
gloria nascosta in ogni persona umana, in coloro la cui miseria è evidente, ma anche, ancora più
nascosta forse, in coloro la cui miseria stessa è come velata, occultata dall’aspetto accattivante e dai
paludamenti della conformità alle norme sociali”. (Xavier Lacroix)
Qui ho citato esattamente un brano del libro del filosofo francese. Capite perché mi sembra
imprescindibile educare lo sguardo per imparare la compassione? Questa è compassione, questo
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vedere la bellezza dove sguardi superficiali non possono riconoscerla.
Ma non è quello che ha fatto Gesù per tutta la sua vita? Non è stato lui a vedere bellezza nello
storpio, santità nella prostituta, fedeltà nel traditore…? Non è questo lo sguardo che andiamo
cercando sulla nostra vita? Non è questa la compassione?
Mentre scrivo queste parole io penso alla bellezza di iniziare la giornata chiedendo al Signore il
dono di uno sguardo come questo.
La gloria nascosta è colta molto bene da Georges Rouault, “Chi non si mette la maschera?”,
Miserere, 1923
La compassione è uno sguardo sulla bellezza trasfigurata
Accade che la gloria segreta diventa sensibile. Ognuno di noi non ha
forse incontrato degli esseri il cui volto appariva come abitato da
una luce interiore, trasformato da questa, raggiante di una vita di
origine sconosciuta? Come quello della Veronica di Georges Rouault.
Nella fede una tale vita è riconosciuta come vita del Padre, del
Risorto o dello Spirito. Mosè e Gesù sono apparsi come tras-figurati,
l’uno al suo popolo, l’altro ai suoi discepoli.
Seppure in modo meno straordinario, ogni cristiano, ogni uomo che
vive dello Spirito è chiamato a questo: “E noi tutti che, a viso
scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore,
veniamo trasfigurati in quella medesima immagine, di gloria in
gloria” (“Cor 3,18).
Si deve riconoscere che questa trasformazione è raramente sensibile. Questa luce può
semplicemente prendere la forma della gioia e della pace che abbiamo potuto veder irradiare dal
volto di un anziano monaco, di un uomo di preghiera, di una persona interamente votata a Dio e agli
altri.
Come è lo sguardo di un uomo capace di compassione? Trasfigurato.
Mi ha sempre incuriosito che questo piccolo itinerario dello sguardo alla fine compisse una specie di
rotazione. Erano occhi che vedevano la bellezza dell’altro e poi, ad un tratto, nell’ultimo tratto, ecco
che l’autore descrive gli occhi di chi guarda. Non credo sia un errore, ma un messaggio. Questa
educazione alla compassione, questo sguardo di profondità e di bellezza alla fine cambia gli occhi di
chi guarda, cambia i nostri occhi.
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2. COMPASSIONE, EDUCARE I GESTI
LE PAROLE DELL’ARTE
Jas Vermeer, Lattaia, 1659
Amsterdam,Rijksmuseum
LA PAROLA
Dal Vangelo secondo Matteo 15
32Allora
Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e disse: "Sento
compassione per la folla. Ormai da tre giorni stanno con me e
non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché
non vengano meno lungo il cammino". 33E i discepoli gli dissero:
"Come possiamo trovare in un deserto tanti pani da sfamare una
folla così grande?". 34Gesù domandò loro: "Quanti
pani
avete?". Dissero: "Sette, e pochi pesciolini". 35Dopo aver ordinato
alla folla di sedersi per terra, 36prese i sette pani e i pesci, rese
grazie, li spezzò e li dava ai discepoli, e i discepoli alla
folla.
37Tutti
mangiarono a sazietà. Portarono via i pezzi avanzati:
sette sporte piene. 38Quelli che avevano mangiato erano
quattromila uomini, senza contare le donne e i bambini.
39Congedata
la folla, Gesù salì sulla barca e andò nella regione di
Magadàn.
