DIO ESISTE ED E’ AMORE Un dono della bontà del Signore è Benedetta Bianchi Porro. La sua vita è un vero miracolo, disegnato giorno per giorno dall’onnipotenza di Dio, che, attraverso gli umili, fa grandi cose nel mondo. Benedetta nella sua agenda del 1962 scrive esattamente così: “Bisogna fidarsi di Dio ad occhi chiusi”. E ancora: “Nelle mani di Dio anche le cose più insignificanti possono diventare la nostra cometa”. Infine, annota un pensiero ricchissimo di sapienza e di esperienza personale: “Il dolore ci butta tra le braccia di Dio”. E riconosce con candore disarmante: “La fede fa fare prodigi”. L’8 agosto 1936 nasce una bimba nella famiglia di Guido Bianchi Porro e di Elsa Giammarchi, a Dovadola, in provincia di Forlì. Prima di lei era nato Leonida e dopo di lei nasceranno Gabriele, Manuela, Corrado e Carmen: una famiglia a cui Benedetta sarà profondamente legata. Ben presto la piccola conosce il dolore: infatti, poche ore dopo la nascita comincia ad agitarsi e a piangere a motivo di una grave emorragia. La mamma è preoccupata e decide di battezzarla: prende una bottiglietta con l’acqua di Lourdes e la battezza con i nomi di Benedetta, Bianca, Maria, Grazia. Nomi che misteriosamente sono la profezia della sua vita! La bambina guarisce ma, a tre mesi, è colpita dalla poliomelite: la gamba destra resta più corta e Benedetta sarà irrimediabilmente zoppa. Passano gli anni e Benedetta scopre il mondo affascinante dei fiori, dei colori, della neve e del sole…; ma scopre anche il mistero tenebroso del male. Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra. La famiglia di Benedetta sfolla a Casticciano, ai piedi del colle di Bertinoro. La bimba esprime nel suo diario i suoi primi timori e il suo turbamento. Un giorno dirà alla mamma: “Che cosa orribile è la guerra! Perché si uccidono? Perché tanto odio? Perché tanta cattiveria?”. Nonostante la guerra con i suoi disagi e i trasferimenti forzati, Benedetta riesce a frequentare la scuola elementare. E’ ancora bambina, ma la strada della sua vita sempre più chiaramente appare segnata dall’appuntamento col dolore: Benedetta risponde con la forza dell’amore. Un giorno, all’uscita da scuola, Gabriele va incontro alla sorella per accompagnarla a casa. Lungo la strada le si avvicina un compagno che dice in tono canzonatorio: “Zoppa, zoppetta”. Benedetta non reagisce. Gabriele tenta di colpire il ragazzo per difendere la sorella, ma lei lo prende per mano e lo dissuade dicendo: “E’ pur vero, sono zoppa!”. In questa risposta serena c’è già tutto lo stile di Benedetta, in sintonia perfetta con il Vangelo di Gesù, che San Paolo riassume così: “Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Non rendete a nessuno male per male. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rom. 12,14,17,21). Terminata la guerra, Benedetta si trasferisce con la famiglia a Forlì: la vita riprende tranquilla. Un giorno confiderà alla sorella: “Ti ricordi, Manuela, come eravamo felici quando alla domenica la mamma ci portava a San Mercuriale e tutti volevamo stare attaccati a lei? Come eravamo felici allora! E non sapevamo di esserlo!”. Nel 1951 la famiglia Bianchi Porro si stabilisce a Sirmione del Garda: Benedetta ora frequenta il liceo classico e avverte i primi sintomi di una fastidiosa sordità. Annota sul suo diario: “13 febbraio 1953. Sono stata interrogata in latino: ogni tanto non capivo quel che il Professore mi chiedeva. Che figura devo fare…! Ma cosa importa? Un giorno forse non capirò più niente di quello che gli altri mi diranno, ma sentirò sempre la voce dell’anima mia. E questa è la vera via che devo seguire”. Di fronte alla difficoltà Benedetta non si abbatte, ma lotta con tutte le sue forze. Nell’estate del 1953 si prepara all’esame di maturità liceale, saltando un anno: ed è promossa. A 17 anni si iscrive all’Università e decide di frequentare la