Isabella Rosoni (Università di Macerata)
Ordinamento amministrativo coloniale e mobilità degli individui. Il caso
della Colonia Eritrea
[Paper presentato al convegno Vecchie e nuove migrazioni nell’area mediterranea,
Tripoli come un miraggio, Convegno internazionale di studi promosso
dall’Università di Macerata e la Provincia di Ascoli Piceno a Porto Sant’Elpidio, 2425 Novembre 2006] da non citare senza l'autorizzazione dell'autore
Abstract
Da sempre le migrazioni fanno parte del modo di vita africano. Il nomadismo carovaniero,
le migrazioni pastorali, la coltivazione ciclica della terra, hanno costituito per molto tempo il
tratto culturale delle popolazioni africane che abitano le regioni aride o semiaride del
continente. Nonostante la popolazione della colonia eritrea presentasse ben spiccate
queste caratteristiche, la sensibilità del nostro colonialismo verso quel fenomeno che oggi
definiamo “mobilità degli individui” fu scarsa. L’attenzione antropologica alle strutture
sociali, alle attività economiche, alle pratiche religiose, e ovviamente alla mobilità
territoriale della regione eritrea fu determinata soprattutto dalla necessità della
amministrazione italiana di suddividere i territori in aree (regioni) il più possibile omogenee.
Per il resto l’amministrazione coloniale si interessò al tema della mobilità in modo
sostanzialmente marginale, spinta soprattutto da urgenze esterne quali, ad esempio, la
redazione dei censimenti, la regolamentazione del lavoro indigeno, la riscossione di tributi,
l’adesione alla lotta antischiavista.
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1. Alcune questioni di lessico
Un aspetto che colpisce, nel dibattito contemporaneo, è il carattere problematico che ha
assunto il termine migrante. Il suo senso moderno, in quella che viene definita “era della
globalizzazione”, è quello di outsider, fuorilegge, non rispetto a questa o quella legge del
paese di provenienza o di arrivo, ma della legge in quanto tale. I migranti (spesso rifugiati)
sono fuori dal nomos, sono relegati in una deriva liminare che può essere transitoria o
permanente. Sono condannati a una transitorietà, instabilità e provvisorietà che può
essere eterna o temporale, e questo perché i migranti perdono la propria identità politica
che è costituita di due elementi essenziali: appartenere a una nazione ed essere cittadini.
Ma l’incremento esponenziale dei flussi migratori verificatosi negli ultimi 50 anni ha
comportato una modifica, e ha attribuito un significato nuovo, anche a due concetti che
alla migrazione sono indissolubilmente legati, quello di cittadinanza e quello di nazione.
Oggi la nazione può essere definita, in termini molto generali come quel “noi” collettivo a
cui appartiene un certo Stato. La nazione non è tanto un fatto “naturale”, uno spazio, per
intenderci, definito da confini, quanto l’esito di un processo sociale di identificazione,
collocato nel tempo e nello spazio. Una identità collettiva, quindi, che si realizza attraverso
tutta una serie di pratiche culturali e rituali, che possono essere la celebrazione delle
festività nazionali, l’elaborazione di una lingua comune, la creazione di un dibattito
pubblico attraverso un sistema di comunicazione esteso su tutto il territorio nazionale (Cfr.
E. Caniglia 2005, p. 29).
La nazione, può essere etnica e cioè avere una origine socio-biologico-culturale,
discendere da una storia collettiva fondata più o meno simbolicamente da un nucleo di tipo
etnico che precede il costituirsi di uno stato territoriale (modello tedesco, inglese, italiano);
oppure può essere nazione civica e cioè essere fondata solo politicamente (modello
francese e americano).
I due modelli corrispondono, come è fin troppo noto, a due tipi di differenti trattamenti per
gli individui che siano cittadini o stranieri. La nazione etnica funziona come un potente
meccanismo di esclusione dalla cittadinanza. Se il criterio è quello dello jus sanguinis,
bisogna essere figli o discendenti di cittadini per essere cittadini di uno Stato. Viceversa la
nazione civica ha carattere inclusivo. Per entrare a farvi parte non hanno importanza le
caratteristiche ascrittive (etniche, culturali, razziali) dell’individuo, basta essere nati nel
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territorio dello Stato (jus soli), o scegliere di dimorarvi e di essere leali verso le sue
istituzioni statuali e i suoi valori fondamentali. (cfr. J.Habermas 1982)..
Mi preme qui fare un accenno brevissimo a quanto questi due modelli corrispondano ai
modelli di politica coloniale elaborati fra fine Ottocento e primi Novecento, il modello
anglosassone della autonomia e quello francese della assimilazione (cfr. I. Rosoni 2006
pp. 47 ss.).
