Michael Powell nasce il 29 settembre 1905 a una decina di chilometri da Canterbury, a Howlett’s Farm,
una fattoria adibita principalmente alla coltivazione del luppolo. La sua infanzia di bambino di campagna
è segnata, oltre che dalla fascinazione dell’ambiente naturale, dalle letture voraci e da una precoce
immaginazione visiva. È il padre che lo introduce nel mondo del cinema. Alla fine della prima guerra
mondiale si è trasferito in Francia dove, nel 1924, dopo una grossa vincita alla roulette di Montecarlo, ha
comprato un hotel a Cap Ferrat. Proprio in Costa Azzurra, a Nizza, in quegli anni erano in piena attività gli
studi cinematografici ricavati nella villa della Victorine. Ne aveva fatto la sua base Rex Ingram che, nel 1925,
vi stava girando il film Mare Nostrum. Attraverso il pittore Harry Lachman, che fa parte dello staff di Ingram,
Michael Powell viene assunto sul set, anche se il suo primo incarico sarà quello di fare le pulizie. Ma, prima
che nel 1927 la MGM ordini lo scioglimento della troupe di Ingram, Powell ha fatto pratica in quasi tutti
i mestieri del cinema: macchinista, redattore di sottotitoli, fotografo di scena, montatore, sceneggiatore e
attore, dopo di che, rientra a Londra.
Imre Pressburger nasce il 5 dicembre 1902 a Miskolc nell’Ungheria settentrionale. Fin da bambino è un
divoratore di cinema anche se sono due altre passioni a determinare le sue prime scelte: la musica (diventa,
ancora bambino, un violinista dilettante) e la matematica, che lo porta ad iscriversi a ingegneria civile,
prima all’università di Praga e poi a quella di Stoccarda. La morte del padre lo costringe però ad abbandonare
gli studi. Decide così di rimanere in Germania, stabilendosi a Belino. Germanizza il suo nome in Emmerich
e si butta nella scrittura, vivacchiando con collaborazioni giornalistiche e traduzioni. Dopo molti tentativi
riesce a strappare un contratto come scrittore all’UFA che in quel periodo è una delle più ricche, stimolanti
e inventive società europee. Qui conosce e collabora con Robert Siodmak al film Abschied e con Max
Ophüls, con il quale collabora alla sceneggiatura del primo film. All’ascesa al potere di Adolf Hitler,
Pressburger si trasferisce in Francia e quindi, nel 1935, in Gran Bretagna. Passano pochi anni e i due –
Michael Powell e Emeric Pressburger – si incontrano lavorando al progetto di The Spy in Black thriller bellico
di fosco taglio espressionista. Quella che diventerà la più famosa coppia artistica del cinema britannico, si
è formata. Il sodalizio artistico si consolida ulteriormente a partire dai primi anni Quaranta con la creazione
della loro casa di produzione “The Archers” (Gli arcieri), con la quale inaugurano la formula artistica che
caratterizzerà i credits dei loro film d’ora in avanti: «Scritto, prodotto e diretto da Michael Powell e Emeric
Pressburger». La collaborazione durerà per 13 anni e 14 film, alcuni dei quali tra i maggiori successi del
cinema inglese di quegli anni. Tra questi almeno una decina sono dei veri e propri capolavori del cinema.