facoltà di medicina. E’ scritto sul suo diario: “Voglio vivere, lottare e sacrificarmi per tutti gli uomini”. E sarà così: ma per una strada che Benedetta ancora non conosce. Al primo esame universitario, Benedetta è tesa, emozionata…, perché ha paura che la Professoressa si accorga della sua sordità. Si sforza di intuire le domande dal movimento delle labbra e risponde veloce: perfettamente! Ma la Professoressa non percepisce il dramma di Benedetta e pensa che abbia imparato tutto a memoria. La congeda con un voto mediocre e le dice: “Signorina, si ricordi che l’Università non è una scuola per pappagalli!”. Benedetta capisce queste parole, si alza avvilita e, quando esce, ha le guance bagnate di pianto. Estate 1955. Benedetta affronta l’esame più impegnativo del biennio; la grande aula è gremita di studenti. La prima parte dell’esame si svolge con l’assistente: Benedetta esamina il vetrino con il microscopio, riconosce il preparato e risponde a tutte le domande con sicurezza. Poi viene chiamata dal Professore per la seconda parte dell’esame: quella teorica, più difficile. Lei non sente nulla, indugia un attimo… Il Professore ripete la domanda, ma Benedetta non riesce a capire. Diventa rossa per la vergogna, si scusa, cerca di spiegarsi: alcuni compagni ridono. Benedetta si riprende: “La prego di aver pazienza… non sento… spero di guarire… abbia la bontà di farmi le domande per iscritto…”. Il Professore, irritato, le urla in faccia: “Che pazienza! Chi ha mai visto un medico sordo!?”. Prende il libretto universitario e lo scaglia lontano, verso la porta. Benedetta si alza, cammina lentamente con il cuore in tumulto, raccoglie il libretto, esce umiliata. Torna a casa e tiene per sé la sua pena. Ma Anna che ogni giorno l’accompagna, riferisce l’accaduto alla mamma Elsa che, indignata, decide di parlare con il Rettore. Benedetta dolcemente asserisce: “Il professore è stato buono, non mi ha rovinato il libretto con un brutto voto!”. La mamma ottiene di farle ripetere l’esame. Questa volta l’esito è positivo. La mamma l’abbraccia: “Sei contenta?”. Ma Benedetta è triste: “Sì, mamma, è andato bene! Ma a che serve?... Tra poco…”. Non dice altro: Benedetta ormai capisce la situazione. Infatti, mentre tornava a casa dall’Università, aveva sentito un dolore acuto alla testa. Poi la vista si era appannata improvvisamente e le cose attorno le erano apparse come sfuocate. Si era appoggiata ad Anna. Un pensiero terribile l’aveva folgorata: “No, mio Dio! Gli occhi no!!”. La malattia avanza silenziosa, inesorabile. Arriva il Natale del 1956 e Benedetta che ha già perso l’udito, vede sempre meno. Una sera, mentre era in compagnia di Elettra, un’amica di famiglia, va a prendere in biblioteca il libro di patologia. Lo apre e lo scorre alla ricerca di una pagina: “Vede? – esclama – La mia malattia è questa, ma non mi credono”. E mostra la fotografia di un uomo affetto da neurofibromatosi diffusa: una malattia rarissima e incurabile che genera tanti piccoli tumori lungo i nervi periferici. In Benedetta il primo ad essere colpito è stato il nervo acustico, con la conseguente sordità. In breve tempo questa rete di morte lederà gli altri organi di senso e, da ultimo, la vista; poi sarà l’immobilità e l’insensibilità quasi totale. Benedetta l’aveva capito da sola: a questo le servirono i suoi studi! 27 giugno 1957: viene operata alla testa per la prima volta, e le tagliano tutti i capelli. Forse Benedetta, in quel momento, ricorda una scena della sua infanzia: rivede il contadino, che tosa la lana ad una pecora… E dice: “Mamma, mentre mi tagliavano i capelli, mi sentivo come un agnellino cui tagliano la lana e pregavo il Signore che mi facesse forte e piccola. Il Signore, mamma, vuole da noi grandi cose! Ho sofferto tanto e ho domandato tanto al Signore di essere una pecorella nelle sue mani”. La notte che precede l’operazione è interminabile. E’ sola: non vuole che la mamma resti in ospedale, perché sa che a casa i fratellini hanno bisogno di lei… Viene il momento dell’operazione che sembra riuscire bene… Ma, appena riavutasi dall’anestesia, Benedetta si tocca il volto ed esclama: “Mi hanno tagliato il nervo facciale!”