DIO ESISTE ED E’ AMORE
Un dono della bontà del Signore è Benedetta
Bianchi Porro. La sua vita è un vero miracolo,
disegnato giorno per giorno dall’onnipotenza di
Dio, che, attraverso gli umili, fa grandi cose nel
mondo.
Benedetta nella sua agenda del 1962 scrive
esattamente così: “Bisogna fidarsi di Dio ad
occhi chiusi”. E ancora: “Nelle mani di Dio
anche le cose più insignificanti possono diventare
la nostra cometa”.
Infine, annota un pensiero ricchissimo di
sapienza e di esperienza personale:
“Il dolore ci butta tra le braccia di Dio”.
E riconosce con candore disarmante:
“La fede fa fare prodigi”.
L’8 agosto 1936 nasce una bimba nella famiglia di Guido Bianchi Porro e di
Elsa Giammarchi, a Dovadola, in provincia di Forlì.
Prima di lei era nato Leonida e dopo di lei nasceranno Gabriele, Manuela, Corrado
e Carmen: una famiglia a cui Benedetta sarà profondamente legata.
Ben presto la piccola conosce il dolore: infatti,
poche ore dopo la nascita comincia ad agitarsi e a
piangere a motivo di una grave emorragia. La
mamma è preoccupata e decide di battezzarla:
prende una bottiglietta con l’acqua di Lourdes e la
battezza con i nomi di Benedetta, Bianca, Maria,
Grazia. Nomi che misteriosamente sono la profezia
della sua vita!
La bambina guarisce ma, a tre mesi, è colpita dalla
poliomelite: la gamba destra resta più corta e
Benedetta sarà irrimediabilmente zoppa. Passano
gli anni e Benedetta scopre il mondo affascinante
dei fiori, dei colori, della neve e del sole…; ma
scopre anche il mistero tenebroso del male.
Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in
guerra. La famiglia di Benedetta sfolla
a Casticciano, ai piedi del colle di
Bertinoro. La bimba esprime nel suo
diario i suoi primi timori e il suo
turbamento. Un giorno dirà alla
mamma: “Che cosa orribile è la
guerra! Perché si uccidono? Perché
tanto
odio?
Perché
tanta
cattiveria?”.
Nonostante la guerra con i suoi disagi
e i trasferimenti forzati, Benedetta
riesce a frequentare la scuola
elementare. E’ ancora bambina, ma la
strada della sua vita sempre più
chiaramente
appare
segnata
dall’appuntamento
col
dolore:
Benedetta risponde con la forza
dell’amore.
Un giorno, all’uscita da scuola, Gabriele va incontro alla sorella per
accompagnarla a casa. Lungo la strada le si avvicina un compagno che dice in
tono canzonatorio: “Zoppa, zoppetta”. Benedetta non reagisce. Gabriele tenta di
colpire il ragazzo per difendere la sorella, ma lei lo prende per mano e lo dissuade
dicendo: “E’ pur vero, sono zoppa!”.
In questa risposta serena c’è già tutto lo stile di Benedetta, in sintonia perfetta
con il Vangelo di Gesù, che San Paolo riassume così: “Benedite coloro che vi
perseguitano, benedite e non maledite. Non rendete a nessuno male per male. Non
lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rom. 12,14,17,21).
Terminata la guerra, Benedetta si
trasferisce con la famiglia a Forlì:
la vita riprende tranquilla.
Un giorno confiderà alla sorella:
“Ti ricordi, Manuela, come
eravamo felici quando alla
domenica la mamma ci portava
a San Mercuriale e tutti
volevamo stare attaccati a lei?
Come eravamo felici allora! E
non sapevamo di esserlo!”.
Nel 1951 la famiglia Bianchi Porro si
stabilisce a Sirmione del Garda: Benedetta
ora frequenta il liceo classico e avverte i
primi sintomi di una fastidiosa sordità.
Annota sul suo diario: “13 febbraio 1953.
Sono stata interrogata in latino: ogni
tanto non capivo quel che il Professore
mi chiedeva. Che figura devo fare…! Ma
cosa importa? Un giorno forse non
capirò più niente di quello che gli altri
mi diranno, ma sentirò sempre la voce
dell’anima mia. E questa è la vera via
che devo seguire”.
Di fronte alla difficoltà Benedetta non si
abbatte, ma lotta con tutte le sue forze.
Nell’estate del 1953 si prepara all’esame di
maturità liceale, saltando un anno: ed è
promossa.
