Suore Orsoline di Gandino Sabato 28 dicembre 2013 COMPASSIONE don Alessandro Dehò 1 1. COMPASSIONE, EDUCARE LO SGUARDO LA PAROLA Dal Vangelo secondo Luca 10, 25-37 25Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?».27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». 29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così». 2 LE PAROLE DELL’ARTE Caravaggio, David e Golia, 1609 Roma, Galleria Borghese L’immagine che ci accompagna in questo primo tratto di strada è drammatica. Davide tiene in pugno la testa di Golia, il suo però non è lo sguardo soddisfatto di chi ha vinto… è uno sguardo quasi meditativo. A cosa sta pensando Davide? A chi sta pensando mentre guarda la testa di Golia? Non lo sappiamo; certo lo sguardo rimane ben oltre il taglio della spada: la lama si abbassa, lo sguardo no, la violenza e la morte si compiono, si abbattono, la riflessione permane. Pare che il volto di Golia sia l’autoritratto del Caravaggio, genio inquieto e in fuga, violento assassino… con che sguardo spera di essere guardato una volta vinto? Con che sguardo spera di incrociarsi una volta giunto al cospetto del Figlio di Davide? Davide emerge dal nulla, dalla notte, raccoglie la luce e trattiene la testa del nemico, perché? Non si alza così un trofeo, un trofeo si esibisce! Questa testa, invece, è come in sospensione, è sollevata per essere guardata. Lo sguardo è il vero protagonista di questa tela. E se fosse lo sguardo della compassione? Guardate gli occhi del gigante (gli occhi del Caravaggio) e poi gli occhi di Davide. C’è una vita dentro… dietro… raccontano… Sarà la conoscenza del testo biblico, ma l’impressione è che Davide cerchi di assumere quello sguardo carico di compassione di cui lui stesso avrà bisogno più avanti. Anche lui assassino… come Caravaggio. 3 IL COMMENTO DONNE DI COMPASSIONE - DONNE DI SGUARDI DI BELLEZZA Lo sguardo della compassione Cominciamo allora dallo sguardo. Come assumere gli occhi del buon samaritano? Come arrivare ad incidere la vita con la stessa capacità del buon samaritano, che riesce a trasformare il “vedere” in “compassione”, al contrario degli uomini che lo hanno preceduto che pure “vedono”, ma rimangono esterni, non com-patiscono: non assumono la fragilità del fratello? Molto tempo fa mi è capitato di leggere un bel libretto di Xavier Lacroix, un filosofo francese, “Il corpo e lo Spirito”, edito dalla Qiqajon. Questo, tra le prime pagine, riporta una specie di piccola educazione dello sguardo, pagine molto semplici eppure molto efficaci; le ho utilizzate molto negli anni. La ripropongo quest’oggi, a dialogare con il Caravaggio, a dialogare con il buon samaritano che “vide e…” amò. A dialogare, spero, con ciascuno di noi, chiamati a imparare l’arte dello sguardo. L’impressione, leggendo il brano di Vangelo, è infatti che il samaritano NON sia più “buono” (cosa significhi poi è tutto da vedere…) rispetto a chi l’ha preceduto, ma che lui sappia vedere qualcosa che i primi non vedono. Cosa ha visto il samaritano? Questa è la vera domanda. Cosa ha visto in quel quasi cadavere lasciato ai bordi della strada? Cosa ha visto che gli altri non sono riusciti a vedere? Scusate se insisto su questo punto, ma credo che molto della nostra capacità di compassione si giochi qui. COSA E COME GUARDIAMO IL MONDO? Con quali categorie rileggiamo quello che noi chiamiamo “il reale”? Perché, se non ho occhi capaci di vedere, io avrò sempre mille scuse per “passare oltre”. E scommetto che il sacerdote e il levita, una volta giunti a casa, disfatti i bagagli, si saranno concessi un meritato riposo senza aver il minimo sentore di aver fatto “qualcosa di sbagliato”, anzi… Se non sistemiamo lo sguardo tante parole ci arrivano e, invece di scuoterci dal torpore, confermano solamente le nostre sicurezze. Non basteranno certo le mie parole a commento dello schema di Lacroix per cambiare le cose, ma mi interessa individuare per me e per voi il luogo dove germoglia la compassione: lo sguardo. 