. Il chirurgo, infatti, operandola aveva leso per sbaglio quel nervo, paralizzando metà volto. Amareggiato, il medico è lì accanto a lei. Ancora una volta, il cuore di Benedetta rivela una bontà sconfinata e una capacità eroica di comprensione. “Dottore, - dice – lei ha fatto tutto quello che poteva. Mi dia la mano e stia sereno! E’ una cosa che può succedere: non è mica il Padre eterno lei!”. Il 7 agosto 1959, Benedetta è operata al midollo spinale. L’intervento risulta inutile, anzi aggrava le sue condizioni: perde infatti l’uso degli arti inferiori e deve aiutarsi con le stampelle per muovere qualche passo, ma la fatica la fa sudare molto e a volte sviene. Un giorno la mamma entra dentro la camera di Benedetta e le siede accanto; ha gli occhi gonfi e il volto tirato. Benedetta la guarda e domanda: “Mamma, ti senti poco bene?” “No, sono triste per te, che vedo condannata a questo letto…”. Benedetta allora la consola: “Non piangere, mamma, e non soffrire per me. Non piangere, lasciamo che sia il Signore a decidere. Se ora ha stabilito così, ci aiuterà. Io lo pregherò tanto, perché aiuti te più di me”. Fisicamente annientata, possiede la ricchezza dello Spirito, e ne fa dono agli altri. La sua vita è divenuta come un fiume di acqua viva per la salvezza di molti. Tanti amici approderanno a questa sponda per dissetarsi: per ricevere una parola buona, un gesto amabile, il calore di una accoglienza fraterna. Un giorno la mamma le porta una lettera di don Elios Mori. Benedetta la legge più volte e la fa leggere alla mamma. Un passo la colpisce profondamente: “Benedetta – dice il sacerdote – non ti meravigliare e non perderti d’animo se a volte senti dentro di te una ribellione che non riesci a dominare. Alla nostra povera sensibilità non possiamo impedire che a volte esploda. Ma questo non ci porta lontano da Dio; anche con la ribellione, si resta tra le braccia di Gesù e della Madonna. E’ una tempesta che passerà e ritroverai il sole. Quando le nubi sono molto nere e ti pesano sul cuore, pensa che oltre le nubi c’è sempre il sole, bello e intatto. Anche sulla tua vita c’è sempre il sole oltre le nubi”. Ecco la soluzione: il sole c’è sempre, anche quando è nascosto! Benedetta si attacca a questa verità con tutte le sue forze. Il 21 febbraio 1960 Benedetta scrive ad una amica: “Quanto a me faccio la vita di sempre; eppure mi sembra così completa! La vita in sé e per sé mi sembra un miracolo e vorrei poter innalzare sempre un inno di lode a Chi me l’ha data. Certe volte penso se non sia io una di quelle creature a cui molto è stato dato e molto sarà chiesto”. Benedetta già sorda e totalmente paralizzata, scrive a Maria Grazia: “Io penso che cosa meravigliosa è la vita (anche nei suoi aspetti più terribili) e la mia anima è piena di gratitudine e di amore verso Dio, per questo”. Un giorno, in occasione del compleanno di Benedetta, sua mamma acquistò un uccellino in gabbia. Porgendolo alla figlia disse: “Anche tu forse ti senti come questo uccellino”. Ma Benedetta rispose: “No, mamma, mai mi sono sentita tanto libera come ora”. Il 24 maggio 1962, con il treno dell’Unitalsi, Benedetta parte per Lourdes: la mamma l’accompagna. Quando, dopo il lungo viaggio, Benedetta finalmente si trova davanti alla Grotta, il suo volto si illumina di gioia celeste e prega intensamente la Madonna per tutti. Si dimentica di sé, perché la sua vita ormai è “abitare negli altri”. Il giorno della partenza viene portata ancora alla Grotta per l’ultima preghiera: accanto a lei c’è una ragazza, di nome Maria, paralizzata da due anni e che si dispera. La mamma lo fa capire a Benedetta, che sussurra: “Abbi coraggio, Maria. La Madonna è là. Non piangere. Pregala!”