Ci conforta la critica francese. Scrivono Raymond Lefèvre e Roland Lacourbe in “Trente ans de cinèma
britannique” a proposito di Powell & Pressburger : «Du magnifique Thief of Bagdad (Il ladro di Bagdad) au
subtil Black Narissus (Narciso Nero), des célebrès Red Shoes (Scarpette rosse) aux fabuleux Tales of Hoffmann
(I racconti di Hoffmann), de l’envoûtant Gone to Heart (La volpe) au suprenant Matter of Life and Death
(Scala al Paradiso), que d’oeuvres capables de ravir les cinéphiles les plus exigeants». E pensare che
all’epoca in cui lavoravano, «si può ben dire che la critica contemporanea al periodo di attività dei due
cineasti ne abbia del tutto ignorato la rilevanza», come scriveva Fabrizio Grosoli (“Cineforum” 218, ottobre,
1982), parlando della retrospettiva dedicata ai due autori inglesi dal Festival di Locarno. A questo proposito
sono illuminati le parole di John Ellis: «Michael Powell è un cineasta europeo che ha avuto la disgrazia di
essere inglese. Al momento dell’uscita, i suoi film erano guardati dai critici inglesi con una sorta di sgomento
nervoso, come se fossero opera di un eccentrico maligno che sfortunatamente era anche un genio. Così,
quando nel 1960 uscì Peeping Tom (L’occhio che uccide), i critici si misero in fila per fare i conti con questa
figura fastidiosa. Sembrò che finalmente Powell avesse fornito loro un film completamente maligno, per
nulla eccentrico, e che certamente non aveva niente a che vedere con il genio. Dopo il loro attacco, Powell
non diresse mai più un film inglese ad alto costo. La riabilitazione critica di Powell cominciò circa 15 anni
dopo, per opera di una nuova generazione di critici (principalmente di origine accademica, con disappunto
di Powell), e da allora ad oggi la maggior parte dei suoi denigratori ha tranquillamente cambiato opinione.
Ma non credo che nessuno di loro si sia scusato per quello che ha fatto. Anche questo, d’altra parte, è un
aspetto del carattere inglese, condiviso forse anche da Powell». Bisognerà aspettare invece ancora qualche
anno, precisamente nel 1986, per trovare la prima, vera, grande retrospettiva italiana su Powell e Pressburger,
organizzata da Emanuela Martini per Bergamo Film Meeting. Dei due autori, il Festival bergamasco
presentò, in edizione originale e integrale, 29 film di cui 16 inediti in Italia. Chi invece ha sempre considerato
i due geniali ed eccentrici registi i loro maestri, sono stati registi come Martin Scorsese, Brian De Palma,
Francis Ford Coppola, che non hanno mai fatto mistero di aver addirittura “rubato” scene, idee, situazioni
dal cinema di Powell e Pressburger. Ancora all’ultima edizione di Torino Film Festival nel novembre 2009,
che ospitava Francis Ford Coppola con il suo ultimo film Segreti di famiglia, l’autore di Apocalypse Now,
ricordava per l’ennesima volta la sua fascinazione per il cinema di Powell e Pressburger, il debito di
riconoscenza che deve ai loro film, la nostalgia di un cinema fantastico, coloratissimo, perturbante, che
reinventava non solo la realtà ma la stessa fantasia. Scrive Emanuela Martini: (“Powell & Pressburger –
Catalogo di Bergamo Film Meeting, 1986): «Credo che quelli di Powell e Pressburger siano effettivamente
magnifici film per bambini (o adulti conservatisi tali), perché hanno la capacità magica di far emergere la
verità discordante che si cela sempre al di sotto della morale delle fiabe (e dei clichés del cinema)». «Ma
come può nascere – si chiedeva Franco La Polla parlando della retrospettiva bergamasca – un cinema
quale quello di Powell e Pressburger in una tradizione che da sempre è documentaristica, asettica,
distanziata, oggettiva? Non si tratta tanto di certe tematiche sentimentali quanto di una ricchezza
iconografica (anzi, panofskyanamente, iconologica), di un continuo riallacciarsi di ossessioni che
denunciano la forza di un (due) autore. Un autore: ecco qualcosa di molto lontano dal cinema britannico. E
ancora, più avanti: A parte la componente patriottica – che emerge persino in Duello a Berlino e Scala al
Paradiso, ovvero due fra le loro cose più belle e meno occasionali – il cinema di P & P si muove lungo i due
poli del britannicismo tradizionale – addirittura oleografico – e quello della più sfrenata fantasia, o