Mentre in passato i termini nazione e cittadinanza indicavano fenomeni politici tutto
sommato aproblematici e tendenzialmente sovrapponibili, oggi, le peculiari caratteristiche
della nuova migrazione si scontrano necessariamente con il principio classico della
territorializzazione dei popoli che sta alla base del concetto, tutto europeo, di StatoNazione (sia che si parli di nazione etica che di nazione civica): e cioè del concetto
secondo il quale ogni popolo deve avere un suo Stato e risiedere in un territorio specifico.
Di conseguenza oggi, per gli immigrati, la trasformazione della tradizionale cittadinanza
nazionale si orienta verso un modello che potremmo definire di cittadinanza flessibile. La
cittadinanza è flessibile quando non è più necessario sviluppare un senso di appartenenza
nazionale verso il paese ospitante, e neanche cancellare i caratteri etnoculturali specifici
dell’immigrato. Non si richiede più, come un tempo, l’assimilazione come condizione per
l’incorporazione legale dell’immigrato; la sua naturalizzazione che comportava la perdita
del suo vecchio status. Il cittadino flessibile è incorporato legalmente in un territorio ma
può sviluppare legami e interessi con più di un paese alla volta. Risiedere in uno, lavorare
in un altro, provenire da un terzo (cfr. E. Caniglia 2005, pp. 45 ss.).
Sarebbe ingenuo pretendere di ritrovare la stessa ricchezza del dibattito e le stesse figure
giuridiche e politiche nella storia dei rapporti tra Europa e Africa di cento anni fa.
Innanzitutto perché i termini presi in esame: migrazione/cittadinanza/nazionalità avevano
un significato diverso e aproblematico. Secondariamente perché la grande migrazione dai
paesi del Sud del mondo verso i paesi a capitalismo avanzato non c’era. Infine perché i
flussi migratori, presenti sicuramente anche allora, non avevano però la stessa portata, lo
stesso significato politico, e non coinvolgevano le stesse aspettative individuali. Inoltre, a
ben guardare, tutto il dibattito sulla civilizzazione, che è la giustificazione nobile del
colonialismo, era in realtà un dibattito sulla estensione del concetto di nazione, e quindi
sulla estensione della cittadinanza, sulla esportazione delle varie nazionalità e cittadinanze
nei territori nullius che essendo appunto territori politicamente di nessuno, quelle identità
avrebbero potuto e dovuto assorbire.
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Allora il problema era, evidentemente, che l’essere quei territori di nessuno era una
finzione giuridica costruita ad arte dal diritto internazionale. Infatti, se non erano degli Stati,
intesi nel senso ottocentesco del termine, essi erano di proprietà, perlomeno, di chi ci
viveva.
Il diritto internazionale di fine 800 era però molto chiaro al riguardo. Un territorio abitato da
una popolazione “numerosissima ma barbara”, dal punto di vista del diritto privato
appartiene a quella popolazione, ma dal punto di vista del diritto internazionale appartiene
allo Stato (europeo) che lo occupa e vi estende il proprio dominio.
In questo quadro una opinione autorevole fu quella di Catellani che ricondusse
lucidamente la questione entro i termini del diritto coloniale: «Può esistere in un territorio
una popolazione numerosissima che sia però così barbara e così disgregata da non poter
dirsi che costituisca verun ordinamento politico né sia soggetta alla sovranità di qualche
capo… quel territorio sarà bensì, nei riguardi del diritto privato, posseduto nella parte
abitata dalla popolazione collettivamente considerata o dai singoli individui che la
compongano, ma dal punto di vista della sovranità quel paese dovrà essere considerato
res nullius. Le persone fisiche individuali vi esistono e perciò la proprietà del suolo non è
disponibile se non in quanto quella popolazione lo abbia fino allora lasciato in abbandono
o successivamente e spontaneamente lo abbandoni; ma la persona giuridica
rappresentante politicamente il paese e la collettività che lo abita non vi esiste, e le
sovranità costituite degli Stati civili vi trovano il campo così sgombro alla loro influenza
politica e all’estensione del loro dominio, come nelle parti deserte di quel territorio, i singoli
individui trovano il campo sgombro alla loro attività d’ordine privato e all’estensione della
loro proprietà. Mentre il diritto d’occupazione privata degli individui deve arrestarsi davanti
ad un altro individuo fornito di diritti preesistenti, il diritto di occupazione politica degli Stati
deve arrestarsi non già davanti a qualunque moltitudine di individui, ma soltanto davanti ad
un altro Stato» ( E. L. Catellani 1885, pp. 579-580).