. La ragazza scuote la testa disperata. Allora Benedetta le prende la mano e insiste: “Pregala, Maria. La Madonna ti guarda e ti ascolta. Dille tutto quello che vuoi. Prega. Anch’io pregherò per te”. Poco dopo, mentre continua la recita del Rosario, Maria scende dalla barella: ora cammina e grida al miracolo, è piena di gioia. Tra l’emozione generale, Benedetta e la mamma restano sole: la mamma ha un momento di sconforto; anche lei avrebbe voluto il miracolo! Poi guarda la figlia: lei è serena e felice! La mamma allora trattiene le lacrime e trova la forza di rispondere a quel sorriso. I santi ci sorprendono sempre e, dolcemente, ci conducono sulla via di Dio! Nell’ottobre dello stesso anno Benedetta viene ricoverata all’ospedale di Desenzano per ascessi multipli dentari e viene sottoposta a numerose asportazioni. In questo ospedale vede per l’ultima volta l’amica Nicoletta, che parte missionaria per il Brasile. Successivamente Benedetta le confiderà: “Sto vivendo la semplicità, cioè la spoliazione dell’anima: è così bella, si diventa molto leggeri e liberi. Nella sofferenza si accende in noi la luce di Cristo che ci sostiene”. 27 febbraio 1963. Benedetta sta per essere nuovamente operata alla testa, nel tentativo di evitare la cecità. Ha paura. Maria Grazia le è vicina e per rincuorarla le scrive su un foglio le parole di Bernanos: “Se avrò paura, dirò senza vergogna: Ho paura! E il Signore mi darà la forza”. Benedetta legge queste parole e le ripete adagio, a bassa voce, tante volte: “… e il Signore saprà rassicurarmi”. Dopo l’intervento, quando si risveglia dalla narcosi, soffre molto ed esclama: “Che fatica, mio Dio! Che fatica! La mia croce è pesante…Ma io voglio donare con gioia, non per forza!”. Il 28 febbraio , al mattino, è circondata da molti amici e viene celebrata la Messa nella sua stanza. Verso sera, Benedetta improvvisamente domanda: “Che ore sono?”. Informata che erano le sei pomeridiane, confida ad Elettra: “Per favore, dica alla mamma che da cinque ore… io non vedo!”. Una notizia terribile, annunciata con delicatezza, quasi con il timore di fare soffrire… gli altri! Infatti, appena giunge la mamma, Benedetta si preoccupa di raccomandarle: “Mamma, non dirlo subito al Professore. Poveretto, starà male quando saprà che mi ha operato invano!”. Raggiungere la serenità non fu per Benedetta una impresa facile: fu una lotta a sangue che le consentì di vivere il dolore come mistero d’amore e di speranza. Dirà nell’estate del 1963 , scrivendo ad un’amica: “Nella tristezza della mia sordità e nella più buia delle mie solitudini, ho cercato con volontà di essere serena e di far fiorire il mio dolore…”. E ancora: “Sono in certi istanti sbalestrata, senza sostegno, come in una scala traballante senza appoggio, vagando e non riuscendo più a salire. Eppure lo voglio! Mi sento sola… Mi domando spaventata com’è terribile avere solo paura di perdere Dio. E questo mi è accaduto: solo la paura! Poi ho indagato dietro, nel passato, non ho trovato peccati mortali. Allora, adagio, adagio, è tornato il sereno, la pace, la bonaccia. Dentro di me ho sentito ancora la voce del Padre. Assetata sono corsa a farmi confortare. Era Lui! L’ho risentito! L’ho ritrovato! Che sollievo! Con Lui mi sento di poter camminare lontano, in capo al mondo, se Lui vorrà”. Quando Benedetta pronunciò queste parole era completamente paralizzata, sorda, e irrimediabilmente cieca! La vittoria della sua anima è un dono, un insegnamento! Benedetta ci insegna a vivere “lasciando che il senso della nostra vita lo sappia e lo conosca solo Lui”, il Signore! Questa è fede, fede vera, fede che avvicina a Dio e riempie l’anima di luce. Benedetta ci comunica la sua meravigliosa esperienza di Dio: “Io sono molto contenta. Ora con me c’è Dio e sto bene. Come sto bene! Vivo in un deserto silenzioso, ma con la luce della preghiera. Com’è buono il Signore; Lui che veramente mi ha sempre custodita e tutte le volte che l’ho invocato è accorso ad aiutarmi! Presto suonerà la campana e Lui, finalmente, mi verrà incontro”. Mentre è all’ospedale, Benedetta conosce Umberto. Non sa niente di lui, ma intuisce subito qualcosa ed afferma: “E’ un uomo che nella carne ha molto sofferto!”