Controtnev
“Educare in città, un percorso partecipato”
La sperimentazione della mappatura emozionale di Corviale
Progetto realizzato dall’ Associazione il Laboratorio, formazione e consulenze
per il lavoro sociale
Finanziato con i fondi 2014 dell’otto per mille della Chiesa Evangelica Valdese
DIARIdel
del LABORATORIO
LABORATORIO
I IDIARI
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È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici.
Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o
riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.
(Le città invisibili, Italo Calvino)
Ringraziamo tutte le realtà del territorio di Corviale che hanno partecipato al progetto “La mappatura emozionale”, gli allievi e i professori della 2°A dell’Istituto Comprensivo “Fratelli Cervi” di Roma
(A/A 2014-2015), i ragazzi e tutta l’èquipe del Centro di Aggregazione Giovanile “Luogo Comune”
- Arci Solidarietà Onlus, in particolare Daniele Bruschi. E Aisling Pallotta.
Foto di copertina: Corviale. © Molo7 Photo Agency
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“ Educare in città, un percorso partecipato”
La sperimentazione della mappatura emozionale di Corviale
Indice Generale
Introduzione
pag. 4
1 Alla ricerca dello spazio 1.1 Spazio fisico e spazio progettuale
1.2 Lo spazio educativo
2 La città: la genesi e le sue trasformazioni
2.1 La genesi della città
2.2 Le trasformazioni della metropoli post-fordista
2.2.1 Mutamento delle funzioni economiche della città
2.2.2 Dalla città alla regione urbana eterogenea
2.2.3 Frammentazione della città
2.2.4 L’edilizia popolare: verso le periferie ghetto
2.2.5 Le nuove forme del conflitto nella città
2.2.6 La crisi dello spazio pubblico nella città
pag. 8
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pag. 12
pag. 16
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pag. 21
pag. 24
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pag. 26
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pag. 29
pag. 31
3 I bambini e gli adolescenti nella città che cambia
3.1 Il bambino in città sotto il peso della tutela
3.2 Guardare la città da un metro di altezza
3.3 Gli adolescenti alla conquista della città
3.4 La città come opportunità educativa
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pag. 40
pag. 42
pag. 44
4 Educare in città: la sperimentazione di un percorso
partecipato di mappatura emozionale Corviale
4.1 L’edificio città di Corviale
4.2 Corviale come luogo in cui sperimentare un
progetto di mappatura emozionale
4.3 I presupposti e la metodologia della mappatura
emotiva
4.4 Descrizione del progetto
4.5 Il laboratorio nella scuola
4.5.1 Lasciare una traccia sul territorio
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“ Educare in città, un percorso partecipato”
La sperimentazione della mappatura emozionale di Corviale
Introduzione
Da cosa nasce l’esigenza di un Quaderno su operatività sociale e città? Il tema
ha un sapore resistente e un po’ retrò dopo anni in cui si è parlato insistentemente di intervento di comunità, welfare municipale, piani di zona, ecc... e
dopo la rimozione collettiva di questi temi attuata in nome della crisi, proprio
quando i bisogni territoriali si sono fatti sempre più pressanti e la necessità di
un intervento sistemico sempre più evidente. Non sarebbe bastata, forse, una
buona bibliografia con l’elenco di tutti quei testi che si sono posti a cavallo tra
urbanistica e scienze sociali e hanno indagato le relazione tra morfologia territoriale, struttura urbana e processi cognitivi/sociali? Sicuramente il nostro
lavoro non ha la pretesa di dire qualcosa di assolutamente nuovo rispetto alle
riflessioni teoriche che urbanisti, sociologi e psicologi hanno prodotto in questi
anni, ma il contributo che tenteremo di portare riguarda uno spostamento di
ottica: leggere questi processi dal punto di vista degli interventi educativi e di
progettazione partecipata che attraversano il mondo dell’operatività sociale. In
altri termini intendiamo guardare il problema non con l’occhio dell’urbanista,
né con quello dello scienziato sociale, ma con quello dell’operatore sociale e
dell’educatore o, se vogliamo, proponendolo sguardo di un’emergente scienza
dell’operatività sociale.
Riteniamo che sia forte il bisogno di una visione sulla metropoli che riconosca il livello macro dell’analisi, ma che sappia anche scendere sul piano micro
per favorire degli interventi efficaci in essa, che abbia lo sguardo sull’estensione
di una metropoli contemporanea sempre più spersonalizzante, costellazione di
luoghi specializzati e separati all’interno di un percorso di frammentazione sociale, ma che al tempo stesso sappia riconoscere e valorizzare la “resistenza creativa” opposta dai soggetti a tali processi, riscoprire le forme di legami concreti
e mutuali nell’epoca della virtualità. Si tratta di andare in profondità rispetto ai
legami affettivi e ai vissuti emotivi che, con e nel tessuto urbano, si producono,
in particolare indagando per le giovani generazioni il circuito circolare tra comportamenti individuali e sviluppo delle forme e delle culture nella città.
Le città sono sempre più oggetto, da parte dei servizi, di interventi tesi a renderle più sopportabili piuttosto che a modificarle in funzione delle esigenze dei
cittadini ed in particolare di chi vive una condizione più vulnerabile, come i
bambini e gli anziani. La strada, per esempio, da tempo non è stata più considerata uno spazio dove giocare e dove incontrare una umanità varia, e allora sono stati proposti ai bambini parchi giochi ed attività separate dove vivere
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una condizione di gioco preconfezionata e sotto sorveglianza. In questi ultimi
anni, però, vengono avanzate altre ipotesi ed altre pratiche che, a fronte di tale
situazione, si pongono il proble-ma di modificare quella strada dove è impossibile giocare e socializzare, così da renderla abitabile per tutti i cittadini, uno
spazio non solo da attraversare velocemente per muoversi da un posto all’altro,
ma un luogo dove “stare”, da abitare a pieno titolo in modo promiscuo e intergenerazionale.
Parliamo delle esperienze di progettazione partecipata, di animazione di
strada, di recupero dei giochi di strada e di quelle iniziative tese a ricostruire
una città a misura di bambino che hanno il pregio di promuovere una migliore
qua-lità della vita per tutta la comunità. Esperienze che, mentre vengono sacrificate sull’altare di un welfare residuale, riemergono talvolta nella forma della
neo-mutualità.
Eppure oggi più di ieri si sente il bisogno di un intervento sociale che ha il
respiro dell’intervento di comunità e la consistenza del processo educativo per
il quale abbiamo bisogno di uno sguardo complessivo sulla città e il polso delle
sue pratiche sociali quotidiane. Infatti: “La città è al tempo stesso una struttura sociale, un sistema economico, un’opera d’arte, una comunità politica e un
ecosistema; un intervento che si concentri solo su uno degli elementi è destinato a fallire”1
Sono queste le considerazioni che guidano l’approccio di questo lavoro, e
questo significa sostanzialmente che:
1.
Non leggeremo il territorio semplicemente come sfondo, per quanto
significativo, di una rappresentazione sociale e dei processi educativi, ma come
parte integrante degli stessi;il che significa che qualsiasi intervento sociale non
può che agire a partire dall’interpretazione del territorio. Il territorio, dunque,
non è solo la lente attraverso cui leggere i problemi sociali, ma uno strumento
per intervenire su di essi. Per dirla con le parole di Guidicini: “Qualsiasi idea
nuova di Welfare non può che partire dal recupero dello spazio”2;
2.
il territorio urbano viene letto e pensato come potenziale risorsa educativa, poiché l’interrogativo sullo spazio si riduce ad un interrogativo sull’identità “E io chi sono?”. Un processo educativo che metta in moto un processo di
cambiamento e che preveda un percorso progettuale, non può non investire lo
spazio urbano nel quale le persone sono immerse e con il quale le identità individuali si intrecciano. Questo non significa non vedere l’emergere pressante del
territorio virtuale nell’era del social network, ma il fatto di praticare l’uno non
elimina il fatto di essere immersi anche nell’altro;
3.
gli interventi di lettura, d’interpretazione e di diagnosi del territorio
sono parte costitutiva di qualsiasi lavoro sociale e non solo di quegli interventi
1 F. De Biase, M.C. Genovese, l: Perissinotto., O. Saggion: “ Manuale delle professioni culturali” Utet >Libreria, Torino 1997, p.12
2 P. Guidicini,G Pieretti, M. Bergamaschi: “gli esclusi dal territorio”, Ed. Franco Angeli Milano 1996
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che fanno della strada e del territorio il loro ambito privilegiato (unità di strada,
animazione territoriale,ecc…). In un’ottica di lavoro di comunità, infatti, per
poter comprendere ed interagire con una comunità umana abbiamo bisogno di
conoscere a fondo il territorio che abita, non solo come spazio fisico, ma anche
come spazio simbolico, emotivo/affettivo, culturale e sociale. Il capitolo sulla
mappatura territoriale che proporremo alla fine di questo lavoro non si limita a
dare strumenti per la lettura della conformazione fisica del territorio e delle sue
reti di servizio, ma si pone in ascolto delle storie, dei rituali e dell’identità sociale
che i diversi segmenti di territorio hanno sviluppato negli anni.
A partire da questi presupposti questo quaderno vuole essere una cassetta degli attrezzi per quanti, operatori sociali, educatori, insegnati od amministratori
di enti pubblici, si pongano sul terreno dell’intervento territoriale, con una particolare attenzione per gli interventi educativi rivolti a bambini ed adolescenti.
Una cassetta degli attrezzi che contenga strumenti di interpretazione teorica
della realtà, capaci di dare un quadro degli studi sulla città e sulle sue trasformazioni che non possono essere ignorate da chi ha l’ambizione di agire in essa
e su essa, ma anche strumenti metodologici, per quanto parziali, da cui partire
per poter inventare e sviluppare le forme di intervento più adeguate per ogni
singolo territorio urbano.
Concretamente il testo si svilupperà attraverso una prima parte di riflessione
sull’importanza della dimensione spaziale, sulla prossemica e sull’uso dello
spazio e lo sviluppo della vita sociale dal punto di vista delle gerarchie dei poteri
delle reti di solidarietà, ma anche sul piano dello sviluppo cognitivo e dei modelli educativi, tenendo conto delle trasformazioni fisiche funzionali e sociali della
città negli ultimi anni e di come si presenta agli occhi di bambini ed adolescenti,
che più di altri la vivono o la vorrebbero vivere come spazio di scoperta e tirocinio alla vita. La città verrà, inoltre, letta alla luce dell’incontro tra generazioni
e in particolare tra bambini/adolescenti e anziani, cercando di capire come le
trasformazioni morfologiche e funzionali incidono su questo incontro e quanto
lo ostacolano. La scelta degli anziani insieme ai bambini ed agli adolescenti nasce
dalla consapevolezza che sono loro gli attori sociali che con maggior intensità vivono il territorio urbano, al di là della sua organizzazione funzionale o come luogo di attraversamento. Potremmo dire che sono i veri abitanti della città, quelli
che ne percepiscono il respiro, il ritmo, che ne ascoltano le voci più profonde ed
a cui sempre di più vengono negati spazi ed una relazione profonda con essa.
Successivamente abbiamo dedicato un capitolo alle forme di neo-mutualismo e
di utilizzo creativo del territorio che gli abitanti delle metropoli (in particolare
proprio gli adolescenti e gli anziani di cui sopra) mettono in atto. Parliamo di
quelle esperienze più o meno estreme che vanno dal riutilizzo di centri commerciali e ipermercati come luogo di socializzazione,dalla palestra urbana del
parcour sino al proliferare di campi e baraccopoli di disperati nelle pieghe della
metropoli, o alle forme di neo mutualismo quali possono essere gli orti urbani o
esperienze simili che si riappropriano del diritto di dare senso a luoghi svuotati
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di un valore sociale condiviso. L’attenzione alle forme di creatività sociale legate
all’uso dello spazio anche qui, non ha per noi semplicemente un interesse di tipo
antropologico, ma è la base per poter dare senso educativo ai nostri interventi,
partendo dalle forme di progettazione dal basso e valorizzando una delle dimensioni fondamentali di qualsiasi progetto educativo: lo spazio. Di qui un’idea
della progettazione partecipata che prenda corpo non solo dai bisogni della
popolazione, ma dalle pratiche sociali delle componenti più attive e creative.
Una seconda parte del quaderno si interrogherà sulle prospettive del lavoro
sociale come lavoro di comunità, nell’ottica del superamento del target e delle
forme di classificazione e frammentazione dei bisogni sociali. Verrà in maniera
sommaria raccontata l’esperienza, per noi di grande interesse, del Centre Social
della città di Marsiglia e si proverà, inoltre, ad esplorare nuovi terreni possibili
dell’intervento di comunità come quello dell’housing sociale.
L’ultima parte del quaderno, infine, intende offrire una cassetta degli attrezzi, per quanto parziale, ad uso della progettualità sociale, illustrando alcune
metodologie ed esperienze di lavoro, fornendo strumenti, programmazione,
griglie di mappatura, strumenti laboratoriali, ecc...
L’obiettivo è quello di dare un contributo in termini di approccio educativo
al lavoro sul territorio, proponendo delle metodologie di lavoro costruite all’interno di un percorso di consapevolezza teorica dei mutamenti sociali dai quali
anche la città è investita. Insomma, un intreccio tra teoria e prassi di cui sempre
più, a nostro parere, l’operatività sociale ha bisogno.
Corviale, veduta d’esterno. © Molo7 Photo Agency
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Cap.1
Alla ricerca dello spazio…
…“Intanto impari una cosa, che a saperlo guardare qualsiasi schifoso pezzo di terra è un
poema epico, è un testo sacro, è un canzoniere d’amore, è un atlante di idee … Finisce che ci credi.
Che se qualcuno non ti ferma te ne sci, ti metti una sediolina al centro del giardino pubblico più
vicino, e inizi ad aspettare. Un’ora, o anni magari, e se quello scaracciolo di terra ha un’anima tu
gliel’avrai letta.”
A. Baricco
1.1 Spazio fisico e spazio progettuale
Immaginiamo di entrare in casa di una persona che conosciamo appena, ma
della quale vorremmo sapere di più: sicuramente cercheremo degli indizi guardando i titoli dei libri in libreria, dei suoi CD o DVD; ma probabilmente, prima ancora di arrivare a questo, in modo meccanico e naturale, osserveremo e
misureremo il modo in cui ha organizzato il suo spazio, la densità di oggetti, la
presenza di spazi liberi, le stanze più vissute e curate, la centralità o meno nella
disposizione spaziale di elementi quale la televisione, la libreria, il tavolo dove
si mangia, ecc.), cercando di ricostruire una gerarchia interna. Probabilmente
la prima sensazione che quella casa ci darà come specchio della personalità di
chi la abita, sarà data proprio dall’organizzazione dello spazio e dall’uso dello spazio, prima ancora di qualsiasi ragionamento razionale. Ogni spazio, ogni
luogo, ha una storia da raccontare che si intreccia profondamente con chi lo
abita e lo attraversa; le storie danno profondità allo spazio, ci offrono una chiave
attraverso cui leggerlo ed è proprio questa caratteristica che distingue un luogo
da un non-luogo, come li ha chiamati per la prima volta Marc Augè3. Nello stesso modo l’uso dello spazio nelle relazioni quotidiane tra le persone rappresenta
la cornice stessa della relazione ed una forma importante di comunicazione
in essa, come ha ben raccontato Goffman (1967)4 nei suoi studi sulle relazioni
“faccia a faccia”. Se ci avviciniamo troppo nel parlare ad una persona con la
quale non abbiamo intimità, questa si sposterà o rimarrà in imbarazzo; così
l’atto del toccare può essere letto come elemento di affetto e solidarietà o come
invasione dello spazio personale e minaccia, a seconda del tipo di relazione che
stiamo vivendo. Non a caso, gran parte delle nostre rappresentazioni verbali
relativamente agli stati emotivi ed ai rapporti umani utilizzano la metafora dello spazio:“Ti sono vicino”, “Mi sento giù”, “Ti sento distante”, “Mi si stringe il
cuore”, “È un tipo aperto”, “Quella persona sta fuori di testa”, “È una persona
lontana dal mio modo di vedere le cose”. Tutti questi modi di dire rinviano
a distanze, margini, posizioni, grandezze, elementi del campo semantico della
3 M. Augè: Non Luoghi Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Eleuthera edizioni, Milano, 1997
4 E. Goffman, 1967, Interaction Ritual. Essays on Face-to-Face Behavior, Doubleday, Garden City, New York. Tr It. Il rituale dell’interazione, Il Mulino, Bologna, 1971.
