Liceo Scientifico “GIORDANO BRUNO” - Mestre - AVANGUARDIA DELLA TRADIZIONE “SO QUELLO CHE FAI, IL CERVELLO CHE AGISCE E I NEURONI SPECCHIO” Professor Rizzolatti Giacomo Lezione del 16 marzo 2009 Preside: (Inizio registrazione) …nell’ambito sempre del nostro progetto avanguardia della tradizione. È un grande onore perché veramente ha segnato una svolta importante nella ricerca scientifica e appunto ci riferiamo al professor Giacomo Rizzolatti, a cui diamo il nostro più caloroso benvenuto. Una breve presentazione della personalità e dell’opera del professore: il professore dirige il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Parma. È accademico dei Lincei, membro dell’Accademia Europea e dell’American Academy Arts & Sciences. Ha diretto l’“European Training Program in Brain and Behaviour Research” ed è stato Presidente della Società Italiana di Neuroscienze. Le sue ricerche sul sistema motorio e, in particolare, la sua scoperta dei neuroni a specchio, dotati della sorprendente proprietà di attivarsi sia quando compiamo un’azione in prima persona sia quando la vediamo fare da altri – ho letto il suo libretto che abbiamo qui a scuola, sono stata affascinata – hanno profondamente rivoluzionato il panorama delle neuroscienze cognitive conquistando le prime pagine oltre che delle riviste specializzate di giornali quali il “New York Times” e l’“Economist”. Come ha scritto Ramachandran, i neuroni a specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia. Tra le sue pubblicazioni più recenti vi è “So quel che fai, il cervello che agisce e i neuroni a specchio”, che consiglio a tutti di leggere perché ce l’abbiamo in biblioteca. Grazie infinite al professore. Siamo veramente affascinati dai suoi studi e curiosi di sentire la sua relazione di oggi. Grazie. Professor Rizzolatti Giacomo: Grazie, innanzitutto, sia per l’invito che per queste parole della Preside. L’argomento di cui io parlo potrebbe essere un po’ difficile, quindi quando qualche cosa non capite possiamo anche interrompere durante la conversazione, alzate la mano e mi chiedete qualcosa. Io comincerei con una frase non di un neuroscienziato ma di Adam Smith. Non so se voi sapete chi è Adam Smith: è un grande economista, è considerato il padre dell’economia liberale e prima di scrivere quel libro per cui è diventato molto famoso scrisse un altro libro molto bello, che è quello citato qui, “The Theory of moral sentiments”, la teoria dei sentimenti morali, in cui scrive questa frase che è molto interessante. Dice: “per quanto possa essere uno egoista, ci sono senza dubbio alcuni principi nella sua natura che lo fanno essere partecipe e interessato a ciò che fanno gli altri e rende la loro veridicità necessaria a lui, sebbene non derivi niente che il piacere di vedere gli altri felici”. È una frase estremamente ottimista, è scritta nel ‘700, durante l’Illuminismo, e contrasta con le idee del ‘600 di Hobbes homo homini lupus, la Guerra dei 30 anni, la peste, la possibilità addirittura che la specie potesse distinguersi. Nel ‘700, invece, entriamo in un’atmosfera molto diversa, c’è un’idea ottimistica: quella che noi siamo felici se vediamo essere felici gli altri. Queste sono delle intuizioni, il libro è molto bello, è molto ben argomentato, però sono delle intuizioni. C’è un’altra intuizione di Adam Smith, che mi piace ricordare, successivamente, dice un’altra cosa, dice che questa nostra empatia, questa nostra capacità di partecipare è così forte che anche l’aspetto motorio, che è sempre più superficiale, è in comune; quindi dice quando una folla vede un individuo danzatore, che cammina, si muove sulla corda, naturalmente, tende a muoversi, a oscillare come se lui stesso partecipasse a quello. Se qualcuno di voi è tifoso di qualche sport, sa benissimo quando uno tira il rigore viene la voglia di muovere il piede per fare anche noi rigore. È un tentativo di aiutare quello che sta facendo, l’attore o lo sportivo e così via. Quindi qui, come vedete, ci sono due aspetti. Primo aspetto è quello che abbiamo qualcosa in comune con gli altri, per cui la loro felicità ci è importante, non possiamo farne a meno e l’altro che noi abbiamo una partecipazione continua con gli altri, addirittura di tipo motorio. Ora, noi quello che abbiamo scoperto in questi anni è che quello che diceva Adam Smith (poi vi citerò altri filosofi) è effettivamente vero, cioè noi abbiamo dei meccanismi che ci rendono partecipi alle fortune, come dice lui, degli altri. Questo che cosa vuol dire? Trovare una base scientifica? Noi abbiamo trovato delle basi neurologiche che dicono che effettivamente esistono dei meccanismi che ci mettono in contatto con gli altri. Ora, prima, però, di presentarvi i dati due parole. Il neuroscienziato cosa fa? Studia il sistema nervoso che registra dai neuroni. I neuroni sono gli elementi fondamentali del sistema nervoso. Ci sono poi altri elementi, però il neurone è l’elemento nobile, è l’elemento che trasmette l’informazione da un punto all’altro del sistema nervoso, integra varie informazioni fino ad arrivare ai muscoli, alle ghiandole, quello si chiama “comportamento”. Quindi il sistema nervoso parla, parla per segnali elettrici, i quali, per nostra fortuna, sono facili da decifrare. Quello che vedete qui sopra, nel tracciato superiore, sono i potenziali d’azione, cioè è il linguaggio del sistema nervoso, il quale parla per potenziarli tutti uguali l’uno all’altro, e la codifica è di frequenza. Quindi mettete conto che io registri da un mio nervo, se mi tocco la mano, ho una scarica, se lo tocco più forte la scarica è più forte. In questo caso, si stira un muscolo, si registra da un nervo, vedete quella scarica; quando il muscolo si contrae, quello sotto, il muscolo non è stirato e c’è silenzio. Quindi il linguaggio è molto semplice e i fisiologi fanno un trucchetto: pigliano questi potenziali d’azione, li mettono in un altoparlante e così riescono a ascoltarli. Fra poco voi sentirete. Quindi questi sono i potenziali d’azione, il codice mediante il quale parlano è una modulazione di frequenza. Quindi qual è il compito dello scienziato? Diventa molto interessante. Voi andate in una struttura e quello che dovete fare è a un certo punto scoprire che cosa fa sparare – uso il termine “sparare” perché sentirete i neuroni proprio sparano, fanno tac, tac, tac, sparano – qual è lo stimolo più giusto, qual è il movimento e così via. Detto questo, un’altra nozione di base e poi andremo al succo della faccenda. Noi abbiamo registrato per molti anni dalle aree motorie. Ora, anche le aree motorie come le aree sensoriali rispondono mediante spari, mediante frequenze di scarica dei neuroni e abbiamo trovato – questa è una cosa un po’ sorprendente – che nelle aree motorie (quella che avete visto prima era la corteccia di scimmia) sparano non per il movimento, ma per lo scopo di movimento. Se registrate, vedete che non è che spara al movimento, ma all’atto motorio, cioè un’azione con uno scopo. E questo mi sembra evidente perché qui la scimmia afferra con la bocca, qui afferra con la mano destra e qui afferra con la mano sinistra. Quindi i movimenti sono molto diversi, ma lo scopo è lo stesso: è prendere. Adesso vi faccio vedere meglio cosa succede. Adesso vedrete un filmato e sentirete la scarica del neurone e capirete quel (desist spike), l’azione che avete previsto, li vedrete in azione. Quindi vedrete una scimmia che si muove, afferra degli oggetti e dovete correlare il suono, il tac tac che vi dicevo con il movimento della scimmia. (Proiezione filmato) Questo è un neurone dell’afferramento. Questa è una scimmia molto brava, sa usare gli strumenti, e sta afferrando con questo strano strumento. Penso che quelli più attenti di voi si saranno accorti che quando la scimmia muoveva semplicemente la mano e faceva così non c’era una scarica, solo quando afferrava c’era; questo significa che non è movimento, ma l’atto motorio, cioè lo scopo che è codificato. E questo vi spiega perché abbiamo usato questo strano aggeggio. Questo aggeggio è un po’ curioso perché quello sopra sono delle pinze normali, le altre sono delle pinze folli, cioè sono quelle che servono, ad esempio, in Francia per mangiare le lumache. Ma quando io chiudo lo strumento si apre, quando apro lo strumento si chiude. Perché l’abbiamo fatto? Perché se era lo scopo, doveva andare bene sia nella prima condizione che nell’altra condizione. E questo è successo. Qui è una cosa molto interessante perché se uno alla scimmia dà uno strumento e l’altro in pochi secondi cambia, ma il neurone dice sempre: prendi; quindi pensate alla ricchezza sinaptica, quello stesso neurone ha comandato prima questo e poi invece completamente un altro. È una specie di a priori motorio che c’è dentro. Quindi, per ora, quello che vi ho dimostrato è che ci sono dei potenziali d’azione, e questi sono il linguaggio delle cellule. Per quanto riguarda le aree motorie delle scimmie, e questo vale ancora di più per l’uomo, è codificato non solo il movimento, che è codificato piuttosto in periferia, ma è codificato qualcosa di più astratto, come il concetto di “scopo”. Premessa breve che vi ho fatto: questo mi serve per farvi capire poi che cosa succederà dopo. Ora, quello che facevamo noi inizialmente studiavamo il sistema motorio per capire come funziona e abbiamo visto un’altra cosa interessante: che ci sono dei neuroni che si attivavano non quando la scimmia si muoveva, ma quando le facevamo vedere un oggetto. Certi neuroni si attivavano