4 La compassione è uno sguardo sulla bellezza plastica Lo sguardo vede e apprezza la bellezza. Quella bellezza fatta di armonia di forme e volumi. Varia per cultura o epoca. Non è molto diversa da quella verso un oggetto d’arte. Si parla di bellezza però è una bellezza oggettivante. Interessante che sia anche la forma più variabile nel tempo e nelle culture. Una moda. Attenzione, è una bellezza “buona”, è bellissimo riconoscerla, è indispensabile, ma non è sufficiente. Vivere una vita fermandosi a questo livello significa perdere una ricchezza enorme che abita “oltre”, in profondità. Esempio della bellezza plastica è l’Antinoo, busto romano del II secolo d.C. conservato a Madrid nel Museo del Prado. E’ davvero il primo minimo passo, però… un cammino inizia con il primo passo. Amare le cose belle è già un bel passo! Non aver paura di “ammirare”, senza dover per forza giustificare. Una bellezza gratuita, libera, in-utile, un tentativo magari anche di svecchiare i canoni di “bello” che la chiesa ostinatamente continua a portare avanti… (i fiori delle nostre chiese non sono quasi mai belli, le immagini, i cartelloni, alcuni paramenti non sono belli, alcuni abiti liturgici non sono belli…) sono in tema con le vetrine del centro… ma del 1800! Ma chi di noi guarda le vetrine del centro oggi? C’è uno scollamento tra i canoni di bellezza e “la chiesa” che mi sembra preoccupante… Comunque la compassione inizia in occhi capaci di riconoscere anche il bello “plastico”, quello fatto di equilibrio e di forma. Non basta, ma è un inizio. La compassione è uno sguardo sulla grazia sensibile dell’espressione Il secondo passo è la capacità di uno spostamento: spostamento sul volto dell’altro. Il corpo non è solo manifestazione di una qualche bellezza, ma è anche espressione. L’espressione non è mai delle cose, ma è propria del soggetto. Il volto parla di sé, si esprime. Sono volti attraenti (charme). Il punto importante da valorizzare in questo secondo passaggio è il riferimento al volto. Già concentrare attenzione sul volto ci permette di evitare indebite riduzioni (se ci pensiamo, la pornografia è la riduzione per eccellenza!). Questo secondo passaggio non è, però, senza rischi: in primis quello di fermarsi qui e selezionare impietosamente le relazioni in base al “fascino”. E’ un passo oltre la bellezza plastica, però ancora non è sufficiente per conoscere la complessa bellezza dell’uomo! Immagine della grazia dell’espressione è una litografia di Matisse. Noi impariamo la compassione se sappiamo leggere le espressioni del volto. Io credo che la comprensione delle espressioni del volto di certe fratelli e sorelle, che ci vivono accanto da una vita, non le abbiamo ancora imparate. E poi noi guardiamo il volto di chi ci vive accanto? Fino a quando abbiamo la possibilità di non guardare negli occhi non è così difficile passare oltre un corpo maltrattato abbandonato ai bordi della strada. Passare oltre senza sensi di colpa. Pensiamo alle tante parole sprecate e banali o razziste e terribili… dette senza guardare mai il volto dell’altro. 5 La compassione è uno sguardo sulla bellezza della presenza Il nostro sguardo non è solo capace di bellezza plastica o di quella legata all’espressione: il volto che si presenta nei nostri occhi è un evento: cioè la manifestazione di una presenza. Più di un volto bello, più di un volto attraente è la stupefacente ed emozionante esperienza della vita di un soggetto. Noi possiamo cominciare ad ipotizzare la possibilità della compassione, se passiamo da questo punto! Sentite la sfida di questo primo passaggio? Noi continuiamo a parlare di “compassione evangelica” come se fosse un imperativo morale e, invece, c’è una sapienza da costruire, c’è uno sguardo da imparare. E questo passaggio è fondamentale! La manifestazione della presenza è la paradossale manifestazione di un mistero. Il mio sguardo riesce a scorgere oltre il fascino e trova i tratti di una storia particolare e unica. E’ un corpo che racconta di una vita! Servono occhi capaci di leggere l’altro da me con l’attenzione meticolosa dell’amante. Devono emozionarmi le sue rughe e i suoi capelli