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spazialità, a dimostrazione di come lo spazio finisce per essere una lente attraverso cui vedere il mondo che ci racconta di condizioni sociali, psicologiche ed
emotive. Tutto ciò ci conferma di come abitiamo lo spazio e le distanze in maniera emotiva e di come attraverso ciò costruiamo rappresentazioni sociali della
nostra identità e costruiamo significati comunicabili.
Le scienze sociali si sono spesso soffermate a riflettere sul legame tra
l’organizzazione degli spazi, l’organizzazione della vita sociale, la costruzione
di culture e, addirittura, di profili di personalità. La prossemica è la disciplina che indaga le modalità di comportamento e di organizzazione dell’uomo nel
suo spazio sociale e biologico, con i suoi riflessi sulla vita sociale. Un autore
come Simmel5 ha descritto il profilo psicologico dell’abitante della metropoli, distinguendolo da quello del piccolo centro, a partire dall’aspetto spaziale,
facendo derivare l’indifferenza ed il disincanto del “tipo urbano” in modo indirettamente proporzionale con l’estrema concentrazione umana legata all’organizzazione dello spazio nella grande città. Sono, inoltre, piuttosto famosi gli
studi di diversi autori sulla percezione dello spazio in relazione alle diverse fasi
dello sviluppo cognitivo, in particolare quelli di Piaget (1926)6. E’ evidente, dunque, che l’organizzazione dello spazio finisce per essere una lente attraverso cui
leggere ed interpretare il mondo, una delle chiavi attraverso cui costruiamo la
prospettiva del nostro progetto di vita. Possiamo immaginare che un bambino, che si trovi a crescere nella realtà standardizzata e rigidamente ordinata di
un’istituzione totale, farà più fatica ad immaginare un mondo fatto di diversità
e poi a rapportarsi a tale realtà, e che farà più fatica a pensare di poter avere un
suo potere nell’organizzazione dei propri spazi, tempi e direzioni di vita.
La capacità di sviluppare un’ottica progettuale autonoma, quindi, avrà a che
fare con l’esperienza vissuta nell’esercizio di un potere sull’organizzazione dello
spazio circostante e sulla sua varietà, metafora delle diverse possibilità progettuali che possiamo avere. In questo senso anche la strutturazione di un quartiere ci parla delle possibilità di cambiamento, di differenziazione di prospettiva
progettuale.
In una città come Roma, in un quartiere come Garbatella, sarà possibile
fare i conti con la diversità, la varietà, le possibilità di incontro e socialità che
un’organizzazione dello spazio come quella suggerisce; organizzazione dello spazio piuttosto diversa dai quartieri di più recente costruzione, dove la
standardizzazione dell’arredo urbano ed i grandi palazzi uguali, spesso privi di luoghi di incontro sociale ed attraversati da grandi strade strettamente
funzionali all’uso automobilistico, fanno sì che manchino punti di riferimento
per orientarsi. Questo rapporto intimo tra spazio e definizione di sé, della propria progettualità e della propria costruzione di mondi vitali, ci ricorda la centralità della dimensione spaziale nella relazione educativa allorquando si pone
5 Cfr.Simmel G., Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore 1996
6 J. Piaget, 1926, La représentation du monde chez l’enfant; trad. it. La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Boringhieri, Torino
1966.
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nel solco dell’accompagnamento progettuale dell’altro e della costruzione condivisa di senso. In ultima analisi vi sono forme di costruzione ed organizzazione
dello spazio urbano che rischiano di comunicare, non solo l’impossibilità di un
progetto individuale indipendente dal proprio destino sociale, ma addirittura
l’impossibilità di fondo della trasformazione sociale in un contesto urbano che
si presenta come statico, neutro, soffocante ed immutabile. Si postula, quindi,
un’influenza tra le forme di costruzione ed organizzazione sociale della città e le
percezioni di sé nel mondo delle persone che vivono quel segmento di territorio urbano; W. Taylor, parlando del periodo di costruzione della gran parte dei
grattacieli a New York,afferma:
“[…]Contribuirono a strutturare l’esperienza dei nuovi abitanti della città. Guardando i grattacieli che si superavano uno con l’altro, osservando i
Canyon che si alzavano lungo le strade principali e i contorni della città che
cambiavano forma, quei cittadini furono costretti a percepire se stessi come
parte di un ambiente irrequieto e mutevole”7.
Ovviamente tutto ciò non significa che il nostro progetto di vita è determinato meccanicamente dal contesto spaziale dove cresciamo e viviamo, ma che vi
sono una serie di influenze reciproche che suggeriscono l’immissione di questi
aspetti in percorsi educativi consapevoli, capaci di mutare in risorse, per quanto
possibile, i vincoli spaziali dati e capaci di far sperimentare esperienze nuove a
chi cresce in un contesto spaziale ad una sola dimensione o, comunque, di avere
un’attenzione che ci permetta di tenere conto delle caratteristiche socio-spaziali dei territori dove andiamo a costruire un intervento sociale. Se lo spazio,
infatti, può essere il luogo dell’alienazione e della spersonalizzazione, pensiamo
all’istituzione totale; esso è anche il luogo della riappropriazione e oggetto di
identità per chi lo vive, questo se siamo capaci di riempire di significati sociali
ed individuali i territori abitandoli, connotandoli dal punto di vista emotivo, con
le storie di chi ci vive.
Ma cos’è che dà significato sociale ad uno spazio fisico? Cos’è, per dirla con
Marc Augè8, che trasforma un non-luogo in luogo e viceversa? Proviamo a
ripondere, seppure in modo sommario, cercando di individuare alcuni aspetti
che fanno di uno spazio fisico un luogo sociale:
1. lo spazio deve avere una storia e raccontare storie condivise, cioè deve essere inserito in una dimensione temporale non asettica;
2. lo spazio deve essere ricoperto di significati sociali e simbolici, avere una
propria identità;
3. lo spazio deve essere organizzato in nodi e connessioni, così da essere differenziato al suo interno e produrre gerarchie diventando, dunque, un agente
“produttore di senso”; lo spazio, cioè, deve avere una sua grammatica ed una
7 Taylor W., New York, Marsilio, Venezia, 1992, p. 65
8 Augé M., Nonluoghi – Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, 1993, p. 74
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sua sintassi interne;
4. la densità e l’eterogeneità dell’organizzazione spaziale producono cultura e
forme d’integrazione e convivenza all’interno del luogo stesso;
5. lo spazio sviluppa, in chi lo vive o lo attraversa, riferimenti e vissuti affettivo-emotivi che lo differenziano da qualsiasi altro spazio.
Queste e, probabilmente, altre caratteristiche concorrono a dare significato
sociale agli spazi, facendoli diventare, nel nostro modo di guardarli e di viverli,
dei luoghi, anche se come afferma Marc Augé:
“Il luogo e il non luogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non
è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente”9.
Marc Augé, descrivendo la categoria del non-luogo, citava principalmente
autogrill, ipermercati, ospedali ecc., ma quanti dei nostri quartieri o segmenti
di spazi urbani si possono definire più vicini a un non-luogo che ad un luogo?
E come possono fluire le relazioni, l’affetto, le emozioni e gli stessi processi di
apprendimento in luoghi tendenzialmente asettici e neutri o semplicemente
stereotipati attraverso un’identità negativa appiccicatagli dall’esterno (pensiamo alla storia di quartieri come Tor Bella Monaca, Corviale, lo Zen di Palermo, ecc.)?. Il sociologo Franco Cassano, sostiene che “Abituarsi allo squallore
e all’insicurezza del paesaggio è una forma di impoverimento sensoriale che
dovrebbe trovare un posto tra quegli indicatori della qualità della vita che
troppe volte vengono costruiti solo sulla base delle grandezze economiche”10.
Qui nasce il senso di un intervento sociale ed educativo mirato a ricostruire
significati sociali nei territori, a costruire una storia comune da raccontare per
le comunità territoriali, a costruire e valorizzare identità non chiuse e negative
dei quartieri. Questo, ovviamente, è possibile solo a partire dalle reti informali e
dai tessuti sociali, più o meno sommersi, che in qualsiasi situazione, per quanto
desertificata, si producono, aiutando i processi di costruzione di identità autonome ad emergere e i legami sociali a consolidarsi, con l’obiettivo di costruire
uno spazio educativamente fertile, non solo per la comunità dei più piccoli.
Non sarà oggetto delle nostre riflessioni, ma può essere utile soffermarsi sul pensiero sviluppatosi negli ultimi trent’anni anni (purtroppo più sul
terreno teorico che pratico) sull’organizzazione dello spazio all’interno della scuola e segnatamente nell’aula scolastica; riflessione che ha le sue origini
più antiche nel metodo Montessori (1913)11, e che ci insegna come una diversa
organizzazione dello spazio dove si svolge una relazione educativa ne determina
una diversa direzione, un diverso significato ed una diversa efficacia. In un’aula
si può organizzare e modificare lo spazio, seppure all’interno dei vincoli strutturali dati; in un quartiere questo è più difficile, abbiamo una minor autonomia
9 ibidem, p. 74
10 F., Cassano:” Modernizzare stanca” Il Mulino Bologna 2001
11 M., MONTESSORI, 1913, Il metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini. Seconda
ediz. accresciuta ed ampliata con molte tavole e figure, Loescher & C, Roma.
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(malgrado le esperienze interessanti di progettazione partecipata), ma possiamo lavorare molto su come lo spazio viene vissuto, percepito, utilizzato, raccontato per recuperare un’autonomia progettuale di chi lo vive.
Corso di ginnastica artistica presso il Calcio Sociale. © Molo7 Photo Agency
1.2 Lo spazio educativo
Lo spazio è dunque elemento fondamentale e costitutivo di qualsiasi percorso di sviluppo cognitivo ed emozionale ed in quanto tale possiamo definirlo
sempre come “spazio educativo”; non chiamiamo, cioè, “spazio educativo” solo
quello spazio che diventa teatro di ciò che normalmente consideriamo azioni
educative, come un’aula scolastica o le mura di una casa dove i genitori educano
un bambino.
“Ogni spazio può divenire, in determinate situazioni, spazio educativo, poiché i processi di formazione e crescita avvengono dovunque si vive: nel gioco,
al cinema, nello sport, in ambito professionale”12.
Ci riferiamo sicuramente agli aspetti di sviluppo cognitivo che in età evolutiva,
come dimostra Piaget, risentono della relazione tra il soggetto e i suoi spazi di
vita, e all’interessante intuizione di Lewin (1951)13 rispetto al concetto di “spazio
vitale”, presentato sempre come uno spazio non neutrale, come un sistema di
relazioni fondamento dell’interazione tra il soggetto e la realtà esterna a sé.
Per altro verso basterebbe osservare quanto le relazioni di potere si esprimono
attraverso lo spazio: lo stare sopra o sotto nella dimensione della verticalità, la
vicinanza e la lontananza nella dimensione dell’orizzontalità esprimono rapporti di potere, possibilità, opportunità, spazi di autonomia che i soggetti possono o
meno avere. L’organizzazione dello spazio in un’aula scolastica vecchio stampo,
12 Iori V., Lo spazio vissuto, La Nuova Italia, Milano, 1996
13 K., Lewin, 1951, Field theory in social science: selected theoretical papers; trad. it., Teoria e sperimentazione in psicologia sociale,
Il Mulino, Bologna, 1972.
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per esempio, attraverso la diversa altezza della cattedra rispetto ai banchi e la
sua distanza dagli stessi, comunica a tutti gli attori una inequivocabile gerarchia
ed una relazione di potere.
Ma ci sembra necessario andare oltre, esplorando la dimensione emotiva ed
affettiva dello spazio che lo proietta oltre lo spazio muto ed omogeneo della
fisica, per assegnargli un’autonomia educativa di per sé, al di là del processo
educativo che in esso si può svolgere. Infatti:
“Le diverse forme di spazialità sono comprensibili come modalità di essere
nel mondo dell’umana presenza; e lo spazio emotivo tutte le connota profondamente: dallo spazio sociale allo spazio estetico, dallo spazio culturale allo
spazio educativo”14.
Lo stesso aspetto estetico di uno spazio, ad esempio di uno spazio urbano, non
ha a che fare con l’astratto concetto di bello, ma con la capacità di uno spazio di
costruire intorno a sé un clima emotivo; recuperando il significato etimologico
della parola estetica (da aisthetes, che sente, percepisce) riscopriamo la stretta
connessione tra la dimensione estetica e quella emotiva ed è in quel clima emotivo, che si costruisce tra le persone e gli spazi che abitano, che si sviluppano i
processi di apprendimento e di crescita e, in ultima analisi, i percorsi educativi
e progettuali delle persone. Pensando allo spazio-città può essere utile ricordare
le parole di Park :
“La città è qualcosa di più di una congerie di individui e di convenienze sociali[…] qualcosa di più anche di una mera costellazione di istituzioni e di meccanismi amministrativi - tribunali, ospedali, scuole, polizia, funzionari civili
di ogni sorta - . La città è piuttosto uno stato d’animo, un corpo di pratiche e
tradizioni, di atteggiamenti e sentimenti organizzati inerenti quelle pratiche e
trasmessi con quelle tradizioni”.15
È chiaro, dunque, che chiunque si ponga l’obiettivo di porsi all’interno di
un territorio con una funzione educativa, o semplicemente nella costruzione
di relazioni umane, dovrà cercare di esplorare e tenere conto dei climi emotivi
collettivi e soggettivi che intorno a quel territorio si producono.
In altre parole, bisognerà decodificare ed utilizzare l’alfabeto sentimentale
ed emotivo del territorio dove si opera. Non basterà, pertanto, avere coscienza
delle opportunità e dei vincoli oggettivi che un territorio propone, ma bisognerà
andare in cerca della sua anima più profonda, se vorremo comprendere meglio
le persone che abitano quegli spazi.
Riassumendo il tema dello spazio è parte costitutiva della riflessione sui processi educativi per almeno tre motivi:
1. lo spazio è oggetto di conoscenza: attraverso la conoscenza e la “misurazione”
14 Iori V., Lo spazio vissuto, La Nuova Italia, Milano, 1996
15 R. Park , “la città”, Edizioni Comunità Torino 1979
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degli spazi circostanti il bambino, e poi anche l’adulto, sviluppa capacità cognitive, abilità e competenze che gli permettono di affrontare in modo efficace la
realtà in diverse dimensioni, non solo spaziali. La diversa organizzazione dello
spazio urbano, quindi, favorisce o meno diverse capacità cognitive, competenze
e percezioni. In qualche misura, allora, le mappe territoriali si intrecciano con
le mappe cognitive delle persone, anche se questo non va letto in maniera deterministica. Su questo tem si sono particolarmente soffermati gli studi della
psicologia dell’età evolutiva;
2. lo spazio come sfondo, mai neutro, di una relazione educativa, elemento
questo che negli ultimi decenni ha sviluppato importanti riflessioni in ambito
pedagogico sull’organizzazione più adatta degli spazi per rendere più fluida e
motivante il percorso educativo;
3. lo “spazio educante”, aspetto forse preso meno in considerazione in termini
scientifici, ma che a noi pare di grande importanza, specialmente se ci riferiamo
agli spazi urbani. Ci riferiamo ad una concezione di “spazio educante” non solo
come sfondo di una qualche relazione educativa, ma prendendo in considerazione una capacità educativa in sé dello spazio urbano, nella misura in cui ci
propone forme di organizzazione e classificazione della realtà, stimoli, gerarchie, prospettive. L’idea, quindi, che lo spazio si pone al soggetto con una sua
grammatica ed una sua sintassi, capace di proporre identità, esercitare poteri o
liberare energie creative, ovviamente sempre all’interno della relazione dialettica che si produce tra il soggetto e lo spazio fisico.
Quest’ultimo aspetto ci pare particolarmente interessante per un lavoro come
il nostro, di natura operativo più che analitico in quanto può anche consegnarci
degli strumenti di intervento importanti per la costruzione di progetti educativi
che intendano mettere al centro la strada ed il territorio, come concetti simbolicamente e relazionalmente densi.
Quindi, più che di “spazio educativo”, a tal fine, probabilmente, sarà in
questo contesto utile parlare della funzione educativa dello spazio, cercando
di capire come sia possibile mettere in atto delle strategie attive nei confronti dell’organizzazione data dello spazio urbano, per modificarne, arricchirne,
differenziarne i messaggi educativi e sviluppare, in alcuni casi, le potenzialità
creative all’interno delle comunità che permettano una trasformazione dello stesso territorio urbano e delle funzioni adesso assegnate. Ad esempio, la
costruzione di un marciapiede stretto comunica immediatamente agli abitanti
che quello è solo un luogo di transito e non di sosta, con l’implicito corollario
che non vale la pena incontrare persone estranee alla nostra cerchia stretta in
strada o quanto meno che il luogo della socialità deve essere un luogo privato e
non un luogo pubblico. Al contrario costruire un marciapiede largo e magari anche irregolare con delle rientranze a ridosso delle case, ci offre la possibilità che
quel marciapiede divenga luogo di sosta, di incontro per anziani, adolescenti o
altri e che la strada sia un luogo da vivere e non da attraversare.
