Sui jhāna
Thanissaro Bhikkhu
© 2005
Traduzione dall’inglese di Dhammiko
Quando per la prima volta andai a studiare con il mio maestro, Ajahn Fuang,
egli mi porse un piccolo libretto di istruzioni di meditazione e mi spedì su per la
collina dietro il monastero a meditare. Il libretto, scritto dal suo maestro Ajahn Lee,
iniziava con una tecnica di meditazione sul respiro e si concludeva con una sezione
che mostrava come la tecnica veniva usata per indurre i primi quattro livelli di jhāna.
Negli anni successivi, vidi Ajahn Fuang dare lo stesso libretto a ciascuno dei suoi
nuovi studenti, laici e ordinati. Eppure, nonostante le descrizioni dettagliate del
libretto su i jhāna, lui stesso raramente menzionava la parola jhāna nelle sue
conversazioni, e non indicava a nessuno dei suoi studenti se avevano raggiunto un
particolare livello di jhāna nella loro pratica. Quando uno studente gli raccontava di
una ricorrente esperienza meditativa, non gli piaceva discutere quello che era, ma che
cosa fare con essa: su cosa concentrarsi, cosa mollare, cosa cambiare e cosa
mantenere nello stesso stato. Poi insegnava allo studente come sperimentare con essa
- per renderla ancora più stabile e riposante - e come valutare i risultati degli
esperimenti. Se i suoi studenti volevano confrontare i loro progressi con le descrizioni
dei jhāna nel libretto, questo era affar loro e non il suo. Non disse mai ciò in tante
parole, ma dato il modo in cui insegnava, il messaggio implicito era chiaro.
Come pure erano impliciti i motivi per il suo atteggiamento. Una volta mi parlò delle
sue esperienze da giovane meditante: “A quei tempi non c’erano libri che spiegavano
tutto come ci sono adesso. Quando studiavo con Ajahn Lee, mi disse di portare la mia
mente giù.1 Così mi concentrai su come portarla giù, sempre più giù, ma il più la
portavo giù, più pesante e ottusa era la mia esperienza. ‘Questo non può essere
giusto’, pensai. Così mi concentrai a portarla su, sempre più su fino a quando non
trovai un equilibrio e riuscii a capire di cosa stava parlando”. Questo incidente fu uno
dei tanti che gli insegnò alcune lezioni importanti: che bisognava verificare le cose da
se stessi, per vedere dove le istruzioni dovevano essere prese alla lettera e quando
dovevano essere intese figurativamente; che dovevi essere il tuo stesso giudice per
1
In inglese nel testo: bring my mind down. Il significato potrebbe essere “portare la mia mente alla realtà”.
1
valutare il progresso che stavi facendo; e che si doveva essere ingegnosi,
sperimentare e prendere rischi per trovare il modo di affrontare i problemi che si
presentavano.
Come insegnante cercava di instillare nei suoi allievi queste qualità di
autosufficienza, ingegno, e una disponibilità ad assumersi rischi e verificare le cose
personalmente. Lo faceva non solo parlando di queste qualità, ma anche
costringendoti in situazioni in cui dovevi perfezionarle. Se fosse sempre stato li a
confermarti che: “Sì, hai raggiunto il terzo jhāna”, oppure, “No, questo è solo il
secondo jhāna”, avrebbe cortocircuito le qualità che stava cercando di instillare. Egli,
piuttosto che le tue capacità di osservazione, sarebbe stato l’autorità su quello che
stava succedendo nella tua mente, e tu saresti stato assolto da ogni responsabilità per
valutare correttamente quello che stavi vivendo. Allo stesso tempo, avrebbe
alimentato il tuo desiderio infantile di fargli piacere o far colpo su di lui, e minando la
tua capacità di affrontare il compito a portata di mano per sviluppare i tuoi propri
poteri di sensibilità per porre fine alla sofferenza e allo stress. Come mi disse una
volta: “Se ti devo spiegare tutto, ti abitui ad avere le cose presentate su un piatto. E
poi cosa farai quando i problemi si presentano nella tua meditazione e non hai
nessuna esperienza per capire le cose da solo?”.