quantomeno di un imprevedibile umorismo. Molto spesso il primo presenta tecniche e iconografie
decisamente realistiche, mentre l’altro denota un’immaginazione a dir poco barocca. Fra le rovine di
Canterbury e il processo che scende lungo la scala ai cui piedi sta una sala operatoria, i gesti dei cui
chirurghi e addetti sono bloccati senza tempo, sta una serie quasi infinita di momenti più vicini all’uno o
all’altro e che comunque segnano volta a volta uno dei tanti stadi del percorso. Le aperture dei film
direttamente bellici, per esempio, sono senza dubbio quasi documentaristiche, laddove la foresta entro cui
si trova la monaca lussuriosa e impazzita di Narciso nero riveste un carattere simbolico (anche grazie al
gioco di raggi di luce che ne fa un gioiello in sé)». Scrive ancora Franco La Polla: «Duello a Berlino, A
Canterbury Tale, Scala al Paradiso sono il grande momento strutturale-metaforico, una sorta di trilogia della
follia nel cui primo atto assistiamo alla tragedia di un patriota ridicolo, nel secondo a quella di una nazione
che rischia il ridicolo e nella terza alla sublimazione del ridicolo nel grottesco di un processo celeste
incentrato sulla bontà o meno dei valori tradizionali britannici. La trilogia è veramente una “scalata” che
parte da una storia tutto sommato verosimile, per passare ad una sorta di assurda fiaba contemporanea e
finire in un delirio mentale così forte da far sì che il film suggerisca una semplice (complessa) fantasia
psichica del protagonista». «In ultima analisi dunque – concludeva il suo intervento su “Cineforum” Fabrizio
Grosoli – il cinema di Powell e Pressburger è, metalinguisticamente, un cinema che si interroga sullo
sguardo (della camera, dell’autore dietro ad essa, dello spettatore), delle sue potenzialità trasfiguranti di
conoscenza, godimento, fissazione mortale. Se l’atto di vedere (soprattutto il vedere oltre dell’obiettivo) è
citato di continuo e spesso direttamente da Powell (dagli occhiali magici di Hoffmann alla “carrellata dentro
l’occhio” di A Matter of Life and Death), un film come Peeping Tom può assumere effettivamente le
caratteristiche di condensazione e summa delle ossessioni powelliane. Smentendo il titolo francese e
italiano del film (“L’occhio che uccide”), Powell sosteneva argutamente a Locarno che nella sua opera non
è l’occhio, ma la lente che uccide e in questa battuta ci è sembrato di cogliere l’autoironica consapevolezza
di un vecchio maestro dell’immaginazione».
Note redatte consultando:
Powell & Pressburger, di Emanuela Martini, Il Castoro Cinema – La Nuova Italia – Roma, 1989
Powell & Pressburger – a cura di Emanuela Martini – Bergamo Film Meeting, 1986
P & P – L’occhio che anticipa di Fabrizio Grosoli in “Cineforum 218” Ottobre, 1982
Powell & Pressburger: la bottega degli antiquari di Franco La Polla, in “Cineforum, 257”, settembre, 1986
Fernaldo Di Giammateo – Dizionario universale del cinema – Editori Riuniti
Jean Tulard – Dictionnaire du Cinéma – Ed. Robert Laffont
••• lunedì 10 maggio •••
Scarpette rosse
Titolo originale: The Red Shoes. Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger. Sceneggiatura: Michael
Powell, Emeric Pressburger, ispirato alla fiaba di Hans Christian Andersen. Fotografia: Jack Cardiff.
Montaggio: Reginald Mills. Musica: Brian Easdale. Scenografia: Arthur Lawson. Costumi: Hein
Heckroth. Interpreti: Marius Goring (Julian Craster), Anton Walbrook (Boris Lermontov), Moira Shearer
(Victoria Page), Jean Short (Terry). Produzione: Michael Powell, Emeric Pressburger per The Archers.
Distribuzione: Lab 80 film. Origine: Gran Bretagna, 1948. Durata: 133’.
Lermontov, il direttore di una prestigiosa compagnia di balletto classico, ingaggia contemporaneamente
Vicky Page, una giovanissima ballerina, e Juilan Craster, un compositore. Lermontov capisce che Vicky
può diventare una grande ballerina e tenta di convincerla a sacrificare tutta la sua vita alla danza. Ma
Vicky è innamorata di Julian e, dopo essere arrivata al successo danzando “Scarpette rosse”, ispirato alla
favola di Andersen, si fa convincere da Julian ad abbandonare il balletto e Lermontov. Ma non riuscirà a
stare lontana dal palcoscenico: raggiunto Lermontov e completamente identificata nel personaggio di
“Scarpette rosse”, danzerà fino alla propria morte.