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Dietro la costruzione di questi due marciapiedi, dunque, non vi è solo una
diversa idea urbanistica, ma una diversa idea di socialità e di costruzione delle
relazioni umane e, in ultima analisi, un diverso presupposto pedagogico. Ovviamente non basta avere un marciapiede largo per ricostruire socialità in una
strada, ma può esserne un presupposto. Da molte cose che diremo più avanti,
appare chiaro che l’intreccio tra disegno urbano e idea di società è molto stretto,
come diceva, ormai oltre cinquant’anni fa, J.Jacobs : “le strade anonime producono gente altrettanto anonime”16.
Per questo lavoro ricostruire la storia e le trasformazioni delle nostre città
assume, quindi, una grande importanza. Operare nella città senza comprenderla sarebbe, infatti, come se un biologo marino si occupasse dei pesci senza
conoscere la complessità dell’ecosistema marino che li include.
I ragazzi del Centro di Aggregazione Giovanile prezzo la cavea di Corviale.
© Molo7 Photo Agency
16 J Jacobs: Vita e morte delle grandi città, Einaudi Torino 2009, cit p.52
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Cap. 2
La città: la genesi e le sue trasformazioni
“Al centro di Fedora Metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di
vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello di
un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione
o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno guardando Fedora qual
era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in
miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo
possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro”17.
2.1 La genesi della città
Sebbene attualmente l’ambito cittadino non rappresenti l’unico spazio
significativo per le società contemporanee, esso si pone indiscutibilmente in
primo piano. L’evidenza è tale sia perché un’ampia parte del mondo ha oramai
i connotati del mondo pienamente urbanizzato, sia perché molti fenomeni sociali, la cui diffusione risulta sganciata dallo spazio fisico della città, continuano
comunque ad essere influenzati da fattori simbolici e materiali originati nella
struttura urbana. La città assume il ruolo, dunque, di punto di osservazione
privilegiatosui fenomeni e sui processi che caratterizzano le società attuali.
Cosa caratterizza la città odierna e ce ne fornisce una sua chiara ed inequivocabile definizione? In realtà, oggi, la città è un oggetto concettuale difficilmente
delimitabile entro confini netti, a tal punto che anche il suo aspetto immediatamente percepibile, l’essere un insediamento di popolazione che vive e agisce
in un ambiente costruito, è di rado separabile dal suo contrario, la campagna
e l’ambiente circostante. Nella città antica ed in quella medioevale le mura e le
opere di fortificazione dividevano in modo evidente lo spazio abitato da quello
non abitato, il dentro dal fuori, ma nel caso dell’agglomerato urbano contemporaneo l’estensione, spesso misurabile in decine di chilometri, incorpora parchi,
aree destinate ad uso agricolo, zone a bassa densità d’insediamento, arrivando a
combinarsi, in certe circostanze, con le pertinenze degli abitati limitrofi.
Se poi si considera la città odierna come sistema sociale, allora, risulta ancor
più difficile darne una definizione completa e dettagliata. Non è del tutto corretto, infatti, considerare il sistema della città contemporanea come sottosistema
di un più ampio sistema sociale, come, invece, possono essere considerate, a
buona ragione, economia e politica, in quanto parti della società umana che
svolgono funzioni specializzate e complementari rispetto ad altri settori; né
è tanto meno valido assimilare la città di oggi ad uno specifico campo di attività sociale quale, ad esempio, risulta essere l’arte, in qualsivoglia delle sue
poliedriche manifestazioni.
17 Calvino I., Le città invisibili, Arnoldo Mondadori, Milano, 1993, p. 31
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Come afferma il sociologo Della Pergola (1990)18, la città si caratterizza, piuttosto, per il fatto di essere un sistema tutto intero, completo in ogni sua parte,
alla stregua dei macrosistemi che sono l’oggetto d’interesse degli studi sociologici. La città, insomma, è un sistema sociale globale e, in quanto “totalità e non
parte”, è una realtà inevitabilmente ricca di sfaccettature che presenta, quindi,
al suo interno specifici problemi e peculiari risorse.
Secondo Alfredo Mela, docente di Sociologia urbana al Politecnico di Torino,
è possibile comprendere il sistema città osservandolo attraverso quattro dimensioni distinte, ma non per questo vicendevolmente escludenti19:
1. La dimensione economica. “Ogni città si presenta come sede di una
molteplicità di attività economiche, volte a produrre beni e ad erogare servizi.
Tali attività presentano fitte interazioni reciproche, sia all’interno dei singoli
centri urbani, sia tra di essi. In tal modo, la rete delle città rappresenta l’ossatura fondamentale della struttura economica di ogni paese, specie di quelli a elevato grado di sviluppo, e partecipa a una divisione internazionale del
lavoro, che influisce in misura rilevante sul ruolo che il paese svolge nel contesto mondiale”.
2. La dimensione politica. “I centri urbani, infatti, sono luoghi in cui si articolano classi e strati sociali, si organizzano gli interessi collettivi dando vita
a partiti, sindacati, gruppi professionali, associazioni di categoria ecc. Attraverso processi di selezione delle rappresentanze e di partecipazione politica, la
formazione di alleanze e la composizione di conflitti, vengono a definirsi nelle
città linee di intervento politico che incidono in modo essenziale (anche se non
esclusivo) sulle stesse caratteristiche sociali ed economiche della città e sul suo
assetto spaziale”.
3. La dimensione culturale.“Da un lato, la città è la sede di un continuo
confronto tra culture e sottoculture, intese nel senso antropologico del termine,
ovvero come complessi strutturati di norme, valori, simboli, schemi di comportamento propri di gruppi sociali, etnici o religiosi, e così via. Questo confronto
può generare sintesi, ma talvolta anche contrapposizione, emarginazione di
culture minoritarie, segregazione.
Dall’altro lato, la città è luogo di continua elaborazione di simboli, ed è sede
di manifestazioni della vita culturale, questa volta intesa nel senso corrente
della parola: dunque luogo in cui si svolgono attività artistiche, letterarie, musicali, teatrali ecc.”.
4. La dimensione ecologica. “[…] Essa riguarda la forma che l’insediamento urbano ha dal punto di vista sociale: dunque, la distribuzione dei vari
gruppi e attività nei diversi spazi che compongono la città. Nel linguaggio attuale, tuttavia, l’aggettivo «ecologico» rinvia anche ai problemi del rapporto
18 Cfr. Della Pergola G., Lezioni di Sociologia Urbana, CLUP, Milano, 1990
19 Mela A., Sociologia delle città, Carocci, Roma, IV rist., 2001, p. 37, 38
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tra la città, in quanto sistema artificiale, e l’ambiente naturale e biologico, includendo in quest’ultimo l’uomo stesso, in quanto organismo vivente, dotato di
una particolare struttura psichica. Pertanto, esso richiama la questione della
sostenibilità ambientale della città e quella relativa all’influenza che l’ambiente urbano ha sul corpo e sulla personalità degli abitanti”.
La città attuale è, quindi, un sistema sociale di grande complessità nel quale
si attuano e si concentrano fenomeni tipici di sistemi più estesi, quali le società
nazionali ed i sistemi globali.
Non è sufficiente una sola chiave di lettura per interpretare tale sistema, né,
tanto meno, è lecito affermare l’esistenza di una dimensione prioritaria che sia
capace di determinare e di spiegare tutte le altre.
In altre parole la città è, oggi più che mai, un fenomeno economico, politico,
culturale ed ecologico. Semmai, ogni aspetto del fenomeno urbano è intimamente legato agli altri e, perciò, è influenzato da essi ed al contempo concorre
a definirli.
L’industria prima, il terziario avanzato poi, hanno eletto la città a loro ambiente specifico di produzione e forse oggi soprattutto di consumo. È giunto così a
compimento il processo di trasformazione del concetto arcaico di città.
In realtà, il concetto di città moderna è frutto, però, di un rinnovamento radicale che va al di là delle pur determinanti implicazioni macro-economiche della
Rivoluzione industriale. La trasformazione della forma urbis ha i prodromi, i
segni precursori, nelle complesse operazioni di “regolarizzazione” e “igienizzazione”20 realizzate dagli Stati riformatori con l’intento di porre un freno al
prorompere delle classi “laboriose e pericolose”21. Vengono fissati, allora, dei
criteri per un sano modo di abitare:
• stabilire differenti luoghi per il domicilio ed il lavoro;
• separare le famiglie tradizionali in nuclei ristretti;
• proporzionare, di conseguenza, la superficie dell’abitazione alla grandezza della famiglia;
• assegnare ad ogni individuo luoghi appropriati dello spazio domestico,
divisi per sesso ed età;
• regolamentare i rapporti di vicinato e le circolazioni esterne ed interne agli edifici;
• fornire servizi collettivi in luoghi istituzionali, negando il ruolo socializzante
di luoghi informali come vicoli e piazze, ma anche androni ed osterie.
20 La Cecla F.,”Mente locale per un’ antropologia dell’abitare” Eleuthera 2015. p. 17
21 ibidem, p. 20
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Questa pianificazione riguarda, quindi, i comportamenti dei cittadini e non
solo materialmente il tessuto urbano, affermando così uno spazio di tipo prescrittivo che ancora oggi è un retaggio che caratterizza la vita nelle nostre città.
“Dai marciapiedi, alle strade, allo spazio dell’appartamento, al paesaggio
urbano in generale abbiamo a che fare con uno spazio rigido, predeterminato,
con una serie di griglie, di incasellamenti e di canali dentro cui, bene o male, si
svolge la nostra vita. […] Una città concepita come rete di istituzioni, ospedali,
carceri, case di lavoro, scuole e griglie di strade e viali per la circolazione del
traffico e del controllo in veste di polizia urbana e di sorveglianza burocratica”22.
Carattere prescrittivo che ha raggiunto il suo apice nella teoria urbanistica grazie a le Corbusier e la sua “città radiosa”23 di cui troviamo ancor tracce evidenti
nelle nostre città, anche sul terreno culturale e sociale come sostiene la Jacob:
Le Corbusier non si limitava a pianificare un ambiente fisico ma perseguiva
un’utopia sociale. La sua utopia avrebbe reso possibile ciò che egli chiamava
“massima libertà individuale” e per la quale sembrava che intendesse non la
libertà di poter fare qualcosa, ma la libertà dall’ordinaria responsabilità. Nella città radiosa probabilmente nessuno più avrebbe dovuto essere il custode
del proprio fratello,nessuno avrebbe dovuto lottare con programmi propri,
nessuno si sarebbe sentito impegnato24. Parole che drammaticamente sembrano descrivere molti segmenti delle nostre attuali città e persino dei nostri
condomini.
Le città moderne diventano permeabili ai controlli e all’erogazione dei servizi
pubblici. Per realizzare questa rifondazione, le città del Vecchio Continente, un
tempo fulcri vitali in cui s’intrecciavano le relazioni umane, subiscono inevitabilmente un drastico processo di smantellamento del tessuto urbano. Scoppia,
dunque, la forma urbis: la città moderna, come si è detto, è un sistema di griglie
ed attrezzature, che tuttavia tende all’espansione indefinita. Tale accrescimento
non solo ne vanifica il centro, ma anche i confini. Le periferie si dilatano, divorano villaggi e borgate vicine, sottraendone a loro volta orientamenti e confini. In
altre parole, come afferma il filosofo Massimo Cacciari, “la città moderna, nel
suo evolversi metropolitano, irradia dal suo centro, travolgendo ogni antica
persistenza”25.
“Il nuovo paesaggio di suburbi diventa un elenco senza inizio né fine e lo
spazio restante tra gli agglomerati perde carattere di filtro ed assume quello
di terra di nessuno.”26
22 ibidem, p. 16, 17
23 Le Corbusier negli anni ’20 escogitò una città ideale da lui ribattezzata “Città Radiosa” costituita essenzialmente da alti edifici dove
poter collocare molte persone usando poco suolo, grandi spazi verdi, unità in cui le funzioni urbane vengono rigidamente pianificate
e si cerca di permettere l’autosufficienza delle unità urbane di fatto separandole dalle unità circostanti.
24 J Jacobs: Vita e morte delle grandi città, Einaudi Torino 2009, cit p.20
25 Cacciari M., Nomadi in prigione, in La città infinita, Bonomi A., Abruzzese A. (a cura di), Paravia Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. 51
26 ibidem, p. 36, 37
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Il paesaggio urbano viene “ripulito” da ogni forma d’irregolarità e da ogni
ostacolo spaziale patrimonio del passato quali, ad esempio, casupole, mercati,
cortili. In un tessuto urbano così ristrutturato anche l’abitare viene trasformato: nasce così il concetto di residenza, ad indicare l’istituzione di un domicilio
regolarizzato e disciplinato. Tuttavia ciò avviene in un nuovo spazio smarginato,
in un paesaggio che comincia ad alternare luoghi e fuor di luogo, ed il cui effetto d’insieme è la perdita di senso. Infatti, a decretare l’esplosione della forma
urbis, non sono soltanto in sé per sé le demolizioni e le costruzioni prescrittive
che si susseguono nel 19° secolo, ma anche la svalutazione delle mappe mentali
degli abitanti.
“Quando il controllo dei comportamenti domestici e urbani diventa sempre
più rigido non sono più i gesti della gente, ma le mura e le «strade corridoio»
a dettare la mappa. La perdita di contatto tra abitare e costruito rende difficile quel processo culturale che consiste nel rapporto reciproco tra identità e
luoghi. I luoghi sono «alienati» e altrettanto lo sono gli abitanti. Nasce il senso
desolato delle periferie, l’omologazione delle prospettive, il somigliarsi di tutti
i quartieri suburbani del mondo e con essi il senso di anonimità”27.
Il processo di trasformazione del concetto di città, da cosmo parallelo a
sistema di controllo,da città tradizionale a città contemporanea, viene definito
da Mario Pollo una “secolarizzazione”28,e si riduce ad una somma di funzioni dalle quali sono assenti, o perlomeno sono presenti in modo subordinato,
quelle riferite alla vita di relazione comunitaria, ai processi d’identificazione in
una storia ed in una memoria. Sembra essersi interrotto anche il rapporto tra
ambiente urbano ed ambiente naturale, giacché le città contemporanee tendono
a riprodurre architetture (fatte, per l’appunto, di griglie e di attrezzature) e funzioni simili, al di là del contesto ambientale in cui sono inserite.
“Da questo punto di vista le città possono essere assimilate a delle macchine
produttive di attività lavorative, di servizi, di istruzione e di cultura, di svaghi
e divertimenti e assai poco degli spazi esistenziali in grado di circoscrivere la
vita delle persone in un senso collettivo e di produrre relazioni significative tra
le persone. Il risultato di questa meccanicizzazione sono città a basso tenore
di vivibilità, in cui le relazioni di solidarietà tra le persone, laddove ci sono
sistemi amministrativi efficienti, sono surrogate dalle prestazioni anonime dei
servizi sociali e culturali”29.
In siffatti contesti urbani, i cittadini sono portati a patire un isolamento sempre più esasperato, in cui allignano e si riproducono povertà relazionali, sentimenti d’indifferenza e, non ultima, una certa mancanza di solidarietà. La città
ha perso il suo patrimonio, cioè il suo essere costituita da molteplici e diverse
articolazioni in cui le persone erano chiamate ad agire specifici comportamenti.
27 ibidem, p. 36, 37
28 Cfr. Pollo M., op. cit.
29 ibidem, p. 36
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Nella raffigurazione pre-moderna il luogo rappresentava, in effetti, il fondamento della socialità.
Nello stesso modo le radicali trasformazioni economiche che stanno accompagnando l’era della globalizzazione ed hanno segnato l’avvenuto passaggio dal
fordismo al post-fordismo (almeno in occidente) ricadono profondamente sulle
caratteristiche e sullo sviluppo della città contemporanea, per alcuni versi approfondendo alcune linee di sviluppo della città moderna del ‘900 e per altri
immettendo elementi di assoluta novità.
2.2 Le trasformazioni della metropoli post-fordista
Come è evidente dai dati di censimento citati nei grafici seguenti in questi
ultimi 30-40 anni abbiamo assistito ad un esodo massiccio dalle grandi città
italiane: nel giro di trent’ anni quasi un milione di persone si sono allontanate
dalle due più grandi città italiane, Roma e Milano, malgrado la presenza massiccia dei migranti.