A 17 anni si iscrive all’Università e decide
di frequentare la facoltà di medicina. E’ scritto sul suo diario: “Voglio vivere,
lottare e sacrificarmi per tutti gli uomini”.
E sarà così: ma per una strada che
Benedetta ancora non conosce.
Al primo esame universitario, Benedetta
è tesa, emozionata…, perché ha paura
che la Professoressa si accorga della
sua sordità.
Si sforza di intuire le domande dal
movimento delle labbra e risponde
veloce: perfettamente!
Ma la Professoressa non percepisce il
dramma di Benedetta e pensa che
abbia imparato tutto a memoria. La
congeda con un voto mediocre e le dice:
“Signorina, si ricordi che l’Università
non è una scuola per pappagalli!”.
Benedetta capisce queste parole, si alza
avvilita e, quando esce, ha le guance
bagnate di pianto.
Estate 1955. Benedetta affronta
l’esame più impegnativo del biennio;
la grande aula è gremita di studenti.
La prima parte dell’esame si svolge
con l’assistente: Benedetta esamina il
vetrino con il microscopio, riconosce
il preparato e risponde a tutte le
domande con sicurezza. Poi viene
chiamata dal Professore per la
seconda parte dell’esame: quella
teorica, più difficile.
Lei non sente nulla, indugia un attimo…
Il Professore ripete la domanda, ma Benedetta non riesce a capire. Diventa rossa
per la vergogna, si scusa, cerca di spiegarsi: alcuni compagni ridono.
Benedetta si riprende: “La prego di aver pazienza… non sento… spero di
guarire… abbia la bontà di farmi le domande per iscritto…”.
Il Professore, irritato, le urla in faccia: “Che pazienza! Chi ha mai visto un medico
sordo!?”. Prende il libretto universitario e lo scaglia lontano, verso la porta.
Benedetta si alza, cammina lentamente con il cuore in tumulto, raccoglie il
libretto, esce umiliata.
Torna a casa e tiene per sé la sua pena. Ma Anna che ogni giorno l’accompagna,
riferisce l’accaduto alla mamma Elsa che, indignata, decide di parlare con il
Rettore. Benedetta dolcemente asserisce: “Il professore è stato buono, non mi
ha rovinato il libretto con un brutto voto!”. La mamma ottiene di farle ripetere
l’esame. Questa volta l’esito è positivo.
La mamma l’abbraccia: “Sei contenta?”. Ma Benedetta è triste: “Sì, mamma, è
andato bene! Ma a che serve?... Tra poco…”. Non dice altro: Benedetta ormai
capisce la situazione. Infatti, mentre tornava a casa dall’Università, aveva sentito
un dolore acuto alla
testa. Poi la vista si
era
appannata
improvvisamente e le
cose attorno le erano
apparse
come
sfuocate.
Si era appoggiata ad
Anna.
Un pensiero terribile
l’aveva folgorata: “No,
mio Dio! Gli occhi
no!!”.
La malattia avanza silenziosa, inesorabile.
Arriva il Natale del 1956 e Benedetta che ha già perso l’udito, vede sempre meno.
Una sera, mentre era in compagnia di Elettra, un’amica di famiglia, va a prendere
in biblioteca il libro di patologia. Lo apre e lo scorre alla ricerca di una pagina:
“Vede? – esclama – La mia malattia è questa, ma non mi credono”. E mostra
la fotografia di un uomo affetto da neurofibromatosi diffusa: una malattia
rarissima e incurabile che genera tanti piccoli tumori lungo i nervi periferici.
In Benedetta il primo ad essere colpito è stato il nervo acustico, con la
conseguente sordità. In breve tempo questa rete di morte lederà gli altri organi di
senso e, da ultimo, la vista; poi sarà l’immobilità e l’insensibilità quasi totale.
Benedetta l’aveva capito da sola: a questo le servirono i suoi studi!
27 giugno 1957: viene operata alla testa per la prima volta, e le tagliano tutti i
capelli. Forse Benedetta, in quel momento, ricorda una scena della sua infanzia:
rivede il contadino, che tosa la lana ad una pecora… E dice: “Mamma, mentre
mi tagliavano i capelli, mi sentivo come un agnellino cui tagliano la lana e
pregavo il Signore che mi facesse forte e piccola. Il Signore, mamma, vuole
da noi grandi cose! Ho sofferto tanto e ho domandato tanto al Signore di
essere una pecorella nelle sue mani”.