Per il balletto Powell vuole una scenografia che corrisponda alla sua intuizione di “partitura
cinematografica”, capace di prescindere dalla spazialità obbligata del teatro e dalle convenzioni
figurative del balletto classico. Palcoscenico, proscenio, interpreti e spettatori devono scomparire,
in una ennesima, vertiginosa reinvenzione dell’impressione di realtà del cinema. Il balletto delle
Scarpette Rosse deve aver luogo nello spazio e con i tempi della mente dei protagonisti (e del pubblico
cinematografico). Giustamente famoso, il balletto delle Scarpette Rosse annulla lo spazio teatrale in una
successione di dissolvenze incrociate, aprendo la strada ai grandi musical degli anni ‘50, in particolare
a quelli di Minnelli e a Un americano a Parigi, per il quale Gene Kelly dichiara esplicitamente di essersi
ispirato a Scarpette rosse. Non è, però, tutto il film. Il balletto non può esistere (se non in tutto il suo
perfezionismo tecnico) senza il sontuoso tormento del film, che, d’altra parte, trova nel balletto la
propria sintesi rarefatta. Più di qualsiasi musical, Scarpette rosse è la più esemplare manifestazione
cinematografica del melodramma, dove ogni evento è mosso da una musicalità intensa e animato
da un cromatismo violento. La passione e il destino corrono nella matematica scansione temporale
delle sequenze, nelle spalle fragili di Moira Shearer e nel verde, opprimente peso del mantello con
il quale sale la scalinata arcaica della villa di Lermontov, nel cumulo di emozioni inespresse che, più
della realtà, guida i protagonisti, nello sguardo incantatore e “assoluto” di Lermontov.
••• giovedì 13 maggio •••
Duello a Berlino
Titolo originale: The Life and Death of Colonel Blimp. Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger.
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger. Fotografia: Géorges Périnal. Montaggio:
John Seaburne. Musica: Allan Gray. Scenografia: Alfred Junge. Interpreti: Anton Walbrook (Theo
Kretschmar-Schuldorff ), Roger Livesey (Clive Candy), Deborah Kerr (Edith/Barbara/Angela),
Roland Culver (colonnello Betteridge). Produzione: Michael Powell, Emeric Pressburger per The
Archers. Distribuzione: Lab 80 film. Origine: Gran Bretagna, 1943. Durata: 125’.
Clive Candy, un giovane ufficiale, dopo aver guadagnato la croce al valore nella guerra del Sud
Africa, viene inviato a Berlino per placare le dicerie sorte sulle presunte atrocità inglesi. Per questo
motivo, è costretto a battersi a duello con Theo Kretschmar-Schuldorff, tenente del 2° Ulani. Dal
duello, nasce tra i due un’amicizia che durerà tutta la vita.
All’origine la storia s’intitola The Life and Death of “Sugar” Candy (dal soprannome del
protagonista). Diventa The Life and Death of Colonel Blimp per le somiglianze che si sviluppano
in sede di sceneggiatura tra il vecchio Clive e il colonnello Blimp protagonista della striscia di
David Low, molto popolare negli anni ‘30 e ‘40. Il colonnello Blimp è il prototipo della vecchia
classe militare britannica, illogica, reazionaria, gonfia della gloria dell’impero. Clive Candy,
così sensibile e umano, supera l’unidimensionalità della striscia, eppure conserva di Blimp la
curiosa incapacità di modificarsi, di uscire dal tracciato e di evitare i comportamenti che la
nascita e l’educazione hanno predisposto per lui.