Così, studiando con lui, ho dovuto imparare a correre dei rischi in mezzo a incertezze.
Se qualcosa di interessante si manifestava nella pratica, dovevo starci insieme,
osservandola, nel corso del tempo, prima di giungere a qualsiasi conclusione. Mi resi
conto che anche così le etichette che applicavo alle mie esperienze non potevano
essere incise nella roccia. Dovevano essere più come degli appunti Post-it: comodi
indicatori per mio riferimento che potevo staccare e attaccare altrove mentre
acquisivo più familiarità con il territorio della mia mente. Questa si rivelò essere una
lezione importante da applicare a tutte le aree della mia pratica.
Tuttavia, Ajahn Fuang non mi lasciava reinventare la ruota2 del Dharma
completamente per conto mio. L’esperienza gli aveva dimostrato che alcuni approcci
alla concentrazione funzionano meglio di altri per mettere la mente in una posizione
dove può esercitare il suo ingegno e giudicare con precisione i risultati dei suoi
esperimenti, ed era molto esplicito nel raccomandare questi approcci. Tra i punti che
sottolineava c’erano questi:
2
In inglese nel testo: to reinvent the dharma wheel. In slang USA to reinvent the wheel vuol dire “dedicarsi a qualcosa di inutile”. Ovviamente un
gioco di parole.
2
Una forte concentrazione è assolutamente necessaria per una comprensione
profonda [insight] liberante. “Senza una solida base nella concentrazione”, diceva
spesso, “l’insight è solo concetti”. Per vedere chiaramente i collegamenti tra lo stress
e le sue cause, la mente deve essere molto stabile, ferma e tranquilla. E per stare
ferma e tranquilla essa richiede il forte senso di benessere che solo la forte
concentrazione è in grado di fornire.
Per acquisire una visione profonda [insight] in uno stato di concentrazione, si deve
persistere per molto tempo. Se si sprona impazientemente da un livello di
concentrazione al successivo, o se si tenta di analizzare un nuovo stato di
concentrazione troppo rapidamente dopo averlo raggiunto, non gli dai mai la
possibilità di dimostrare tutto il suo potenziale e non ti dai la possibilità di
familiarizzarti con esso. Quindi devi continuare a lavorarci con destrezza fino a
portarlo a uno stato di maestria e diventa qualcosa a cui puoi attingere in tutte le
situazioni. Ciò ti consente di vederlo da varie prospettive e di sondarlo nel tempo, per
vedere se è davvero così totalmente sereno, vuoto e senza sforzo come può sembrare
a prima vista.
Il miglior stato di concentrazione per sviluppare un insight comprensivo è quello che
racchiude una consapevolezza di tutto il corpo. Ci sono due eccezioni alla prassi
abituale di Ajahn Fuang di non identificare lo stato che si è raggiunto nella pratica, e
entrambe racchiudono stati di concentrazione errata. Il primo è lo stato che si
manifesta quando il respiro diventa così confortevole che la tua attenzione si sposta
dal respiro al senso di benessere di per sé - la tua consapevolezza comincia ad
annebbiarsi, e il tuo senso del corpo e l’ambiente circostante si perde in un piacevole
intontimento. Quando emergi fai fatica a individuare dove esattamente eri
focalizzato. Ajahn Fuang chiamava questo moha-samadhi, o concentrazione illusoria.
Il secondo stato è uno in cui mi imbattei una notte quando la mia mente era
estremamente concentrata su un solo punto.3 La concentrazione era così raffinata che
rifiutava di stabilirsi su o etichettare persino oggetti mentali più fugaci. Caddi in uno
stato in cui persi del tutto il senso del corpo, di tutti i suoni interni ed esterni, o di
qualsiasi pensiero o percezione. Tuttavia c’era una minuscola dose di consapevolezza
3
In inglese nel testo: one-pointed.