La notte che precede l’operazione è interminabile. E’ sola: non vuole che la
mamma resti in ospedale, perché sa che a casa i fratellini hanno bisogno di lei…
Viene il momento dell’operazione che sembra riuscire bene… Ma, appena
riavutasi dall’anestesia, Benedetta si tocca il volto ed esclama: “Mi hanno
tagliato il nervo facciale!”. Il chirurgo, infatti, operandola aveva leso per
sbaglio quel nervo, paralizzando metà volto. Amareggiato, il medico è lì accanto a
lei. Ancora una volta, il cuore di Benedetta rivela una bontà sconfinata e una
capacità eroica di comprensione.
“Dottore, - dice – lei ha fatto tutto quello che poteva. Mi dia la mano e stia
sereno! E’ una cosa che può succedere: non è mica il Padre eterno lei!”.
Il 7 agosto 1959, Benedetta è operata al midollo spinale. L’intervento risulta
inutile, anzi aggrava le sue condizioni: perde infatti l’uso degli arti inferiori e deve
aiutarsi con le stampelle per muovere qualche passo, ma la fatica la fa sudare
molto e a volte sviene.
Un giorno la mamma entra dentro la camera di Benedetta e le siede accanto; ha
gli occhi gonfi e il volto tirato. Benedetta la guarda e domanda: “Mamma, ti senti
poco bene?” “No, sono triste per te, che vedo condannata a questo letto…”.
Benedetta allora la consola: “Non piangere, mamma, e non soffrire per me.
Non piangere, lasciamo che sia il Signore a decidere. Se ora ha stabilito
così, ci aiuterà. Io lo
pregherò tanto, perché aiuti
te più di me”.
Fisicamente
annientata,
possiede la ricchezza dello
Spirito, e ne fa dono agli altri.
La sua vita è divenuta come
un fiume di acqua viva per la
salvezza di molti. Tanti amici
approderanno
a
questa
sponda per dissetarsi: per
ricevere una parola buona, un
gesto amabile, il calore di una
accoglienza fraterna.
Un giorno la mamma le porta
una lettera di don Elios Mori.
Benedetta la legge più volte e
la fa leggere alla mamma.
Un
passo
la
colpisce
profondamente: “Benedetta –
dice il sacerdote – non ti
meravigliare e non perderti
d’animo se a volte senti dentro
di te una ribellione che non riesci a dominare. Alla nostra povera sensibilità non
possiamo impedire che a volte esploda. Ma questo non ci porta lontano da Dio;
anche con la ribellione, si resta tra le braccia di Gesù e della Madonna.
E’ una tempesta che passerà e ritroverai il sole. Quando le nubi sono molto nere e
ti pesano sul cuore, pensa che oltre le nubi c’è sempre il sole, bello e intatto.
Anche sulla tua vita c’è sempre il sole oltre le nubi”.
Ecco la soluzione: il sole c’è sempre, anche quando è nascosto! Benedetta si
attacca a questa verità con tutte le sue forze.
Il 21 febbraio 1960 Benedetta scrive ad una amica:
“Quanto a me faccio la vita di sempre; eppure mi sembra così completa! La
vita in sé e per sé mi sembra un miracolo e vorrei poter innalzare sempre
un inno di lode a Chi me l’ha data.
Certe volte penso se non sia io una di quelle creature a cui molto è stato
dato e molto sarà chiesto”.
Benedetta già sorda e totalmente paralizzata, scrive a Maria Grazia:
“Io penso che cosa meravigliosa è la vita (anche nei suoi aspetti più
terribili) e la mia anima è piena di gratitudine e di amore verso Dio, per
questo”.
Un giorno, in occasione del compleanno di Benedetta, sua mamma acquistò un
uccellino in gabbia. Porgendolo alla figlia disse: “Anche tu forse ti senti come
questo uccellino”. Ma Benedetta rispose: “No, mamma, mai mi sono sentita
tanto libera come ora”.
Il 24 maggio 1962, con il treno dell’Unitalsi, Benedetta parte per Lourdes: la
mamma l’accompagna.
Quando, dopo il lungo viaggio, Benedetta finalmente si trova davanti alla Grotta,
il suo volto si illumina di gioia celeste e prega intensamente la Madonna per tutti.
Si dimentica di sé, perché la sua vita ormai è “abitare negli altri”.
Il giorno della partenza viene portata ancora alla Grotta per l’ultima preghiera:
accanto a lei c’è una ragazza, di nome Maria, paralizzata da due anni e che si
dispera. La mamma lo fa capire a Benedetta, che sussurra: “Abbi coraggio,
Maria. La Madonna è là. Non piangere. Pregala!”. La ragazza scuote la testa
disperata. Allora Benedetta le prende la mano e insiste: “Pregala, Maria. La
Madonna ti guarda e ti ascolta. Dille tutto quello che vuoi. Prega. Anch’io
pregherò per te”.