(…) Ma non è questa l’unica eccentricità di Blimp. Theo, alter ego tedesco di Clive, è segnato, a
differenza di questi, dalla maturazione, dalla comprensione, dal cambiamento. Theo è la coscienza
critica del film. L’altra scelta eccentrica del film è quella di fare interpretare dalla stessa attrice le
tre donne della vita di Clive: Edith, il grande amore del quale egli non si accorge fino al momento
in cui la donna sposa Theo; Barbara, la giovane che sposa alla fine della prima guerra mondiale,
folgorato dalla sua somiglianza con Edith; e Angela, l’ausiliaria che gli fa da autista nell’episodio
contemporaneo. Mentre i due protagonisti invecchiano, Deborah Kerr (che aveva allora ventun anni)
resta una luminosa proiezione della giovinezza, ogni volta identica anche se ogni volta sottilmente
diversa; passionalmente romantica in Edith, tenera in Barbara, sbrigativamente vitale in Angela.
(Emanuela Martini, “Powell & Pressburger”, Il Castoro Cinema)
••• lunedì 17 maggio •••
Un racconto di Canterbury
Titolo originale: A Canterbury Tale. Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger. Sceneggiatura: Michael
Powell, Emeric Pressburger. Fotografia: Erwin Hillier. Montaggio: John Seaburne. Musica: Allan
Gray. Scenografia: Alfred Junge. Interpreti: Eric Portman (Thomas Culpepper), Sheila Sim (Allison
Smith), John Sweet (Bob Johnson), Dennis Price (Peter Gibbs). Produzione: Michael Powell, Emeric
Pressburger per The Archers. Distribuzione: Lab 80 film. Origine: Gran Bretagna, 1944. Durata: 124’.
In un villaggio sulla strada che porta a Canterbury, si incontrano un soldato americano in
licenza che da molto tempo non riceve lettere dalla sua fidanzata, un sergente inglese che da
civile fa il pianista in un cinema e una giovane commessa di un grande magazzino che si è
arruolata nella difesa civile dopo aver perso il fidanzato in combattimento. Nel villaggio c’è un
uomo misterioso che, indossando un pastrano militare americano, di notte butta della colla
sui capelli delle ragazze che incontra.
Quelli che già avevano trovato Blimp oscuro, furono clamorosamente confermati nella loro
opinione dalla voluta vaghezza narrativa di A Canterbury Tale, un film che non racconta “vite”
ma solo desideri e miracoli, e nel quale tutti i fatti sono fuori scena, antecedenti o successivi.
Per la prima e quasi unica volta neppure il pubblico è dalla parte di Powell e Pressburger, al
punto che lo stesso Powell nutrirà per anni (fino al restauro della versione originale nel 1977,
con la reintegrazione della sequenza originale dei pellegrini chauceriani) dei dubbi sul film.
Ha l’impressione che Pressburger si sia appassionato troppo alle sue bizzarre scatole cinesi,
dimenticando la necessità cinematografica di un plot lineare. Si ricrede 33 anni dopo:“Eravamo
stati tanto tempo sulla difensiva a proposito di A Canterbury Tale che, rivedendolo al British
Film Institute nel 1977, persino Emeric e io siamo rimasti sorpresi. Devo riconoscere che è uno
dei nostri film più originali, iconoclasti e divertenti”. In realtà, è un film perfettamente coerente
con lo sviluppo dell’opera dei due, che si stanno gradatamente addentrando nella dimensione
in cui magia e quotidianità convivono, in piani sovrapposti e talvolta coincidenti: la dimensione
specificamente cinematografica in cui il sogno e il desiderio interagiscono con la realtà. Uno
sviluppo che li porterà a trattare in termini sprezzantemente antirealistici soggetti all’apparenza
“normali” o a introdurvi improvvisi scherzi di fantasia.
(Emanuela Martini, “Powell & Pressburger”, Il Castoro Cinema)
••• giovedì 20 maggio •••
So dove vado
Titolo originale: I Know Where I’m Going. Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger. Sceneggiatura:
Michael Powell, Emeric Pressburger. Fotografia: Erwin Hillier. Montaggio: John Seaburne. Musica:
Allan Gray. Scenografia: Alfred Junge. Interpreti: Wendy Hiller (Joan Webster), Roger Livesey
(Torquil MacNeil), George Carney (il signor Webster), Pamela Brown (Catriona). Produzione:
Michael Powell, Emeric Pressburger per The Archers. Distribuzione: Lab 80 film. Origine: Gran
Bretagna, 1945. Durata: 92’.