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Il trend della popolazione cittadina che vede un picco nelle tre grandi città
italiane tra gli anni 60 e gli anni 80 per poi decrescere è molto diverso, come
possiamo vedere dalla tabella, dall’andamento molto più lineare della crescita della popolazione italiana, a dimostrazione dello spostamento negli ultimi
decenni della popolazione dalle grandi città verso i piccoli centri spesso della
provincia delle stesse città.
I dati demografici ci segnalano, dunque, un arresto, quando non un decremento, della popolazione delle grandi aree urbane italiane, se le si considera entro il
perimetro dei propri confini amministrativi. Il medesimo trend però non viene
generalmente confermato negli insediamenti urbani dell’hinterland delle grandi città. Questo andamento è sintomatico di un mutamento del modello urbano
che vede una crescita delle aree metropolitane anche per via della differenza di
prezzi degli immobili e grazie allo sviluppo del trasporto pubblico e la ricerca di
una diversa qualità della vita. In definitiva, quindi, i confini amministrativi delle
città non corrispondono più alla realtà fisica, sociale, economica e culturale
dello sviluppo urbano, ponendo nuove problematiche di governo dei processi. Questa evidenza che i dati ci propongono, rappresenta una drastica inversione di tendenza rispetto ai decenni precedenti in cui la popolazione delle città
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era costantemente cresciuta. Il fenomeno, piuttosto generalizzabile all’insieme
delle metropoli occidentali, va a negare la veridicità dell’equazione che correlava indiscutibilmente crescita urbana e sviluppo socioeconomico del Paese; anzi,
in questi anni sono proprio le metropoli del cosiddetto Terzo Mondo che si stanno gonfiando a dismisura. In altre parole:
“È finita bruscamente l’epoca in cui il tasso di urbanizzazione di un Paese
veniva fatto coincidere con il suo tasso di ricchezza. Ora alta urbanizzazione
può essere tranquillamente sinonimo di povertà e miseria”30.
Basti pensare che una persona su tre oggi nel mondo vive in una bidonville in
una grande città31. Nello stesso tempo le nostre città stanno subendo profonde
trasformazioni sia dal punto di vista delle loro funzioni sociali, sia nella loro
conformazione e nelle loro culture e gerarchie interne.
Il tramonto del modello fordista basato sulla centralità della grande fabbrica, sulla produzione di beni materiali e su una composizione sociale e di classe
lineare, porta con sè anche la fine di un modello di città, la città fordista appunto. La città nel modello fordista era, infatti, pensata come unità produttiva;
accanto a ciò, i processi di globalizzazione, le grandi migrazioni e la frammentazione sociale che caratterizza il nostro tempo non possono che incidere profondamente sui modelli sociali ed urbanistici delle città europee. In particolare, le città europee continentali subiscono veloci trasformazioni che le fanno
assomigliare maggiormente ai modelli urbani anglosassoni e statunitensi. La
perdita di centralità del territorio urbano come spazio funzionale a un processo
produttivo definito, come poteva essere il quartiere Mirafiori intorno alla Fiat a
Torino o i quartieri operai sorti intono a fabbriche fornaci, ci lasciano una città
costruita quasi unicamente, intorno a processi di consumo e a forme di gerarchizzazione sociale costruite in base al valore dei suoli oltre a processi lavoratovi
estremamente più frammentati e mobili propri del terziario avanzato.
Tra le caratteristiche di questo nuovo tessuto urbano vi è in primo luogo la
separazione e la specializzazione che si sono affermati come il terreno di sviluppo
principale dell’attuale metropoli; parliamo di separazione e specializzazione di
competenze e funzioni che vanno a collocarsi in determinati spazi, cioè spazi per le diverse fasce sociali e generazionali, spazi per il consumo, spazi per
la produzione, spazi per l’attraversamento, ecc. “Ciò ha trasformato la città da
luogo di incontro a «costellazione di satelliti autosufficienti»”32. Andiamo allora
a vedere quali sono le principali trasformazioni che ci troviamo di fronte nella
città attuale, così da definire meglio la cornice dove si inseriscono i nostri interventi sociali, che devono necessariamente tenere conto dello stretto legame che
intercorre tra trasformazioni urbane, vita quotidiana, bisogni sociale e culture
delle popolazioni urbane.
30 Petrillo A., La città perduta, Dedalo, Bari, 2000, p. 72
31 Rapporto unicef sulla condizione dell’infanzia nel mondo 2012
32 Diamanti F., Una questione di autonomia: crescere nella metropoli, in Infoxoa, n. 18, , giugno 2004
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2.2.1 Mutamento delle funzioni economiche della città
Un primo cambiamento importante delle metropoli occidentali possiamo
misurarlo proprio sul terreno economico-produttivo: seguendo i processi di
globalizzazione e mutamento dei processi produttivi, abbiamo uno sviluppo di
città “globali direzionali”. In esse sono andate a collocarsi una serie di funzioni
di coordinamento, detenzione delle informazioni e comando dei processi produttivi e finanziari.
Le città “globali direzionali” si inseriscono direttamente nel mercato internazionale, spesso saltando la mediazione dei rispettivi stati nazionali. Le grandi
città per sopravvivere, devono, infatti, sviluppare una propria specializzazione,
una vocazione nello scenario internazionale (turismo, eventi internazionali,
economia finanziaria, sede di grandi multinazionali ecc.), che gli permetta di
trovare uno spazio nel mercato mondiale. Sono dunque diventate sedi di una
rete globale transterritoriale che, pur localizzando i suoi nodi nelle città, sono
sostanzialmente autonome dalla loro localizzazione territoriale; pensiamo alle
imprese a rete internazionale, alle reti tecniche dei trasporti e delle telecomunicazioni, ai media o ai mercati finanziari.
Concretamente questo significa che le piazze finanziarie di wallstreet e della
city di Londra, malgrado la distanza e l’oceano che le separano, operano come
se facessero parte dello stesso territorio e a loro volta sono lontanissime rispettivamente da Harlem o da Brixton che distano pochi chilometri. Il parametro
della distanza fisica e dell’appartenenza territoriale non è più, dunque, un parametro capace di spiegare le caratteristiche e le vocazioni socio-economiche
della città. D’altra parte, se chiamate negli Stati Uniti un servizio telefonico per
avere un’ informazione (magari dove si trova una strada di Manathan), potrebbe rispondervi un abitante dell’India che vi parlerà di cose che non ha mai visto,
ma di cui è stato debitamente informato per essere assunto come call center a
un costo estremamente più basso di un lavoratore americano.
Accanto a questo fenomeno abbiamo una veloce trasformazione delle vocazioni economiche di molti tessuti cittadini; città un tempo sedi di importanti attività industriali con i processi di finanziarizzazione e terziarizzazione
dell’economia stanno lentamente deperendo, perdendo una propria specifica
funzione. Pensiamo in Italia alla crisi che negli anni ‘90 hanno attraversato città
come Genova e Torino ed alla loro perdita di identità sociale e di funzione economica.
La città, inoltre, complessivamente si trasforma da un’unità produttiva sostanzialmente in un’unità di consumo, con tutto quello che ne consegue rispetto alle
forme che la città assume; pensiamo da una parte al superamento dei classici
quartieri operai e dall’altra al decentramento delle attività produttive e di consumo (ipermercati, centri commerciali, multi-sale, ecc.) sull’intero territorio
cittadino.
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2.2.2 Dalla città alla regione urbana eterogenea
Nel contempo i confini della città e la classica divisione tra mondo urbano e
mondo rurale, tanto cara a molti sociologi del passato33, divengono estremamente più sfumati e contradditori.
Infatti, se oggi volessimo rintracciare i confini sociali di una grande metropoli,
ci troveremmo di fronte a diverse difficoltà. Pensiamo a una città come Roma,
tutto sommato ancora piuttosto tradizionale nel suo sviluppo; se dovessimo
tracciarne i confini, potremmo utilizzare un metro fisico come il Raccordo Anulare, tuttavia molti quartieri importanti della capitale si trovano comunque
fuori da tale circonferenza viaria, pur permanendo sotto l’amministrazione del
comune. Potremmo, allora, decidere di utilizzare un metodo a vista, riferendoci
alla continuità urbanistica, ma molti comuni sono virtualmente uniti a Roma da
una continuità di abitazioni e territorio urbano. Potremmo, ancora, utilizzare
un metro amministrativo, per poi scoprire, però, che molti comuni della cintura
capitolina sono ormai abitati prevalentemente da romani che lavorano a Roma
e hanno abitudini e culture di riferimento molto metropolitane (pensiamo alla
zona dei Castelli romani) che, dunque, determinano un’identità sociale ibrida di
quei luoghi, non più rurale, ma non ancora urbana. Qualcosa di simile aveva già
intuito Gorge Simmel quando scriveva: “Una città consiste dei suoi effetti totali
che si estendono al di là dei suoi confini immediati. Soltanto questa sfera è l’estensione effettiva della città…”34 Se pensiamo, per esempio, alla realtà milanese
e al suo Hinterland, appare chiaro che non possiamo parlare più di una città
definita, ma di una costellazione di segmenti urbani tra loro spesso collegati
funzionalmente. E’ un punto di riflessione importante per il dibattito attuale
sulla città, per dirla con le parole di Pavia: “La città diffusa è il nuovo tema della riflessione urbanistica. L’espansione delle grandi città ha invaso i territori
dei comuni vicini; l’edilizia abusiva si confonde con quella legale in inviluppi
senza forma né qualità”35. Questa condizione è ancora più netta in alcune grandi città europee. Pensiamo ai dintorni di Parigi, dove anche i prolungamenti
della metropolitana hanno abbattuto una serie di barriere tanto fisiche quanto
sociali.
Inoltre, vi è un dato culturale legato alla globalizzazione dei consumi, che fa sì
che la città, un tempo meta di attività, di consumi e di abitudini, impensabili in
realtà più piccole e rurali, oggi non sia più l’unico riferimento per fare determinati acquisti, per scoprire nuove mode o partecipare ad eventi culturali; quanto
meno se ne sente un bisogno meno pressante di prima. Senza parlare dello sviluppo delle forme di consumo on-line che sembrano erodere ulteriormente il
fascino e le possibilità di consumo legate al territorio cittadino. Le stesse forme
urbanistiche, nate nelle periferie delle metropoli, si sono velocemente trasferite
anche in provincia; parliamo di quell’urbanistica intensiva che ha caratterizzato
33 Tonnies, Weber, ecc.
34 G. Simmel, La metropoli e la vita mentale in C. Wright Mills, immagine dell’uomo, 1963 Ed. Comunità, Milano
35 Pavia R., Le paure dell’urbanistica, Costa e Nolan, Genova, 1996, p. 16
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le periferie ghetto ed i quartieri dormitorio delle grandi città e che possiamo
ritrovare nel Lazio, in luoghi certamente non metropolitani, ad esempio Monterotondo Scalo, Borgo Nuovo presso Tivoli, Montalto di Castro36 oppure alcuni
quartieri di Civitavecchia.
In questo senso alcuni autori hanno cominciato a parlare, ormai da tempo,
di regione urbana più che di città, segnalando un superamento di una divisione
netta tra ciò che è dentro e ciò che è fuori della città. Ovviamente questa ibridazione identitaria di alcuni territori limitrofi ai vecchi confini delle città comporta una serie di problemi sociali, nuovi bisogni e nuove forme di disagio e, di
conseguenza, rimanda ad un intervento sociale e di prevenzione sociale particolare, teso in primo luogo a ricostruire forme di identità e di tessitura comunitaria autonome e non subalterne. Dal punto di vita degli interventi sociali e
di comunità, evidentemente, questo carnario ci porta sempre di più a cucire gli
interventi sulle specificità dei singoli territori, al di là del loro essere interni o
meno alla città storica o provenienti da una storia di provincia. Inoltre, i veloci
mutamenti della popolazione delle vocazioni urbane dei territori, la loro lettura
e l’analisi dei bisogni necessita di un costante aggiornamento e di una riflessione sull’ “anima” mutevole dei luoghi.
2.2.3 Frammentazione della città
La città europea ha costruito nella sua storia, in prevalenza, la sua mappa
sociale sulle coordinate spaziali del centro e della periferia, coordinate spaziali
che rappresentavano innanzitutto gerarchie sociali. Diversamente dal modello
statunitense, dove già nella prima metà del ‘900 la scuola di Chicago ricostruiva
una mappa sociale della città a macchia di leopardo37, la città europea si costruiva intorno ad un centro che non era solo il centro economico e politico, ma
anche il centro della visibilità sociale, il centro simbolico, storico, riconosciuto dall’intera comunità cittadina. Un centro, dunque, che, pur raccogliendo in
alcuni casi segmenti d’insediamenti popolari (pensiamo ai “Bassi” di Napoli),
rappresentava un centro non semplicemente geografico, ma sociale e simbolico
della città. D’altra parte le periferie, sia pure nella loro specificità, rappresentavano un corpo piuttosto omogeneo, sia sul piano sociale urbanistico ed economico, sia sul piano delle culture e dei comportamenti: ad esempio, pensiamo
al caso delle borgate romane. Gli ultimi venti trent’anni hanno visto, invece, in
funzione anche (ma non solo) di quanto precedentemente detto sul mutamento
delle vocazioni economiche delle città,un’inversione di tendenza tesa a rendere
meno ordinata e lineare la mappa delle gerarchie sociali nella città. Da una parte si sono moltiplicati i “centri” e dall’altro si sono diversificate le periferie.
E’ come se i vecchi centri fossero esplosi frantumandosi in tanti pezzi
36 Ci riferiamo all’assembramento di case visibile dalla Via Aurelia ,ai margini di Montalto di Castro, chiamato dagli abitanti del
luogo il “Bronx di Montalto”
37 Cfr. Park, op. cit.
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proiettati sul territorio che spesso mantengono relazioni di interdipendenza,
rimodellando ma non eliminando il sistema delle gerarchie sociali.Una scomparsa del centro che riguarda più in generale processi di globalizzazione economici e sociali. Secondo l’antropologa M.C. Galli: “Il centro diffondeva ai vari
livelli sociali dalla massa all’elite un immaginario culturale, come arte, filosofia, religione e stili di vita, comportamenti, valori rituali che erano accolti dalla
periferia, perché tanto più essa sarebbe stata in grado di impossessarsi di questi
messaggi, quanto più poteva aspirare ad entrare nell’area centrale”38.
Questo processo, però, non elimina poteri, ingiustizie e gerarchie, li rende
semplicemente più complessi, moltiplicando e frammentando le roccaforti dei
poteri e della sofferenza sociale. Così anche nel contesto urbano oggi siamo di
fronte ad un processo che ci sta velocemente portando verso una condizione
di frammentazione e rottura di un disegno unitario della città, verso una moltiplicazione dei centri e delle periferie o, come dice qualcuno, “un universo di
periferie senza centro”, una struttura a macchia di leopardo formata da una serie di realtà sociali ed urbanistiche eterogenee, segmentate ed autoreferenziali,
che producono microidentità chiuse. Le tipologie di periferie sono molteplici:
andiamo dai ghetti della marginalità sociale alle periferie storiche con tessuti
comunitari ancora solidi, dalle periferie ricche economicamente e povere sul
piano delle identità sociali, ai segmenti urbani molto simili a non luoghi che difficilmente si possono definire quartieri e che rispondono unicamente alla funzione dell’attraversamento e dell’abitare. Se da una parte la moltiplicazione delle
opportunità dei consumi in periferia ha permesso una maggiore autosufficienza
delle popolazioni delle periferie (per andare al cinema o per fare shopping non
bisogna più andare al centro), dall’altro ha marcato una maggiore distanza tra i
diversi luoghi della città e moltiplicato e frammentato le identità cittadine. Infatti, se prima il centro della città era meta di riti di pellegrinaggio, specialmente
per i più giovani impegnati il sabato pomeriggio al centro nella via principale a
fare lo struscio, oggi molti ragazzi della metropoli non hanno quasi mai visto né
il centro né gli altri quartieri della città e soprattutto non ne hanno incontrato
gli abitanti, per cui sono portati a sviluppare appartenenze ed identità sempre
più strette e parziali. Lo stadio rimane probabilmente uno dei pochi luoghi di
incontro veramente cittadini oggi però messo in discussione dal business delle
pay TV.
Insomma, se per un verso nel disordine che accompagna la città contemporanea qualcuno può vedere una possibilità di nuove libertà, d’altro verso appare
molto più concreta l’immagine di un sistema che precipita verso l’entropia, una
città sempre più simile al modello americano dove i tessuti comunitari si indeboliscono ed i processi di esclusione su base territoriale, invece, si rafforzano.
Allora si fa sempre più concreto il rischio che la città da macchina per l’integrazione sociale, come l’avevano raffigurata alcuni autori del passato, divenga
38 M.C. Galli (intervista a) “Un operatore etnografo del territorio”, in Animazione sociale, n. 10, Ed. Gruppo Abele Torino, Ottobre
2004
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un sistema di razionalizzazione della divisione sociale; “L’aria della città rende
liberi” recitava un vecchio adagio, ma oramai, da diverso tempo, non sembra
essere più così.