Poco dopo, mentre
continua la recita
del Rosario, Maria
scende
dalla
barella:
ora
cammina e grida
al
miracolo,
è
piena di gioia.
Tra
l’emozione
generale,
Benedetta e la
mamma
restano
sole: la mamma
ha un momento
di
sconforto;
anche lei avrebbe
voluto il miracolo!
Poi guarda la figlia: lei è serena e felice!
La mamma allora trattiene le lacrime e trova la forza di rispondere a quel sorriso.
I santi ci sorprendono sempre e, dolcemente, ci conducono sulla via di Dio!
Nell’ottobre dello stesso anno Benedetta viene ricoverata all’ospedale di
Desenzano per ascessi multipli dentari e viene sottoposta a numerose
asportazioni. In questo ospedale vede per l’ultima volta l’amica Nicoletta, che
parte missionaria per il Brasile.
Successivamente Benedetta le confiderà: “Sto vivendo la semplicità, cioè la
spoliazione dell’anima: è così bella, si diventa molto leggeri e liberi. Nella
sofferenza si accende in noi la luce di Cristo che ci sostiene”.
27 febbraio 1963. Benedetta sta per essere nuovamente operata alla testa, nel
tentativo di evitare la cecità. Ha paura.
Maria Grazia le è vicina e per rincuorarla le scrive su un foglio le parole di
Bernanos: “Se avrò paura, dirò senza vergogna: Ho paura! E il Signore mi darà la
forza”. Benedetta legge queste parole e le ripete adagio, a bassa voce, tante volte:
“… e il Signore saprà rassicurarmi”. Dopo l’intervento, quando si risveglia
dalla narcosi, soffre molto ed
esclama:
“Che fatica,
mio Dio! Che fatica!
La mia croce è
pesante…Ma io voglio donare con gioia, non per forza!”.
Il 28 febbraio , al mattino, è circondata da molti amici
e
viene celebrata
la Messa nella sua stanza.
Verso sera, Benedetta improvvisamente domanda: “Che ore sono?”. Informata
che erano le sei pomeridiane, confida ad Elettra: “Per favore, dica alla mamma
che da cinque ore… io non vedo!”.
Una notizia terribile, annunciata con delicatezza, quasi con il timore di fare
soffrire… gli altri! Infatti, appena giunge la mamma, Benedetta si preoccupa di
raccomandarle: “Mamma, non dirlo subito al Professore. Poveretto, starà
male quando saprà che mi ha operato invano!”.
Raggiungere la serenità non fu per Benedetta una impresa facile: fu una lotta a
sangue che le consentì di vivere il dolore come mistero d’amore e di speranza.
Dirà nell’estate del 1963 , scrivendo ad un’amica: “Nella tristezza della mia
sordità e nella più buia delle mie solitudini, ho cercato con volontà di
essere serena e di far fiorire il mio dolore…”.
E ancora: “Sono in certi istanti sbalestrata, senza sostegno, come in una
scala traballante senza appoggio, vagando e non riuscendo più a salire.
Eppure lo voglio! Mi sento sola…
Mi domando spaventata com’è terribile avere solo paura di perdere Dio. E
questo mi è accaduto: solo la paura!
Poi ho indagato dietro,
nel passato, non ho
trovato peccati mortali.
Allora, adagio, adagio, è
tornato il sereno, la
pace, la bonaccia.
Dentro di me ho sentito
ancora la voce del Padre.
Assetata sono corsa a
farmi confortare. Era
Lui! L’ho risentito! L’ho
ritrovato! Che sollievo!
Con Lui mi sento di poter
camminare lontano, in
capo al mondo, se Lui
vorrà”.
Quando
Benedetta
pronunciò queste parole
era
completamente
paralizzata,
sorda,
e
irrimediabilmente cieca! La
vittoria della sua anima è
un dono, un insegnamento!
Benedetta ci insegna a vivere “lasciando che il senso della nostra vita lo
sappia e lo conosca solo Lui”, il Signore! Questa è fede, fede vera, fede che
avvicina a Dio e riempie l’anima di luce.
Benedetta ci comunica la sua meravigliosa esperienza di Dio: “Io sono molto
contenta. Ora con me c’è Dio e sto bene. Come sto bene!