per oggetti piccoli, certi si attivavano per oggetti grandi e così via. Cosa significa questo? Significa che noi abbiamo quando osserviamo un oggetto una trasformazione immediata dell’oggetto in un piano motorio per raggiungerlo. Questi neuroni sono, in un certo senso, prevedibili perché tutti noi, quando dobbiamo raggiungere questo bicchiere, non è che ci pensiamo molto, questo bicchiere trasforma automaticamente la mia mano in un movimento della mia mano in un particolare tipo di afferramento. Mentre facevamo questi esperimenti, ci siamo accorti che, talvolta, i neuroni sparavano non quando noi gli presentavamo l’oggetto, ma quando pigliavamo noi l’oggetto, e quindi c’era questo strano fenomeno: lo stesso neurone, siamo in area motoria, spara quando la scimmia afferra e quando vede lo sperimentatore afferrare, il che era contrario a tutto quello che si pensa in fisiologia perché in fisiologia, come in psicologia, si distingue tra aree deputate alla percezione e aree deputate al movimento. Quindi ci sono aree che devono percepire e poi ci sono aree che muovono. In genere, c’è questa netta dicotomia tra processi percettivi, che sono fatti nelle porzioni posteriori del cervello, e i fenomeni motori, che sono fatti dalle porzioni anteriori del cervello. Qui no, qui la stessa cellula sparava in entrambi i casi. Ora, il fenomeno è facilissimo da capire, una volta che si è convinti di quello che accade io adesso vi faccio vedere subito un neurone specchio e da questo capirete tutto, tutto, tutto. (Proiezione filmato) Questo è il neurone da afferramento, che avete già visto. Vedete quando afferra c’è un comando: Prendi. È lo stesso neurone. Adesso avete capito perché vi ho fatto prima vedere, ho insistito su quel concetto dello scopo, perché qui quello che la scimmia capisce è che qualcuno afferra, indipendentemente se il ricercatore afferrava con la mano, o addirittura pigliava con la bocca, mentre quando metteva qui, cioè non è un afferrare, è portare qui e il neurone non si attivava. La cosa più curiosa è che è lo stesso neurone, è come un dialogo, piglio io o piglia lui, ma è la stessa scarica, è lo stesso neurone. Quindi in quel momento il neurone dice: piglia, indipendentemente se piglia lui o piglia l’altro. Poi cercherò di spiegarvi cosa significa questo, qual è la spiegazione di questo meccanismo. Ma il fenomeno credo sia semplice e la cosa più bella poi che, una volta trovato il neurone è così, non è che occorra fare dei grandi calcoli statistici, portarvi degli istogrammi, dice: guarda che statisticamente sembra che spari in tutte e due le condizioni. È lì, il fenomeno l’avete visto ed è altamente ripetibile, tutte le volte che si fa quel gesto succede. Qualcuno ci ha detto: può darsi che in realtà sia specie di condizionamento, cioè l’animale si aspetta il cibo, quindi prepara qualcosa e allora abbiamo fatto un esperimento. In A voi vedete una scimmia che sta seduta in una gabbietta, quella scimmia sta lì e mangia, non è una scimmia da cui noi registriamo, ma lei è lì seduta e mangia. La scimmia da cui noi registriamo, quella che avete visto prima, è di fronte e vede l’altra mangiare, ma non ha mai il cibo, quindi sarà arrabbiata perché quell’altra mangia, ma sicuramente non ne è rinforzata; quindi la scarica c’è semplicemente perché descrive cosa avviene nel mondo: l’altra scimmia prende, il neurone dice ‘prendi’, poi altri neuroni codificano ‘tiene’, altri codificano ‘raggiunge’, altri codificano ‘rompe’. Abbiamo tutti un vocabolario di atti motori presenti nella nostra corteccia che è duplice: vale per la scimmia che fa e vale per un individuo, invece, che fa lui e la scimmia osserva. Questi sono alcuni dettagli, ma sono importanti. Almeno per quanto riguarda le scimmie, poi parleremo dell’uomo, non sono molto brave nel capire i dettagli, cioè che io pigli con la mano, che pighi con tutta la mano, che pigli con la bocca è lo stesso, e poi voi vedete che c’è un neurone che per quanto riguarda le proprietà motorie è molto specifico, spara solo se la scimmia afferra con due dita, non spara se afferra con tutta la mano, invece quando vede afferrare gli va bene tutto, cioè dice: prende, non sta a guardare i dettagli del prendere. Vedremo che questo ha un’importanza notevole. Alcuni neuroni, pochi, rispondono, invece, in maniera estremamente selettiva. Questo risponde solo se la scimmia rompe così o se vede una persona rompere nella stessa maniera; quindi in questo caso c’è proprio una copia fedele. A cosa servono questi neuroni? Quando noi li abbiamo scoperti all’inizio, abbiamo discusso molto con altri ricercatori, e l’idea che prima di tutto viene in mente… cioè, a voi cosa verrebbe in mente? A cosa può servire un neurone di questo tipo, se così vi si chiedesse? C’è un neurone che spara sia quando io faccio che quando vedo fare, a cosa può servire? Per imitare. Questo viene immediatamente in mente. C’erano degli psicologi tedeschi soprattutto che avevano quasi postulato che ci deve essere un formato comune per l’imitazione. Si può fare un semplice esperimento: se io faccio così, provate ad alzare la mano anche voi, così in alto insieme, adesso quando io metto in giù, così, voi dovete mettere la mano in alto, invece, l’opposto. È più facile o più difficile? Molto più difficile. Questo cosa significa? Che abbiamo un sistema comune di codice. Il codice ‘metto mano in giù’ evoca il sistema motorio da me ‘metti giù’; se io faccio così, non mi viene da mettere in giù, mi viene da mettere in su, da muovere la mano in alto. Su esperimenti di psicologia di questo tipo era stata formulata l’ipotesi che c’è un codice comune per quello che riceviamo del mondo esterno e quello che sappiamo fare. Però qui c’era una difficoltà. Quindi un po’ la gente si aspettava, diceva: ci deve essere una base neurale per questo. Qui c’è, però, un problema. Gli esperimenti che vi ho fatto vedere finora sono tutti stati fatti su dei macachi. Ora, i macachi non sanno imitare. I macachi hanno una mimica, cioè se io faccio così al macaco magari mi risponde con una smorfia simile, ma con le mani no. I macachi, gli etologi tutti concordi, non sanno imitare. E qui è un problema cui tornerò poi perché l’imitazione è un problema molto importante. Allora se non è l’imitazione cosa può essere, quale altra possibilità può essere? Quello che noi abbiamo proposto, che adesso è accennato quasi da tutti, che è un sistema di comprensione di quello che fanno gli altri. Mettiamo conto che io vado in un bar e vedo uno che afferra un bicchiere, secondo voi, devo fare dei particolari ragionamenti? Perché la teoria classica della comprensione delle azioni sarebbe: io vedo in un bar che afferra un bicchiere, allora faccio un ragionamento, c’è una mano, c’è un bicchiere, la mano si muove verso il bicchiere, ho degli algoritmi, quindi concludo che lui sta per afferrare il bicchiere. Questo è un ragionamento, cioè un algoritmo complesso. Invece, questi dati cosa suggeriscono? Che quando io vedo una mano afferrare un bicchiere si forma nel mio cervello un quadro motorio simile, per cui io riconosco quell’atto perché è lo stesso che faccio io quando piglio il bicchiere. Gli stessi neuroni che si attivano quando io piglio il bicchiere si attivano quando un altro piglia il bicchiere, e questo “matching”, questa corrispondenza mi fa capire immediatamente che cosa sta facendo l’altro. Quindi salto tutta una serie di processi logici, inferenziali, filosofici e capisco immediatamente che cosa succede. Questo evento. Adesso, però, bisogna dimostrarlo, come si fa a capire che questo è effettivamente vero? Abbiamo fatto vari esperimenti. Il primo sono degli esperimenti cosiddetti “audiovisivi”: se è vero che quel neurone capisce un’azione, deve capirla se rappresenta una modalità diversa da quella visiva, ad esempio acustica. Se, ad esempio, voi siete in una stanza sdraiati nel vostro letto e sentite fuori un rumore di questo tipo, capite che c’è qualcuno che cammina, anche se non l’avete visto; quindi la comprensione, i ciechi poi hanno capacità notevoli di capire che cosa avviene nel mondo esterno senza vedere. Quindi se questi neuroni capiscono dovrebbero rispondere anche ad altre modalità visive, ed è quello che vedete qui. Qui lo sperimentatore vede tutto e sente il rumore di un pezzo di carta che viene stracciato in due. Successivamente, invece, noi mettiamo una barriera e la scimmia e il neurone sentono, ma non vedono, eppure il neurone scarica. Poi bisogna fare un controllo, questo tipico della scienza: abbiamo presentato dei rumori che non coincidono con quello dell’azione e il neurone sta zitto. Abbiamo presentato anche degli stimoli che fanno paura. Se voi pigliate da Internet per trovare l’urlo dello scimpanzé, le scimmie odiano gli scimpanzé, ne hanno paura, l’urlo dello scimpanzé non attiva il neurone, ma, viceversa, rende più piatto quell’attività di fondo. Quindi prima prova: questi neuroni effettivamente capiscono perché rispondono anche… naturalmente, ci sono parecchi esperimenti anche sull’uomo che dimostrano che queste stesse aree si attivano sia per la visione, per la comprensione uditiva delle azioni. L’altro passo è stato un po’ più complesso, cioè immaginiamo che voi avete qui una barriera, ma vedete la mia mano che va verso un oggetto, anche se non vedete tutta l’azione, avete degli elementi, potete capire che cosa faccio. Questo è rappresentato qui. Qui è una nostra studentessa, una ragazza svizzera, la Eveline, che afferra un’arancia, le