. Per questo lo accoglie con una tenerezza particolare e gli dice dolcemente: “Umberto, vada a Messa con Maria Grazia; è molto bello il Vangelo di oggi: è quello della Samaritana!”. Quell’uomo, lontano dalla fede, comincia ad essere tormentato dal mistero di Benedetta. Le scrive un biglietto: “Per ringraziarti di quello che soffri per te, per me, per tutti…”. Nell’estate anche Umberto viene ricoverato in ospedale e Benedetta gli manda una lettera: “So che non sta bene ed io vorrei mandarle gli auguri. Umberto, lasci che Dio La ritrovi e La porti amorevolmente sulle spalle. Il Signore è fedele: sempre. Non ci lascia in nessun momento. Anch’io ho passato tanti dolori… e Lui è venuto e mi ha consolata… Caro Umberto, mi ascolti. Non creda di essere solo a soffrire. Non si affanni, non si domandi: dov’è Dio? Non lo cerchi lontano, perché è vicino a lei, è in lei. Lo ami allora semplicemente, con umiltà. L’eroismo è non ribellarsi. Accetti con coraggio: tutto! E tutto per incanto diverrà semplice e pieno di pace. Per questo io prego per Lei. E Lei, al Signore domandi aiuto anche per me. Sua sorella Benedetta”. Umberto che forse pensa di aver perso la fede, resta sconvolto dalla richiesta di Benedetta: gli chiede l’elemosina di una preghiera! Può negargliela? Quella lettera lo tocca profondamente. Nel mese di agosto Umberto sembra molto cambiato: è sereno, quasi lieto. Il 30 agosto muore improvvisamente, e quello stesso giorno, pur non sapendo nulla, Benedetta dice alla mamma e al fratello Corrado: “L’esilio di Umberto è finito! Tutti i suoi dubbi saranno dissipati”. Benedetta, dopo mesi di ospedale, torna a Sirmione e attorno a lei fiorisce il prodigio dell’amicizia. Il suo letto è circondato da giovani che cercano un dialogo, una parola, un conforto, una luce: e non restano mai delusi. La mamma le “legge” talvolta le “lettere al Direttore” pubblicate sul settimanale “Epoca”. Una di queste racconta la vita disperata di un giovane, Natalino, sofferente per una grave malformazione alla spina dorsale. Benedetta vuole dirgli qualcosa e detta alla mamma: “Caro Natalino, in “Epoca” è stata riportata una tua lettera. Attraverso le mani la mamma me l’ha letta. Sono sorda e cieca, perciò le cose, per me, diventano abbastanza difficoltose. Anch’io come te ho ventisei anni e sono inferma da tempo. Un morbo mi ha atrofizzata quando stavo per coronare i miei lunghi anni di studio: ero laureanda in medicina a Milano. Accusavo da tempo una sordità che i medici stessi non credevano all’inizio. Ed io andavo avanti così non creduta e tuffata nei miei studi che amavo disperatamente. Avevo diciassette anni quando ero già iscritta all’Università. Poi il male mi ha completamente arrestata quando avevo quasi terminato lo studio: ero all’ultimo esame. E la mia quasi laurea mi è servita solo per diagnosticare me stessa, perché ancora (fino allora) nessuno aveva capito di che si trattasse. Fino a tre mesi fa godevo ancora della vista: ora tutto è notte. Però nel mio calvario non sono disperata. Io so che in fondo alla via Gesù mi aspetta. Prima nella poltrona, ora nel letto, che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli. Fra poco io non sarò più che un nome; ma il mio spirito vivrà qui fra i miei, fra chi soffre e non avrò neppure io sofferto invano. E tu, Natalino, non sentirti solo. Mai. Procedi serenamente lungo il cammino del tempo e riceverai luce, verità: la