Vivo in un deserto silenzioso, ma con la luce della preghiera. Com’è buono
il Signore; Lui che veramente mi ha sempre custodita e tutte le volte che
l’ho invocato è accorso ad aiutarmi! Presto suonerà la campana e Lui,
finalmente, mi verrà incontro”.
Mentre
è
all’ospedale,
Benedetta
conosce Umberto. Non sa niente di lui,
ma intuisce subito qualcosa ed
afferma: “E’ un uomo che nella carne
ha molto sofferto!”.
Per questo lo accoglie con una
tenerezza
particolare e gli dice
dolcemente: “Umberto, vada a Messa
con Maria Grazia; è molto bello il
Vangelo di oggi: è quello della
Samaritana!”.
Quell’uomo,
lontano
dalla
fede,
comincia ad essere tormentato dal
mistero di Benedetta. Le scrive un
biglietto: “Per ringraziarti di quello che
soffri per te, per me, per tutti…”.
Nell’estate
anche
Umberto
viene
ricoverato in ospedale e Benedetta gli
manda una lettera:
“So che non sta bene ed io vorrei mandarle gli auguri. Umberto, lasci che
Dio La ritrovi e La porti amorevolmente sulle spalle. Il Signore è fedele:
sempre. Non ci lascia in nessun momento. Anch’io ho passato tanti dolori…
e Lui è venuto e mi ha consolata…
Caro Umberto, mi ascolti. Non creda di essere solo a soffrire. Non si
affanni, non si domandi: dov’è Dio? Non lo cerchi lontano, perché è vicino
a lei, è in lei. Lo ami allora semplicemente, con umiltà. L’eroismo è non
ribellarsi. Accetti con coraggio: tutto! E tutto per incanto diverrà semplice
e pieno di pace.
Per questo io prego per Lei. E Lei, al Signore domandi aiuto anche per me.
Sua sorella Benedetta”.
Umberto che forse pensa di aver perso la fede, resta sconvolto dalla richiesta di
Benedetta: gli chiede l’elemosina di una preghiera!
Può negargliela? Quella lettera lo tocca profondamente. Nel mese di agosto
Umberto sembra molto cambiato: è sereno, quasi lieto.
Il 30 agosto muore improvvisamente, e quello stesso giorno, pur non sapendo
nulla, Benedetta dice alla mamma e al fratello Corrado:
“L’esilio di Umberto è finito! Tutti i suoi dubbi saranno dissipati”.
Benedetta, dopo mesi di ospedale, torna a Sirmione e attorno a lei fiorisce il
prodigio dell’amicizia.
Il suo letto è circondato da giovani che cercano un dialogo, una parola, un
conforto, una luce: e non restano mai delusi.
La mamma le “legge” talvolta le “lettere al Direttore” pubblicate sul settimanale
“Epoca”. Una di queste racconta la vita disperata di un giovane, Natalino,
sofferente per una grave malformazione alla spina dorsale. Benedetta vuole dirgli
qualcosa e detta alla mamma:
“Caro Natalino,
in “Epoca” è stata riportata una tua lettera. Attraverso le mani la mamma
me l’ha letta. Sono sorda e cieca, perciò le cose, per me, diventano
abbastanza difficoltose.
Anch’io come te ho ventisei anni e sono inferma da tempo. Un morbo mi ha
atrofizzata quando stavo per coronare i miei lunghi anni di studio: ero
laureanda in medicina a Milano. Accusavo da tempo una sordità che i
medici stessi non credevano all’inizio. Ed io andavo avanti così non
creduta e tuffata nei miei studi che amavo disperatamente. Avevo
diciassette anni quando ero già iscritta all’Università.
Poi il male mi ha completamente arrestata quando avevo quasi terminato
lo studio: ero all’ultimo esame. E la mia quasi laurea mi è servita solo per
diagnosticare me stessa, perché ancora (fino allora) nessuno aveva capito
di che si trattasse.
Fino a tre mesi fa godevo ancora della vista: ora tutto è notte. Però nel mio
calvario non sono disperata. Io so che in fondo alla via Gesù mi aspetta.
Prima nella poltrona, ora nel letto, che è la mia dimora, ho trovato una
sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è
amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli.
Fra poco io non sarò più che un nome; ma il mio spirito vivrà qui fra i miei,
fra chi soffre e non avrò neppure io sofferto invano.
E tu, Natalino, non sentirti solo. Mai. Procedi serenamente lungo il
cammino del tempo e riceverai luce, verità: la strada sulla quale esiste
veramente la giustizia che Dio solo può dare.