scimmie, la scimmia sta seduta come state seduti voi, e vede la Eveline che afferma l’arancia. Ora, in alcuni casi, vedono tutta l’azione, cioè la mano raggiungerà l’arancia; le altre azioni, in altri casi, ci sarà quella barriera nera, quello schermo nero chiuso e vedrà solo la partenza della mano, non vedrà l’arrivo della mano. Un’altra cosa. Vi ho già detto che le scimmie sono un po’ diverse da noi per certi aspetti: non capiscono le azioni intransitive. Le azioni intransitive sono queste: questo è vittoria, questo è okay, ma noi in genere capiamo anche cose, se io faccio così vuol dire che cerco di pigliare; per la scimmia, se non c’è l’oggetto, l’azione intransitiva non è capita, non vuol dire niente, è un movimento e quindi questi neuroni non sparano. Quindi qui noi avremo quattro condizioni, adesso le capirete da soli. La prima: voi siete seduti come era seduta la scimmia, vedete il filmato, la scimmia vedeva l’atto reale. (Proiezione filmato) Questa è la scarica, mirror, è un neurone motorio, ma ha risposto anche alla visione. Qui non ha risposto perché non c’era l’oggetto. Il momento culminante è qui sotto. La scimmia non ha visto afferrare, però ha avuto la rappresentazione mentale di cosa sta avvenendo, cioè la scimmia sa che quello sta pigliando, e quindi il neurone spara. Qui fisicamente è come quell’altro, però anche in questo caso non risponde. Quindi questa è la seconda prova molto forte: quella della rappresentazione mentale. Se la scimmia riesce ad avere degli elementi, l’arancio più la mano che si muove, anche se non vede prendere, capisce il prendere, come d’altronde noi capiamo questo. Quindi questa direi è una seconda e molto forte dimostrazione del fatto che questi neuroni sono un meccanismo per capire, non solo un meccanismo per imitare. Qui bisogna sempre citare chi lavora con noi, è un atto di onestà, il gruppo iniziale era formato da Luciano Fatica, Leonardo Fogassi e Vittorio Galese. Voi Fogassi l’avete visto, era quello nel filmato, l’attore che pigliava con la bocca il cibo, gli altri sono più giovani che lavorano con me. Ora, passiamo… noi, appena scoperto questo, ci siamo detti: ma questo meccanismo esisterà nell’uomo? Verosimilmente sì, è difficile che un meccanismo così importante si sia perso nell’evoluzione, anzi, probabilmente si è arricchito nell’uomo. Allora siamo andati a Milano, al Centro San Raffaele, che allora era diretto dall’attuale Ministro, il prof. Fazio, e abbiamo fatto degli esperimenti sull’uomo con un’altra tecnica. Nell’uomo si può registrare i neuroni. Con la tecnica che vi ho fatto vedere è completamente inodore, nell’uomo si usa (inc.), non si può pigliare uno studente e dire: adesso ti mettiamo gli elettrodi in testa e vediamo se hai i neuroni specchio. Quindi abbiamo usato un’altra tecnica, non invasiva, che nel nostro caso era prima la Pet, e poi è stata la risonanza magnetica. Ora anche qui due parole. Il risultato è qualcosa di magico. Se voi pensate che voi semplicemente per la posizione degli elettrodi riuscite a ricostruire dov’è la sostanza, lui dice dov’è la sostanza bianca, quanto sangue arriva, sembra quasi una magia. Ma il principio di base è semplicissimo e nasce da questo . Ancora all’inizio del secolo, quello che è considerato il padre della fisiologia ha visto che se io strofino la zampa di un coniglio vedo un rossore nella corteccia controlaterale. Perché rossore? Perché aumenta più sangue. Toccando qui i neuroni si attivano di più, hanno bisogno di più nutrimento, di maggiore ossigeno e aumenta il sangue, quindi diventa rosso. Questa è una scoperta del 1910, 1920, il secolo scorso. Negli anni ‘50 saltano fuori i raggi isotopi e un ricercatore russo, che lavora negli Stati Uniti, Sokolov, ha l’idea di attaccare a una sostanza, come il glucosio, lo modifica lievemente, si chiama “desossiglucosio”, vede degli isotopi, questi isotopi vanno a finire ancora nella zona che diventa rossa, ma uno sono lievemente modificati, e quindi stanno lì, non vengono distrutti subito, il desossiglucosio non viene metabolizzato immediatamente, ma sta per un po’ di tempo, e inoltre c’è della sostanza radioattiva. Quindi questo punto incomincia a essere attivo. I primi esperimenti li fa sui conigli, poi li uccide, taglia le fette, riesce a trovare esattamente i circuiti che sono coinvolti quando è toccata la zampa. Successivamente, ovviamente, non si può uccidere un uomo e tagliarlo a fette, ma si può, però, trovare dei rivelatori di radioattività e su questo si basa la Pet, dove si danno delle sostanze radioattive e si riconosce dove funziona. Ho fatto questo esempio perché, attualmente, forse i giornali italiani non ne parlano, ma l’Europa vorrebbe fare una legge che dice: si può usare gli animali da esperimento solo se c’è una finalità clinica immediata, che è una follia, è demenziale. Perché come faceva a sapere Sokolov che dopo ci sarebbe stato uno sviluppo tale, che attualmente la risonanza e la Pet sono le tecniche più usate in radiologia? Lui voleva semplicemente sapere quali erano i circuiti che erano la base della sensazione del coniglio. Quindi quello di dividere la scienza tra scienza che serve e scienza che potrà servire è una follia, ma i nostri politici si divertono moltissimo a celebrare Darwin e si dimenticano di quello che succede invece a Bruxelles. Torniamo a noi. Andiamo a Milano, mettiamo degli studenti dentro…, la quantità di radioattività è minima, quindi non è pericolosa, mettiamo gli studenti dentro lo scanner e vediamo quello che adesso è stato visto da decine e decine di laboratori in tutto il mondo, che anche nell’uomo, quando osserva dei filmati e qualcuno che afferra, si attivano sia le aree posteriori che le aree anteriori. In questo caso, si attiva il lobo parietale, che è considerata un’area essenzialmente associativa, e si attivano anche le aree motorie, inclusa – cosa che fece molto scalpore, ma di quello non avrò tempo di parlare a meno che dopo non mi chiediate qualcosa – l’area del linguaggio. Quindi nell’uomo si attivano le stesse aree che si attivano nella scimmia, e questo di nuovo direi che non è una sorpresa, perché dal punto di vista evolutivo, data la similarità tra l’organizzazione cerebrale nell’uomo e nella scimmia, questo meccanismo occupa le stesse aree. E occupano tante aree. Se voi vedete, questo non è il dato originale ottenuto a Milano, a Los Angeles, subito dopo, ma è una specifica, fatta da tanti e tanti esperimenti che concordano sull’attivazione di queste aree. A questo punto, la gente si è chiesta, noi stessi: ma come mai tante aree si attivano per questo meccanismo? Qui vi faccio una piccola parentesi. La parentesi riguarda uno studio inglese, il quale verso i 40 anni ha avuto una crisi sentimentale e se n’è andato in Africa a studiare i gorilla. Lui era professore a Oxford, studiava tutt’altre cose, la corteccia visiva, ha una crisi e se ne va, studia questi gorilla e resta stupito. Perché? Perché questi gorilla sembrano non fare niente di intelligente. Lui scrive questa frase in un suo libro: “non c’era alcun segno ovvio che i gorilla usassero la loro intelligenza per qualche vantaggio pratico. Per quanto io li guardassi, non ho visto niente nel loro comportamento che mi colpisse come intelligente, lasciando perdere ogni segno che dovessero risolvere difficili problemi concettuali”. Quindi com’è questa storia? Il gorilla, questo animale che ha un cervello grandissimo, il cervello costa, il cervello costa dal punto di vista energetico, costa perché è pesante, il cervello costa perché partorirai nel dolore, perché effettivamente il testone dell’uomo è un problema, il gattino partorisce in un momento, il testone, invece, no, è difficile partorire. A questo gorilla questo cervello non serve niente? E qui mette questa scenetta, dice: “I wish I knew what my brain is for!”. Vorrei sapere a cosa mi serve questo cervello, dice questo gorilla. In realtà, se voi esaminate, aveva ragione da un certo punto di vista Humphry, l’autore. Questo gorilla si alza la mattina, mangia, gironzola un pochettino, poi guarda gli altri, osserva cosa fanno, gira ancora, fa una specie di sonnellino, poi gira di nuovo, non ha nemici, è grande e grosso, il cibo è in abbondanza, cosa fa? In realtà, invece, la vita del gorilla è complicata. Qual è la complicazione? È la vita sociale. Perché il gorilla deve scegliersi alleati, trovare la morosa, trovare la moglie, allevare i bambini; cioè un gioco non è un gioco tra gorilla e altri animali o tra gorilla e la società, tra gorilla e la giungla, ma è dentro. Quindi il cervello si è sviluppato in questi animali non per risolvere difficili concetti, non è fatto per la filosofia, ma è fatto per la vita di tutti i giorni, per risolvere le alleanze e così via. E questo vi spiega perché gran parte del cervello, effettivamente, è interessato in questo. L’altro motivo è anche scientifico, perché io ho movimenti della mano, movimenti della bocca, movimenti del piede e devo riconoscerli, quindi devo dedicare del territorio, riconoscere i movimenti della mano, del piede e questo è un esperimento che abbiamo fatto con dei ricercatori tedeschi. Le macchie rosse sono quelle regioni che vi dicevo si attivano di più, sono quelle che vedeva Sherrington nel coniglio rosa, naturalmente si vedono di questo colore perché statisticamente sono più forti di altre attivazioni. Nel momento in cui vedo i movimenti della mano, si attivano nella mia corteccia una serie di regioni e quelle che mi interessano