2.2.4 L’edilizia popolare: verso le periferie ghetto
Sicuramente non è così per molti dei quartieri sorti nell’ambito dell’edilizia
pubblica popolare, che sviluppatisi per dare una risposta ai fabbisogni abitativi
crescenti dei ceti sociali più deboli, sono stati oggetto di una ricerca e di una
sperimentazione urbanistica che ha evidenziato le contraddizioni del “progetto
moderno”, dalla sua ossessione di riempire gli spazi inedificati, di modellarli
secondo principi astratti di pieno e di vuoto, di interno e di esterno, di domestico e di urbano, imponendo forme spaziali che alterano le pratiche sociali, l’identità individuale e collettiva degli assegnatari degli alloggi.
La storia urbanistica di Roma, tra la fine dell’Ottocento e per tutto il corso
del Novecento, è da questo punto di vista paradigmatica: i primi quartieri di
edilizia popolare nascono alla fine dell’Ottocento a ridosso dei principali impianti industriali della città e, con l’eccezione di quello di Testaccio, al di fuori del
Piano Regolatore (San Lorenzo e Santa Croce-Porta Maggiore). La tendenza a
costruire fuori dal perimetro del Piano prosegue all’inizio del Novecento, quando viene edificato ai margini della città, il quartiere di San Saba, nascosto su
un’altura dietro l’omonimo convento e privo dei servizi essenziali. Questa vicenda, che risale al lontano 1907, è emblematica, in quanto segnala l’emergere di
un elemento distintivo che caratterizzerà tutta la successiva vicenda dell’edilizia
popolare italiana: la realizzazione di insediamenti popolari lontani dalla città,
in modo tale da incrementare il valore delle rendite delle aree intermedie di
proprietà privata, che beneficeranno tra l’altro delle infrastrutture e allacci alle
reti esistenti che le Amministrazioni comunali hanno provveduto ad attuare per
la realizzazione dell’edilizia pubblica. Tale logica espansiva, definita per “saldamenti progressivi”, proseguirà durante il ventennio fascista (a Roma, ad esempio si costruiranno i nuclei di Acilia, S. Basilio, Gordiani, Prenestina, Val Melaina, Tufello, Pietralata, Quarticciolo, Trullo, Primavalle e Tiburtino 3) nel quale
emergerà un’altra tendenza, che caratterizzerà tutta l’edilizia popolare italiana
del Novecento: la realizzazione di “borgate in serie”, facilmente e rapidamente
edificabili, distanti dalla città, quasi a nasconderne gli abitanti, con scarsa o nulla attenzione alla vivibilità degli spazi. Anche quando si tenterà di porre attenzione all’assetto urbanistico e garantire una migliore qualità edilizia e abitativa,
promuovendo la progettazione di insediamenti ad alta densità abitativa inseriti
nel verde e autosufficienti per funzioni commerciali e di servizio, ciò che poi
si realizza, nella maggior parte dei casi, non è altro che quartieri “dormitorio”
isolati, mal collegati alla città, ma da essa totalmente dipendenti.Quartieri senza
storia e senza identità, in cui sono “costretti” centinaia, se non migliaia, di persone, che non hanno niente in comune se non la loro “vulnerabilità sociale”, che
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è stata oggetto di una più o meno attenta valutazione ai fini della compilazione
delle graduatorie di assegnazione degli alloggi. Quartieri in cui coabitano, all’interno di uno stesso spazio delimitato e separato dal resto della città, tutte le
espressioni del disagio economico, sociale, relazionale, fisico, ecc.
Così anziani, disabili, famiglie numerose e/o disgregate, disoccupati, alcolisti e
tossicodipendenti, immigrati, ecc. finiscono per condividere lo stesso destino di
isolamento e di stigma. Deprivati delle loro appartenenze e identità precedenti,
ignorati e guardati con sospetto dai vicini, via via che il loro quartiere finisce per
saldarsi progressivamente al resto della città, si muovono dentro architetture
improbabili che rappresentano spesso il sogno razionalista (ed economico) degli architetti e l’incubo di chi le abita. E l’essere abitante delle “case popolari”
diventa il nuovo asse su cui si indirizza il processo di ricostruzione identitaria.
Del resto, è noto che la conformazione degli spazi influisce su quella dell’identità
e al tempo stesso i processi culturali e sociali conformano gli spazi39. Lo spazio,
infatti, non è tanto una “forma”, quanto piuttosto un “produttore di forme”,
poiché configura le interazioni sociali che trovano nello spazio la loro concretizzazione. Negli agglomerati di edilizia popolare, caratterizzati da architetture
ardite, in cui piccoli appartamenti più o meno tutti eguali si aprono, un piano
dopo l’altro, su corridoi enormi, disimpegni vuoti, passerelle aree, la pluralità
delle storie di vita degli abitanti convergono, attraverso l’intreccio inestricabile
di fisicità degli spazi e delle pratiche sociali, in una stessa percezione e rappresentazione sociale, nella produzione di una nuova identità, spesso conflittuale
con quella del territorio circostante con l’intera città.
2.2.5 Le nuove forme del conflitto nella città.
Nel codice genetico della città vi è la partecipazione sociale ed il confronto
democratico sin dal tempo della agorà greca; la riconosciamo come luogo di
confronto culturale, di scambi e di commercio, ma è anche la sede principale del
conflitto sociale, nelle differenti forme in cui si è definito nelle diverse epoche
storiche. Nel periodo fordista, la città diventava luogo di amplificazione sociale
di un conflitto di classe che aveva il suo perno all’interno dei luoghi produttivi
e, in particolar modo, nella grande fabbrica (pensiamo al conflitto sociale nella
Torino Operaia dal Biennio Rosso sino all’Autunno Caldo), per poi andare a
coinvolgere l’intero tessuto urbano. Già però negli anni ’70 nel nostro paese si
sviluppava all’interno delle città del centro-sud un conflitto urbano che interessava la dimensione della riproduzione sociale, pensiamo alle occupazioni delle
case in città come Roma e Napoli, alle autoriduzioni delle bollette, alle mense
autogestite nei Bassi di Napoli, sintomi di un conflitto che, pur mantenendo
un chiaro connotato di classe, si spostava nel cuore della vita quotidiana della
metropoli. Già negli anni ‘80 appare chiaro, dopo la sconfitta delle grande lotte
39 Il tema centrale della sociologia urbana è stato accennato per la prima volta da George Simmel , Soziologie, Leipzig: Duncker &
Humblot, 1908 (Sociologia: indagine sulle forme di associazione).
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operaie, che il conflitto sociale si sposta nelle pieghe dei quartieri, frammentandosi e seguendo i processi di diversificazione dei soggetti sociali. Pensiamo alle
forme di riappropriazione degli spazi da parte dei giovani delle grandi città attraverso il movimento dei centri sociali autogestiti o ad una conflittualità diffusa
che perde contatto con la dimensione politica e progettuale, disperdendosi nei
mille rivoli della marginalità urbana, degli scontri all’interno degli stadi e dei
conflitti particolaristici propri degli anni ‘80 e ‘90. L’esempio più eclatante di
un conflitto tanto radicale quanto a-progettuale è rappresentato dalla rivolta
di Los Angeles del 1990, o dalle rivolte delle banlieue francesi, dagli episodi
degli anni ’90, sino all’ultima grande esplosione del 200540; episodi questi in
cui sollevazioni popolari di parti segregate della città intrecciano la dimensione
etnica con il tema delle povertà e del diverso accesso alle risorse e ai diritti nel
territorio urbano, individuando nella polizia il nemico comune41, senza però
sedimentare in maniera esplicita alcun progetto politico od una prospettiva di
trasformazione sociale. La città, dunque, diviene sempre più il teatro principale
del conflitto sociale che, però, tende ad assumere le forme segmentate proprie
di una metropoli frammentata e dispersiva e di un soggetto sociale e di classe
maggiormente disgregato rispetto al passato. R. Dahrendorf (2003) ci parla
di un rinnovato ritratto della nostra società, definendo quella contemporanea
come società “delle classi senza lotta e della lotta senza classi”42.
A tal proposito, spiega il sociologo Aldo Bonomi:“La moltiplicazione delle
chances di vita – corrispondente alla moltiplicazione delle affiliazioni – promuove la mobilità individuale ed al contempo individualizza il conflitto distaccandolo dalle organizzazioni di classe. È una di quelle appartenenze totalizzanti
che viene meno, quella che identificava il singolo individuo con la condizione
e i destini della classe operaia. La classe cioè che veniva intesa non semplicemente come aggregato di individui accomunati dalla stessa condizione
lavorativa, ma come «soggetto» che, a partire da quella condizione, diventava
depositario del cambiamento sociale, di nuovi assetti sociali e di potere”43.
Nell’ambito metropolitano, oggi, il conflitto tende a frammentarsi fino ad
unità elementari, che sono poi gli individui. Autori particolarmente sensibili
alla questione, come Enzesberger, parlano di “guerra civile molecolare”44, ad
indicare una fenomenologia del conflitto in cui gli attori protagonisti, le parti
in causa, non sono più i grandi movimenti di massa, ma gli stessi individui,
“[…] coloro cioè che singolarmente o in episodiche e circoscritte aggregazioni
si contendono le risorse disponibili e l’attenzione pubblica”45.
40 Per un approfondimento sulle rivolte francesi del 2005 vedi:H. Lagrange e M.Oberti:”La rivolta delle periferie” Mondadori, Milano 2006
41 Sia nei casi francesi che statunitensi molto spesso la scintilla che ha fatto scoppiare la rivolta è proprio un atto di abuso di potere
e violenza della polizia nei confronti di giovani di questi territori
42 Bonomi A., La Città infinita, in La città infinita, Bonomi A., Abruzzese A. (a cura di), Paravia Bruno Mondadori, Milano, 2004,
p. 20
43 ibidem, p. 20
44 ibidem, p. 20
45 ibidem, p. 20
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Riflessioni queste che se sembrano rispondere, almeno in parte, alle
trasformazioni che attraversano le grandi città, oggi, sono da leggere criticamente alla luce dei mutamenti rappresentati dalle conflittualità sociali. Conflittualità proposte dalle esperienze di ricomposizione sociale rappresentate
dalle lotte dei giovani, dei lavoratori precari ed intermittenti in alcune capitali
europee (Parigi e Barcellona, in primo luogo) a partire dall’esperienza degli indignados sino ad altri movimenti sociali che hanno le proprie origini anche, ma
non solo, nella cultura no-global.
In ogni caso, al mutare delle forme urbane stanno mutando le forme ed i protagonisti del conflitto sociale, consegnandoci una città tutt’altro che pacificata,
sebbene risulti, senza ombra di dubbio, che la linearità del conflitto di classe del
‘900 non abiti più i nostri quartieri e le nostre piazze. Ovviamente le forme del
conflitto sociale urbano non si dispiegano sempre su una forma verticale, basso
versus alto sfidando le gerarchie sociali. Sempre di più, invece, si sviluppano
forme di conflitto sociale orizzontale, legate in parte al fenomeno migratorio
e in parte a forme vario di micro-identità e processi corporativi o dimensioni
generazionali. Da questo proliferare del conflitto orizzontale nasce l’esigenza
di alcuni interventi affidati all’operatività sociale come i progetti di mediazione
sociale, gli interventi di mediazione intergenerazionale o mediazione interculturale e, più ingenerale, il tema dell’intervento di comunità assume una valenza
fondamentale anche per restituire al conflitto una dimensione di progettualità e
trasformazione sociale piuttosto fuori dagli egoismi corporativi.
2.2.6 La crisi dello spazio pubblico nella città
Un’altra dimensione fondamentale della trasformazione che sta attraversando la metropoli post-fordista è quella relativa alla crisi dello spazio pubblico.
Per “spazio pubblico” intendiamo un luogo crocevia d’incontri, di scambio, un
luogo socialmente e simbolicamente significativo che declina la vita quotidiana
all’insegna del “Noi”, che produce appartenenza ed appartiene ad una collettività, piuttosto che essere attraversato da singoli. “Una frazione dello spazio
«lavorata» dalla storia, dalla memoria, dall’esperienza vissuta di una collettività”46, lo spazio dello stare e del riconoscersi come comunità, qualcosa che va
oltre lo spazio privato o lo spazio di attraversamento e le microidentità tribali e
generazionali, che spesso caratterizzano il nostro abitare la città. Le città stanno perdendo spazi pubblici perché inconciliabili con la mono-funzionalità e la
mono-tematicità del consumo e ancora meno con una strategia del controllo
sociale basato sulla separazione e sulla specializzazione. La delimitazione, in
alcune metropoli dell’America Latina, di interi quartieri della città strappati alla
vita pubblica per divenire spazi sicuri per i ricchi ne sono l’esito più estremo.
46 M. Revelli ., Fuori luogo. Cronache da un campo rom, Torino, Bollati Boringhieri, 1999
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“La strada è morta”47, sentenziava Le Corbusier nel 1920, quando le strade
erano ben vive e pullulavano di vita pubblica, ma lo stesso architetto, padre
dell’urbanistica funzionalistica, già preannunciava un’ epoca in cui ogni spazio
ed ogni tempo dovessero essere incasellati in una funzione specifica, dove la
città moderna avrebbe dovuto superare la “confusione” della città storica, confusione che era sinonimo di vita sociale, incontro con la diversità, conflitto.
Questo disegno di città sembra inverarsi nelle nuove periferie urbane costruite
tra gli anni ‘70 e ‘80 (già negli anni ‘90 il disegno urbanistico tende in parte
a cambiare, anche perché maggiormente rivolto ai ceti medi): quartieri dove
spesso scompare la piazza, dove le strade sono ampie e ad alta percorrenza,
molto diverse dai vecchi vicoli dei quartieri popolari, e sono costruite per le
macchine piuttosto che per prevedere la socialità delle persone. Qui i luoghi
pubblici, quando previsti, vengono a coincidere con i luoghi di consumo o con
funzioni specifiche per alcune porzioni limitate della popolazione, come il parco
giochi per bambini od il campo di bocce per gli anziani. Sembrano poi essersi
materializzate quelle “macchine dell’abitare” di cui parlava Le Corbusier48, dove
un uso dello spazio iper-funzionale vede una molteplice e varia umanità concentrata in grandissimi edifici impersonali che non facilitano la costruzione di
uno spazio pubblico collettivo. Paradossalmente l’urbanizzazione ha avvicinato
o “ammassato” fisicamente gruppi di individui in spazi ristretti, ma li ha allontanati psicologicamente e socialmente. Rende bene l’idea il racconto inserito da
Paolo Desideri nel suo La città di latta:
“Esausti dalle nuove esperienze più che dal viaggio cercarono il centro.
Ma non aveva luoghi centrali quella metropoli suburbana, con inquietudine
crescente resero conto che non aveva luoghi del tutto, ma solo tante insegne,
tante insegne. Dove erano finiti i luoghi dello stare, i corsi dello struscio, le
piazze simbolo dell’identità storica e i negozi opulenti e ben allineati?”49.
Il problema non è, dunque, principalmente di natura estetica o paesaggistica.
Prima di queste trasformazioni urbanistiche e sociali, le strade e le piazze erano:
“[…]Uno spazio «open minded», ossia luoghi progettati per molti differenti
usi, accessibili a tutti e dove la tolleranza era ingrediente fondamentale […]
poiché vi convivevano persone a volte radicalmente diverse tra loro, una
relazione faccia a faccia che poteva essere tanto pacifica quanto turbolenta”50.
La trasformazione dello spazio in spazio mono-funzionale, all’interno di un
processo di razionalizzazione delle funzioni urbane e della differenziazione
delle forme del consumo, fa sì che molti luoghi della città cessino di essere pubblici. Gran parte degli spazi progettati negli ultimi anni sono attraversati da
persone che sono lì per un motivo ben preciso, che usano lo spazio piuttosto
che appartenere ad esso, cioè individui omogenei, almeno rispetto alla funzione
47 In J. Lucan (a cura di), Le Corbusier: une encyclopédie, 1987
48 Ibidem
49 Desideri P., 1995, La città di latta, pag. 16, Costa & Nolan, Genova
50 Ivi
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svolta in quel momento (consumare, divertirsi, ecc.) e che, dunque, privilegiano
il “fare” piuttosto che lo “stare”. Il luogo pubblico è, invece, un luogo dove incontrare “l’altro da noi” per condividere qualcosa con esso, fosse anche il conflitto e per costruire una storia comune.