La bellezza che traspare dai gesti
trasfigura la realtà. La meravigliosa
donna del dipinto riesce, con pochi
gesti, a permettere alla bellezza di
venire alla luce. Perché il contesto è
misero, perché il muro è sporco, perché
ci sono chiodi abbandonati a sostenere
solo il ricordo di antichi splendori,
perché non c’è cura nella stanza, la cura
è portata da lei, dalla lattaia. E’ portata
dai suoi gesti semplici e solenni. Il
Vangelo, che abbiamo letto, parla di
gesti semplici e solenni, una liturgia che
permette alla vita di emergere in un
contesto di profonda povertà.
La lattaia è una domestica, una donna
“di servizio”, ma un servizio assunto con
la dignità di una regina e lei… diventa
regale. Guardo quella donna e credo che
la compassione sia una liturgia di gesti
capaci di cambiare chi li compie. Ancora
il buon samaritano e la sua solenne
presa in carico del fratello pare
confermare questa ipotesi.
Penso alle nostre liturgie, penso a come
potrebbero operare in noi cambiandoci.
Penso alla ripetitività dei gesti e come
un gesto ripetuto possa diventare
banale oppure sacro. Forse
compassione è rendere sacra la
quotidianità. Rendere luminoso il corpo,
rendere luminose le cose, rendere
luminosa persino la povertà.
Dell’opera quello che mi emoziona di
più è la finestra, e della finestra
quell’angolo senza vetro che lascia
passare luce pulita e vento fresco. Che
bello se riuscissimo a infrangere anche
solo un angolo dei vetri dietro cui ci
ripariamo...
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IL COMMENTO
DONNE DI COMPASSIONE - DONNE DI LITURGIA
La compassione è la liturgia che ri(significa) i gesti
Come con lo sguardo che, imparando a scendere in profondità, dischiude la nostra capacità di provare
compassione, così i nostri gesti possono educarci alla capacità di “patire-con” il fratello. In modo
particolare credo che dovremmo avvicinarci alla liturgia anche con questo intento: gesti che educano
al dono di sé e, quindi, alla compassione. Gesti significativi, gesti che segnano, dicono, rimandano…
gesti che parlano. In fondo il buon samaritano è uomo liturgico quando lascia che lo sguardo prenda
corpo. E Gesù, per dare vita alla compassione, solennizza l’arte del condividere con gesti che, pur
mantenendo la loro umiltà, narrano l’eternità.
La compassione è la liturgia come luogo di silenzio
Innanzitutto credo che la liturgia della compassione abbia bisogno di silenzio. Come nell’opera di
Vermeer, la lattaia sembra immersa in un mondo profondamente silenzioso. Il silenzio come
prerogativa della compassione, quel silenzio che si fa ascolto, ascolto del bisogno altrui. Come posso
accorgermi del bisogno del fratello se non creo mai lo spazio affinché il grido (spesso muto) del
fratello possa arrivare a me? Come posso commuovermi per le ferite del fratello se sono sempre pieno
dei miei bisogni, delle mie fatiche, delle mie urgenze?
Un silenzio di cui ho bisogno anche io, per imparare a leggermi, a comprendermi… quando Gesù
“sente compassione”, nel brano che abbiamo appena letto ,ci mostra il profilo di un uomo attento al
bisogno inespresso del fratello. “Sente” che hanno fame, immagina, si accorge. La compassione la
imparo solo creando quel silenzio che mi permette di uscire da me per andare incontro ai bisogni del
fratello. La compassione si impara in una liturgia carica di silenzio. Non si ripete ad ogni celebrazione
eucaristica di essere immersi in quel silenzio in cui Dio “sente compassione” per le mie fami? Ecco che
la liturgia vissuta intensamente diventa scuola per imparare lo stile di Dio. Devo ripartire da quel
silenzio in cui si raccontano, si manifestano le mie fami, da quel silenzio in cui un pane spezzato mi
raggiungerà a darmi ancora cammino.