qui sono soprattutto queste: parietale e frontale. Guardate adesso: questa è la bocca, questa è la mano, questo è il piede, se adesso vado indietro, adesso ritorno, andare avanti, vedete che si spostano verso l’alto? Concentratevi, ad esempio, su questa regione, tutte si spostano su queste regioni. Lì alto, qui a metà, qui in basso e così via. Questa si chiama in fisiologia: “somatotopia”, la topografia, la geografia del cervello, cioè la mano era presa in un punto, la bocca in un altro, e così via. Quindi un motivo è quello della necessità sociale di capire gli altri e l’altro no. Incidentalmente, vi siete mai chiesti perché il Grande Fratello ha tutto questo successo? Per il motivo che vi ho detto. È come il gorilla. Così come il gorilla è tutto interessato, è il cervello del gorilla che ritorna lì a guardare: ma quello si innamora di questo o di quell’altro? Ma faranno baruffa o no? Soltanto che lì è una cosa astratta, nella giungla forse ha un valore più concreto. Ma la funzione è più o meno la stessa: questo cervello sociale che noi abbiamo che si entusiasma per cose che forse non sono di grande importanza. Adesso passiamo a un altro punto molto interessante. C’è questo meccanismo, indubbiamente non è l’unico meccanismo. Adesso noi capiamo gli altri in varie maniere, sicuramente quando io vi dicevo prima gli algoritmi complicati, se io faccio qualcosa di molto strano, voi non lo capite immediatamente, vi ci metterete, penserete, chissà perché lui si è messo in questa posizione invece che quella? Lì non c’è una comprensione immediata, ragionate. Però ci sono delle forme di comprensione diretta, e questo è un esperimento che lo prova, un esperimento che abbiamo fatto qualche anno fa, insieme con Buccino. Ora, com’è questo esperimento? Io vi presento dei videoclips a degli studenti che sono sdraiati dentro lo scanner, quindi uno studente sdraiato nello scanner e vede questi filmati, e noi dopo vediamo che cosa succede nel cervello con la tecnica della risonanza. Qui c’è un nostro studente che morde una mela. Qui c’è una scimmia che morde una mela. Qui c’è il cane che morde anche lui qualcosa, non ricordo se era una mela o qualcos'altro. Comunque sono tre animali, specie diverse, c’è un uomo e due specie animali che mordono. Successivamente, andiamo a vedere cosa succede nel cervello. Guardate a sinistra che è più chiaro, a sinistra si attivano le stesse aree da una parte e dall’altra. Quindi, quando io vedo un cane… a destra si attiva qualcosa di più perché c’è la descrizione della faccia del cane e così via. Ma l’emisfero di sinistra, che è più motorio, è più prassico, cosa fa? Ti descrive il cane che morde, la scimmia che morde, l’uomo che morde alla stessa maniera. Perché? Perché il concetto centrale è lo stesso: è mordere, e io quando vedo un cane mordere lo capisco come se mordessi io, c’è una similarità tra i due. Seconda parte dell’esperimento, invece, facevamo vedere questo, non ho i filmati ma ve lo spiego a voce; facevamo vedere allo stesso studente di prima, che leggeva un giornale, e c’era quello che i giornalisti sportivi chiamano il “labiale”, che parlava, leggeva il giornale, e un po’ si intuiva che cosa leggeva, non del tutto. Poi c’era la scimmia che faceva un gesto comunicativo. Un gesto comunicativo della scimmia tipico è chiamato “lip smacking”. Se voi fate così a una scimmia è un gesto chiamato “affiliativo”, che vuol dire ‘ti voglio bene’, ‘andiamo d’accordo’, ‘non voglio aggredirti’, cioè è un gesto di amicizia, e in genere la scimmia risponde con questo gesto. Il terzo era il cane che abbaiava, che è la maniera dei cani di comunicare vocalmente. Ora, qui i risultati sono stati radicalmente diversi. Se voi vedete qui cosa succede, per quanto riguarda l’uomo, vedere un uomo che legge, voi dovete capire che cosa fa o cercare di capire, c’è un’enorme attivazione delle aree del linguaggio. Questa è l’area di Broca, le famose aree del linguaggio, l’area motoria del linguaggio, più altre aree. Per quanto riguarda la scimmia, di nuovo guardiamo l’emisfero di sinistra, invece, c’è una piccolissima attivazione dell’area del linguaggio; quindi quando la scimmia fa lip smacking, si attiva un po’ la mia area del linguaggio. Per il cane niente, si attivano solo le aree visive. Queste sono aree visive che si attivano. Qual è la spiegazione? Per l’uomo entriamo in risonanza. Io capisco quello che sta facendo perché lo so fare anch’io ed entro in risonanza. Con la scimmia noi abbiamo chiesto agli studenti che cosa pensavano facesse la scimmia e qui ci sono state due scuole di pensiero: alcuni più pragmatici hanno detto ‘quella scimmia, probabilmente, aveva del cibo in bocca e cercava di toglierlo’; i più poetici hanno detto ‘mi sembrava che mi volesse parlare’. Ora, quel mi sembrava che mi volesse parlare è riflesso da questa attivazione. Cioè l’area di Broca, area del linguaggio riflettevano questo tentativo, dice: chissà cosa mi dice la scimmia? E allora cercavano di capirlo. Il cane, invece, silenzio completo. Perché? Se ci pensate un momentino è logico: perché noi non sappiamo abbaiare. Noi possiamo fare bau bau, ma il nostro bau bau è un’imitazione, è un qualcosa di falso, non è parte del nostro, mentre mordere, noi mordiamo, il cane morde, la scimmia morde, noi non abbaiamo, quindi non capiamo che cosa vuol dire. Questa è una frase di una filosofa, direi, dell’inizio del secolo che diceva: posso, per esempio, entro sentire un dolore quando l’animale viene colpito, ma altre cose, certe posizioni e movimenti mi sono date solo come rappresentazioni vuote, senza la possibilità di un riempimento. Quanto più mi allontano dal tipo Uomo tanto più piccolo diventa il numero di possibilità di riempimento; cioè quanto siamo più vicini a una persona anche come specie tanto più siamo simpatetici. Tutti si preoccupano, ad esempio, per le povere foche, perché sono molto carine, sembrano dei bambini, invece la derattizzazione viene presa normalmente perché i ratti sono antipatici. Più uno è vicino a noi più ci è caro. Qui c’è un aspetto. Un paio di mesi fa, Tommasello, che è un grande etologo, ha presentato i dati sulle scimmie, e qualcuno del posto ha detto: ma allora possiamo trovare nelle scimmie un motivo di voler bene agli altri? Ha detto: no, purtroppo no, perché la biologia in questo caso è diversa. Il branco di scimmie, di solito, odia l’altro branco di scimmie, è solo la cultura che poi ci rende capaci di accogliere gli altri. E qui ci sono esperimenti che lo dimostrano, cioè in realtà noi non abbiamo una naturale simpatia o empatia per colui che è diverso da noi, è uno sforzo culturale che dobbiamo fare per accettarlo. Questa è una lezione importante. E questo è una trasposizione filosofica di quello che vi ho detto. Io vi avevo citato all’inizio Adam Smith nella sociologia, questi sono i fenomenologi, che qualcuno di voi avrà già studiato a scuola, suppongo. Merleau-Ponty è un personaggio che era molto noto alla fine del secolo e ha scritto: il senso del gesto non è dato, ma capito, ricatturato da parte di un gesto dell’osservatore; cioè noi entriamo in empatia con gli altri, in quanto quello che fanno gli altri risuona dentro di noi. Questa è stata un’intuizione dei fenomenologi, anche di Husserl, prima ancora di Merleau-Ponty, Merleau-Ponty è più bravo. Per ora abbiamo parlato di cose fredde: lui fa, io faccio, io capisco che cosa fa. Però c’è un altro aspetto nella nostra vita che è molto importante, e sono le emozioni. Come capiamo le emozioni? Cioè entro in empatia anche per quanto riguarda le emozioni? In fondo, la frase di Adam Smith, quella da cui sono partito, parlava della fortuna degli altri, come gli altri stanno. Qui ci sono degli esperimenti, questo l’abbiamo fatto ancora noi. Questa che voi vedete è la diapositiva già vista. Queste sono le aree fredde, le aree che ci dicono: tu fai questo, io faccio quell’altro, afferri la birra, tiri una palla, etc. etc. Però noi abbiamo dentro il cervello delle aree che sono molto importanti per le emozioni. Una è questa, il “giro del cingolo”, quest’area nascosta dentro, e l’altra è chiamata “insula”, è messa bene in luce, è stato aperto il cervello, e dentro nascosta questa indicata con la “I” è l’insula. Abbiamo fatto un esperimento in Francia di nuovo di risonanza. Questa volta gli studenti erano francesi, che erano stati studiati in due situazioni sperimentali. In una gli venivano dati degli odori, cioè dentro c’era una cannula che entrava dentro il naso e ci andavano degli odori; alcuni erano piacevoli, altri erano neutri, altri erano disgustosi; ora quelli disgustosi funzionano benissimo, perché se uno immette dell’odore di uova marce, tutti sono disgustati, non c’è differenza di sesso, di persona, cioè il disgusto è universale, è una di quelle emozioni che anche Darwin considera come fondamentali. Ci concentriamo quindi sul disgusto. Poi nella seconda parte dell’esperimento venivano presentati questi filmati di attori di Marsiglia che esprimevano piacere, questa signora, signorina è neutra, e questo dice disgusto. Cosa abbiamo visto? Qui è un po’ più complicato, a ogni modo quello che si vede che si attivano queste aree profonde delle emozioni. Queste in rosso sono regioni dell’insula. L’insula era quella struttura che vi ho fatto vedere un momentino fa aperta. Questa è una sezione. L’insula si attiva, in rosso. Questo è quando avevano questo odore disgustoso che gli entrava nel naso. Questo è quando vedevano un’altra persona provare