bianchi. Deve emozionarmi il racconto di una vita, la sua, dei suoi sogni, delle sue manie, dei suoi errori e delle sue bellezze… deve emozionarmi sentire che il fratello che entra nel mio sguardo è un mondo da scoprire. E’ il lavoro da compiere per imparare la vita spirituale, un lavoro di profondità, una capacità di leggere, una curiosità buona per l’umano. Esempio dell’irradiamento della presenza può essere l’opera di Rembrandt. La compassione è uno sguardo sulla bellezza nascosta “La presenza stessa può diventare velata, difficilmente percepibile o, al contrario, spaventosa. Ci sono volti sfigurati, frantumati dalla vita, passati per l’inferno, umiliati, o semplicemente sfavoriti dalla vita, al di fuori delle nostre norme o misure. Li si può trovare difformi, ripugnanti, mostruosi, o semplicemente poverini, insignificanti, noiosi. Questo è lo sguardo abituale, quello che è portato dall’onda delle abitudini sociali e dei criteri comuni, in cui chi vive solo alla superficie di sé, coglie degli altri solamente la superficie. Ma ci sono momenti in cui chi è animato da una qualche vita spirituale potrà percepire la gloria che si dà in quella miseria. Una gloria segreta, come quella di Dio, alla quale è apparentata e dalla quale proviene. Gloria di un essere unico, assolutamente unico, a immagine di un Dio che a sua volta è stato sfigurato e schernito. Irradiamento ancora più misterioso di quello della presenza e che non può essere percepito, in verità, se non per rivelazione. Rivelazione della gloria nascosta in ogni persona umana, in coloro la cui miseria è evidente, ma anche, ancora più nascosta forse, in coloro la cui miseria stessa è come velata, occultata dall’aspetto accattivante e dai paludamenti della conformità alle norme sociali”. (Xavier Lacroix) Qui ho citato esattamente un brano del libro del filosofo francese. Capite perché mi sembra imprescindibile educare lo sguardo per imparare la compassione? Questa è compassione, questo 6 vedere la bellezza dove sguardi superficiali non possono riconoscerla. Ma non è quello che ha fatto Gesù per tutta la sua vita? Non è stato lui a vedere bellezza nello storpio, santità nella prostituta, fedeltà nel traditore…? Non è questo lo sguardo che andiamo cercando sulla nostra vita? Non è questa la compassione? Mentre scrivo queste parole io penso alla bellezza di iniziare la giornata chiedendo al Signore il dono di uno sguardo come questo. La gloria nascosta è colta molto bene da Georges Rouault, “Chi non si mette la maschera?”, Miserere, 1923 La compassione è uno sguardo sulla bellezza trasfigurata Accade che la gloria segreta diventa sensibile. Ognuno di noi non ha forse incontrato degli esseri il cui volto appariva come abitato da una luce interiore, trasformato da questa, raggiante di una vita di origine sconosciuta? Come quello della Veronica di Georges Rouault. Nella fede una tale vita è riconosciuta come vita del Padre, del Risorto o dello Spirito. Mosè e Gesù sono apparsi come tras-figurati, l’uno al suo popolo, l’altro ai suoi discepoli. Seppure in modo meno straordinario, ogni cristiano, ogni uomo che vive dello Spirito è chiamato a questo: “E noi tutti che, a viso scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasfigurati in quella medesima immagine, di gloria in gloria” (“Cor 3,18). Si deve riconoscere che questa trasformazione è raramente sensibile. Questa luce può semplicemente prendere la forma della gioia e della pace che abbiamo potuto veder irradiare dal volto di un anziano monaco, di un uomo di preghiera, di una persona interamente votata a Dio e agli altri. Come è lo sguardo di un uomo capace di compassione? Trasfigurato. Mi ha sempre incuriosito che questo piccolo itinerario dello sguardo alla fine compisse una specie di rotazione. Erano occhi che vedevano la bellezza dell’altro e poi, ad un tratto, nell’ultimo tratto, ecco che l’autore descrive gli occhi di chi guarda. Non credo sia un errore, ma un messaggio. Questa educazione alla compassione, questo sguardo di profondità e di bellezza alla fine cambia gli occhi di chi guarda, cambia i nostri occhi. 