L’indebolimento dello spazio pubblico è favorito, inoltre, da una maggior
mobilità urbana, legata anche ad una maggior incertezza e frammentazione del
mercato del lavoro, che fa sì che oggi una persona di mezza età, nella maggioranza dei casi, abbia cambiato quartiere, se non città, almeno una volta nella
vita; mentre le generazioni precedenti, escludendo i grandi processi migratori,
erano abituate a nascere e morire nello stesso quartiere, se non addirittura nella
stessa casa.
Accanto alla tendenza alla dissoluzione dello spazio pubblico si sono prodotti due fenomeni che vorrebbero essere sostitutivi di questo: da una parte
lo spazio virtuale, rappresentato dai social network e dalla rete telematica che
dello spazio pubblico ne mimano le movenze senza però averne alcune caratteristiche fondamentali, e dall’altro lo spazio socialmente organizzato del consumo
dell’ipermercato. Basti pensare all’abitudine di intere famiglie a passare la Domenica in enormi ipermercati come “Porta di Roma” dove trovano dai negozi al
ristorante, al cinema, al parco giochi e che intrecciano in maniera ambivalente
promiscuità e anonimato.
La prima conseguenza del diradarsi degli spazi pubblici e dell’allargarsi dello spazio anonimo dell’attraversamento dei non-luoghi urbani, insiti nei nostri
spazi di quotidianità, è il venir meno dei sentimenti di affezione verso il proprio ambiente di vita, dell’appartenenza ad un gruppo e dell’assunzione di responsabilità verso le “cose pubbliche”. Questi costi sociali appaiono più elevati
se proiettati nel futuro. Infatti, nella città contemporanea stiamo assistendo alla
scomparsa di due elementi ritenuti fondamentali per una futura ricostruzione
della sostenibilità: il legame tra le persone (comunità) ed il legame tra le persone e lo spazio urbano (luoghi). Come ha detto Re Lear nell’omonima opera di
William Shakespeare: “E che cosa è la città se non le persone?”51
E proprio la ricostruzione di quei legami di affezione ed appartenenza tra
le persone, e tra queste e i luoghi, diventa uno degli obiettivi fondamentali
dell’operatività sociale sul territorio, quei legami densi di senso che aiutano
le persone ad avere un proprio progetto di vita, dove l’altro non sia solo un
fastidioso inconveniente. È qui che le innovative tendenze alla progettazione
partecipata sul terreno urbanistico ed architettonico incontrano le forme partecipate e sperimentali dell’operatività sociale, che si declinano all’insegna dell’intervento di comunità. Da questo connubio virtuoso possono nascere (ed in alcuni casi sono già nati) percorsi particolarmente ricchi ed interessanti.
51 Lorenzo R., La città sostenibile, Eleuthera, Milano, 1998
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Cap. 3
I bambini e gli adolescenti nella città che cambia
“Io vorrei uscire tutti i giorni a prendere il latte, a fare la spesa, invece devo stare sempre con
un adulto che mi deve vedere. Io non ho paura di uscire perché non ho paura dei ladri, poi a me
mi piace il mio quartiere…” (Bambina)52
3.1 Il bambino in città sotto il peso della tutela
“Non come lavoro cui ero costretto, ma come un piacere fortemente desiderato
mi veniva spesso affidato il compito di comprare il pesce e portarlo a casa.
Ecco cosa significava: camminare per cinque, dieci minuti fino alla stazione;
acquistare il biglietto; osservare i treni spinti dalle locomotive a vapore; salire
sul treno; il viaggio lungo un ponte che separava il porticciolo per le barche da
diporto da quello per le navi, compresa una base navale con diverse torpediniere; attraversare un tunnel; scendere dal treno alla stazione… costeggiare e
qualche volta entrare nel museo della pesca; attraversare il parco della città
dove la banda dell’esercito suonava durante la pausa del pranzo, gironzolare
per il quartiere commerciale e quello finanziario… proseguire lungo il municipio vecchio di secoli e lungo altri edifici antichi; esplorare il mercato del pesce
e la flotta di pescherecci; selezionare il pesce, contrattare sul prezzo; comprare
e tornare a casa”53.
L’autore di questo brano autobiografico, Albert Eide Parr, racconta un
episodio della sua infanzia nel porto norvegese di Stavanger nei primi anni del
‘900. Se dovessimo cercare di individuare l’età del ragazzo che prende il treno
ed attraversa quartieri per andare a comperare il pesce per la famiglia, c’immaginiamo almeno un pre-adolescente di dodici anni. In realtà Parr parla di sé che
compie questo avventuroso viaggio all’età di quattro anni. Oggi, nelle nostre città, se vedessimo un bambino non di quattro, ma forse anche di sei o sette anni,
andare in giro da solo per strada ci preoccuperemmo subito di chiamare la polizia od un vigile, pensando ad un bambino smarrito. Così come oggi, un bambino
di quinta elementare non viene lasciato andare a casa da solo dalla scuola, se
non viene “ritirato” da un adulto, neppure se abita a cinquecento metri dalla
scuola. Eppure quel bambino di quattro anni del racconto era capace di orientarsi, di prendere il treno, di attraversare quartieri, contrattare il prezzo del pesce e tornare a casa sano e salvo. D’altra parte, non molto più tardi di trenta anni
fa, era molto facile vedere bambini muoversi in modo competente e sicuro per le
strade dei nostri quartieri, impegnati ad andare o tornare da scuola, andare nel
proprio luogo di giochi preferiti o a fare commissioni per gli adulti. E allora che
cosa è successo, cosa ha espulso i bambini dagli spazi pubblici per poi ritrovarli
52 Parole registrate di una bambina di terza elementare della Scuola A. Fabrizi di Roma durante un laboratorio
53 Eide Parr A., “The happy habitat”, in Journal of aesthetic education, Luglio 1972
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adolescenti che con rabbia segnano il proprio territorio o lo distruggono perché non lo sentono loro? Il primo dato che ha decisamente mutato lo scenario
è quello relativo alla presenza delle automobili, basti pensare che: il rapporto
italiano auto/1.000 abitanti è passato da 136 nel 1970 a 309 nel 1980, a 422 nel
1990, a 546 nel 2000 e a 606 nel 2007. Sono questi dati oggettivi che condizionano pesantemente la nostra vita all’interno della città e, ancora di più, quella
dei nostri bambini, nell’epoca della motorizzazione di massa; è facile constatare
che il dominio delle automobili e l’estensione del reticolo stradale, in particolare
quello a veloce percorrenza, in nome di una sempre più incalzante rapidità di
movimento, tende ad espellere qualsiasi altra funzione urbana e innanzitutto
quella della socialità e del gioco. Come afferma Colin Ward:
“La deformazione subita dalla città per rispondere alla domanda degli automobilisti, ha impoverito l’esperienza infantile rispetto a quella di qualunque
generazione precedente di bambini”54.
Basti pensare alla differenza che passa tra un vecchio quartiere popolare organizzato per vicoli (come i Quartieri Spagnoli o Forcella a Napoli, Trastevere o
la Garbatella a Roma) e un moderno quartiere attraversato da grandi arterie ad
alta percorrenza (Secondigliano a Napoli, Tor Bella Monaca a Roma). La vita di
strada e l’accesso allo spazio pubblico cambia completamente e questo vale, in
primo luogo, per i bambini, difficilmente addomesticabili alla sintassi dell’automobile. Inoltre, la natura stessa del mezzo, il suo stretto abitacolo che riproduce
una specie di spazio casalingo su quattro ruote, rappresenta una colonizzazione
dello spazio pubblico da parte del privato, frammenta lo spazio del “noi” in tanti
spazi dell’ “io”55.
Vi sono però anche dei fattori soggettivi, di natura culturale, che favoriscono
l’espulsione dei bambini dallo spazio e dalla vita pubblica. La paura dei genitori
rispetto alle macchine, che possono rappresentare un pericolo concreto per i
bambini, è infatti solo una delle tante paure che attanagliano il genitore medio.
Molte altre sono le fobie collettive costruite in questi ultimi anni in relazione
ai più piccoli, spesso fatte lievitare ad arte dai mass-media. Pensiamo in primo
luogo al fenomeno della pedofilia, che rimbalza dalle prime pagine di giornali
e riviste ai titoli di apertura dei telegiornali. Senza voler negare che la pedofilia
sia un problema inquietante bisogna però riflettere sui dati, i quali ci dicono
che si tratta di un fenomeno che nella maggioranza dei casi si consuma in famiglia, e che, nello stesso tempo, al di là della sovraesposizione mediatica, non
sembra registrare una particolare crescita negli ultimi anni. Effetto collaterale
non indifferente dell’allarme sociale per la pedofilia, è la difficoltà crescente nel
favorire forme di comunicazione intergenerazionali, specialmente tra uomini
adulti e bambini; è di qualche tempo fa il caso di un nonno che ha rischiato il linciaggio in spiaggia per essere stato affettuoso con il suo nipotino. Quanti maschi
54 Ward C., Il bambino e la città, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 1990, p. 25
55 Sul rapporto tra avvento della motorizzazione di massa e spazio pubblico per i bambini un contributo fondamentale è rappresentato da : Forni Elisabetta, “La città di batman – Bambini, conflitti, sicurezza urbana ”, Bollati e Boringhieri, Torino, 2002
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adulti si sentirebbero a loro agio oggi a giocare per strada con un bambino appena conosciuto, senza sentirsi addosso il sospetto infamante? Il fenomeno
della paura della pedofilia rischia di rispedire il maschio adulto nella classica
posizione anaffettiva ed emotivamente controllata che le ultime generazioni di
padri stanno con fatica cercando di superare. Inoltre, rischiamo di far crescere
una generazione che non si fida più degli adulti (tranne di quelli più prossimi)
e ne ha paura: come faranno i nostri bambini un domani ad essere a loro volta
adulti e come impareranno a fidarsi del prossimo?
Sono dunque tante le paure, non sempre giustificate, che spingono gli adulti a
tenere i bambini lontani dai luoghi pubblici e dagli spazi promiscui non adibiti
ai bambini, paure che portano i genitori ed i figli ad avere una visione distorta
della realtà. D’altra parte la spettacolarizzazione dei fenomeni criminali ha inciso molto sulla percezione di sicurezza dei cittadini, basti pensare che a fronte
di tanto allarme sulla sicurezza i dati sui reati contro la persona ci dicono che
gli omicidi in Italia sono costantemente in diminuzione dai primi anni ‘90 passando dai 1441 del 1992 ai 579 del 2009 e cosi anche altri reati come gli scippi
i borseggi e le rapine56. In effetti come si spiegano i dati statistici sugli incidenti domestici e la violenza in famiglia? E’ nelle case che i bambini corrono più
rischi, come spiega Tonucci:
“Noi chiudiamo i nostri figli in casa per difenderli, eppure la casa è il luogo
di gran lunga più pericoloso per loro. Per incidenti domestici muoiono più
persone che per incidenti stradali. E chi ne soffre di più sono gli anziani e i
bambini”57.
Verrebbe quasi da dire: “manda tuo figlio in strada se vuoi finalmente stare
tranquillo che nulla gli accada”, ma, ovviamente, le cose non sono così semplici,
perché i rischi legati al traffico sono effettivamente cresciuti in questi anni ed il
deperimento del tessuto sociale dei quartieri rende il bambino più solo nell’affrontare eventuali pericoli ed emergenze. Intendiamo, però, sottolineare che,
accanto ad elementi oggettivi che hanno fatto arretrare la possibilità di vivere
pienamente la città da parte dei bambini, abbiamo una serie di paure socialmente costruite che si affiancano con una crescente cultura della “tutela”, approccio che rappresenta una malintesa attenzione verso il bambino. I nostri
bambini li ascoltiamo poco, ma siamo sempre in apprensione perché non gli
accada nulla, e spesso non pensiamo neanche di fornirgli strumenti per agire in
autonomia per affrontare i rischi della città.
Il risultato di tutto ciò è un processo più gentile nella forma e nelle intenzioni,
ma non molto differente nella sostanza da quello che ha riguardato gli Indiani
d’America: espulsi dal loro territorio, segregati nelle riserve e tenuti separati dal
resto della società.
56 Dati tratti dall rapporto sulla criminalità e la suicurezza del 2010 nella rivista “ Polizia moderna n.di Agosto 2011
57 Tonucci F., La città dei bambini, Laterza, Bari, 2002, p. 56
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1. Espulsione dei bambini dagli spazi pubblici
Intendiamo per spazio pubblico degli spazi aperti, abitati e attraversati da
un’umanità varia e dalla comunità territoriale, dove si costruiscono relazioni
significative e un’appartenenza condivisa. Da questi spazi, nella maggioranza
dei casi, i bambini sono sostanzialmente tagliati fuori. Vengono prelevati dalla
casa (uno spazio privato), trasportati in un veicolo privato, la macchina, portati
in altri luoghi iper-protetti e non abbastanza aperti alla cittadinanza quali sono
le scuole, per poi essere ripresi ed essere semmai portati in altri luoghi protetti e
separati dal resto della comunità (palestre, sedi di corsi d’apprendimento, ecc).
Negli spazi pubblici per eccellenza, quali possono essere le piazze e le strade,
i bambini vi accedono solo sotto la tutela di un adulto e normalmente per attraversarli, non per viverli, esplorarli e farli propri. E’ spesso proprio il nostro
sguardo funzionale da adulti, che non tiene conto dei processi di apprendimento del bambino, che rappresenta spesso un ostacolo alla crescita.Per citare ancora Tonucci:
“I grandi raccomandano stupidamente: «Non ti fermare ogni momento!»,
«Non perdere tempo!». Senza rendersi conto che è proprio nel tempo perso che
si diventa grandi”58.
2. Creazione di spazi di protezione/sorveglianza/segregazione appositamente riservati a loro
In piena coerenza con i percorsi di separazione e specializzazione della città contemporanea, i bambini, come altre tipologie generazionali e di consumo,
hanno i loro spazi separati e specializzati, parchi giochi, giostre, spazi per bambini nei “Mac Donald” o nei centri commerciali, oratori ecc. Sorge allora la domanda: questi luoghi sono stati creati dagli adulti per le esigenze dei bambini
o per le loro stesse esigenze di controllare che i propri bambini non si facciano
male o non corrano pericoli?
“I parchi giochi sono un interessante esempio di come i servizi siano pensati dagli adulti per gli adulti e non per i bambini… Il primo strumento che
entra in azione per la realizzazione di un giardinetto, di un parco giochi è la
ruspa. Sembra quasi che, secondo gli adulti, ai bambini piaccia giocare nel
piano e invece lo spazio orizzontale impedisce loro di nascondersi, che è certamente una parte importante del giocare, e garantisce invece solo una facile
sorveglianza”59.
Il bambino deve giocare vigilato, pensiamo noi adulti, dimenticandoci che il
gioco è mosso dal piacere ed il piacere mal sopporta il controllo. Con parole
molto forti, Elisabetta Forni, descrive questa realtà come una realtà di segregazione: “Nel linguaggio adottato si parla di proteggerli, farli divertire educandoli, mentre si intende tenerli sempre occupati, sorvegliarli, renderli inof58 Ibidem, p.52
59 Ibidem, p. 12
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fensivi. La segregazione è praticata attraverso quelle istituzioni per l’infanzia,
pubbliche e private, che vanno dalla scuola agli impianti sportivi, agli oratori
sino alle rassicuranti mura di casa”60.
Ora senza voler negare anche un’ utilità agli spazi organizzati e pensati per
i bambini (la scuola in primo luogo), è evidente che, se questa è l’unica esperienza che è loro permessa, perderanno l’opportunità e gli stimoli dell’incontro
con una realtà sociale più complessa. Se portiamo un bambino a giocare in un
parco giochi o in un luna park egli, sotto tutela degli adulti, fruirà, da bravo
utente, di giochi ed attività già previste e strutturate per lui, con confini spaziali
e di tempo piuttosto definiti e con uno scarso spazio di personalizzazione del
gioco. L’esperienza di giocare in strada o in un altro spazio aperto, in autonomia, è sicuramente un’esperienza diversa, che permette maggiori invenzioni
ed esplorazioni e che gli permetterà di apprendere qualcosa in forme non previste dagli adulti. Sperimentare entrambi le possibilità ci sembra necessario;
significherebbe poter coniugare momenti di sicurezza con momenti di
esplorazione. L’intero spazio urbano dovrebbe però essere accessibile e reinventabile dai bambini; in tal caso probabilmente guadagneremmo tutti noi
un’altra idea di città, perché una città costruita a misura di bambino è una città
più vivibile per tutti.