Un simile atteggiamento non poteva che avere conseguenze negative quanto al
riconoscimento dei diritti di cittadinanza degli abitanti dei territori conquistati. Questi, non
godendo già da prima della conquista coloniale dei diritti politici, non ne avrebbero goduto
appieno neppure in futuro o, perlomeno, fino a che non avessero dimostrato di aver
raggiunto un grado accettabile di civilizzazione.
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2. La migrazione è una caratteristica costante della società africana
Da sempre le migrazioni fanno parte del modo di vita africano. Si tratta di differenti tipi di
migrazione che hanno un tratto comune: si decidono e si realizzano a livello di gruppo e di
conseguenza sfuggono a ogni forma di calcolo individuale. Quando non sono imposti dalle
catastrofi naturali o politiche, si segnalano come caratteristica della coutume o della
cultura di quel gruppo.
Il nomadismo carovaniero, le migrazioni pastorali, la coltivazione ciclica della terra, hanno
costituito per molto tempo il tratto culturale delle popolazioni africane che abitano le regioni
aride o semiaride del continente. Questa forma di movimento della popolazione, imposto
dai bisogni di trovare acqua e pascoli, è quello che viene in mente quando parliamo di
migrazioni tradizionali. Ma non è il solo. Anche le popolazioni che praticavano l’agricoltura
rudimentale avevano bisogno di spostarsi per trovare terre fertili; gli scambi e i commerci
che molti popoli adottarono come attività principale provocarono migrazioni di carattere
ciclico o temporaneo; così come le guerre di conquista che comportarono lo spostamento
dei vincitori sui territori dei vinti. Infine la tratta degli schiavi, che costituì per più di tre
secoli la forma più massiccia e brutale di migrazione. Si stima a 15 milioni il numero degli
individui che, dal 1550 al 1850 lasciarono l’Africa. E un numero più o meno uguale fu
quello delle vittime delle guerre interne e degli spostamenti forzati che la tratta provocò
all’interno del continente.
Riassumendo, nel corso dei secoli le migrazioni rappresentarono la risposta abituale delle
popolazioni africane alle calamità naturali: carestie, siccità, inondazioni, malattie degli
uomini e degli animali; ma anche alle calamità che potremmo definire “storiche”, come le
guerre e le occupazioni che spesso provocarono considerevoli flussi di popolazione da un
territorio a un altro.
Poi, a partire dal periodo coloniale, in gradi diversi, le migrazioni tradizionali subirono
l’influenza dei colonizzatori e, in un gran numero di casi, le sono sopravvissute. Ma è fuor
di dubbio che la presenza europea produsse un tale sconvolgimento nella organizzazione
dell’economia e della società che i movimenti della popolazione che seguirono finirono e
per eclissare le migrazioni tradizionali e per modificarne radicalmente la natura.
La conquista coloniale ebbe per effetto principale quello di spostare il centro di gravità
dell’attività economica sulle zone costiere, ma anche di creare degli spazi di sviluppo
all’interno del paese, lì dove venivano scoperti i giacimenti minerari o dove veniva
collocato il centro delle attività economiche. I bisogni delle economie europee
ridisegnarono la mappa dell’Africa e alla redistribuzione dell’attività economica si
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accompagnò una redistribuzione della popolazione: Per esempio l’utilizzo delle vie
marittime per il trasporto delle merci produsse insediamenti nelle zone costiere che invece,
in epoca precoloniale, quando il commercio seguiva le vie delle carovane, erano poco
popolate perché considerate insalubri. Poi l’elezione delle zone interne più fertili per lo
sviluppo della coltura di prodotti per la esportazione: caffè, olio di palma, cacao, banane,
caucciù ecc. incentivò l’esodo verso l’interno. Infine la costruzione di ferrovie, di strade, di
infrastrutture, determinò lo spostamento della manodopera indigena verso i centri del
nuovo mercato del lavoro.
Per il periodo in cui si mantennero le pratiche della schiavitù e del lavoro forzato questa
redistribuzione di lavoratori verso le zone economiche bisognose di manodopera sollevò
soltanto un problema di tipo logistico. La manodopera andava recuperata là dove era
abbondante senza preoccupazione per le conseguenze umane, sociali ed economiche
che questo prelevamento e trasferimento di uomini comportava.