Le mie giornate non sono facili; sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me,
col mio patire, e mi da soavità nella solitudine e luce nel buio. Lui mi
sorride e accetta la mia cooperazione con Lui.
Ciao, Natalino, la vita è breve, passa velocemente. Tutto è una brevissima
passerella, pericolosa per chi vuole sfrenatamente godere, ma sicura per
chi coopera con Lui per giungere in Patria.
Ti abbraccio.
Tua sorella in Cristo.
Benedetta”.
Arriva l’ultima estate e per Benedetta lo
sciacquio del lago, il colore del cielo, il
profumo dei fiori… sono soltanto un
“ricordo” lontano. Confida quello che sente
dentro di sé e dice: “I giorni passano
nell’attesa di Lui, che io amo nell’aria,
nel sole che non vedo più, ma che sento
ugualmente nel suo calore quando
entra attraverso la finestra a scaldarmi
le mani; nella pioggia che scende dal
cielo per lavare la terra…”.
Cresce in lei anche l’affetto e l’attaccamento agli amici: “Dal mio letto vi seguo
tutti, io così inoperosa, e vi tengo vicino al cuore… mentre voi camminate
col tempo”.
Giunge l’autunno.
Il 1° novembre è una giornata limpidissima. Ci sono visite e la mamma di
buon’ora ha rimesso in ordine la
camera di Benedetta. Arrivano
parenti ed amici. Viene anche
Giuliana, che da tempo frequenta
con regolarità quella stanza ed ha
imparato
a
comunicare
con
Benedetta attraverso la mano.
Benedetta
le
racconta:
“Sai,
Giuliana, questa notte ho fatto
un… “sogno”: sono entrata nel
cimitero di Dovadola. C’era una
tomba aperta – quella della mia
famiglia – con una rosa bianca
che emanava una grande luce… Chissà, Giuliana…”. Giuliana l’ascoltava
pensosa e commossa. Tutto è mistero nella vita di Benedetta, tutto è segno.
Nell’estate del 1963 prima di andare a Lourdes, così aveva scritto all’amica
Franci: “Non so abituarmi, come vorrei, a vivere felicemente nel buio,
nell’attesa di una Luce più viva e più calda del sole! Ma Dio mi aiuterà,
perché sa che io esisto!”
E di ritorno da Lourdes aveva confidato all’amica Paola: “Dalla città della
Madonna si ritorna nuovamente capaci di lottare, con più dolcezza,
pazienza e serenità. Ed io mi sono accorta, più che mai, della ricchezza
del mio stato e non desidero altro che conservarlo. E’ stato questo per me il
miracolo di Lourdes, quest’anno”. Benedetta cieca, totalmente paralizzata,
priva di ogni facoltà sensitiva eleva un incondizionato inno alla vita: “E’ maggio,
quanta tenerezza in questa primavera sbocciata; la sento nell’aria satura
di profumi, la vedo nei fiori sugli altari di Dio e con quanta fatica voglio
tuttavia cantare ed essere felice. Com’è bella la vita!”.
Gennaio
1964.
Le
condizioni di Benedetta
stanno peggiorando: la
mamma e l’infermiera si
consultano spesso.
L’11 gennaio Benedetta
fa
scrivere
all’amica
Paola: “Paola, la mia
vita è tristissima, ma
io ho lo stesso tanta
voglia di ridere, perché
il Signore si ricorda di
me…”Il 12 gennaio la mamma
apre ad Anna il suo
cuore: “Qui c’è un sole
quasi primaverile che
batte su delle povere rose
morte…
Nella
mia
solitudine io faccio lunghi
colloqui con Benedetta, il
mio angelo che vive sulla
terra. E la guardo come
se dovessi vederla, da un
momento all’altro, dirmi un’ultima cosa, prima di spiccare il volo…”.
Il 22 gennaio, dopo aver ricevuto la Comunione, Benedetta vuole dettare una
letterina per il fratello Corrado, che è in collegio. Poi si assopisce.
Nel primo pomeriggio l’assale una febbre leggera, che cresce verso sera.
Dopo cena chiama la mamma accanto a sé.
“Ti senti male?” – chiede con ansia alla figlia. Benedetta vuole parlare: lei, che
non ha mai chiesto nulla, ora vuol chiedere qualcosa alla mamma.
“Mamma!” esclama! “Voglio soltanto che tu ti inginocchi accanto a me…”.
La mamma guarda e ascolta con stupore. Perché Benedetta parla così?