strada sulla quale esiste veramente la giustizia che Dio solo può dare. Le mie giornate non sono facili; sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi da soavità nella solitudine e luce nel buio. Lui mi sorride e accetta la mia cooperazione con Lui. Ciao, Natalino, la vita è breve, passa velocemente. Tutto è una brevissima passerella, pericolosa per chi vuole sfrenatamente godere, ma sicura per chi coopera con Lui per giungere in Patria. Ti abbraccio. Tua sorella in Cristo. Benedetta”. Arriva l’ultima estate e per Benedetta lo sciacquio del lago, il colore del cielo, il profumo dei fiori… sono soltanto un “ricordo” lontano. Confida quello che sente dentro di sé e dice: “I giorni passano nell’attesa di Lui, che io amo nell’aria, nel sole che non vedo più, ma che sento ugualmente nel suo calore quando entra attraverso la finestra a scaldarmi le mani; nella pioggia che scende dal cielo per lavare la terra…”. Cresce in lei anche l’affetto e l’attaccamento agli amici: “Dal mio letto vi seguo tutti, io così inoperosa, e vi tengo vicino al cuore… mentre voi camminate col tempo”. Giunge l’autunno. Il 1° novembre è una giornata limpidissima. Ci sono visite e la mamma di buon’ora ha rimesso in ordine la camera di Benedetta. Arrivano parenti ed amici. Viene anche Giuliana, che da tempo frequenta con regolarità quella stanza ed ha imparato a comunicare con Benedetta attraverso la mano. Benedetta le racconta: “Sai, Giuliana, questa notte ho fatto un… “sogno”: sono entrata nel cimitero di Dovadola. C’era una tomba aperta – quella della mia famiglia – con una rosa bianca che emanava una grande luce… Chissà, Giuliana…”. Giuliana l’ascoltava pensosa e commossa. Tutto è mistero nella vita di Benedetta, tutto è segno. Nell’estate del 1963 prima di andare a Lourdes, così aveva scritto all’amica Franci: “Non so abituarmi, come vorrei, a vivere felicemente nel buio, nell’attesa di una Luce più viva e più calda del sole! Ma Dio mi aiuterà, perché sa che io esisto!” E di ritorno da Lourdes aveva confidato all’amica Paola: “Dalla città della Madonna si ritorna nuovamente capaci di lottare, con più dolcezza, pazienza e serenità. Ed io mi sono accorta, più che mai, della ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo. E’ stato questo per me il miracolo di Lourdes, quest’anno”. Benedetta cieca, totalmente paralizzata, priva di ogni facoltà sensitiva eleva un incondizionato inno alla vita: “E’ maggio, quanta tenerezza in questa primavera sbocciata; la sento nell’aria satura di profumi, la vedo nei fiori sugli altari di Dio e con quanta fatica voglio tuttavia cantare ed essere felice. Com’è bella la vita!”. Gennaio 1964. Le condizioni di Benedetta stanno peggiorando: la mamma e l’infermiera si consultano spesso. L’11 gennaio Benedetta fa scrivere all’amica Paola: “Paola, la mia vita è tristissima, ma io ho lo stesso tanta voglia di ridere, perché il Signore si ricorda di me…”Il 12 gennaio la mamma apre ad Anna il suo cuore: “Qui c’è un sole quasi primaverile che batte su delle povere rose morte… Nella mia solitudine io faccio lunghi colloqui con Benedetta, il mio angelo che vive sulla terra. E la guardo come se dovessi vederla, da un momento all’altro, dirmi un’ultima cosa, prima di spiccare il volo…”. Il 22 gennaio, dopo aver ricevuto la Comunione, Benedetta vuole dettare una letterina per il fratello Corrado, che è in collegio. Poi si assopisce. Nel primo pomeriggio l’assale una febbre leggera, che cresce verso sera. Dopo cena chiama la mamma accanto a sé. “Ti senti male?” – chiede con ansia alla figlia. Benedetta vuole parlare: lei, che non ha mai chiesto nulla, ora vuol chiedere qualcosa alla mamma. “Mamma!” esclama! “Voglio soltanto che tu ti inginocchi accanto a me…”. La mamma guarda e ascolta con stupore. Perché Benedetta parla così? “Mamma, inginocchiati, per ringraziare il Signore di tutto quello che mi ha dato!”