Dopo l’abolizione della schiavitù e del lavoro forzato, l’imposizione alle popolazioni di un
tributo da pagare in denaro determinò in queste la ricerca di un lavoro salariato e, di
conseguenza, il loro spostamento verso le attività considerate come economicamente più
redditizie dal potere coloniale. In questo modo la tassazione degli indigeni ottenne un
duplice risultato: da un lato quello di assicurare alle amministrazioni coloniali un budget
che garantisse la quasi autosufficienza delle spese amministrative, dall’altro, dopo
l’abolizione del lavoro forzato, la possibilità di pilotare i flussi migratori interni verso le
attività considerate economicamente più redditizie (cfr. S. Ricca 1990, pp. 26 ss.).
3. L’emigrazione non segue la bandiera. Colonialismo ed emigrazione italiana
Ma la storia del colonialismo, lo sappiamo, è, se mai, quella di una migrazione a senso
inverso. Quando un paese è nello stadio di esuberanza demografica, se non dispone di
territori capaci di assorbire la popolazione sovrabbondante, dirotta le correnti migratorie
verso le colonie.
L’Italia di fine Ottocento vedeva la sua popolazione in esubero migrare verso l’America:
Stati Uniti e Argentina erano i Paesi che accoglievano gli italiani in cerca di fortuna. La
preoccupazione politica del nostro Paese era per la perdita della italianità e nasceva
sostanzialmente dalla osservazione che l’emigrazione non seguiva la bandiera. Solo per
fare un esempio, sicuramente diacronico ma significativo per il quadro che sto tracciando,
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nel 1931 il numero degli italiani in Libia è meno della metà di quello degli italiani in Tunisia:
45.000 contro 91.000. ( cfr. N. Federici 1938, p. 42).
Quella della italianità era una vera e propria ossessione per l’epoca; anche perché, se
vogliamo, si trattava di una conquista recente. Le date della unificazione: 1860 e 1870
precedono infatti di poco quelle delle prime conquiste coloniali. L’Italia appena unificata
temeva di perdere la propria identità nazionale. Nel triennio 1887-1900 Crispi aveva
riformato il Ministero degli Affari Esteri imponendo che i nostri rappresentanti all’estero
usassero come lingua ufficiale la lingua italiana, che non si sposassero con straniere, che i
loro figli seguissero dei corsi di studio uguali a quelli dei loro coetanei rimasti in Italia ( cfr.
G. Melis 1996, p. 171).
Le prime conquiste coloniali, tra le tante motivazioni di carattere politico, economico,
culturale, ebbero anche quella di poter trasferire l’esubero di popolazione in una colonia
che fosse italiana, una realtà territoriale alla quale la madrepatria potesse trasmettere i
caratteri di una seconda Italia. In questo modo non sarebbero andate perse le tradizioni, le
pratiche rituali e culturali, la lingua nazionale, insomma tutto quello che contribuisce a
costruire la identità nazionale.
Quindi un problema di identità, ma anche un problema economico. Alcuni anni dopo,
siamo attorno agli anni Trenta del Novecento, quando arrivò in colonia il secondo grande
flusso migratorio dall’Italia, l’attenzione principale si rivolse alla ricchezza che gli immigrati
portavano nel paese di immigrazione, sia perché più produttivi degli indigeni, sia per la
promessa demografica che rappresentavano. Gli italiani arrivati in colonia portavano
nuove risorse, lavoro, ricchezza, energie produttive e riproduttive (cfr. N. Federici 1938).
Ecco che viene in luce l’importanza dell’elemento demografico. Il riferimento, per tutta la
letteratura dell’epoca fino ai primi decenni del Novecento, è il caso degli Stati Uniti
d’America, dove la popolazione europea si sostituì, letteralmente, a quella locale e relegò i
pochi indigeni sopravvissuti nelle riserve; ma per il colonialismo africano la storia era
certamente diversa, perché gli europei erano pochi, gli indigeni molti e rappresentavano
pur sempre una riserva di manodopera a basso costo.
Sappiamo poi come finì la storia del progetto di popolamento e come l’Italia perse,
malamente, le sue colonie. Tuttavia il tema della identità culturale rimase in quegli anni un
problema centrale, e per tutta la durata del nostro colonialismo e anche oltre, nelle colonie
si continuò a respirare l’atmosfera della madrepatria.
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4. Amministrazione coloniale e migrazioni
Comunque sia, visto in questa prospettiva storica, il tema delle migrazioni degli eritrei
all’interno della colonia non sembra interessare granché i colonizzatori italiani.