disgusto. I pallini bianchi, i voxel bianchi sono voxel, sono pezzettini di cervello che sono attivi ugualmente quando uno prova l’emozione e la vede. In altre parole; il disgusto fatto dall’altro evoca lo stato mentale dentro il mio cervello, di cui è responsabile il mio cervello, che è identico. Noi abbiamo chiamato questo lavoro: “siamo entrambi disgustati nella mia isola”, cioè il disgusto è comune. Poco dopo, a Londra, l’autore principale, Tania Singer, una ragazza tedesca che allora lavorava a Londra, ha ripetuto questo esperimento con il dolore. Ha scelto tutte ragazze, perché in genere le ragazze sono più empatiche dei maschi, ha scelto un gruppo di ragazze, dava loro un piccolo shock elettrico, e quindi provavano effettivamente dolore, e poi gli faceva vedere dei filmati in cui il loro fidanzato aveva gli stessi elettrodi e sentiva il rumore, tac tac, quindi quel rumore voleva dire che in quel momento avevano uno shock elettrico, e quindi subivano uno stimolo dolorifico. I risultati sono stati identici ai nostri. Ci sono due regioni del cervello, l’insula e il cingolo, le quali si attivano ugualmente, stessi vox, quando ho male io e quando ha male l’altro. Quindi noi abbiamo un meccanismo per le emozioni come per l’altro tipo, le azioni fredde, non è l’unica maniera. Se io vi mando un emoticon, voi vedete quelle faccine che sorridono, voi capite che io sono contento, ma non provate nessuna emozione, cognitivamente dite quello è un simbolo per dire che lui è contento; se gli mandate la faccina con la faccia triste, quelli dicono: questo è triste, ma non provate l’emozione. Quindi c’è una maniera cognitiva di riconoscere l’emozione, però la vera emozione, quando vedete un bambino piangere, o vedete qualcuno che ha subito un incidente, o vedete uno di quei filmati tragici, la sua emozione diventa la vostra emozione. Quindi c’è questa compartecipazione per cui neurologicamente partecipiamo al dolore degli altri. Non è solo una cosa cognitiva – ah, poveretto! Sta male – veramente noi stiamo male in quel momento per quel meccanismo che vi ho fatto vedere. Adesso facciamo un passino più avanti. Finora abbiamo parlato sempre di qualcosa di diretto. Io vedo afferrare il bicchiere, vedo un bambino che soffre, vedo uno che è disgustato. Però noi abbiamo altre capacità. Abbiamo la capacità…, adesso vi faccio vedere un esempio. In questo momento voi vedete la mia mano che va verso il bicchiere. Io ho preso il bicchiere, cosa avete capito? Avete capito che ho preso il bicchiere, e di che cosa? Penso che la maggior parte di voi, senza pensare un momento, se fa così, capisce anche un’altra cosa, il perché. Se l’ho preso in questa maniera, è perché voglio bere. Se io l’avessi preso così, tutti avreste capito il che cosa l’ho preso, ma nessuno di voi pensa che io voglio bere, perché così non si beve. Quindi ogni atto che noi vediamo nella nostra vita ha due aspetti: noi capiamo il che cosa e capiamo il perché uno lo fa, è un qualcosa di immediato. Ci siamo chiesti se questo sistema dei neuroni specchio, dei neuroni mirror, è importante anche in questa funzione. Guardate che qui c’è un salto qualitativo notevole perché non è capire il momento, è capire il futuro, è capire l’intenzione; entrare nella mente dell’altro per capire che cosa farà, non che cosa fa. Io un esperimento l’ho fatto a Los Angeles insieme con Marco Iacoponi e un gruppo di ricercatori del U.S.L.A. e abbiamo fatto, presentato di nuovo risonanza, persone dentro questo scanner, e abbiamo fatto vedere i filmati. Uno era la mano che piglia questo bicchiere, questa tazza; qui la mano che piglia una tazza, ma la piglia in un contesto. Uno potrebbe dire per bere, ma non è molto chiaro, qui sicuramente essendo in questo contesto che cos’è? È che sta facendo colazione, quindi la piglierà per bere il tè, il caffè. Qui, invece, il contesto è completamente diverso: qui ha finito di mangiare, afferra la tazza, ma è difficile che beva, probabilmente farà pulizia. Abbiamo fatto una serie di filmati di questo tipo a Los Angeles, Hollywood è vicina, e ne abbiamo tanti di questi filmati, i ragazzi capivano benissimo. Se poi si faceva il test psicologico, qui dice: perché piglia? Per fare ordine, la piglia per, e così via. Abbiamo fatto l’esperimento, questi sono i risultati della risonanza. Facciamo vedere il risultato che è la sottrazione, e abbiamo trovato che si attivano a destra delle aree, questo è il momento culminante, in cui se noi sottraiamo la situazione in cui uno capisce l’intenzione dal semplice movimento, si attivano delle aree particolari che fanno parte del complesso mirror. Quindi l’intenzione è capita dallo stesso sistema. Però non capiamo ancora il meccanismo. Qui bisogna stare attenti, ne parlavamo prima di venire qui, a proposito di certe polemiche sul significato della risonanza. La risonanza deve essere interpretata con intelligenza, ci dice dov’è, ma ci dà molte informazioni, non è un’informazione inutile. Scoperto questo, ci siamo detti: ma quale sarà il meccanismo che fa sì che capiamo non solo il cosa, ma il perché? Allora siamo tornati alla scimmia e questa volta le abbiamo fatto fare un piccolo compito. Il compito della scimmia era di prendere un oggettino e successivamente o di portarlo alla bocca o di metterlo in un contenitore. Quindi il che cosa è lo stesso: io piglio un oggetto; ma il perché è diverso: perché se io lo piglio per portarlo alla bocca penso di mangiare, quindi qui entra il concetto di “intenzione”. Noi, in genere, quando facciamo qualcosa lo facciamo per qualche motivo. Quindi ritorniamo al bicchiere. La mia intenzione in questo momento è di pigliare per bere, qui la mia intenzione è diversa. Ci siamo chiesti: quando uno afferra, quando fa il primo passo, muove, la sua intenzione è già chiara? Sa già che cosa vuol fare? Cioè il sistema nervoso ha già programmato che cosa avverrà dopo, o semplicemente prende, porta alla bocca, poi beve, o c’è una catena? E i risultati hanno dato ragione a questa. Qui è uno stesso neurone, la stessa cellula che spara quando una scimmia afferra per mangiare e non spara affatto quando afferra per mettere in un contenitore. Facendo dei giochetti, la presa può essere identica, uno può dare un cibo, però alla scimmia non piace, metti dei cibi diversi. Qui è l’opposto, qui invece spara per mettere a posto. Quindi quando l’animale, l’uomo vale la stessa cosa, decide di fare un’azione, seleziona dei neuroni particolari. Se voi ci pensate, non è molto logico dal punto di vista ingegneristico perché vuol dire che il neurone per afferrare fa parte di catene, per mangiare, di catene per spostare, di catene per mangiare, però da un punto di vista biologico è utilissimo perché quando io faccio così ho già preparato l’altro movimento e quindi sono fluido, i nostri movimenti sono bellissimi. Se voi pensate i robot come si muovono, è difficile per un robot rendere fluido il movimento, il problema ingegneristico è complicatissimo. L’uomo e gli animali l’hanno risolto facendo queste catene: quando io faccio il primo movimento, ho già attivato la mano e ho già attivato la mano. Vi dimostrerò questo, nei bambini è chiarissimo. Queste sono le percentuali di neuroni. Questo è quello che vi dicevo prima. Se voi osservate, qui il neurone attiva gli altri, ha una scarica a posto perché attiva gli altri. Ora, molti di questi neuroni hanno delle funzioni specchio. Quindi quando io vedo uno afferrare, mi si attivano quei neuroni che serviranno per portare alla bocca, per mangiare. Dal primo movimento capisco la tua intenzione, non capisco solo cosa fai, ma capisco perché tu lo fai. Quindi è stato un grosso salto concettuale. Qui ho la dimostrazione. Vedete è un neurone specchio che spara solo, però, se viene afferrato, in alto, unità 87, per mangiare, e qui invece spara per mettere nel contenitore. A questo punto, abbiamo deciso di vedere che cosa succede anche nell’uomo. Quindi abbiamo questo meccanismo di comprensione delle intenzioni, cerchiamo di applicarlo verso i malati. E c’è una malattia, che, naturalmente, dopo se abbiamo tempo per la discussione ne discutiamo, che è l’autismo. L’autismo è una malattia che sta diffondendosi, anche se essenzialmente su base genetica, indubbiamente, la società, in qualche maniera, favorisce lo sviluppo dell’autismo in quelli predisposti. Quindi è una malattia che sta aumentando. È una malattia gravissima nel senso che chi ne è affetto perde le capacità comunicative con gli altri, vive in un isolamento. Alcuni di questi bambini hanno un quoziente di intelligenza basso, alcuni sono molto intelligenti, non solo sono normali possono anche essere supernormali, eppure non hanno capacità di capire gli altri né… ad esempio, forse questo vi dà un esempio della difficoltà di relazionarsi di un bambino con autismo. Voi dite: puoi passarmi il sale? E lui dice: sì. Perché cosa ha capito? Ha capito la struttura grammaticale logica della frase. Ma non te lo passa, perché non ha capito che in realtà tu non gli chiedi se gli puoi passare il sale, ma gli dici: mi passi, per piacere, il sale? Questo è un tipico esempio in cui uno capisce letteralmente le cose, ma non entra nella testa dell’altro, non si chiede: perché lui mi dice ‘puoi passarmi il sale?’ Mentre una persona a sviluppo tipico, come si dice, capisce benissimo che se uno chiede: mi puoi passare il pane? Non è che vuole sapere se effettivamente è in grado di muovere la mano, ma vuole sapere se glielo dà o non glielo dà. Ora, il deficit che hanno i bambini con autismo somiglia moltissimo a quelle regioni dove noi abbiamo scoperto esistere il meccanismo “mirror”. Molti di loro, soprattutto appena piccoli, hanno ritardo del linguaggio, e io vi ho già accennato che c’è un sistema mirror per il linguaggio; molti hanno problemi nel capire anche le emozioni degli altri, a capire qual è l’emozione, quelle più grosse le capiscono, sono arrabbiato, grida, etc., lo capiscono, ma le sfumature, le nuances, il sorrisetto, l’ironia, l’imbarazzo, tutte queste non le capiscono. E così come non capiscono spesso l’intenzione dell’altro, perché uno fa una certa azione. Questo premesso, allora abbiamo cercato di vedere se esistono queste colonne e queste catene nei bambini e come funzionano nei bambini autistici. L’esperimento è estremamente semplice perché dovevamo poi portarlo in clinica, quindi qui c’è un bambino che afferra un pezzo di cioccolata, se lo mette in bocca, oppure afferra un pezzo di carta e se lo mette in un contenitore che gli abbiamo messo sulla spalla. Quello che abbiamo registrato questa volta non è qualcosa che costa 3 milioni di euro, ma una cosa semplicissima: l’elettromiogramma, cioè l’attività muscolare del muscolo miroideo, questo è uno dei muscoli che apre la bocca. Quindi se uno registra qui sa quando il bambino apre la bocca. E ci siamo chiesti: a che momento della catena intenzionale, qui il bambino afferra la cioccolata, e vuole portarla in bocca, in quale momento incominceranno ad attivarsi i muscoli? Questa è la dimostrazione della catena. E con nostro grande piacere abbiamo visto che, effettivamente, l’intenzione è fortissima. Nei bambini è più forte che nell’adulto, nei bambini è molto bello perché addirittura un secondo, al punto zero è il momento in cui ha preso il cioccolatino, quasi un secondo prima; quindi quando lui l’ha visto e ha incominciato a muovere, già ha incominciato ad attivarsi il muscolo, anche se la bocca non si apre ancora, ma i muscoli cominciano ad attivarsi, è già pronto; quando l’ha preso, è già molto attivo il miroideo e qui apre la bocca e si mangia il suo cioccolatino. La linea blu è quando afferra il cioccolatino, il pezzo di carta, quello che è per metterlo in un contenitore ed è completamente piatto, praticamente non gli si attivano i muscoli della bocca. Questo è un bambino normale. Nel linguaggio tecnico si parla di “typical development”, “sviluppo tipico”, quando osservo un altro bambino. Se osservo un altro bambino afferrare il cioccolatino, appena quello l’afferra, l’atto dell’altro gli entra dentro il sistema motorio. Lui ha una copia dentro di sé, se lo ripete dentro e dice: sta per mangiare il cioccolatino, e gli si attiva il muscolo miroideo, molto meno, ma gli si attiva il muscolo miroideo; quindi lui in qualche maniera ha capito anche esperienzialmente. Cosa vuol dire? Questo prende il cioccolatino, è come se lo prendessi io, gli si ripete la stessa cosa. E questo è il bambino autistico. Il bambino autistico non ha un’intenzione chiara su cosa vuole. Lui vuole mangiare il cioccolatino, ma non è… questi sono tutti ad alto funzionamento, hanno tutti un quoziente d’intelligenza sopra gli 80, alcuni hanno più di 100, c’è uno che fa il liceo scientifico come voi che ha tutti 8 in fisica e matematica, sono ragazzi… non c’è un deficit intellettuale in questi bambini. Oppure lui non riesce a programmare il proprio movimento, il suo muscolo miroideo incomincia ad attivarsi solo nel momento in cui ha già l’oggetto in mano, cioè non sa costruire tutta l’intenzione, costruisce pezzo per pezzo: il cioccolatino lo piglio, ho il cioccolatino, adesso me lo mangio. E qui direi la cosa più drammatica: che cosa succede quando osserva gli altri? È completamente piatto, cioè non ha nessuna comprensione esperienziale. Vi ricordate quella frase che vi ho dato di Merleau-Ponty? La frase su come noi reagiamo con gli altri? Lui ha capito che l’altro sta mangiando, se uno gli chiede: cosa sta facendo quel bambino? Mangia. Però dentro di sé non ha una copia motoria, quindi non riesce a interpretare esperienzialmente cosa vuol dire, lui capisce oggettivamente. Adesso vi faccio vedere l’ultimo esperimento, poi abbiamo un po’ di tempo per la discussione. Questa, innanzitutto, è una frase molto bella. Questa è una signora autistica che ha scritto un libro sulla sua infanzia e dice quello che vi ho fatto vedere io scientificamente. Lei scrive: “trovavo difficile muovermi del tutto, come se dovessi pensare ogni cosa che dovevo fare. In una certa maniera dovevo ordinare al mio corpo di fare quello che devo fare pensando tutto il tempo”; cioè il bambino con il cioccolatino, il bambino a sviluppo tipico, prende il cioccolatino e lo porta in bocca, non ci pensa un momentino. Il bambino autistico pensa: c’è un cioccolatino, lo devo prendere, lo devo portare in bocca, cioè ogni passo è uno sforzo cognitivo, e ovviamente questo sforzo cognitivo poi crolla quando lo vede fare a un altro. Se un altro fa la stessa cosa, questo non c’è perché non ha la copia motoria, quindi capisce letteralmente: mi puoi passare il pane? Sì, posso, ma non riesce a capire l’esperienza dell’altro. Per capire meglio questo fenomeno abbiamo fatto questo esperimento su bambini a sviluppo tipico e a sviluppo normale. Il test è di una semplicità elementare. Facevamo vedere queste diapositive e chiedevamo prima che cosa, cosa fa uno qui, tocca, prende, prende, tocca, prende, prende, tocca. Quindi questo è il “what”, il che cosa sta facendo. Secondo test, una volta che uno ha passato questo, quando hanno detto che cosa, si chiede: perché? Perché? Perché? Ora, qui è per bere, qui è per… non uso tipico. Come fanno i vari bambini? Questo è un altro test. I bambini con autismo capiscono che cosa? Non hanno disturbi, capiscono lo stato caldo, però quando gli chiedete il perché, hanno un grosso problema e qual è il problema? Il problema è che ogni volta fanno conto di cos’è uno strumento, non fanno il conto di chi è che usa lo strumento, cioè non sbagliano se io prendo la penna per scrivere. Penna per scrivere, forbici per tagliare. Ma se io, invece, piglio la penna in una maniera strana non capiscono perché la penna è sempre… Quindi non vivono in un mondo di persone che agiscono, ma vivono in un mondo di cose e questa è la loro difficoltà fondamentale. Il punto, però, che a me piace qui sottolineare è che, secondo noi, questo è dovuto al fatto che hanno un cattivo sviluppo motorio, cioè non hanno quelle competenze motorie che hanno gli altri bambini. Sono loro, è dentro di loro che è il deficit, non è un deficit cognitivo, non capiscono gli altri, non capiscono se stessi; pure avendo, e qui ci sono begli esperimenti sugli animali, in cui ci sono dei modelli di autismo, non è tanto che non ci sono i neuroni, ma non si sono sviluppate le sinapsi, non si sono sviluppate le relazioni tra i neuroni, il che è molto positivo, perché allora si può riprendere questi bambini e cercare di sforzare, con giochi, con tutta una serie di trucchi, di riprendere l’attività e possibilmente riabilitarli. Ritorno, per concludere, alla frase di Adam Smith. Ora, la frase di Adam Smith diceva che per quanto uno è egoista pur sempre è interessato agli altri, ed è un messaggio di grande ottimismo. Qui, però, bisogna prendere le cose un po’ con attenzione perché la natura non è l’unica, la natura è uno dei fattori che determinano il nostro comportamento, un fattore fondamentale, contrariamente a quanto molti pensano, quelli che sono i nostri principi naturali non possono essere traditi completamente, però sono integrati dalla cultura, da dove noi viviamo. Questo stesso esempio di Adam Smith, da una parte, è molto positivo, perché sicuramente indica che noi siamo felici quando gli altri sono felici, però può portare anche a comportamenti molto negativi. Io ne ho due, uno lo faccio senz’altro, un altro sono un po’ riluttante perché è un argomento un po’ scottante, ma ve lo farò lo stesso. Uno: immaginate che voi abbiate una nonna molto malata, che dovete andare tutti i giorni a vedere; dopo un po’ vedete questa donna che soffre, che soffre, ma soffrite anche voi ogni volta che la vedete. Allora c’è una soluzione ottima: la mandate in un ospizio e lì sta, così non la vedete tutti i giorni, la vedete magari a Pasqua e a Natale. Quindi quella che è una cosa molto naturale, cioè il soffrire, voi siete buoni, voi soffrite quando vedete vostra nonna, ma così avete eliminato la sofferenza: l’avete messa in una casa di cura, in un ospizio, la vedete ogni tanto e siete a posto, e siete più felici. Quindi vedete come la natura c’è, ma bisogna la natura che sia trattata. L’altro caso che vi dicevo ho un po’ di paura di dirlo perché è un argomento scottante. Voi avete mai pensato al padre di quella bambina, al padre Englaro? Padre Englaro perché, a un certo punto, ha voluto che questa bambina, questa ragazza, ormai donna, morisse? È difficile capire dopo diciotto anni perché ci teneva? Indubbiamente, non era uno cattivo. Io penso che il meccanismo sia esattamente quello che vi ho detto: lui vedeva soffrire questa ragazza, o almeno pensava che potesse teoricamente, per un medico è difficile pensare che potesse soffrire perché con quei danni corticali che aveva avuto credo non soffrisse niente, fosse un puro vegetale; ma il padre, però, secondo me, vedeva questa ragazza o pensava che questa ragazza soffrisse, quindi qual era la soluzione migliore? Eliminarla, ma non perché era cattivo, perché era