7 2. COMPASSIONE, EDUCARE I GESTI LE PAROLE DELL’ARTE Jas Vermeer, Lattaia, 1659 Amsterdam,Rijksmuseum LA PAROLA Dal Vangelo secondo Matteo 15 32Allora Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e disse: "Sento compassione per la folla. Ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non vengano meno lungo il cammino". 33E i discepoli gli dissero: "Come possiamo trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?". 34Gesù domandò loro: "Quanti pani avete?". Dissero: "Sette, e pochi pesciolini". 35Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra, 36prese i sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò e li dava ai discepoli, e i discepoli alla folla. 37Tutti mangiarono a sazietà. Portarono via i pezzi avanzati: sette sporte piene. 38Quelli che avevano mangiato erano quattromila uomini, senza contare le donne e i bambini. 39Congedata la folla, Gesù salì sulla barca e andò nella regione di Magadàn. La bellezza che traspare dai gesti trasfigura la realtà. La meravigliosa donna del dipinto riesce, con pochi gesti, a permettere alla bellezza di venire alla luce. Perché il contesto è misero, perché il muro è sporco, perché ci sono chiodi abbandonati a sostenere solo il ricordo di antichi splendori, perché non c’è cura nella stanza, la cura è portata da lei, dalla lattaia. E’ portata dai suoi gesti semplici e solenni. Il Vangelo, che abbiamo letto, parla di gesti semplici e solenni, una liturgia che permette alla vita di emergere in un contesto di profonda povertà. La lattaia è una domestica, una donna “di servizio”, ma un servizio assunto con la dignità di una regina e lei… diventa regale. Guardo quella donna e credo che la compassione sia una liturgia di gesti capaci di cambiare chi li compie. Ancora il buon samaritano e la sua solenne presa in carico del fratello pare confermare questa ipotesi. Penso alle nostre liturgie, penso a come potrebbero operare in noi cambiandoci. Penso alla ripetitività dei gesti e come un gesto ripetuto possa diventare banale oppure sacro. Forse compassione è rendere sacra la quotidianità. Rendere luminoso il corpo, rendere luminose le cose, rendere luminosa persino la povertà. Dell’opera quello che mi emoziona di più è la finestra, e della finestra quell’angolo senza vetro che lascia passare luce pulita e vento fresco. Che bello se riuscissimo a infrangere anche solo un angolo dei vetri dietro cui ci ripariamo... 8 IL COMMENTO DONNE DI COMPASSIONE - DONNE DI LITURGIA La compassione è la liturgia che ri(significa) i gesti Come con lo sguardo che, imparando a scendere in profondità, dischiude la nostra capacità di provare compassione, così i nostri gesti possono educarci alla capacità di “patire-con” il fratello. In modo particolare credo che dovremmo avvicinarci alla liturgia anche con questo intento: gesti che educano al dono di sé e, quindi, alla compassione. Gesti significativi, gesti che segnano, dicono, rimandano… gesti che parlano. In fondo il buon samaritano è uomo liturgico quando lascia che lo sguardo prenda corpo. E Gesù, per dare vita alla compassione, solennizza l’arte del condividere con gesti che, pur mantenendo la loro umiltà, narrano l’eternità. La compassione è la liturgia come luogo di silenzio Innanzitutto credo che la liturgia della compassione abbia bisogno di silenzio. Come nell’opera di Vermeer, la lattaia sembra immersa in un mondo profondamente silenzioso. Il silenzio come prerogativa della compassione, quel silenzio che si fa ascolto, ascolto del bisogno altrui. Come posso accorgermi del bisogno del fratello se non creo mai lo spazio affinché il grido (spesso muto) del fratello possa arrivare a me? Come posso commuovermi per le ferite del fratello se sono sempre pieno dei miei bisogni, delle mie fatiche, delle mie urgenze? Un silenzio di cui ho bisogno anche io, per imparare a leggermi, a comprendermi… quando Gesù “sente compassione”, nel brano che abbiamo appena letto ,ci mostra il profilo di un uomo attento al bisogno inespresso del fratello. “Sente” che