Il problema della migrazione era soltanto, ai loro occhi, un problema di diritti, dal momento
che riguardava unicamente lo spostamento di risorse umane dall’Italia verso la colonia, un
problema di nazionalità quindi, di cittadinanza. I cittadini italiani erano se mai interessati a
sapere se, emigrando in colonia, avrebbero perduto qualcosa dei loro diritti, del loro status
di cittadini (cives optimo jure). Non era questa una preoccupazione per i sudditi coloniali
indigeni che, non godendo delle qualità politiche della cittadinanza, e non appartenendo a
una nazione, non creavano, dal punto di vista giuridico, alcun problema con i loro
spostamenti e le loro migrazioni.
La circolazione della manodopera indigena all’interno degli spazi coloniali era tuttavia un
fenomeno rilevante. Tali movimenti assumevano spesso i caratteri della coercizione
perché avevano per protagonisti, nella nuova veste di lavoratori salariati, quanti erano stati
costretti a lasciare i propri territori in seguito alla penetrazione italiana (cfr. P. Corti 2003,
p. 40). Nella Colonia Eritrea, solo agli inizi del XX secolo, come illustrerò più avanti,
l’utilizzazione di questa manodopera a contratto sarà disciplinata dal decreto
governatoriale del 25 marzo 1903, n. 181.
In Eritrea la conquista coloniale spostò il centro della attività economica: spesso
dall’interno verso la costa (Massaua), a volte invece le popolazioni si spostarono verso
l’interno, quando vennero creati, quasi dal nulla, i centri del potere politico ed economico
(penso ad Asmara). In generale la redistribuzione della popolazione seguì le scelte
economiche dei colonizzatori. Là dove c’era bisogno di manodopera si trasferirono, in
modo più o meno forzato, gli eritrei. Anche le scelte di politica fondiaria furono
determinanti per le migrazioni interne: la politica demaniale di Baratieri comportò, come è
noto, forti flussi migratori all’interno del paese.
Tuttavia, nonostante il fenomeno fosse di assoluta evidenza, sia la politica coloniale, sia il
diritto
coloniale,
lo
relegarono
a
pratica
amministrativa.
Di
esso
si
occupò
l’amministrazione coloniale quando divise la colonia in regioni il più possibile omogenee,
per territorio, ma soprattutto per popolazione (cfr. I. Rosoni 2006). Anche i funzionari
coloniali (Commissari Regionali) lo presero in esame quando stilarono, come prevedevano
gli ordinamenti amministrativi della colonia, i censimenti biennali delle popolazioni. Ancora,
divenne oggetto di studio da parte degli antropologi e degli etnografi. L’etiopista Carlo
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Conti Rossini, definì l’Abissinia «un museo di popoli» (C. Conti Rossini 1913, p. 61 ss, e
Id., 1929, p. 20). E certamente se ne occuparono i geografi quando stesero le loro
relazioni sulle popolazioni delle terre conquistate (cfr. O. Marinelli 1913, pp. 45 ss.).
L’amministrazione coloniale, con l’ art. 293 del Regolamento per i Commissari regionali e
Residenti (Decreto governatoriale del 30 maggio 1903, n. 213), disciplinò in qualche modo
la migrazione interna, quando stabilì che, previo nullaosta dei commissari regionali,
l’autorità di P.S. avrebbe dovuto accordare agli eritrei i fogli di via per gli spostamenti
all’interno della colonia. Lo stesso articolo prescriveva che agli indigeni non potessero
essere rilasciati passaporti. (Il passaporto garantiva una possibilità di spostamento
permanente, il foglio di via una possibilità di spostamento temporaneo e contingente).
L’amministrazione coloniale si occupò delle migrazioni anche quando affrontò il problema
della tratta degli schiavi. La Colona Eritrea, dove evidentemente non esisteva la schiavitù,
era però attraversata dalle carovane di merci e schiavi dirette ai mercati del Darfur. Ma
anche dalle coste, soprattutto quelle della Dancalia, i mercanti di schiavi imbarcavano la
loro merce per l’Arabia.
La diffusione del fenomeno, ancora nella seconda metà dell’800, è testimoniata dal
famoso viaggiatore svizzero Werner Munzinger che negli Studi sull’Africa Orientale,
resoconto del suo viaggio in Africa al seguito della spedizione Vogel del 1861, scriveva:
«Nel mio viaggio di ritorno da Gedda a Suez [gennaio 1863], il vapore che mi portava, e
che apparteneva al governo egiziano, era carico di 200 schiavi, pei quali s’era pagato
soltanto la metà del nolo, e che furono sbarcati a Suez senza la minima difficoltà. Alcuni
egiziani ai quali io ne feci le meraviglie, mi risposero che non si poteva far loro rimprovero
di questo commercio, perché, dal momento che i lavori per l’istmo di Suez toglievano gli
agricoltori all’aratro, era d’uopo introdurre schiavi per sostituire le forze perdute. Neppure
nel Sudan il divieto di siffatto commercio viene severamente mantenuto. Noi incontrammo
sulla strada da Kartum a El Obeid molte carovane di schiavi. In El Obeid stesso se ne
sarebbero potuti comprare centinaia; solamente non erano più esposti sul mercato» (cfr.