3. Spostamento dei bambini fuori dal mondo
L’espulsione dei più piccoli dallo spazio pubblico ed il loro contingentamento in spazi specializzati produce una profonda alterità dal mondo nella sua
complessità; “I bambini facciano i bambini”, si dice spesso, tranne poi lamentarsi di adolescenti che si affacciano alla vita reale senza alcuna competenza per gestirla e solo una gran rabbia di esserne stati tagliati fuori. Un ottimo
esempio di questa cultura della separazione l’abbiamo potuta vedere una decina
di anni fa nel 2003, allorché, dopo la partecipazione di migliaia di bambini alle
manifestazioni contro la Legge Moratti, Forza Italia ha presentato un disegno di
legge (fortunatamente mai discusso dal parlamento) che vietava la presenza di
bambini in manifestazioni pubbliche. Bambini, dunque, come “non cittadini”,
fruitori di diritti solo in modo passivo e mai in modo attivo: questa sembra essere la nostra risposta alla loro normale domanda di autonomia e di partecipazione alle cose del mondo. Questa separazione ci pone una duplice domanda:
da un lato, cosa perdono e come crescono i bambini in un mondo a parte, dove
l’unico contatto con la realtà avviene attraverso la lente deformata della televisione, ma dall’altro cosa perdiamo noi, gli adulti, a vivere in spazi pubblici privati dei bambini? Noi adulti siamo spesso convinti di dover essere utili ai bambini, ma difficilmente pensiamo che possano esserci utili loro, se non con la loro
presunta ingenuità ed allegria. Adriano Sofri, dall’interno della sua esperienza
carceraria, lamentava l’assenza di qualsiasi rapporto con i bambini, sostenendo
che “Essa mutila l’affetto e l’intelligenza” e insisteva dicendo: “Bisognerebbe
60 Forni E., op. cit., p. 29
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far venire le scolaresche delle prime classi a visitare le galere: loro saprebbero
che farsene”61.
In realtà, confrontarsi con un bambino significa mettersi in gioco rispetto ad
un’altra ottica da cui guardare il mondo (anche fisicamente, vista l’altezza). I
bambini sono portatori di un’esperienza ambientale differente. Diversi studi
dimostrano che mentre la nostra osservazione dell’ambiente urbano si fissa
su elementi funzionali, i bambini osservano la città essenzialmente in termini
umani e naturali consegnandoci, dunque, un altro punto di vista sulla città e
potenzialmente un’altra idea di città. I bambini, così come gli adolescenti e spesso gli anziani, a differenza nostra, quando glielo concediamo, abitano la città.
Abbiamo, dunque, un terreno fertile di confronto con i bambini, che parla anche
della nostra qualità della vita e delle nostre relazioni. D’altra parte, è ben misera
una società che pretende di proteggere i propri bambini senza imparare niente
da loro. La strada,per molte generazioni,ha rappresentato un tirocinio alla vita,
così come lo è stato sempre l’ambiente circostante per bambini cresciuti anche
in ambienti rurali. Nel momento in cui la nostra società sottrae questa opportunità, che cosa offre come terreno per costruire la propria autonomia ed affinare
le proprie competenze pratiche e relazionali?
Da alcuni studi (Hillmann, Adams e Whitelegg, 1991)62 un bambino di nove
anni e mezzo nel 1990 aveva la stessa libertà di movimento di un bambino di
sette anni del 1971. Ne possiamo dedurre, quindi, una perdita sostanziale di
autonomia, di apprendimenti sociali e conoscenze che la libertà di movimento comporta. Hillman, inoltre, si interroga se i risultati limitativi dell’autonomia, emersi dalla loro inchiesta, non siano alla base di tanti dei comportamenti
antisociali degli adolescenti sviluppati negli anni. In ogni caso è evidente che
l’esplorazione dello spazio circostante è uno dei terreni di crescita più importanti per il bambino, attraverso cui costruisce un proprio sguardo autonomo
sul mondo e mette alla prova le sue abilità. Uno sguardo spaziale ristretto e
precodificato non facilita l’ampliamento delle mappe mentali, né sotto il profilo esperienziale, né sotto quello cognitivo. D’altra parte “la progressiva
appropriazione fisica dello spazio è parte integrante e costitutiva della crescita infantile e della socializzazione”63.
La sensazione di conoscere il proprio quartiere, di saper ritrovare la strada di
casa, di poter seguire diverse strade per arrivare nello stesso posto, si legano con
la percezione di noi stessi e di noi in relazione alla realtà circostante.
Inoltre, entrare in relazione con il quartiere, con la strada, significa entrare
in relazione con l’alterità, con le contraddizioni, con il conflitto, ma anche con
la solidarietà e gli stimoli che la strada offre; significa entrare in relazione con
altre culture, altre generazioni, altre pratiche sociali; significa, dunque, stare
61 Sofri A., Piccola posta, Sellerio, Palermo, 1999, p. 221, 222
62 Cfr. Hillmann M., Adams J., WhiteleggJ., One false move - A study of children’s independent mobility, Policy Studies Institute,
Londra, 1991
63 Forni E., op. cit., p. 26
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all’interno di un denso processo educativo, con le trappole, ma anche con le
opportunità, che qualsiasi processo educativo ci propone. Molti sostengono che
bisogna tenere i bambini lontani dalle culture della strada e dal disagio sociale
che in essa si trova, ma, prima o poi, il preadolescente o l’adolescente metterà
il naso fuori di casa, senza nessuna gradualità, con la presunzione di chi non
si è mai scontrato con un’alterità forte; questo in una fase della vita per di più
caratterizzata da particolare vulnerabilità, da una ricerca costante di risposte
e modelli che possano riempire il proprio bisogno di identità. Avremo, dunque, adolescenti senza le competenze necessarie per leggere e gestire in modo
intelligente ciò che gli si porrà di fronte nel contesto sociale, senza competenze per mediare il proprio mondo emotivo rispetto a persone diverse, incapaci di sopportare le frustrazioni a cui una vita più autonoma abitua i bambini
gradualmente.
3.2 Guardare la città da un metro di altezza
“Oggi non succede niente alla pompa di benzina. Io sono impaziente di
andarmene, di arrivare lì dove sto andando; e la pompa, come un enorme
fondale di carta, o un set hollywoodiano, non è altro che una facciata. Ma
a tredici anni con la schiena appoggiata al muro, è un posto meraviglioso
dove stare. Il delizioso odore di benzina, le macchine che vanno e vengono, il
fresco condotto dell’aria, le mezze voci che ronzano sullo sfondo, tutto ciò resta
armoniosamente sospeso in aria, riempiendomi di benessere. In dieci minuti
la mia anima sarà colma come i serbatoi delle automobili.”64
Tutti i romanzi di letteratura per ragazzi che raccontano di bambini che vivono la strada presentano una lettura fantastica del quartiere e delle strade,
da parte dei piccoli protagonisti; ne è un esempio “I ragazzi della Via Pàl”
dove lo spazio fra due condomini diventa lungo l’intero romanzo un campo di
battaglia65. Siamo così portati a dire che la fantasia dei ragazzi trasforma, ai loro
occhi, l’ambiente circostante. Non è esattamente così, o almeno non è solo così;
spesso non si tratta di invenzioni fantastiche, ma semplicemente di un altro
punto di vista da cui vedere la città66. Se proviamo a chiudere gli occhi un attimo
e ricordiamo con attenzione i luoghi dove stavamo da bambini, ci verranno alla
mente particolari, angoli, scorci apparentemente di nessuna importanza, che
forse evocheranno forti sensazioni emotive o ricollegheranno altri avvenimenti
e ricordi, forse suoni ed odori. Quelle porzioni di territorio, però, non sono frutto della nostra fantasia, c’erano davvero e forse ci sono ancora: sono i frammen64 Conory F., Stop-time, Viking Press, New York, 1967
65
“Dove si sarebbe potuto trovare un campo più splendido di quello? Per dei ragazzi di città non si poteva immaginare
un posto migliore per giocare agli indiani. L’area do Via Pàl era piana e rappresentava compiutamente una prateria del far west. Sul
fondo le cataste di legname erano tutto il resto: città, boschi, montagne rocciose; in breve tutto quanto si potesse desiderare”, in
Molnàr F., I ragazzi della Via Pàl, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 26
66 A proposito della tendenza a contrapporre realtà e fantasia come corpi estranei, di impronta disneyana, riportiamo le parole
sempre valide di Gianni Rodari: “Noi spesso siamo vittime di questa opposizione nel discorso familiare, a scuola, nei discorsi comuni. Ma non è così, non esiste questa opposizione tra fantasia e realtà. (…)La fantasia è uno strumento per conoscere la realtà è uno
strumento da dominare. L’immaginazione serve per fare ipotesi e di fare ipotesi ha bisogno anche lo scienziato.”
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ti della nostra mappa di bambini su quel territorio.
Se operiamo lo stesso esercizio cercando di ricordare un territorio vissuto da
adulti, probabilmente, ci verranno alla mente frammenti diversi, forse oggetti e
parti di territorio più legati ad un uso funzionale; quasi certamente sarà un campo visuale più lungo, qualcosa di minor dettaglio. E’ possibile che per ricordare
non utilizzeremo tutti i sensi, forse non avremo gli odori o i suoni di quei ricordi.
I bambini, dunque, non guardano un altro mondo, guardano il nostro stesso mondo da un altro punto di vista e con priorità di attenzioni e gerarchie di
significato diverse. D’altra parte, anche fisicamente,guardano da un’altra posizione: sono più bassi e sono particolarmente attenti al mondo di laggiù, notano tombini, marciapiedi, gli oggetti lasciati per strada, ecc., ovvero, le possibilità che il territorio offre per quello che gli urbanisti chiamano “gli utilizzi non
conformi” dell’arredo urbano. In uno studio di J. Bishop67, dove vengono messe
a confronto le mappe dei bambini e degli adulti su uno stesso territorio, sono
emerse grandi differenze. Il territorio osservato era un porto, in tutte le loro
mappe gli adulti avevano disegnato un faro che si trovava al centro del porto,
nessuno dei bambini invece lo aveva riportato, soffermandosi invece sui bagni
pubblici posizionati in basso, le recinzioni, i chioschi, una cabina per la connessione telefonica (un grosso oggetto di metallo posto sul marciapiede).
I bambini hanno, quindi, uno sguardo sul territorio urbano che normalmente
è più attento al fattore umano, notano maggiormente le persone, magari insolite, osservano maggiormente gli aspetti del mondo animale e naturale, sono
più attenti ai dettagli ed hanno un’osservazione emotivamente più viva, mentre
sono meno attenti agli aspetti di funzionalità del territorio e di lettura complessiva. I bambini sono degli esploratori più che dei fruitori della città, e come tali
si comportano. Di conseguenza quando il rapporto con la città viene mediato
da un adulto, il punto di vista del bambino rischia di essere ricondotto a quello
dell’adulto, i ritmi e le priorità dell’esploratore costretti nei ritmi e nelle modalità del fruitore di città. I bambini si comportano diversamente, vivono gli
spostamenti come una successione di momenti importanti di per sé, dunque degni di una sosta, di un momento di contatto; per gli adulti, invece, lo spazio fuori
dalla propria casa, da un negozio o da un posto dove dover andare, è un tempo
di attraversamento e un non tempo strumentale al raggiungimento di una meta.
Ovviamente il punto di vista sulla città da parte dei bambini non è indifferente
alla parte di città cui sono destinati a vivere; i quartieri non sono più o meno
sicuri per i bambini, sono anche più o meno stimolanti, più o meno adatti ad
essere palestra di crescita cognitiva ed esperenziale per i bambini prima e per
gli adolescenti dopo; anche se, tanto i bambini quanto gli adolescenti, riescono,
in qualche misura, a reinventare in modo creativo persino il territorio urbano
più desertificato.
67 J Bishop, J Foulsham, Children’s images of harvick, Kingston Politechnic, Architectural Psychology Research Unit, Environmental Education Research Report n.3, 1973, Kingston, 1973.
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“Lo spazio urbano è spesso costruito esso stesso in modo da far perdere
colore al mondo interiore”68.
La mancanza di riferimenti, la standardizzazione degli edifici e degli arredi
urbani, propria dell’architettura moderna, rappresenta un duro colpo per la
possibilità di un territorio di prestarsi come spazio educativo per i propri giovani abitanti; è un vero e proprio attentato al concetto stesso di diversità, così
importante per qualsiasi processo educativo. Ci ricorda J. Jacobs: “Senza dubbio vi sono marciapiedi urbani poco adatti all’educazione dei ragazzi”69 e così,
nello stesso modo, ci sono arredi urbani, slarghi, parcheggi, palazzi più o meno
adatti a un percorso educativo capace di restituire valore alla differenza, alla
reciprocità e alla dignità dei piccoli umani che vi crescono. Dobbiamo in questo
senso ringraziare i giovani writers delle nostre periferie per aver riconsegnato
colore, il segno della distinzione e tracce di appartenenza a spazi che si volevano
asettici e indistinti.
Parlare del punto di vista dei bambini sulla città, pensare ad una città abitabile
per loro non significa, in realtà, semplicemente occuparsi di loro, ma è un modo
di occuparci di noi e delle nostre comunità territoriali nel complesso. Infatti,
la riconquista della città da parte dei bambini e la valorizzazione della presenza degli adolescenti (non pensandoli quindi solo come elemento di disturbo)
significa immaginare un’idea di città capace di ritessere lo spazio urbano come
spazio pubblico, di appartenenza collettiva e non come semplice spazio di attraversamento. Ciò comporta il riappropriarsi di un rapporto con il territorio
cittadino che altrimenti rischia di ridurre la nostra vita quotidiana, come ha
osservato qualcuno, ad un “teatro di ombre private”70.
3.3 Gli adolescenti alla conquista della città
In adolescenza o in preadolescenza si raggiunge finalmente l’oggetto dei desideri, la strada, il quartiere, che poi significa autonomia, libertà, misurarsi con
il mondo dei grandi nella speranza/aspirazione/paura di non essere più bambini. Spesso si incontra la strada in modo brusco, senza gradualità: tutti i rischi da
cui si è stati tutelati e messi in guardia in adolescenza sono finalmente lì a portata di mano, spesso però senza avere le competenze per trattarli, dimensionarli.
Francesco Tonucci pone il dubbio che: “Tutti i rischi di cui il bambino aveva
via via bisogno e non ha potuto correre, in qualche modo si sommino, fino a
diventare un’urgenza insopportabile, che esplode nell’adolescenza, quando il
ragazzo può decidere da solo, e allora gioca con la morte”71.
Per altri adolescenti invece, in condizioni sociali diverse, in quartieri degradati ed etichettati socialmente, i rischi e i contesti della strada sono già conosciuti
68 Iori V., op. cit., p. 223
69 J Jacobs: Vita e morte delle grandi città, Einaudi Torino 2009, p.81
70 La Cecla F., Perdersi - L’uomo senza ambiente, Laterza, Bari, 1988,
71 Tonucci F., - “Il Consiglio dei bambini”- progetto “La città dei bambini” Roma 2011
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sotto la forma del destino sociale delle regole e dei poteri della strada, piuttosto
che sotto l’ottica dell’opportunità e della libertà.
In ogni caso, l’adolescente incontra la strada e, spesso, questa diventa il suo
ambiente di vita più importante, si chiami bisca, bar, portici, centro sociale od
altro: diventerà il luogo della sua appartenenza, uno spazio dentro cui cucire
la propria identità ed una possibile risposta al proprio bisogno di definirsi ed
esistere. Un territorio a lungo negato che per sentirlo suo ha bisogno di distruggerlo o trasformarlo lasciando i segni del suo passaggio e della sua identità in formazione come singolo e come gruppo. Se sapessimo ascoltare i muri
della nostra città ci potrebbero raccontare delle tracce di intere generazioni di
adolescenti, da quelle degli anni ’70 che sputavano rabbia e sogni sull’intonaco
a quelle degli anni’80 che li hanno riempiti della loro intimità e del loro senso
di inadeguatezza a quelle degli anni’90 che li hanno riaccesi di colori urlando i
propri nomi ma con un codice criptato per iniziati72 sino al menù indistinto del
nuovo millennio che vive della logica sincretica del mercato globale. Quest’istinto di marcare i propri spazi e di segnalare al resto del cosmo la propria esistenza
è riscontrabile in due situazioni diametralmente opposte: quella evolutiva individuale dell’adolescenza e quella all’interno delle istituzioni totali, in particolare nel contesto carcerario, tristemente famoso per le incisioni dei nomi sulle
pareti. Linea di continuità che sembra essersi evidenziata in maniera massiva
con il fenomeno dei tatuaggi che era in passato prerogativa di alcune categorie
di persone che vivevano in contesti di isolamento come i carcerati o i marinai
e che si sono estesi oggi a tutta la popolazione e non solo giovanile. Quasi che
l’istituzione totale abbia guadagnato terreno nell’intera società.