Joan Webster sa bene cosa vuole dalla vita. Decide di imbarcarsi per l’isola di Kiloran, nelle Ebridi,
per sposare Sir Robert Bellenger, un uomo vecchio e ricco. Bloccata dalla nebbia, si ferma nell’isola
di Mull, in compagnia di un giovane ufficiale della marina, Torquil. Durante il suo soggiorno a Mull,
Joan fa amicizia con gli abitanti del luogo, soddisfatti delle loro vite, anche se squattrinati. Joan
capisce che, contro la propria volontà, si sta innamorando di Torquil.
Il gusto tutto mitteleuropeo di Pressburger per la fatalità e il grande amore visivo di Powell per
le isole scozzesi e le loro dirompenti manifestazioni naturali trasformano la storia d’amore in
una sorta di trionfante favola di predestinazione appagata, dove il mito e l’istinto si prendono
la rivincita sul realismo pragmatico e l’autocontrollo della protagonista. Anche questo è un film
sugli ideali - ideali di pace e di continuità delle tradizioni - ma è soprattutto un esplicito, anche
se scherzoso, attacco al materialismo. Esattamente come nella campagna vicino a Canterbury,
anche qui la natura e le stravaganti abitudini del luogo congiurano impercettibilmente contro
il realismo: scaramanzie, leggende, castelli diroccati, nebbie, e finalmente la concreta esplosione
della tromba marina (un fenomeno reale che assomiglia al Maëlstrom norvegese), tutti gli elementi
bloccano Joan Webster e la vincolano alla realizzazione della leggenda di Crryvecken che la vuole
sposa del principe. Nulla in realtà esula esplicitamente nel fantastico; piuttosto, tutti gli elementi
scenografici, e di composizione dell’immagine suggeriscono la progressione di un incantesimo.
Il che corrisponde perfettamente a certe idee di Powell: “Credo che nella vita (sotto la superficie)
ci siano molte più energie di quelle di cui ci si rende conto. Non si tratta di misticismo; penso che
la vita sia fatta così: non solo tutto quello che si vede, ma un insieme di estratti sotterranei. Mi
piacciono tutte queste cose inespresse; possono essere enormemente efficaci in un film”.
(Emanuela Martini, “”Powell & Pressburger””, Il Castoro Cinema)
••• giovedì 27 maggio •••
Gli Invasori - 49o Parallelo
Titolo originale:49TH Parallel.Regia:Michael Powell.Sceneggiatura:Emeric Pressburger.Fotografia:
Frederick Young. Montaggio: David Lean. Musica: Ralph Vaughan Williams. Scenografia: David
Rawnsley. Interpreti: Eric Portman (tenente Earth), Richard George (comandante Bernsdorff ),
Raymond Lovell (tenente Kuhnecker), Niall MacGinnis (Vogel), Peter Moore (Kranz) Laurence
Olivier (Johnnie, il cacciatore), Leslie Howard (Philip Armstrong Scott), Raymond Massey (Andy
Brock). Produzione: Michael Powell per Ortus Film, Ministero dell’informazione. Distribuzione:
Lab 80 film. Origine: Gran Bretagna, 1941. Durata: 123’.
Un sottomarino tedesco viene affondato nella baia dell’Hudson. I nazisti sopravvissuti attraversano il
paese ostile, incontrano personaggi diversi, provocano vari incidenti, nel tentativo di lasciare il Canada
per entrare negli Stati Uniti, all’epoca ancora neutrali.
Prodotto con chiari intenti propagandistici, il film utilizza l’ambientazione canadese e la varietà
della sua popolazione per mettere in scena una unanime contrapposizione alla barbarie
dei nazisti che venogno eliminati, simbolicamente, dai diversi rappresentanti di questo
cosmopolitismo: Johnny, il trapper francese (Olivier); l’inglese Philip (Howard); il canadese Andy
(Massey); i pellerossa delle Three Sisters Mountains. La sceneggiatura di Emeric Pressburger e
la regia di Powell, comunque, si preoccupano di evitare ogni facile effetto melodrammatico,
utilizzando la miglior tradizione culturale britannica (rispetto degli altri, elogio del “”quieto
lasciar vivere””) per evitare le schematizzazioni e arrivare a dire che non tutti i tedeschi sono
nazisti e alcuni di questo sono persino riscattabili. Oscar per il miglior soggetto a Pressburger.