W. Munzinger 1890, pp.15-16).
Anche Ferdinando Martini, governatore dell’Eritrea dal 1897 al 1907, e futuro Ministro delle
Colonie, ne parla il 15 febbraio del 1908, alla Camera dei deputati, poco dopo il suo rientro
definitivo dall’Africa. Martini si lamentava del fatto che l’Italia, avendo aderito all’atto
generale di Bruxelles per la repressione della schiavitù, atto che la obbligava e a liberare
gli schiavi presenti in Eritrea e a combattere ogni forma di schiavismo, perdesse il dazio
per l’attraversamento della colonia pagato dalle molte carovane che, ora, visto il pericolo di
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perdere le merci, si guardavano bene dall’attraversare le sue frontiere: «... Della
schiavitù ... orbene anche noi aboliamo la schiavitù quando si tratta di sudditi nostri,
questo è giusto: ciò si può fare senza pericolo, e si fa, è stato sempre fatto. Ma io mi
domando perché dobbiamo esser noi obbligati ad abolire la schiavitù anche per i sudditi
degli altri, per quelli di Menelik ad esempio? Perché questo accade: un carovaniere viene
da Jeggiu, dai Vollo Galla, da Goggiam, porta con sé pelli, zibetto, miele ed altre
mercanzie e naturalmente vengono con lui tre, quattro, cinque schiavi: questi arrivati in
Colonia, domandano di essere liberati; naturalmente si liberano per essere fedeli all’atto di
Bruxelles, ed anche perché se non si liberassero, della negata liberazione giungerebbe
notizia in Italia, e alcuni giornali non tarderebbero a dar taccia al Governatore di barbaro e
di negriero. Gli schiavi dunque si liberano, ma il carovaniere, che, in questo modo, perde
più di quello che non ha guadagnato con le sue merci, in Colonia non torna più, e prende
altre vie, va in altri mercati dove l’osservanza dell’atto di Bruxelles è molto meno rigida;
perché in sostanza questo è il vero: questa abolizione della schiavitù, a cui si dà il
pomposo nome di vanto umanitario, non è che una insidia internazionale» (cfr. F. Martini
1908, pp. 320-321).
Anche nella Relazione sulla Colonia Eritrea per gli anni 1902-7, troviamo testimonianza,
per gli anni che vanno dal 1903 al 1906, di 235 casi di schiavi fuggiti dalle regioni
circostanti, dal Darfur, dall’Amara, dal Mar Rosso, che si sono messi sotto la protezione
del governo coloniale e sono stati quindi liberati (cfr. F. Martini 1913b, pp. 1576 ss). Molti
schiavi si rifugiavano in Eritrea ancora nel 1940. In un numero monografico degli «Annali
dell’Africa Italiana» del 1940, si scrive del villaggio di Ducambia (Residenza di Barentù),
nato per accogliere gli schiavi liberati fuggiti dalle regioni confinanti (cfr., Il lavoro e
l’assistenza sociale, l’assistenza agli schiavi liberati, 1940, pp. 1095 ss).
Infine si occuparono di migrazione i funzionari coloniali quando dovettero regolamentare il
lavoro indigeno. In Eritrea, il fenomeno dei flussi migratori che da oltre Mareb e dal Mar
Rosso arrivavano in colonia in cerca di lavoro è ben illustrato da Dante Odorizzi che, in un
allegato alla Relazione sulla colonia Eritrea (anni 1902-1907), riferisce di circa 1.000
operai indigeni provenienti dalla costa arabica e di circa 2.400 dall’Impero etiopico (cfr. D.
Odorizzi 1913 pp. 880 ss.). Tale flusso migratorio, non straordinario per le cifre messe in
campo, ma sicuramente significativo per la piccola colonia italiana, indusse il governo
coloniale a disciplinare il mercato del lavoro indigeno.
La prima legge sulla regolamentazione della manodopera indigena è il Decreto
governatoriale del 25 marzo 1903, n. 181, che regola i rapporti tra la mano d’opera
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indigena e gli imprenditori italiani. Questa legge è solo un esempio di una legislazione che
prendeva piede in tutti i paesi africani occupati dalle potenze europee. Agli inizi del secolo
i governi coloniali realizzarono di dover tutelare i sudditi coloniali da una forma di lavoro
che, se pur salariato e libero, ricordava molto il lavoro perpetuo degli schiavi.