. La mamma ha un momento di esitazione, che diventa quasi ribellione. Ringraziare? No, non è possibile! No, non è giusto! E risponde sconvolta: “No, Benedetta, no! Io non ce l’ho questa generosità!”. Ma Benedetta vince la resistenza della mamma e dolcemente le comanda: “No, mamma, non dire questo. Ringrazia anche tu il buon Dio, perché ha fatto in me grandi cose!”. La mamma, piangendo, si piega, attratta dalla serenità eroica e dalla fede incrollabile della figlia. Quali prodigi ha compiuto Benedetta: ha fatto pace col dolore ed ha aiutato tanta gente a far pace con la croce. Nella notte dice ad Emilia: “Domani muoio, Emilia! Lei stia vicino alla mamma!”. Giunge intanto il mattino del 23 gennaio e tutto sembra tranquillo, come sempre. La mamma è accanto a Benedetta. Ad un certo punto un uccellino si ferma sul balcone e la mamma lo dice a Benedetta: il suo volto si illumina e comincia a cantare una vecchia canzone con voce limpidissima. L’infermiera è meravigliata ed esclama: “Signora, non sente che voce? Questa è una voce che viene dal Cielo. Benedetta muore!”. La mamma getta lo sguardo fuori dalla finestra e scorge una rosa bianca, fiorita in pieno inverno! Vorrebbe coglierla e portarla a Benedetta, ma lei dice: “L’avevo vista in sogno, mamma, quella rosa! E’ un dolce segno. Attendi ancora un poco; coglila più tardi”. E’ ormai giunta l’ora suprema “Rimani, mamma!” – chiede Benedetta alla madre. Poi le ultime parole: “Mamma… Epoca… digli… muoio… gli voglio bene”. Alle 10,40 del 23 gennaio 1964 Benedetta disse: “Grazie!” e spirò. BENEDETTA BIANCHI PORRO nacque a Dovadola (Forlì) l’8 agosto 1936. Nel 1951 si trasferì a Sirmione. Si manifestarono in questo periodo i primi sintomi di un grave morbo. A 17 anni s’iscrisse alla facoltà di Medicina presso l’Università di Milano. Ebbe inizio allora il suo più duro calvario. Lunghe degenze in cliniche, consulti, interventi chirurgici, sofferenze, menomazioni, umiliazioni non valsero a farla desistere dal suo intento di diventare medico: “Avevo sempre sognato di diventare medico: voglio vivere, lottare, sacrificarmi per tutti gli uomini”. Inesorabilmente assediata dalla grave malattia, tralasciò l’Università all’ultimo esame. Sorda, totalmente paralizzata, priva di ogni facoltà sensitiva, divenne, in seguito all’ultimo intervento, anche cieca. Gli unici mezzi di comunicazione col mondo erano un fil di voce e la sensibilità di una mano, attraverso la quale le venivano fatti percepire sul corpo e sul volto segni convenzionali. Benedetta ha spezzato con l’amore la sua solitudine: crocefissa, ha cantato le meraviglie della vita, ha dimenticato se stessa per gli altri, ha vissuto il dolore come mistero d’amore e fonte di grazia. A tutti ha donato la speranza. La sua fede ha operato prodigi. La sua esistenza terrena si chiuse il 23 gennaio 1964, a Sirmione. Le spoglie mortali di Benedetta sono custodite in un sarcofago nell’Abbazia di S. Andrea a Dovadola (Forlì). Milano, 9 ottobre 1963 Cara Benedetta, Mi chiedevo con quali parole potrei osare raggiungerti per rimanerti accanto nella sofferenza. Ma non ho parole degne della tua sofferenza. Sono troppo povera per poterti offrire qualche cosa; non ho da darti che il mio cuore, che non sa ancora pregare, ma che già desidera di pregare, poiché tu mi hai dato questo desiderio. Io non sarò mai più sola con la paura, perché tu mi hai insegnato il valore della preghiera. Tu sei stata per me la strada; mi hai dato testimonianza di Lui. A quelli che mi parlavano di Lui non ho creduto. Ma a te che hai sofferto e soffri insieme con Lui io non posso non credere. Hai vinto. Io ormai credo, con tutto il mio essere e non mi sento più disperata e impotente nemmeno per quanto riguarda gli altri: tutti gli altri e in particolare quelli che amo, quelli cui ho fatto del male. Credo ora nella Comunione dei Santi e nella