“Mamma, inginocchiati, per ringraziare il Signore di tutto quello che mi ha
dato!”. La mamma ha un momento di esitazione, che diventa quasi ribellione.
Ringraziare? No, non è possibile! No, non è giusto! E risponde sconvolta: “No,
Benedetta, no! Io non ce l’ho questa generosità!”.
Ma Benedetta vince la resistenza della mamma e dolcemente le comanda: “No,
mamma, non dire questo. Ringrazia anche tu il buon Dio, perché ha fatto
in me grandi cose!”. La mamma, piangendo, si piega, attratta dalla serenità
eroica e dalla fede incrollabile della figlia. Quali prodigi ha compiuto Benedetta:
ha fatto pace col dolore ed ha aiutato tanta gente a far pace con la croce.
Nella notte dice ad Emilia: “Domani muoio, Emilia! Lei stia vicino alla
mamma!”.
Giunge intanto il mattino del 23 gennaio e
tutto sembra tranquillo, come sempre.
La mamma è accanto a Benedetta. Ad un
certo punto un uccellino si ferma sul
balcone e la mamma lo dice a Benedetta: il
suo volto si illumina e comincia a cantare
una vecchia canzone con voce limpidissima.
L’infermiera è meravigliata ed esclama:
“Signora, non sente che voce? Questa è una
voce che viene dal Cielo. Benedetta muore!”.
La mamma getta lo sguardo fuori dalla
finestra e scorge una rosa bianca, fiorita in
pieno inverno! Vorrebbe coglierla e portarla a
Benedetta, ma lei dice: “L’avevo vista in
sogno, mamma, quella rosa! E’ un dolce
segno. Attendi ancora un poco; coglila
più tardi”.
E’ ormai giunta l’ora suprema “Rimani,
mamma!” – chiede Benedetta alla madre.
Poi le ultime parole:
“Mamma… Epoca… digli… muoio… gli
voglio bene”.
Alle 10,40 del 23 gennaio 1964 Benedetta
disse: “Grazie!” e spirò.
BENEDETTA BIANCHI PORRO nacque a Dovadola (Forlì) l’8 agosto 1936. Nel
1951 si trasferì a Sirmione. Si manifestarono in questo periodo i primi
sintomi di un grave morbo.
A 17 anni s’iscrisse alla facoltà di Medicina presso l’Università di Milano.
Ebbe inizio allora il suo più duro calvario. Lunghe degenze in cliniche,
consulti, interventi chirurgici, sofferenze, menomazioni, umiliazioni non
valsero a farla desistere dal suo intento di diventare medico: “Avevo sempre
sognato di diventare medico: voglio vivere, lottare, sacrificarmi per tutti gli
uomini”.
Inesorabilmente assediata dalla grave malattia, tralasciò l’Università
all’ultimo esame. Sorda, totalmente paralizzata, priva di ogni facoltà
sensitiva, divenne, in seguito all’ultimo intervento, anche cieca. Gli unici
mezzi di comunicazione col mondo erano un fil di voce e la sensibilità di
una mano, attraverso la quale le venivano fatti percepire sul corpo e sul
volto segni convenzionali.
Benedetta ha spezzato con l’amore la sua solitudine: crocefissa, ha cantato
le meraviglie della vita, ha dimenticato se stessa per gli altri, ha vissuto il
dolore come mistero d’amore e fonte di grazia.
A tutti ha donato la speranza. La sua fede ha operato prodigi. La sua
esistenza terrena si chiuse il 23 gennaio 1964, a Sirmione.
Le spoglie mortali di Benedetta sono custodite in un sarcofago nell’Abbazia
di S. Andrea a Dovadola (Forlì).
Milano, 9 ottobre 1963
Cara Benedetta,
Mi chiedevo con quali parole potrei osare raggiungerti per rimanerti accanto nella
sofferenza.
Ma non ho parole degne della tua sofferenza.
Sono troppo povera per poterti offrire qualche cosa; non ho da darti che il mio cuore,
che non sa ancora pregare, ma che già desidera di pregare, poiché tu mi hai dato questo
desiderio.
Io non sarò mai più sola con la paura, perché tu mi hai insegnato il valore della
preghiera.
Tu sei stata per me la strada; mi hai dato testimonianza di Lui.
A quelli che mi parlavano di Lui non ho creduto.
Ma a te che hai sofferto e soffri insieme con Lui io non posso non credere.
Hai vinto.
Io ormai credo, con tutto il mio essere e non mi sento più disperata e impotente
nemmeno per quanto riguarda gli altri: tutti gli altri e in particolare quelli che amo,
quelli cui ho fatto del male.