La compassione è la liturgia che illumina il contesto
Gesù coinvolge, lo sappiamo: “Quanti pani avete?”; se leggiamo questo passaggio nell’ottica della
compassione e della liturgia, ci accorgiamo subito di quanto si preoccupato Gesù di allargare i confini
della compassione: è un’urgenza che il suo sguardo divenga uno stile: cosa posso fare io? E’
un’urgenza che ognuno venga investito della consapevolezza davanti alla fame del fratello. Se penso
alla liturgia credo che sia proprio quello stare insieme seduti negli stessi banchi ad essere già un
educazione alla compassione. Che il nostro agire liturgico perda le derive personalistiche per assumere
quello sguardo che tutti abbraccia, che tutti scusa, che riconosce nell’altro un fratello affamato come
me. Dall’altare sono momenti di pura grazia quelli con cui puoi guardare tutta la comunità e
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semplicemente dire “quanti pane avete?” io pochi, ma li condivido con voi. Io sono quasi niente, ma
posso spezzare con voi una parola che dona senso a tutto quello che facciamo. La compassione si
impara celebrando insieme, lasciando scorrere quella domanda “quanti pane avete?” che può
diventare, davanti al Signore “quanti pani abbiamo?”… “pochi, pochissimi” è l’unica risposta che può
dischiudere alla compassione. Sappiamo confessare la nostra povertà? Sappiamo dilatare la nostra
capacità di com-prensione?
La compassione è la liturgia come amore per la terra
“Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra”, quante interpretazioni per questo che è un vero e
proprio ordine. Ordine di sedersi, di diventare terra sulla terra, fiori di prato, alberi radicati… lo so che
mi prendo libertà dal punto di vista esegetico… mi lascio portare dalla suggestione di una folla che
ritorna terra, che è “costretta” a riprendere i contatti con l’humus, la terra. E penso che la
compassione si impari solo nella capacità di umiltà e di amore per il creato.
Umiltà. Ritorna a essere terra. Torna a sentirti parte di una natura che si stanca, che ha fame, che ha
sete, che ha bisogno di sentirsi amata… torna a essere terra-terra, creatura. Ripeto, esegeticamente
mi prendo una buona dose di libertà, però sono convinto che senza l’umiltà di chi riesce a riconoscersi
fragile mai saremo uomini e donne capaci di compassione. Come posso amare senza schiacciare con il
giudizio un uomo bisognoso, quando io ostento il mio non avere mai bisogno di niente. E di nessuno,
purtroppo. Siamo terra, abbiamo bisogno di essere coltivati, custoditi. Abbiamo bisogno di una
custodia reciproca.
E poi “ama la terra”, ama questo nostro mondo, con gli uomini che la Storia ti pone accanto. Siediti nel
pezzo di mondo che ti è dato, fai casa lì dove ti trovi, non pretendere sempre altri luoghi e altri
compagni di viaggio: non puoi avere compassione per le persone che non scegli di amare. Il buon
samaritano scende e si fa vicino alla terra per cogliere quel fiore in difficoltà lasciato cadere ai margini
della strada.
La compassione è la liturgia della maternità
Prendere, spezzare, dare… non mi soffermo ancora sui gesti eucaristici (già nell’incontro dell’anno
scorso abbiamo dedicato loro molto spazio) solo un accenno però per dire che sono gesti molto
materni… ed è proprio la madre la maestra della compassione. Perché ha messo al mondo. Saremo
capaci di compassione solo recuperando l’atto generativo.
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3. COMPASSIONE, INSEGNARE
LA PAROLA
LE PAROLE DELL’ARTE
Dal Vangelo secondo Marco 6
34Sceso
dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe com-
compassione di loro, perché erano come pecore che non
hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Raffaello, Madonna del cardellino, 1506
Firenze, galleria degli Uffizi
E’ tutto così apparentemente
tranquillo. Gesù e il Battista sembrano
due angeli sorpresi in un delicato
gioco d’infanzia, accarezzano un
cardellino. Maria, perfetta, veglia.