Regolando e disciplinando il lavoro indigeno si sarebbe contrastato lo spostamento forzato
della popolazione operato dagli imprenditori europei, sia all’interno della colonia, sia
all’interno dell’impero coloniale. Il compito venne assunto dalle amministrazioni coloniali
che incaricarono i loro funzionari di controfirmare di volta in volta tutti i contratti di lavoro e
di assicurarsi che i termini contrattuali venissero rispettati.
In questo modo l’amministrazione coloniale assumeva il ruolo di arbitro, di mediatore, tra
la domanda e l’offerta di lavoro. Per cultura, e per ovvi motivi politici, l’amministrazione
stava dalla parte degli imprenditori ai quali era legata da vincoli non solo di “vicinanza” ma
anche di forte interesse economico (basti soltanto pensare alle procedure per
l’assegnazione delle concessioni e degli appalti), ma si trovava anche costretta a tutelare il
lavoro degli indigeni che erano, a tutti gli effetti, sudditi delle potenze coloniali.
Un esempio illuminante che riguarda le colonie portoghesi è contenuto nel romanzo dello
scrittore portoghese Miguel Sousa Tavares, intitolato Equatore. Siamo a S. Tomè, agli
inizi del Novecento. Nell’isola lavorava una manodopera importata dall’Angola. Si trattava
di un caso di emigrazione, più o meno forzata, da una colonia all’altra dello stesso impero,
e il fenomeno assomigliava molto al traffico di schiavi che fino a pochi anni prima aveva
spostato la manodopera indigena dalla provincia che ne possedeva in abbondanza a
quella che ne era priva. Quindi, nonostante la legge del 29 aprile 1875 avesse abolito la
schiavitù in tutti i domini dell’impero, di fatto il traffico degli schiavi continuava, per opera
degli imprenditori che imbarcavano lavoratori dalle coste dell’Angola e li sbarcavano sulle
coste di S. Tomè. Ai lavoratori veniva sì riconosciuto un salario (spesso solo sulla carta),
ma poi non li si metteva nelle condizioni di ritornare alle proprie case. Per i commentatori
dell’epoca soprattutto questo ultimo dato rendeva la loro condizione di lavoro molto simile
a quella dell’antica schiavitù. A tutela dei sudditi africani del Portogallo intervenne la legge
del 29 gennaio 1893 che stabiliva che il contratto di lavoro durasse al massimo 5 anni, e
imponeva agli imprenditori portoghesi la creazione di un fondo di rimpatrio, destinato a
sopportare i costi del loro rientro nelle terre d’origine, costituito con il versamento della
metà del salario dei lavoratori delle piantagioni.
Per tornare al caso italiano, la legge che regolava i rapporti tra la mano d’opera indigena e
gli imprenditori italiani era un decreto governatoriale e aveva quindi, a tutti gli effetti, e
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all’interno del territorio coloniale, il valore di una legge. Tuttavia, come gran parte della
legislazione italiana relativa alle colonie, era stata concepita dalla macchina amministrativa
eritrea e non dal parlamento italiano. La legge non istituiva, come invece la legge
portoghese, un fondo per il rimpatrio, perché l’unica altra colonia italiana, la Somalia, non
esportava lavoratori in Eritrea, tuttavia dava conto di una notevole sensibilità verso la
tutela del lavoro indigeno.