buono, perché così toglieva a se stesso quel senso, come la nonna che voi mettete nell’ospizio per non vederla. Altre spiegazioni psicologiche non le vedo perché altrimenti se eravamo convinti che fosse morta potevano tenerla le suore, stava là, cioè non soffriva, era come se fosse morta. Cosa gliene importa a uno se sta in un ospizio? Invece, se voi pensate a un meccanismo psicologico di questo tipo, si capisce l’atteggiamento del padre, questo desiderio in qualche maniera di togliersi… L’ultima cosa che non ho detta prima: io vi ho accennato alle scimmie che non imitano. Ora, l’uomo, invece, è bravo a imitare, e molti – sto parlando in una scuola – diranno: l’imitazione no, è una cosa da stupidi, etc., imitazione, ma per l’amor del Cielo! Originalità! No, l’imitazione è la base della nostra cultura. Noi siamo l’unica specie che è in grado di imitare e l’imitazione è fondamentale per la trasmissione della cultura. Se uno di voi domani scopre qualcosa di bellissimo, ma nessuno lo sa imitare, muore, tutto è finito. Invece, l’imitazione è quel mezzo mediante il quale la cultura progredisce, poi ognuno inventerà qualcosa, ma prima di tutto bisogna sapere imitare. E noi siamo, praticamente, l’unica specie che è brava a imitare. Il bambino è un grandissimo imitatore, imita tutto, mentre l’equivalente scimpanzé o gorilla, che pure hanno qualche barlume di imitazione, sono molto ma molto inferiori. Non parliamo delle scimmie, dei macachi etc. che non sanno imitare. Se avete domande, io mi fermo qui. (Applausi) Domanda: Io volevo chiedere i bambini autistici, se non sanno imitare, come fanno a imparare certi atteggiamenti motori come camminare, parlare? Professor Rizzolatti Giacomo: Quegli atteggiamenti motori, che lei ha citato (camminare etc.), non hanno necessità di imitazione, cioè uno incomincia a camminare per conto suo, incomincia uno a gattonare, poi incomincia a camminare. Quelli, invece, che sono legati all’imitazione in parte, ad esempio anche il linguaggio, hanno dei ritardi, ma il meccanismo non è completamente distrutto, è solo deficitario; quindi non è completamente distrutto, però l’imitazione è uno dei punti in cui loro cadono effettivamente i bambini autistici. Domanda: Quindi il comportamento naturale di un essere, tipo il camminare o simili, non è dovuto a vedere altri che si comportano allo stesso modo? Professor Rizzolatti Giacomo: No, ci sono certi comportamenti che si sviluppano da soli, casomai la mamma aiuta, lo tiene, ma non è imitativo il comportamento tipo il camminare etc.. Se voi pensate a certi animali, il cavallino, appena nasce, è già pronto a correre; cioè anche nella specie umana questi comportamenti si sviluppano progressivamente, non hanno bisogno… Come il linguaggio, lo sa che anche il linguaggio abbiamo una forte tendenza a parlare, però lì occorrono degli stimoli. L’argomento di ciò è la povertà dello stimolo, basta pochissimo e poi il bambino capisce le regole, etc., ma lì degli stimoli ci occorrono, senza stimoli linguistici il bambino non impara a parlare. Ma camminare, correre etc. no, sono comportamenti che vengono da soli. Moderatore – professor Martufi: Abbiamo incominciato molto più rapidamente di altre volte, non mi avete dato neanche il tempo di ringraziare il professore e adesso stagna… Capisco che le ultime cose sull’autismo siano molto coinvolgenti e possono esserci anche altre domande su questo, ovviamente, ci sono tante altre cose. Anche a partire dalle cose che molti di voi hanno visto su invito del professore, la segnalazione che ci aveva dato di prepararci guardando alcune cose su Google, voi l’avete fatto. Domanda: Una mia piccola curiosità. I suoi studi su questo tipo di neurone sono iniziati come? Cioè un professore che le ha parlato con partecipazione riguardo ai neuroni? Lo stimolo nel ricercare questa cosa…? Professor Rizzolatti Giacomo: No, è molto diverso. In genere, nella ricerca non è che uno dice: adesso scoprirò questi neuroni, adesso scoprirò la causa del cancro. Uno fa delle cose molto più modeste, cioè uno dice: come è organizzata la corteccia motoria? Cerchiamo di vedere che tipo di neuroni ci sono. Questo è quello che facevamo noi. Studiando certi neuroni, poi trovi: guarda, questi rispondono anche agli stimoli visivi, sono molto interessati, etc.. Poi, ogni tanto, vedi delle cose strane. Perché il bello della scienza è che uno va con una certa idea e poi trova quasi sempre cose diverse, altrimenti sarebbe molto noioso se io andassi a cercare qualcosa e la trovo, invece, in genere, uno va con un’idea e poi l’esperienza, fare gli esperimenti ti fa trovare delle cose nuove. In questo caso, noi non ci aspettavamo di sicuro di trovare dei neuroni che rispondevano in entrambe le maniere; noi ci aspettavamo di vedere dei neuroni motori che rispondevano in qualche maniera diversa. Ad esempio, avevo citato all’inizio quelli che noi chiamiamo “canonici”, che rispondono quando vedo un oggetto, e la scimmia risponde anche quando questo oggetto non viene presentato. Ma questo è tipico. Ad esempio, le faccio un esempio: la sostanza reticolare, che è un’altra grande scoperta italiana negli anni ’50, che è alla base della veglia, del ciclo veglia – sonno, è stata scoperta da Moruzzi e i suoi collaboratori che volevano studiare il cervelletto; volevano sapere se stimolando quella sostanza succedeva qualcosa nel cervelletto, si sono accorti che l’animale si svegliava, pure essendo in anestesia avevano le sincronizzazioni. Quindi spesso le scoperte sono fatte così. Moderatore – professor Martufi: Non so se la ragazza voleva anche sapere qualcosa della sua storia di scienziato. Non osava, comunque se ci sono altre domande. Domanda: Lei ci ha parlato dell’applicazione con i bambini autistici, altre applicazioni? Professor Rizzolatti Giacomo: Le altre applicazioni, quello che stanno facendo adesso, non soltanto io ma altri, è quella della riabilitazione. Perché lei immagini che uno abbia una paralisi, ma non abbia distrutto completamente la struttura, ma abbia un momento in cui c’è una lesione parziale, non muove il braccio. Se io gli faccio vedere dei filmati in cui il braccio si muove e lo invito a muovere, quei neuroni che sono mezzo addormentati gli arriva un altro input, gli arriva un’altra entrata, quella visiva, diventano più forti e uno riesce a muovere. Quindi adesso si fanno dei filmati particolari, prima per movimenti più grossolani, poi più fini, i quali mettendo insieme riescono a migliorare la situazione dell’emiplegico. Ci sono anche alcuni che mettono degli specchi per cui uno muove, vede la sua mano nello specchio, vede muovere male e poi cerca di muovere di più, o fa vedere la mano normale e cerca di muovere con l’altra. Quindi il vedere fa sì che aumenta l’eccitabilità di quei neuroni e quindi riescano... Questa è un’altra applicazione che viene fatta. Domanda: Buongiorno. Io volevo sapere una cosa riguardo ai neuroni specchio nell’ambito delle emozioni, cioè se è una cosa genetica o se può dipendere anche dall’ambiente, dall’educazione e anche se, appunto, si possono educare, delle persone che fanno gli psicologi, i medici, se possono educare questi neuroni a soffrire meno nel vedere la sofferenza, se si può imparare l’accettazione della sofferenza. Professor Rizzolatti Giacomo: Questa domanda è molto bella. Innanzitutto, io penso che alla nascita ci sia già un patrimonio di neuroni specchio, soprattutto per le emozioni. Dico questo perché ci sono degli esperimenti, quelli di Maslow, che dicono il bambino appena nato è in grado di reagire agli stimoli che presenta la mamma. Uno degli esperimenti che ha fatto, Maslow, è quello di tirare fuori la lingua e il bambino appena nato, uscito dall’utero, risponde tirando fuori la lingua. Quindi ha già questa capacità di interagire e molti lo interpretano come un fatto emotivo perché la corteccia è molto immatura, invece i centri più emozionali cominciano a essere presenti. Quindi c’è già un patrimonio iniziale. Poi questo patrimonio iniziale aumenta e penso che se uno ha un ambiente familiare, la mamma, quelli che gli stanno attorno, è facile che diventino più ricchi, con le sinapsi e così via. Poi, una volta, però, passato questo periodo iniziale, in cui penso ci sia una grossa possibilità di aumento, aumentarli di nuovo credo sia molto difficile, e avevo già accennato questo. C’è una netta differenza di sesso, cioè le donne sono molto più empatetiche, reagiscono molto di più a quello che avviene nell’ambiente, però aumentarli in seguito, diminuire sì, ci sono possibilità di rendere meno forte. Ci sono due aspetti: io vedo uno che soffre, soffro anch’io, a questo punto, però, ho dei meccanismi di difesa, varie cose posso fare; e ci sono dei training speciali, le forze speciali, ad esempio, hanno un training particolare per reagire il meno possibile alle emozioni. Se lei è un poliziotto di quelli cattivi cattivi, di quelli antiterrorismo, qualcosa del genere, e appena uno ha un po’ di male e si mette a piangere il suo mestiere lo fa male. Senza andare nell’estremo, il chirurgo stesso. Se voi fate vedere un filmato in cui c’è un bisturi che taglia la pancia, tutti inorridiscono; il chirurgo lo fa tutti i giorni e non inorridisce affatto. C’è un aspetto di cogliere dell’emozione, un aspetto poi di reagire. La domanda più difficile che lei ha fatto è come si fa poi a migliorare questo senso empatico, e questo è molto difficile. Alcuni propongono con l’arte, perché l’arte va a eccitare quelle stesse aree, tipo