Poi però ti dicono che il cardellino
rimanda a una antica leggenda in cui si
narrava che il volatile avrebbe tentato
di estrarre le spine dal capo di Gesù e
che, in tale pietoso atto, si sarebbe
ferito macchiandosi il capo con il
sangue di Cristo e rimanendone
segnato per sempre. E poi il Battista è
già vestito da grande e la mano di
Maria è aperta sulla Scrittura… tutto
parla di quello che sarà.
E come i giochi dell’infanzia non sono
altro che prove a rischio contenuto di
quello che sarà il grande spietato
gioco della vita, così quest’opera è il
momento che anticipa ciò che sarà. In
questo anticipo la compassione è tutta
di Maria, che tenta di insegnare le
regole del gioco. E’ il compito di
educare, altra faccia della
compassione. Dove per educare non
intendo chiaramente riferirmi solo a
chi risponde a un compito di
insegnamento scolastico, ma penso a
tutti noi, chiamati a educare l’uomo a
diventare uomo. A partire da una
umanizzazione di noi stessi che
costantemente chiede opera di
educazione.
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IL COMMENTO
DONNE DI COMPASSIONE - DONNE DI INSEGNAMENTO
Insegnare è parola molto bella. Solo chi ha compassione, dice il Vangelo, può aprirsi all’insegnamento.
A segnare un cammino, una strada, una possibilità. Ma credo sia vero anche il contrario, istituendo un
legame di reciprocità: credo che insegnando io impari l’arte della compassione. Ma cosa vuol dire
insegnare? Mi lascio aiutare dall’immagine di Raffaello, la Madonna del cardellino.
La compassione è uno sguardo che insegna dolcemente
Ancora lo sguardo. Uno sguardo dolce. Insegnare è guardare il mondo con dolcezza. La compassione
è possibile solo in occhi che non sono chiusi, non sono giudicanti, non sono inaciditi… ma sullo
sguardo rimando ai gradi di bellezza.
La compassione è una mano che insegna accompagnando
Che belle le mani della Madonna del cardellino! La mano destra contiene e accompagna. Ecco
immagine bellissima della compassione. Io imparo la compassione solo se riesco ad accompagnare
l’altro su strade sicure. C’è crisi di padri e di madri. C’è abbondanza di eterni adolescenti. Una mano
che accompagna, una mano che indica, sostiene, contiene, una mano dolce e forte, sapiente… la
compassione vuole maturità. Vuole persone che sappiano prendersi responsabilità, altrimenti andrò
sempre e solo in ricerca di qualcuno che abbia compassione per me… mi farò sempre compatire,
cercherò mani che mi danno pacche sulle spalle per avvalorare le mie frustrazioni e non sarò mai
capace di mani forti a cui l’altro possa appoggiarsi.
E con la sinistra: il libro. Solo Gesù è la Compassione. Devo innamorarmi del Vangelo. Il mio
insegnamento sia sempre alla luce della Parola. Insegnare la Parola sarà la mia scuola di compassione.
La compassione è un grembo che insegna accogliendo
La compassione è un ventre vergine ma non sterile. Insegnare vuol dire accogliere nel grembo,
generare a nuova vita ragazzi e ragazze che hanno bisogno di essere ri-generati. Ragazzi e ragazze che
non sono carne della mia carne, che non mi appartengono: ecco la verginità senza sterilità. Questo
modo di approcciarsi alla vita insegna la compassione, che è diventare spazio generativo lasciando la
libertà.
La compassione è insegnare il futuro (vocazione)
La compassione è insegnare il futuro. Abbiamo urgente bisogno di una compassione in grado di
aiutare a decifrare la propria vocazione.