Ne illustro brevemente il contenuto. L’art. 1 prevedeva che «Tutti gli indigeni che
intendano impiegarsi come giornalieri in aziende, industrie od imprese condotte da europei
od assimilati, devono munirsi di un libretto personale, che sarà rilasciato dall’autorità di
pubblica sicurezza del luogo». Sul libretto, contenente i dati generali del lavoratore, le
assunzioni e le cessazioni dal servizio, dovevano essere apposte dal datore di lavoro, in
presenza di un’autorità italiana, tutte le annotazioni relative alla paga, ai patti del contratto
di lavoro, al genere di lavoro. Il salario doveva essere determinato in misura fissa e
corrisposto a periodi non maggiori di 15 giorni. A richiesta del lavoratore, la paga poteva
essere parzialmente corrisposta anche in derrate, subordinando il prezzo di queste al
controllo dell’autorità (art. 2). L’art. 3 prevedeva che le giornate di lavoro, i pagamenti, le
somministrazioni eseguite in corso d’opera fossero chiaramente registrate sul libretto, a
cura del datore di lavoro, e da lui controfirmate. L’operaio doveva esibire giornalmente il
libretto. Le false annotazioni erano punite a norma del titolo VI, libro 2° del Codice Penale
(Delitti contro la fede pubblica). L’imprenditore che ometteva di eseguire le annotazioni
prescritte era punito a norma dell’art. 434 del Codice Penale (Contravvenzioni concernenti
l’ordine pubblico: rifiuto di obbedienza all’autorità) e cioè con l’arresto sino a un mese
oppure un’ammenda da 20 a 300 lire. L’operaio poteva presentare reclamo all’autorità
coloniale solo se munito di regolare libretto di lavoro. Poi l’art. 5 vietava ai giornalieri
indigeni, salvo gravi motivi, di abbandonare il lavoro senza darne preavviso di almeno una
settimana. I giornalieri potevano però abbandonare in qualunque momento il lavoro se
l’imprenditore si fosse rifiutato di eseguire le annotazioni sul libretto. Seguivano altri
articoli, tutti più o meno conformi alla normativa del diritto del lavoro dell’epoca, infine, di
una certa rilevanza, l’art. 8 che prevedeva che «gli imprenditori europei o assimilati i quali
nei loro rapporti con operai indigeni diano prova di malafede o si rendano colpevoli di
maltrattamenti od abusi, saranno esclusi dagli appalti e dai cottimi per opere e forniture
pubbliche, e nei casi più gravi, senza pregiudizio delle maggiori pene in cui fossero incorsi,
saranno espulsi dalla Colonia, a sensi dell’art. 39 del regio decreto 8 dicembre 1892
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sull’ordinamento della pubblica sicurezza in Eritrea» ( cfr. Decreto governatoriale 25 marzo
1903, n. 181).
Complessivamente si trattò di una buona legge, lo possiamo affermare con certezza se
non altro perché non ebbe una buona accoglienza da parte degli imprenditori italiani che la
trovarono vessatoria per la dignità e i diritti dei coloni. Tuttavia, nel panorama europeo, la
legislazione inglese, peraltro di tre anni più tarda, risultava molto più favorevole nei
confronti dei lavoratori, e di conseguenza più severa nei confronti dei datori di lavoro.
Infatti l’Ordinanza del Governo dell’Africa orientale britannica del 1906, oltre a creare
apposite sanzioni penali (la legge italiana faceva invece riferimento alle leggi comuni del
Regno), si attardava a regolare, in favore dei lavoratori, alcune condizioni contrattuali quali
l’alloggio, la coperta della notte, la razione giornaliera di cibo, gli orari del vitto, i turni di
lavoro ecc.
Per concludere voglio riportare una nota di colore che tradisce la ambigua sensibilità
politica di molti degli italiani emigrati in colonia, che passavano con una certa disinvoltura
ideologica dalla condizione di sindacalisti a quella di imprenditori. Si tratta della
testimonianza di un funzionario coloniale, Dante Odorizzi, che fu commissario regionale a
Massaua e poi Residente della Dancalia settentrionale. Odorizzi sottolineava in un suo
scritto, le difficoltà degli imprenditori italiani a riconoscere ai lavoratori eritrei gli stessi diritti
riconosciuti in patria ai lavoratori italiani: «Nei lunghi anni da che io disimpegno funzioni
giudiziarie in Eritrea, non ho mai trovato che il breve e concettoso testo del decreto del
1903 sulla mano d’opera degli indigeni fosse suscettibile di lasciare al giudicante
incertezze o dubbi: pur troppo le difficoltà per amministrare la giustizia in simile materia
vengono spesso, più che dalla incertezza della legge coloniale, dalla riluttanza in molti
assuntori di lavori ad impegnarsi dando il libretto agli indigeni, dal loro sdegno di esser
chiamati da indigeni a rispondere in giudizio delle eventuali inadempienze, dalla loro
pretesa di volere assoggettare l’indigeno a qualsiasi mutamento di patti contrattuali loro
piaccia escogitare. E’ facile per tal modo che il Commissario giudicante noti stupore o
indignazione nell’assuntore europeo nell’atto di sentirsi condannare a restituire multe
indebitamente applicate o a reintegrare l’indigeno di danni per intempestivi e non
giustificati licenziamenti: lo stupito o indignato sarà qualche volta uno di coloro che, nelle
regioni italiane ove il lavoro ha imposto le sue leggi al capitale, hanno condotto gli operai o
i contadini in tumulto a imporre la disdetta o la rinnovazione dei patti, magari già
liberamente conclusi ed accettati. Come se la dignità del lavoro fosse meno considerevole
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se invocato da uomini di una razza di pelle diversamente colorata!» (cfr. D. Odorizzi, 1913,
pp. 883-4).
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