hanno fame, immagina, si accorge. La compassione la imparo solo creando quel silenzio che mi permette di uscire da me per andare incontro ai bisogni del fratello. La compassione si impara in una liturgia carica di silenzio. Non si ripete ad ogni celebrazione eucaristica di essere immersi in quel silenzio in cui Dio “sente compassione” per le mie fami? Ecco che la liturgia vissuta intensamente diventa scuola per imparare lo stile di Dio. Devo ripartire da quel silenzio in cui si raccontano, si manifestano le mie fami, da quel silenzio in cui un pane spezzato mi raggiungerà a darmi ancora cammino. La compassione è la liturgia che illumina il contesto Gesù coinvolge, lo sappiamo: “Quanti pani avete?”; se leggiamo questo passaggio nell’ottica della compassione e della liturgia, ci accorgiamo subito di quanto si preoccupato Gesù di allargare i confini della compassione: è un’urgenza che il suo sguardo divenga uno stile: cosa posso fare io? E’ un’urgenza che ognuno venga investito della consapevolezza davanti alla fame del fratello. Se penso alla liturgia credo che sia proprio quello stare insieme seduti negli stessi banchi ad essere già un educazione alla compassione. Che il nostro agire liturgico perda le derive personalistiche per assumere quello sguardo che tutti abbraccia, che tutti scusa, che riconosce nell’altro un fratello affamato come me. Dall’altare sono momenti di pura grazia quelli con cui puoi guardare tutta la comunità e 9 semplicemente dire “quanti pane avete?” io pochi, ma li condivido con voi. Io sono quasi niente, ma posso spezzare con voi una parola che dona senso a tutto quello che facciamo. La compassione si impara celebrando insieme, lasciando scorrere quella domanda “quanti pane avete?” che può diventare, davanti al Signore “quanti pani abbiamo?”… “pochi, pochissimi” è l’unica risposta che può dischiudere alla compassione. Sappiamo confessare la nostra povertà? Sappiamo dilatare la nostra capacità di com-prensione? La compassione è la liturgia come amore per la terra “Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra”, quante interpretazioni per questo che è un vero e proprio ordine. Ordine di sedersi, di diventare terra sulla terra, fiori di prato, alberi radicati… lo so che mi prendo libertà dal punto di vista esegetico… mi lascio portare dalla suggestione di una folla che ritorna terra, che è “costretta” a riprendere i contatti con l’humus, la terra. E penso che la compassione si impari solo nella capacità di umiltà e di amore per il creato. Umiltà. Ritorna a essere terra. Torna a sentirti parte di una natura che si stanca, che ha fame, che ha sete, che ha bisogno di sentirsi amata… torna a essere terra-terra, creatura. Ripeto, esegeticamente mi prendo una buona dose di libertà, però sono convinto che senza l’umiltà di chi riesce a riconoscersi fragile mai saremo uomini e donne capaci di compassione. Come posso amare senza schiacciare con il giudizio un uomo bisognoso, quando io ostento il mio non avere mai bisogno di niente. E di nessuno, purtroppo. Siamo terra, abbiamo bisogno di essere coltivati, custoditi. Abbiamo bisogno di una custodia reciproca. E poi “ama la terra”, ama questo nostro mondo, con gli uomini che la Storia ti pone accanto. Siediti nel pezzo di mondo che ti è dato, fai casa lì dove ti trovi, non pretendere sempre altri luoghi e altri compagni di viaggio: non puoi avere compassione per le persone che non scegli di amare. Il buon samaritano scende e si fa vicino alla terra per cogliere quel fiore in difficoltà lasciato cadere ai margini della strada. La compassione è la liturgia della maternità Prendere, spezzare, dare… non mi soffermo ancora sui gesti eucaristici (già nell’incontro dell’anno scorso abbiamo dedicato loro molto spazio) solo un accenno però per dire che sono gesti molto materni… ed è proprio la madre la maestra della compassione. Perché ha messo al mondo. Saremo capaci di compassione solo recuperando l’atto generativo. 