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4. COMPASSIONE, ORIZZONTE LUMINOSO
LA PAROLA
Dal Vangelo secondo Luca 15,11-32
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte
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di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane,
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raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo
dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a
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trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò
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nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma
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nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in
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abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo
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e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi
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salariati». Si alzò e tornò da suo padre.
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Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo
baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere
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chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare,
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mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo
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festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E
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cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò
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uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre
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ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare.
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Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai
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disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che
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è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il
vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma
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bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato».
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LE PAROLE DELL’ARTE
Mark Rothko Untitled (Blue, Yellow, Green on
Red), 1954
E infine luce. Solo luce. Un mondo reso
colore, semplicemente e
splendidamente colore. Non serve più
disegnare le forme, non serve limitare,
qui è urgente liberare: illuminare. Non
ci sono corpi, non c’è carne, non c’è
sangue. Forse è solo un sogno, certo
può essere una fuga dalla realtà, ed è,
nel campo della fede, il nostro rischio
costante.
Preferisco credere sia la via della
contemplazione. Quella che non ti fa
fuggire dalla carne e dai corpi ma che ti
fa entrare in ogni carne e in ogni corpo,
e scavare con lo sguardo e con le
lacrime, e scendere con la forza
dell’amore, e oltrepassare le paure fino
a raggiungere la luce. Quella luce che
abita ogni aspetto della storia, ogni
sguardo, ogni corpo, anche il più
martoriato. Anche quello segnato da
fragilità o da peccato. Una luce come
segno di una trasfigurazione: che
significa vedere davvero. Vedere
finalmente. Vedere con gli occhi di Dio.
Una luce che abita anche in noi… una
luce che è urgente liberare. Per
imparare a contemplare, per imparare
a diventare uomini: immagine e
somiglianza di Dio.
Una luce che è urgente dilatare, a
creare contesti e orizzonti capaci di
portare il fratello a ringraziare per la
vita.
Compassione come arte di creare
orizzonti abitabili.
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IL COMMENTO
DONNE DI COMPASSIONE, OFFRONO ORIZZONTI
La compassione è presidiare l’orizzonte
Il padre della parabola presidia l’orizzonte in attesa del ritorno del figlio, e questo è il suo modo di
esercitare la compassione. Perché patisce sicuramente con lui, perché sente la fatica di scelte non
comprese, perché vorrebbe intervenire ma cede allo scandalo della libertà: però presidia un ritorno. A
volte diciamo che lasciamo liberi di scegliere i nostri ragazzi ma la nostra non è altro che una
liberazione perché... non sappiamo più cosa fare. In verità compassione è presidiare l’orizzonte. E’ far
sentire all’altro che il mio orizzonte è vuoto se lui non c’è. Pensiamo a un Dio che presidia l’orizzonte in
attesa del nostro ritorno...
La compassione è inventare un nuovo orizzonte (i contesti)
Compassione è inventare nuovi contesti, contesti che non siano solamente la diretta conseguenza
delle scelte di chi si allontana. Il figlio torna… ma non diventa servo. Il padre inventa un nuovo
legame. Inventa un contesto nuovo in cui il figlio possa finalmente riconoscersi figlio. A me sembra
bellissimo. Compassione è arte di inventare nuove possibilità perché l’altro divenga davvero e
finalmente se stesso. Compassione è fantasia e non rassegnazione.
La compassione è vedere orizzonti luminosi
Io posso essere uomo, donna di compassione, solo se il mio orizzonte è luminoso. Perché dovrei patire
con il fratello se il destino lo immagino nero? La forza di patire con il fratello arriva solo da un forte
credito di Speranza. Io condivido la lotta della vita con te perché sono sicuro che la parola finale sarà
una parola buona ed eterna sulle nostre vite. Senza speranza non può esserci compassione. Chiediamo
al Signore che il Natale porti speranza. E che la speranza ci apra alla compassione.
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Relazione di don Alessandro Dehò