3
che mi informava, quando ne uscivo, che non ero stato addormentato. Scoprii che
potevo starci per molte ore, tuttavia il tempo passava molto rapidamente. Due ore
sembravano due minuti. Potevo anche “programmare” di uscire da quello stato in un
momento specifico.
Dopo aver raggiunto questo stato per diverse notti di fila ne parlai con Ajahn Fuang e
la sua prima domanda fu: “Ti piace?”. E io risposi: “No”, perché mi sentii un po’
stordito la prima volta che ne venni fuori. “Bene”, disse. “Finché non ti piace, sei al
sicuro. Ad alcune persone piace veramente e pensano che sia il Nibbāna o la
cessazione. In realtà è lo stato di non-percezione (asaññi-bhava). Non è nemmeno
retta concentrazione perché non c’è modo per investigare qualsiasi cosa in quello
stato e non si può ottenere nessun tipo di discernimento. Ma ha altri usi”. Poi mi disse
di quando subì un intervento chirurgico ai reni e, non fidandosi dell’anestesista, si
mise in quello stato per tutta la durata dell’operazione.
In entrambi questi stati di concentrazione errata ciò che li rende imperfetti è la
gamma limitata di consapevolezza. Se intere aree della tua consapevolezza sono
bloccate, come puoi progredire verso una visione interiore che non esclude? E, come
ho notato negli anni, quando la gente è esperta a oscurare ampie aree della
consapevolezza tramite il potere della concentrazione su un solo punto tendono anche
ad essere psicologicamente abili alla dissociazione e alla negazione. Questo è il
motivo per cui Ajahn Fuang, seguendo Ajahn Lee, insegnò una forma di meditazione
sul respiro che punta a una consapevolezza inclusiva dell’energia del respiro in tutto
il corpo, giocandoci per ottenere un senso di agio, e poi calmandolo in modo che non
interferisca con una chiara visione dei movimenti sottili della mente. Questa
consapevolezza inclusiva contribuisce ad eliminare i punti ciechi dove l’ignoranza
ama annidarsi.
Uno stato ideale di concentrazione per dare origine all’insight è quello dove è
possibile investigare in termini di stress e l’assenza di stress, anche mentre ci sei
dentro. Una volta che la tua mente è fermamente stabilita in uno stato di
concentrazione, il suggerimento di Ajahn Fuang era quello di “allontanarla” dal suo
oggetto, ma non così lontana da distruggerne la concentrazione. Da quella
prospettiva, puoi valutare quali livelli di stress sono ancora presenti nella
concentrazione e lasciarli andare. Nelle fasi iniziali, questo di solito implica valutare
come ci si relaziona al respiro, e localizzare livelli più sottili di energia del respiro nel
corpo, i quali forniscono una base per strati più profondi di tranquillità. Una volta che
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il respiro è perfettamente calmo e il senso del corpo inizia a dissolversi in una nebbia
amorfa, questo processo comporta l’identificazione di percezioni di “spazio”, “il
conoscere”, “unione”, ecc. che si manifestano al posto del corpo e che possono essere
mondate come gli strati di una cipolla nella mente. In entrambi i casi, il modello di
base è lo stesso: avvertire il livello di percezione o di fabbricazione mentale che sta
causando lo stress inutile, e mollandolo per un livello più sottile di percezione o di
fabbricazione finché non c’è più nulla da lasciare andare.
Questo è il motivo, sempre che la tua consapevolezza è in uno stato inclusivo di
quiete e vigilanza e non ha importanza se sei nel primo o il quattordicesimo jhāna, il
modo in cui sviluppi il tuo stato di concentrazione è sempre lo stesso. Per dirigere la
tua attenzione ai problemi di stress e alla sua assenza, Ajahn Fuang ti indicava i
termini in base ai quali puoi valutare il tuo stato mentale da solo, senza dover
chiedere a una autorità esterna. E, a quanto pare, i termini che puoi valutare di
persona - lo stress, la sua causa, la sua cessazione, e il percorso che porta alla sua
cessazione - sono le basi che definiscono le quattro Nobili Verità: la retta visione che
il Buddha dice può portare alla totale liberazione.
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