10 3. COMPASSIONE, INSEGNARE LA PAROLA LE PAROLE DELL’ARTE Dal Vangelo secondo Marco 6 34Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe com- compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Raffaello, Madonna del cardellino, 1506 Firenze, galleria degli Uffizi E’ tutto così apparentemente tranquillo. Gesù e il Battista sembrano due angeli sorpresi in un delicato gioco d’infanzia, accarezzano un cardellino. Maria, perfetta, veglia. Poi però ti dicono che il cardellino rimanda a una antica leggenda in cui si narrava che il volatile avrebbe tentato di estrarre le spine dal capo di Gesù e che, in tale pietoso atto, si sarebbe ferito macchiandosi il capo con il sangue di Cristo e rimanendone segnato per sempre. E poi il Battista è già vestito da grande e la mano di Maria è aperta sulla Scrittura… tutto parla di quello che sarà. E come i giochi dell’infanzia non sono altro che prove a rischio contenuto di quello che sarà il grande spietato gioco della vita, così quest’opera è il momento che anticipa ciò che sarà. In questo anticipo la compassione è tutta di Maria, che tenta di insegnare le regole del gioco. E’ il compito di educare, altra faccia della compassione. Dove per educare non intendo chiaramente riferirmi solo a chi risponde a un compito di insegnamento scolastico, ma penso a tutti noi, chiamati a educare l’uomo a diventare uomo. A partire da una umanizzazione di noi stessi che costantemente chiede opera di educazione. 11 IL COMMENTO DONNE DI COMPASSIONE - DONNE DI INSEGNAMENTO Insegnare è parola molto bella. Solo chi ha compassione, dice il Vangelo, può aprirsi all’insegnamento. A segnare un cammino, una strada, una possibilità. Ma credo sia vero anche il contrario, istituendo un legame di reciprocità: credo che insegnando io impari l’arte della compassione. Ma cosa vuol dire insegnare? Mi lascio aiutare dall’immagine di Raffaello, la Madonna del cardellino. La compassione è uno sguardo che insegna dolcemente Ancora lo sguardo. Uno sguardo dolce. Insegnare è guardare il mondo con dolcezza. La compassione è possibile solo in occhi che non sono chiusi, non sono giudicanti, non sono inaciditi… ma sullo sguardo rimando ai gradi di bellezza. La compassione è una mano che insegna accompagnando Che belle le mani della Madonna del cardellino! La mano destra contiene e accompagna. Ecco immagine bellissima della compassione. Io imparo la compassione solo se riesco ad accompagnare l’altro su strade sicure. C’è crisi di padri e di madri. C’è abbondanza di eterni adolescenti. Una mano che accompagna, una mano che indica, sostiene, contiene, una mano dolce e forte, sapiente… la compassione vuole maturità. Vuole persone che sappiano prendersi responsabilità, altrimenti andrò sempre e solo in ricerca di qualcuno che abbia compassione per me… mi farò sempre compatire, cercherò mani che mi danno pacche sulle spalle per avvalorare le mie frustrazioni e non sarò mai capace di mani forti a cui l’altro possa appoggiarsi. E con la sinistra: il libro. Solo Gesù è la Compassione. Devo innamorarmi del Vangelo. Il mio insegnamento sia sempre alla luce della Parola. Insegnare la Parola sarà la mia scuola di compassione. La compassione è un grembo che insegna accogliendo La compassione è un ventre vergine ma non sterile. Insegnare vuol dire accogliere nel grembo, generare a nuova vita ragazzi e ragazze che hanno bisogno di essere ri-generati. Ragazzi e ragazze che non sono carne della mia carne, che non mi appartengono: ecco la verginità senza sterilità. Questo modo di approcciarsi alla vita insegna la compassione, che è diventare spazio generativo lasciando la libertà. La compassione è insegnare il futuro (vocazione) La compassione è insegnare il futuro. Abbiamo urgente bisogno di una compassione in grado di aiutare a decifrare la propria vocazione. 12 4. COMPASSIONE, ORIZZONTE LUMINOSO LA PAROLA Dal Vangelo secondo Luca 15,11-32 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte 11 12 di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, 13 raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a 14 trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò 15 nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma 16 nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in 17 abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo 18 e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi 19 salariati». Si alzò e tornò da suo padre. 