(Il Mereghetti, Dizionario dei Film)
••• lunedì 31 maggio •••
La volpe
Titolo originale: Gone to Earth. Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger. Sceneggiatura: Michael
Powell, Emeric Pressburger, dal romanzo di Mary Webb. Fotografia: Christopher Challis. Montaggio:
Reginald Mills. Musica: Brian Easdale. Scenografia: Arthur Lawson. Interpreti: Jennifer Jones (Hazel
Woodus), Davis Farrar (Jack Reddin), Cyril Cusak (Edward Marston), Sybil Thorndyke (la signora
Marston). Produzione: David O. Selznick per London Film Production, Vanguard Production.
Distribuzione: Lab 80 film. Origine: Gran Bretagna, 1950. Durata: 110’.
Siamo alla fine dell’Ottocento. Hazel è una ragazza di campagna, che vive col padre, fabbricante di
bare. Più affezionata al suo cucciolo di volpe che al genere umano, Hazel è una selvaggia. Il signorotto
locale, Jack Reddin, è affascinato da lei e tenta di sedurla. Hazel è fortemente attratta dalla carica
sensuale dell’uomo, ma gli resiste e decide di sposare un giovane pastore, che la ama con sincerità.
Reddin non si arrende e un giorno finalmente la seduce nel bosco e la porta nel suo palazzo. Il marito
sopraggiunge a reclamarla e Hazel, indispettita perché Reddin ha maltrattato la sua volpe, lo segue.
Il matrimonio sembrerebbe salvo, ma nel tentativo di proteggere la sua volpe da una caccia guidata
da Reddin, Hazel muore cadendo in una miniera abbandonata.
La volpe esalta al massimo la suggestione panteista cara a Powell e il fatalismo che regola tutte
le storie di Pressburger. Girato “on location” nello Shropshire (una contea al confine tra il Galles e
l’Inghilterra), il film utilizza tutti i trucchi possibili per fornire la percezione immediata del conflitto
insolubile che guida la storia della protagonista. Se lo scontro tra carnalità e spiritualità ricalca le
ossessioni di Narciso nero, la corsa finale di Hazel verso il baratro e la morte fa il paio con il suicidio
della ballerina di Scarpette rosse. Anche Hazel (che vive in istintiva sintonia con le forze naturali) non
sa scegliere tra l’anima saggia e delicata del pastore che ha sposato e la carne aggressiva e cinica
del signorotto di cui diviene l’amante. Le variazioni cromatiche dominano la vicenda: dal nero
pacato del pastore, al verde che circonda Hazel (per sottolineare la sua aderenza alla natura), al
rosso che tinge sempre di più gli abiti, i paesaggi, le fisionomie e gli interni via via che la passionalità
erotica ha il sopravvento. La fatalità del melodramma si incontra con il flusso inarrestabile degli
elementi naturali. Il ripristino della versione originale da parte del British Film Institute nel 1986
permette finalmente di valutare La volpe in tutta la sua ricchezza stilistica e drammatica e in tutta
la sua sottigliezza antimanichea. Non ci sono nel film personaggi definitivamente negativi, ma
solo agenti inconsapevoli di un conflitto insoluto e insolubile.
••• giovedì 3 giugno •••
Narciso Nero
Titolo originale: Black Narcissus. Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger. Sceneggiatura:
Michael Powell, Emeric Pressburger, dal romanzo di Rumer Godden. Fotografia: Jack Cardiff.
Montaggio: Reginald Mills. Musica: Brian Easdale. Scenografia: Alfred Junge. Costumi: Henri
Heckroth. Interpreti: Deborah Kerr (suor Clodagh), David Farrar (il signor Dean), Flora Robson
(suor Philippa), Kathleen Byron (suor Ruth), Jenny Laird (suor Honey), Judith Furse (suor Briony).