l’insula, che vi ho fatto vedere prima, che sono legate alle emozioni. Quindi potrebbe essere che un’educazione artistica, musicale etc. possa migliorare la capacità di empatizzare anche con gli altri. Questi sono dei tentativi, anche negli Stati Uniti sono stati dati dei fondi per vedere se le persone che sono educate all’arte, alla musica etc. poi hanno alla migliore capacità di empatizzare con gli altri, però queste sono completamente ipotesi. Domanda: Lei ha parlato del fatto che quando si fa qualcosa esiste un momento in cui si intuisce il percorso, un momento in cui, invece, viene interpretato cosa avverrà dopo. La mia domanda è: quanto si può imparare e in che tempo si può imparare questo nuovo percorso? In una vita o comunque nella vita di un neurone? Professor Rizzolatti Giacomo: No, molto più rapido. Quando io so fare una cosa, so anche intuire, cioè, praticamente, è simultanea la cosa. Gli esempi migliori vengono dallo sport. Ad esempio, se uno ha imparato a ballare capisce il ballo dell’altro in maniera molto più precisa degli altri. Un esperimento che è stato fatto recentemente sui giocatori di pallacanestro: un giocatore di pallacanestro professionista riesce a sapere dall’inizio del movimento, da come la mano è messa, se l’avversario, il compagno farà canestro; mentre un giocatore di pallacanestro, che ha già giocato qualche anno, ma non ha quel training, non lo sa, sbaglia molto spesso; e uno che non ha mai giocato a pallacanestro non ha la minima idea se andrà bene o no. Quindi con del training è abbastanza rapido. C’è stato Scott (Grafton), negli Stati Uniti, che ha allenato dei ballerini. C’era un gruppo che si allenava e un gruppo che solo vedeva ballare, e quelli che si allenavano poi ogni settimana tornavano e gli facevano la risonanza, e la capacità di riconoscere il ballo e l’attivazione dei neuroni specchio era enorme in quelli che… Quindi il trucco, secondo me, per capire anche gli altri è fare quello che fanno. Perché è molto brutto, per esempio, per capire cosa fanno gli schizofrenici, perché è difficile diventare schizofrenico, ma per capire il mondo reale più esperienze, soprattutto motorie e anche emozionali si hanno, più si capiscono gli altri. Domanda: Una domanda a proposito di bambini autistici. Lei diceva prima che il bambino autistico vive in un mondo di cose, non in un mondo che agisce. Ora, sappiamo che il problema del bambino autistico è determinato dal fatto che non si sono sviluppate le sinapsi. Cosa è possibile fare allora per venire incontro al suo problema? Grazie. Professor Rizzolatti Giacomo: Ci sono due aspetti: un aspetto è quello dei bambini autistici molto gravi, e qui si usano molte tecniche di condizionamento, cioè si cerca di adattare il loro comportamento all’ambiente, cercando con delle tecniche di condizionamento di renderli più o meno… insomma, di evitare le crisi di pianto, di urla, certi comportamenti. Però questo, secondo me, non guarisce il bambino, lo rende più adattabile, migliora le sue condizioni di vita, ma non guarisce. Quello su cui noi battiamo molto e speriamo poi di avere successo è quello di aumentare le loro capacità motorie, cioè il bambino autistico, ad esempio, se lei gli chiede come si gioca a tennis, fa così, cioè non è capace di fare così. Il bambino autistico, se deve salire su una collinetta, è capace di fermarsi a metà strada e poi non si ricorda più che cosa deve fare. Gli mancano, sembrerebbe che nel nostro sviluppo, a un certo punto, c’è un momento in cui quelle catene che vi ho detto, probabilmente a pochi mesi di vita, o nei primi anni di vita, si sviluppano. Nel bambino autistico questo non si è sviluppato. Adesso il tentativo attuale che noi cerchiamo di fare è di vedere con dei giochi se si riesce a fare. Questo forse è un po’ prematuro, ma uno dei nostri progetti è di usare molto il “Wi”. Molti di voi conosceranno il Wi: quel gioco in cui c’è quella pedana per cui già la pedana stessa ti dà un’indicazione se hai il peso giusto, il peso sbagliato. Poi puoi fare dei giochi in cui aumenti la tua capacità motoria stando a casa tua, senza dovere andare in palestra e se si potesse fare, questo adesso pensiamo di farlo forse con la Nintendo stessa, dei giochi cooperativi, perché ci sono dei giochi in cui sei contro l’altro, ma ci sono dei giochi cooperativi. La cooperazione ti fa capire che quello che fai tu e quello che fa l’altro è la stessa cosa. Sono dei trucchi, però potrebbero… l’importante è migliorare i bambini ora, perché indubbiamente tra venti, trenta anni troveremo forse dei farmaci e così via, ma al momento attuale questo sarebbe un grossissimo passo avanti, quello di poter portare questi bambini o questi adulti a capire che cosa fanno gli altri. Io direi che vale la pena di tentare perché le prove neurologiche sono a favore di quest’idea. Domanda: Prima nel video ha mostrato che il neurone della scimmia emetteva degli impulsi quando afferrava un oggetto. Ma come ha fatto sapere che quel determinato neurone dava un impulso elettrico? Professor Rizzolatti Giacomo: Innanzitutto, noi, ovviamente, partiamo perché sappiamo molte cose. Sappiamo che è un’area motoria e, quindi, se siamo in un’area motoria, verosimilmente, saranno i movimenti della scimmia che faranno sparare. Dopodiché si è un po’ come di Sherlock Holmes, cioè si cerca di vedere quale sarà il movimento; cioè uno gli dà un oggettino e lo piglia, oppure gli dà una cosa o la butta via; abbiamo tutta una batteria di movimenti fino a che non troviamo quello che gli va bene. Le faccio un altro esempio perché è molto bello quello della visione. Fino agli anni ‘60 si sapeva che le aree visive sono visive, però, sorpresa, se si dava flash di luce i neuroni non rispondevano, solo il 10% rispondevano. Allora due ricercatori geniali, (Huber e Wiser), provarono invece che dare delle luci di dare delle barrette, di muovere delle barrette e trovarono che i neuroni delle aree visive rispondono quando vedono luce e buio, ombre, segmenti, linee. Ancora dieci anni dopo, un ricercatore di Princeton andò a studiare un’area visiva più complicata, più avanti, e vide che sparavano questi neuroni, la luce non ne parliamo, ma neanche le barrette, bisognava presentare degli stimoli biologici, ad esempio la faccia, c’erano dei neuroni che sparavano… questa è la cosa affascinante, cioè noi abbiamo degli indizi: questa è un’area visiva, questa è un’area acustica, questa è un’area acustica di ordine superiore perché ce lo dice l’anatomia, le lesioni, ma poi sta al genio dello sperimentatore di trovare qual è lo stimolo che ti fa sparare quel neurone. Se sei così fortunato da trovarlo, poi scopri come, appunto, c’è tutta un’area che è fatta per la rappresentazione della faccia, o da noi che abbiamo un vocabolario motorio per cui c’è tutta un’area in cui è codificato “prendi”, “rompi”, “lancia”, “raggiungi”, etc. Quindi è un misto di conoscenza precedente e di intuizione. Domanda: Mi chiedevo se i neuroni specchio nelle persone che sono prive di un senso dalla nascita, come ad esempio i non vedenti, agiscono in maniera diversa. Professor Rizzolatti Giacomo: Sì, i non vedenti hanno un notevole… innanzitutto, riescono a risolvere il problema perché, come le dicevo, i neuroni specchio si attivano non solo per gli stimoli visivi, ma anche per altri tipi di stimoli, ad esempio gli acustici; però, nonostante questo, è molta giusta la sua domanda, i ciechi hanno ho sviluppo ritardato. Non solo, ma c’è un’altra cosa più grave: io dicevo prima l’autismo è essenzialmente una malattia genetica, uno è predisposto o addirittura è così fortemente determinato che non si può fare niente, però ci sono dei fattori natura – cultura, dei fattori culturali; i ciechi sono svantaggiati e quindi i ciechi che hanno già una predisposizione hanno una maggiore probabilità di diventare autistici dei vedenti. E questo vale soprattutto per le ragazze, perché ragazze autistiche sono una piccola percentuale, ragazze cieche con autismo, invece, la percentuale tende a salire. Quindi il problema ce l’hanno i ciechi e, per fortuna, grazie all’udito, al tatto, etc. lo risolvono, la maggior parte almeno. Domanda: Io ho letto che la coordinazione motoria si può sviluppare, si può apprendere e essere coordinata verso i 10–11 anni, poi da là si ferma. Volevo chiedere da che tipo di neuroni dipende e come mai dopo…? Professor Rizzolatti Giacomo: Sa che non lo so?! Non sapevo che la coordinazione motoria a 10–12 anni è finita e poi non migliora. Non ho idea sullo sviluppo. Ammetto che sia vero, ma non lo so. Moderatore – professor Martufi: Merita un applauso questa socratica ammissione di non sapere. (Applausi) Moderatore – professor Martufi: Ci sono altre domande? Allora passiamo il microfono alla Preside. Preside: Ragazzi, io credo che siamo stati tutti oggi affascinati, poi vi ho visto talmente attenti che credo che siamo stati coinvolti al massimo della curiosità e del fascino di quello che ci ha detto oggi il prof. Rizzolatti. Io ho preso appunti e mi riservo, mi dispiace di avere perso un passaggio, quello dell’autismo, ma mi hanno disturbato. Ho preso appunti perché credo sia un campo veramente che va ad approfondire le nostre conoscenze e la conoscenza di noi, che è una cosa molto importante, quindi dei nostri comportamenti. Per questa grande opportunità che il professore ci ha dato dobbiamo esprimere la nostra più grande riconoscenza, soprattutto pensando ai grandi impegni da oberato. Grazie di cuore! (Applausi)