20 Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere 21 chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, 22 mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo 23 festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E 24 cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò 25 26 uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre 27 ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. 28 Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai 29 disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che 30 è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma 31 32 bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». 13 LE PAROLE DELL’ARTE Mark Rothko Untitled (Blue, Yellow, Green on Red), 1954 E infine luce. Solo luce. Un mondo reso colore, semplicemente e splendidamente colore. Non serve più disegnare le forme, non serve limitare, qui è urgente liberare: illuminare. Non ci sono corpi, non c’è carne, non c’è sangue. Forse è solo un sogno, certo può essere una fuga dalla realtà, ed è, nel campo della fede, il nostro rischio costante. Preferisco credere sia la via della contemplazione. Quella che non ti fa fuggire dalla carne e dai corpi ma che ti fa entrare in ogni carne e in ogni corpo, e scavare con lo sguardo e con le lacrime, e scendere con la forza dell’amore, e oltrepassare le paure fino a raggiungere la luce. Quella luce che abita ogni aspetto della storia, ogni sguardo, ogni corpo, anche il più martoriato. Anche quello segnato da fragilità o da peccato. Una luce come segno di una trasfigurazione: che significa vedere davvero. Vedere finalmente. Vedere con gli occhi di Dio. Una luce che abita anche in noi… una luce che è urgente liberare. Per imparare a contemplare, per imparare a diventare uomini: immagine e somiglianza di Dio. Una luce che è urgente dilatare, a creare contesti e orizzonti capaci di portare il fratello a ringraziare per la vita. Compassione come arte di creare orizzonti abitabili. 14 IL COMMENTO DONNE DI COMPASSIONE, OFFRONO ORIZZONTI La compassione è presidiare l’orizzonte Il padre della parabola presidia l’orizzonte in attesa del ritorno del figlio, e questo è il suo modo di esercitare la compassione. Perché patisce sicuramente con lui, perché sente la fatica di scelte non comprese, perché vorrebbe intervenire ma cede allo scandalo della libertà: però presidia un ritorno. A volte diciamo che lasciamo liberi di scegliere i nostri ragazzi ma la nostra non è altro che una liberazione perché... non sappiamo più cosa fare. In verità compassione è presidiare l’orizzonte. E’ far sentire all’altro che il mio orizzonte è vuoto se lui non c’è. Pensiamo a un Dio che presidia l’orizzonte in attesa del nostro ritorno... La compassione è inventare un nuovo orizzonte (i contesti) Compassione è inventare nuovi contesti, contesti che non siano solamente la diretta conseguenza delle scelte di chi si allontana. Il figlio torna… ma non diventa servo. Il padre inventa un nuovo legame. Inventa un contesto nuovo in cui il figlio possa finalmente riconoscersi figlio. A me sembra bellissimo. Compassione è arte di inventare nuove possibilità perché l’altro divenga davvero e finalmente se stesso. Compassione è fantasia e non rassegnazione. La compassione è vedere orizzonti luminosi Io posso essere uomo, donna di compassione, solo se il mio orizzonte è luminoso. Perché dovrei patire con il fratello se il destino lo immagino nero? La forza di patire con il fratello arriva solo da un forte credito di Speranza. Io condivido la lotta della vita con te perché sono sicuro che la parola finale sarà una parola buona ed eterna sulle nostre vite. Senza speranza non può esserci compassione. Chiediamo al Signore che il Natale porti speranza. E che la speranza ci apra alla compassione. 15 16