Produzione: Michael Powell e Emeric Pressburger per The Archers. Distribuzione: Lab 80 film.
Origine: Gran Bretagna, 1947. Durata: 100’.
Cinque suore inglesi organizzano in una regione sperduta dell’Himalaya una scuola e un ospedale.
Le difficoltà di adattamento sono evidenti e si manifestano con nevrosi e tensioni all’interno del
gruppo. Una suora comincia a piantare fiori invece di verdure. Un’altra cura un bambino del villaggio,
che però muore, causando così l’allontanamento di tutti i nativi dall’ospedale. La bellissima ragazza
indiana ospitata dal convento fugge con il giovanissimo re. Infine, suor Ruth, vicina alla pazzia, si
libera della tonaca, indossa abiti normali, tenta di sedurre il signor Dean e poi di uccidere la madre
superiora spingendola fuori dal parapetto. Nella lotta sarà lei a cadere nel vuoto. Dopo la tragedia,
le suore decidono di abbandonare il convento.
Narciso nero si impone subito per due caratteristiche. Anzitutto, è il primo film di Powell e
Pressburger tratto da una fonte letteraria. Da questo momento in poi, quasi tutti i loro film
saranno tratti da romanzi o opere musicali. A istinto, verrebbe da suggerire che il mélo richieda
una sorta di base mitica elementare lungo la quale sviluppare le direttrici più tortuose che
nascono dalla combinazione espressionista-gotico-romantica caratteristica dei due cineasti.
In questa ottica, il romanzo di Rumer Godden presenta una serie di elementi inconfondibili:
il conflitto tra spiritualità e carnalità, tra dovere e desiderio, tra ammaestramento e istinto,
sovrastati e riassunti dal contrasto più simbolico della cultura britannica, quello tra insularità
ed esotismo. Il fatto che le protagoniste siano suore britanniche costrette a confrontarsi
costantemente con la sensualità esplicita dei riti, della cultura e dei comportamenti indiani e
che il destino abbia operato sulle scelte delle protagoniste (come è specificato apertamente nel
flashback che riguarda la madre superiora, suor Clodagh), rende assolutamente inequivocabile
la base narrativa. Powell e Pressburger partono da uno spunto di relativa ingenuità manichea e
di esotismo sui generis per rielaborare ben più complesse suggestioni di dannazione e riscatto.
Il loro romanticismo si libera dall’educazione e dal conformismo per assurgere senza pudori a
una rappresentazione di stampo ”demoniaco”, inquietante, eccessiva, ambigua.
Comune di Parma
Scarpette rosse ••• lunedì 10 maggio
Titolo originale: The Red Shoes. Origine: Gran Bretagna, 1948. Durata: 133’.
Duello a Berlino ••• giovedì 13 maggio
Titolo originale: The Life and Death of Colonel Blimp. Origine: Gran Bretagna, 1943. Durata: 125’.
Un racconto di Canterbury ••• lunedì 17 maggio
Titolo originale: A Canterbury Tale. Origine: Gran Bretagna, 1944. Durata: 124’.
So dove vado ••• giovedì 20 maggio
Titolo originale: I Know Where I’m Going. Origine: Gran Bretagna, 1945. Durata: 92’.
Gli Invasori - 49o Parallelo ••• giovedì 27 maggio
Titolo originale: 49TH Parallel. Origine: Gran Bretagna, 1941. Durata: 123’.
La volpe
••• lunedì 31 maggio
Titolo originale: Gone to Earth. Origine: Gran Bretagna, 1950. Durata: 110’.
Narciso Nero ••• giovedì 3 giugno
Titolo originale: Black Narcissus. Origine: Gran Bretagna, 1947. Durata: 100’.
Inizio proiezioni ore 21.00
Ingresso intero 5.00 euro | ridotto 3,50 euro (anziani, studenti universitari, soci avis e family card)
abbonamento alle sette proiezioni euro 20,00
Piazzale Volta 15 - Parma - tel. 0521 960554 - www.cinema-astra.it
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DUeLLo a BerLINo