Credo ora nella Comunione dei Santi e nella vita eterna.
La Nicoletta partirà e noi saremo con lei: Sandro non rivedrà la luce, ma tu preghi
per lui e soffri per lui e tieni per mano anche me.
Nessuno di noi è solo; hai ragione, siamo tutti insieme nella carità, una cosa sola
con gli altri.
Io credo nella speranza, adesso.
Era solo questo che volevo dirti: il Signore non poteva darti una vita più bella, più
ricca.
Sei così importante ora per noi; per me, sei la cosa più bella e più cara che io abbia,
SEI IL VOLTO STESSO DELLA SPERANZA.
Ti voglio tanto bene!
Sei accanto a me ogni ora perché non potrò più separarmi da te; ti porto in me come
una fiamma, come un segno.
Possa Dio Onnipotente darti la Gioia, vorrei fare qualcosa per te, darti
testimonianza: mi hai donato Dio.
Maria Grazia
DALLA LETTERA DI NICOLETTA CHE PARTE MISSIONARIA PER IL BRASILE
Milano, 2 ottobre 1960
… Per me l’anno scorso è stato decisivo. Da tempo
avevo l’impressione che per gli uomini non è essenziale
essere curati, ma avere la spiegazione della propria sofferenza e della
morte, avere il senso del proprio vivere apparentemente così assurdo.
…
Volevo far qualcosa di più essenziale, di più direttamente e
chiaramente atto a diffondere il Regno, a far sapere a tutti che il
senso di tutto sta nel fatto che è venuto Cristo e che Cristo ritornerà.
E che la nostra strada è la Croce: una strada che rompe tutti i nostri
criteri, perché è
segno del criterio di un Altro, ma che possiamo
amare perché dà un senso a tutti i minuti, a tutte le cose, a tutto.
…
E’ bello pensare che io andrò via e tu resterai a Sirmione, sarà
esattamente la stessa cosa che essere andate via insieme. Perché
andare ad annunziarLo vuol dire semplicemente offrirsi a Lui
minuto per minuto perché venga il Regno. Il modo lo decide Lui
secondo le circostanze: uno mette famiglia, uno va in missione, uno è
malato. Ognuno ha la sua vocazione: quello che ci fa “UNI” non è
forse la stessa cosa, o fare quello che avevamo in mente di fare, ma
offrirsi per amare Lui minuto per minuto, senza decidere noi dove Lui
ci vorrà portare. Grazie Benedetta e ciao, grazie per le cose
che mi hai scritte, grazie perché sei così buona.
Nicoletta
…pur notando nei suoi atti di bambina una certa personalità e anche un certo orgoglio di fare o
arrivare, nessuno avrebbe potuto pensare a quella sublimazione del carattere, conquistata di poi con
il tempo, la meditazione, la rinuncia, la pazienza, la preghiera.
Personalmente non ho mai potuto discutere, in quanto qualsiasi mio pensiero o atto ingiusto cadeva
perdonato prima della discussione e per di più perdonato con una soavità che scaturiva da una
fonte di dolore che disarmava ogni pensiero, anche se preparato prima.
Quando ancora aveva la vista, in tutti i nostri incontri ebbe per me quale saluto del mattino un
sorriso (avendo il facciale rotto il sorriso le era fatica), forse come sorriso d’augurio,
d’incoraggiamento, per darmi tranquillità nei confronti del suo continuo dolore.
Grande era la sua disponibilità a perdonare le colpe più gravi.
L’accettazione del dolore come offerta ha accompagnato tutta la sua esistenza.
Da mia figlia ho appreso la fratellanza universale e l’amore per il prossimo.
Il fisico era totalmente devastato, demoliti erano l’udito, la vista, e quasi del tutto la parola,
eppure bastava la presenza e quella voce rauca, perché chi le era vicino si sentisse sovrastato da
qualche cosa che di terreno aveva solamente la forma.
E questo, non solo per una data categoria di persone, ma per tutti e per tutte le età,
indipendentemente dalla cultura.
Il concetto di morte come Incontro…? E’ verità che il viso stanco, deperito, deforme, ritornò, dopo
l’ultimo respiro, nella forma di bellezza giovanile che aveva a diciotto anni; certamente con la morte
aveva incominciato una nuova vita.
Il padre
Milano, dicembre 1971
“ SE QUALCUNO SBAGLIA
AMALO DI PIU’,
L’AMORE CORREGGE”
Benedetta
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vita di Benedetta - Angeli dell`Annunziata