vita eterna. La Nicoletta partirà e noi saremo con lei: Sandro non rivedrà la luce, ma tu preghi per lui e soffri per lui e tieni per mano anche me. Nessuno di noi è solo; hai ragione, siamo tutti insieme nella carità, una cosa sola con gli altri. Io credo nella speranza, adesso. Era solo questo che volevo dirti: il Signore non poteva darti una vita più bella, più ricca. Sei così importante ora per noi; per me, sei la cosa più bella e più cara che io abbia, SEI IL VOLTO STESSO DELLA SPERANZA. Ti voglio tanto bene! Sei accanto a me ogni ora perché non potrò più separarmi da te; ti porto in me come una fiamma, come un segno. Possa Dio Onnipotente darti la Gioia, vorrei fare qualcosa per te, darti testimonianza: mi hai donato Dio. Maria Grazia DALLA LETTERA DI NICOLETTA CHE PARTE MISSIONARIA PER IL BRASILE Milano, 2 ottobre 1960 … Per me l’anno scorso è stato decisivo. Da tempo avevo l’impressione che per gli uomini non è essenziale essere curati, ma avere la spiegazione della propria sofferenza e della morte, avere il senso del proprio vivere apparentemente così assurdo. … Volevo far qualcosa di più essenziale, di più direttamente e chiaramente atto a diffondere il Regno, a far sapere a tutti che il senso di tutto sta nel fatto che è venuto Cristo e che Cristo ritornerà. E che la nostra strada è la Croce: una strada che rompe tutti i nostri criteri, perché è segno del criterio di un Altro, ma che possiamo amare perché dà un senso a tutti i minuti, a tutte le cose, a tutto. … E’ bello pensare che io andrò via e tu resterai a Sirmione, sarà esattamente la stessa cosa che essere andate via insieme. Perché andare ad annunziarLo vuol dire semplicemente offrirsi a Lui minuto per minuto perché venga il Regno. Il modo lo decide Lui secondo le circostanze: uno mette famiglia, uno va in missione, uno è malato. Ognuno ha la sua vocazione: quello che ci fa “UNI” non è forse la stessa cosa, o fare quello che avevamo in mente di fare, ma offrirsi per amare Lui minuto per minuto, senza decidere noi dove Lui ci vorrà portare. Grazie Benedetta e ciao, grazie per le cose che mi hai scritte, grazie perché sei così buona. Nicoletta …pur notando nei suoi atti di bambina una certa personalità e anche un certo orgoglio di fare o arrivare, nessuno avrebbe potuto pensare a quella sublimazione del carattere, conquistata di poi con il tempo, la meditazione, la rinuncia, la pazienza, la preghiera. Personalmente non ho mai potuto discutere, in quanto qualsiasi mio pensiero o atto ingiusto cadeva perdonato prima della discussione e per di più perdonato con una soavità che scaturiva da una fonte di dolore che disarmava ogni pensiero, anche se preparato prima. Quando ancora aveva la vista, in tutti i nostri incontri ebbe per me quale saluto del mattino un sorriso (avendo il facciale rotto il sorriso le era fatica), forse come sorriso d’augurio, d’incoraggiamento, per darmi tranquillità nei confronti del suo continuo dolore. Grande era la sua disponibilità a perdonare le colpe più gravi. L’accettazione del dolore come offerta ha accompagnato tutta la sua esistenza. Da mia figlia ho appreso la fratellanza universale e l’amore per il prossimo. Il fisico era totalmente devastato, demoliti erano l’udito, la vista, e quasi del tutto la parola, eppure bastava la presenza e quella voce rauca, perché chi le era vicino si sentisse sovrastato da qualche cosa che di terreno aveva solamente la forma. E questo, non solo per una data categoria di persone, ma per tutti e per tutte le età, indipendentemente dalla cultura. Il concetto di morte come Incontro…? E’ verità che il viso stanco, deperito, deforme, ritornò, dopo l’ultimo respiro, nella forma di bellezza giovanile che aveva a diciotto anni; certamente con la morte aveva incominciato una nuova vita. Il padre Milano, dicembre 1971 “ SE QUALCUNO SBAGLIA AMALO DI PIU’, L’AMORE CORREGGE” Benedetta