La città rappresenta, comunque, la scena dove l’adolescente, soprattutto maschio, si esibisce, mentre l’abitazione, o meglio la propria camera, può
rappresentare il luogo dell’intimità e dell’interiorità: è lì che si gioca la propria
immagine e la propria identità sociale. Certo, ancora una volta nei luoghi della separazione e della specializzazione, spesso territori per solo giovani come
possono essere le discoteche, i pub, le bische, ma sovente anche i centri sociali, i luoghi dove si fa sport od i crocicchi della strada dove ci si incontra. Un
territorio che viene conquistato, a volte conteso ad altri, ma che produce appartenenze sempre più ristrette: da un’ appartenenza di quartiere si passa ad
un’appartenenza di segmenti del territorio, quelli del portico, quelli della bisca,
l’appartenenza alla singola comitiva. Un processo che qualcuno ha chiamato
di neo-tribalismo ma che si connette sempre al territorio, non solo come luogo
dove lasciare traccia della propria ricerca di identità e di senso, ma come parte
costituente di questa identità. Su uno dei tanti muretti della città di Roma è
stato scritto: “Qui quattro ragazzi sono diventati uomini”, quel luogo probabilmente nella percezione di quegli ex-adolescenti non sarà solo lo spazio che
ha fatto da cornice ad un processo di crescita, ma sarà parte ineliminabile del
72 Le Tag ed i Pezzi dei Writer rappresentano, in realtà, il nome d’arte del writer o della crew (banda di writers) che lo hanno realizzato
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processo stesso. Insomma, i territori hanno storie, identità, un’ anima secondo
qualcuno, che si intrecciano profondamente con l’identità ed il carattere in formazione degli adolescenti. Si viene a produrre una sorta di connessione sentimentale molto potente, che in alcuni casi può diventare risorsa progettuale ed
appartenenza a valori, in altri assunzione di un etichetta negativa e di un destino sociale già scritto. In un video girato dalla Cooperativa sociale Arca di Noè
di Roma ai margini di un lavoro con gli adolescenti di Borgonuovo (frazione
degradata della periferia di Tivoli), un ragazzo sosteneva che Borgonuovo era
“monnezza”, e che quindi loro erano “monnezza” come Borgonuovo. L’identificazione anche con le etichette negative ed i destini sociali dei quartieri a rischio
da parte degli adolescenti che li abitano è uno degli ambiti su cui il lavoro degli
operatori sociali sul territorio si deve misurare. Proprio per questo rapporto
così intimo che sussiste tra adolescenti e quartiere, un lavoro educativo non
può mai prescindere dal territorio, dalle culture che gli adolescenti incontrano
ed a loro volta producono, dalla loro percezione di quella scena nella quale si
misurano quotidianamente. Questo vale non solo per gli interventi sociali di
educativa di strada73 o per i centri di aggregazione, ma vale per qualsiasi tipo di
intervento educativo, la scuola in primo luogo, poiché non si può immaginare
di scindere l’adolescente da quella parte della sua identità e della sua pratica
sociale che vive nel quartiere o nei luoghi della socialità e del consumo, che sono
parte fondante della sua vita.
3.4 La città come opportunità educativa
“La mappa non è il territorio. Il nome non è la cosa designata dal nome.”
Gregory Bateson74
A fronte della situazione fin qui descritta, riportiamo l’attenzione su quella
che vuole essere la specificità del nostro lavoro, e cioè una riflessione utile per le
strategie di un lavoro territoriale di comunità da parte di educatori ed operatori
sociali nella città che cambia.
Partendo da un approccio che mette al centro la città come opportunità
educativa, andiamo a delineare alcune delle direzioni possibili che un lavoro sociale con bambini e adolescenti può prendere, ovviamente a partire dai bisogni
e dalle caratteristiche del territorio dove andiamo ad operare. Nel descrivere
delle ipotesi di lavoro dobbiamo specificare però che non sono per forza tra loro
alternative, anzi un intervento territoriale dovrà probabilmente sposare più di
un obiettivo e misurarsi su più terreni, che spesso sfumano l’uno nell’altro.
73 Servizio di unità di strada rivolto ad adolescenti in un’ ottica di prevenzione del disagio giovanile e di promozione dei diritti e
delle opportunità dei ragazzi sul territorio
74 Bateson G., Mente e Natura, Adelphi, 1984
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1. Il quartiere è casa nostra
Restituire senso di appartenenza ad un territorio a partire dall’atteggiamento dei ragazzi…
In particolare, in quartieri ed in territori urbani senza una storia definita, con
confini e culture di riferimento deboli e sfumate, territori che sono luoghi di
attraversamento per andare da altre parti che vere e proprie mete, può essere
importante un lavoro di ri-significazione del territorio. E’ importante partire
dalle microappartenenze più o meno marcate che i ragazzi hanno, in particolare
gli adolescenti, per valorizzare quei luoghi o quei rituali, ampliandone i confini.
Lasciare delle tracce sul territorio può essere un modo di personalizzarlo, ridare
i nomi alle vie partendo dalle sensibilità e dalla vita quotidiana dei ragazzi, ricostruire una colonna sonora delle diverse zone del quartiere, raccogliere gli eventi
salienti che sono accaduti nel tempo in quel territorio, costruire dei momenti
comuni, delle feste, dei rituali, dei momenti sportivi o dei personaggi. Rispetto ai ragazzi, questo permetterà loro di rafforzare le proprie identità collettive
ed individuali e con esse la propria autostima ed autoefficacia e li aiuterà a ragionare sulle proprie competenze e possibilità; la stessa comunità potrà beneficiarne, intessendo rapporti più solidali e di mutualità, possibili solo in presenza
di un’appartenenza comune, quando, cioè, si ha una storia collettiva da raccontare. In questo senso il lavoro sulla città sarà occasione per aprire un percorso
educativo che va oltre la città stessa ed il rapporto con essa.
2. Che nessuno parli male del mio quartiere!
Arginare i processi di etichettamento che dal territorio ricadono sui ragazzi…
Questa ipotesi di lavoro può avere senso in territori ad alta stigmatizzazione
sociale, quartieri conosciuti innanzitutto per le loro caratteristiche negative, la
criminalità, la tossicodipendenza, ecc. Veri e propri stereotipi sociali cittadini
(pensiamo allo Zen di Palermo, a Tor Bella Monaca o a Corviale stesso a Roma,
o le banlieue francesi, ecc.) che coinvolgono con il proprio stigma sociale tutti
gli abitanti del territorio e danno loro l’impressione di avere un destino sociale
già scritto.
Qui il lavoro da fare non sarà ovviamente quello di negare i problemi che il
quartiere può avere, ma sarà quello di valorizzare le risorse, gli aspetti positivi, le potenzialità che potranno aprire su esse una forte comunicazione sociale
dentro e fuori la comunità di quartiere, dando modo di conoscere il territorio
anche per qualcosa di diverso dalle caratteristiche negative. Si tratta di un vero
e proprio lavoro di empowerment sociale teso ad aiutare le persone a rafforzare l’autostima e la fiducia necessaria per mettere in moto capacità progettuali
e possibilità di trasformazione del proprio territorio e della propria vita. Specialmente gli adolescenti tenderanno ad identificarsi con le caratteristiche dello
stigma sociale cercando di leggerlo come elemento di forza e visibilità (sem45
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pre meglio regnare all’inferno che servire in paradiso) su cui competere, con
il rischio che quell’identità diventi una gabbia che non permette ai ragazzi di
poter scegliere. Le attività e gli elementi di valorizzazione del territorio dovranno, dunque, promuovere un orgoglio territoriale costruito su elementi differenti
dallo stigma, restituendo un immagine a tinte forti senza “ma”, non limitata a
quella dello stereotipo sociale75.
3. Fatemi uscire da solo!
Permettere ai bambini di vivere autonomamente e in modo consapevole il
proprio territorio…
Questo tipo di ipotesi di lavoro è rivolta ai bambini più che ai preadolescenti
e risulta particolarmente importante in quei quartieri dove più difficilmente è
permesso loro di fruire della strada in autonomia. Molte sono le esperienze in
questo senso, a partire dai percorsi per facilitare l’accesso dei bambini a scuola
in autonomia, dallo scuola bus a piedi sperimentato negli anni passati dal Comune di Roma (in cui i bambini vengono accompagnati a scuola in gruppo a
piedi da un educatore), alla più radicale e interessante esperienza del comune
di Fano “A scuola ci andiamo da soli”, dove i bambini delle elementari, tramite
un percorso guidato ed alcuni accorgimenti, vanno a scuola a piedi completamente da soli. Ovviamente, questo tipo di esperienze, oltre a favorire una maggior libertà ed autonomia per i bambini, pongono una serie di problemi proficui
alla comunità adulta ed alle istituzioni, costretti, nel farsi carico della presenza
dei bambini, a costruire modalità di gestione della città più vivibili e sicure.
Altre esperienze in questo senso riguardano il coinvolgimento di anziani o di
adulti per far conoscere concretamente i quartieri ai bambini o raccontare loro
la storia ed i cambiamenti che il territorio ha vissuto. In realtà, ancora molte
esperienze di educativa di strada o di animazione di strada (per lo più legate alle
iniziative finanziate dalla Legge 285/97), se pur spesso rivolte agli adolescenti,
hanno permesso, con la presenza degli educatori, una maggior tranquillità da
parte dei genitori nel lasciare i figli a giocare in strada. Dopo quanto affermato nei paragrafi precedenti diventa inutile spiegare quale grande opportunità
rappresenti per i bambini il conoscere e vivere la strada, e quindi gli obiettivi
educativi connessi a questa ipotesi di lavoro.
4. Se decido di guardare più lontano
Favorire processi d’integrazione tra segmenti di territorio e tra i ragazzi che
lo abitano. Favorire la conoscenza e l’incontro con realtà territoriali diverse…
I grandi processi di frammentazione sociale, come abbiamo visto, investono
la città, rendendo meno omogeneo socialmente ed economicamente il tessuto
umano e comunitario dei quartieri. Questo fenomeno si rispecchia anche nella
dimensione micro dei territori e dei suoi giovani abitanti.
75 Qui si inserisce una parte della filosofia di fondo del lavoro di mappatura emotiva a Corviale che racconteremo più avanti
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Il processo di neo-tribalismo giovanile, come lo abbiamo chiamato, comporta
appartenenze ed identità strette, micro-conflitti orizzontali tra giovani, con la
conseguente difficoltà ad ampliare le mappe mentali e costruire una comunità
più ampia. La relazione con ragazzi di territori limitrofi, il confronto con persone diverse per estrazione sociale e cultura favorisce una maggior flessibilità
culturale e cognitiva, la possibilità di confrontarsi con diverse modalità per affrontare i problemi e gestire i propri progetti di vita. Inoltre la segmentazione
dei gruppi informali di giovani, collegata al territorio, favorisce forme di etichettamento e di crescita di stereotipie sociali. Per questi motivi, specialmente in
territori particolarmente frammentati dal punto di vista delle culture delle appartenenze e delle condizioni sociali (quartieri che mancano di una cultura e di
una storia unitaria e che magari hanno visto il sovrapporsi in epoche diverse di
diversi insediamenti come accade per le ere geologiche), favorire momenti di
comunicazione e conoscenza a partire dai ragazzi, per superare anche i sospetti
e le paure della comunità adulta, può essere una pista di lavoro importante e
proficua. Lo si può fare dalla scuola costruendo visite guidate dai ragazzi dei diversi territori nei propri luoghi di vita, o lo si può fare dalla strada promuovendo
eventi, attività sportive e ludiche, giornali di quartiere con comitive di diversi
territori. Si possono inventare, dunque, molte forme per cercare di costruire un
contenitore più largo nei quali i ragazzi possano riconoscersi facendo prevalere
la curiosità e la capacità di comunicare al sospetto ed al pregiudizio.
Sempre all’interno di questo filone d’intervento rientra il lavoro teso a permettere ai ragazzi di confrontarsi in modo consapevole con forme urbanistiche
ed organizzazioni dello spazio diverse. Se è vero infatti che una determinata
forma urbana rimanda ad una determinata mappa cognitiva e culturale, se
influisce sul modo di pensare e fruire lo spazio e le relazioni, allora esplorare
nuovi territori può aprire la strada all’acquisizione di nuove mappe. Andare a
conoscere altri territori, costruiti e organizzati in maniera diversa, e riflettere
insieme sugli aspetti di differenza e di continuità e sulle diverse possibilità che
i diversi disegni urbani offrono, non per scegliere il migliore o stigmatizzare il
proprio territorio, ma per riconoscere altre dimensioni, ampliare le possibilità
di scelta e rendere più flessibili le mappe mentali. Questo lavoro non è utile solo
per ragazzi di quartieri disgregati e periferici, ma anche per quei ragazzi del
centro della città che non hanno mai visto come è costruita e come si vive in un
contesto diverso o non sono abituati agli spazi ampi di alcune periferie. I ragazzi di Tor Bella Monaca durante il progetto Urban, alcuni anni fa, ci facevano
notare che da casa loro si vedono le montagne innevate, da Piazza Navona non
se ne vede traccia.
6. Ridisegno il mio quartiere
Sviluppare momenti di micro-progettazione partecipata partendo dai ragazzi…
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Un’ulteriore pista di lavoro per gli operatori sociali nel lavoro sul territorio
con i ragazzi è quella della progettazione partecipata. La progettazione urbanistica partecipata è qualcosa che va oltre l’operatività sociale, è una delle frontiere
avanzate di un’urbanistica a misura d’uomo, che chiama gli abitanti, adulti e
non, a concorrere per la progettazione dei propri luoghi di vita.
La progettazione partecipata, infatti, permette da una parte di programmare
interventi urbanistici ed architettonici più adeguati alle reali esigenze del quartiere, e dall’altro favorisce un sentimento di maggior appartenenza e rispetto del
territorio e dell’arredo urbano da parte degli abitanti, che, nella misura in cui
hanno partecipato a progettarlo, lo sentono proprio. È la differenza che passa in
termini di appartenenza e di rispetto degli spazi tra una persona che ha arredato
la propria casa e una che vive in una camera ammobiliata in affitto.
L’educatore territoriale o l’operatore sociale può favorire il coinvolgimento in percorsi di questo tipo, quando sono in corso o possono essere sollecitati dalle istituzioni: ad esempio, se vanno fatti dei lavori di ampliamento o
ristrutturazione nella scuola, le istituzioni possono fare un lavoro di cooprogettazione con i ragazzi. In molti casi, però, questo non è possibile e allora si
possono mettere in moto piccoli momenti di progettazione territoriale come il
rimettere a posto l’arredo di un parco o di un cortile, disegnare percorsi per le
strade del quartiere o pitturare i cassonetti dell’immondizia; piccoli interventi
che richiedono una disponibilità minima da parte delle istituzioni e che possono
essere realizzati con forme artigianali dai ragazzi stessi, magari chiedendo un
aiuto agli abitanti adulti. Il risultato, però, in termini educativi e di tessitura di
comunità può essere molto rilevante; infatti, i ragazzi (possono essere in questo
caso tanto bambini che adolescenti) avranno la possibilità di lasciare un segno
sul territorio, avranno la sensazione di acquisire il potere della progettazione
e del cambiamento. L’impatto non si limita ai ragazzi che vivono l’esperienza, bensì è tutta la comunità adulta che, specialmente in territori con scarsa
appartenenza territoriale, viene sfidata dai ragazzi in nome del cambiamento
possibile, e le stesse istituzioni vengono richiamate alle loro responsabilità se
attività di manutenzione devono essere auto-organizzate dai più giovani. Nelle pagine successive verrà citata proprio un esperienza di questo genere in un
quartiere romano.
7. Se nel quartiere incrocio altre storie ed altre età…
Favorire una maggior comunicazione intergenerazionale con la comunità
adulta…
Le metodologie di lavoro sulla mediazione intergenerazionale possono essere
diverse e di alcune esperienze daremo conto nei particolari più avanti, qui ci
preme semplicemente segnalare che il territorio è una dimensione privilegiata
per favorire questo tipo di mediazione. Infatti, in particolare per quanto riguarda gli anziani il quartiere viene proprio a rappresentare un potenziale terreno
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comune, uno dei pochi, che hanno con gli adolescenti ed i bambini. Ed è infatti
proprio sulla gestione del territorio che più facilmente si producono conflitti
intergenerazionali: la gestione del portico sotto casa, i bambini che fanno confusione giocando nel cortile, il parco per riposarsi sulle panchine o per giocare
a pallone, ecc. Nello stesso tempo però, gli anziani possono essere un’ottima
risorsa per molte delle piste di lavoro precedentemente citate. Attraverso loro, i
bambini o gli adolescenti possono ricostruire la storia e le identità del quartiere,
insieme si può rivendicare degli spazi per lo “stare” e non funzionalizzati per
l’attraversamento; in fondo i ragazzi e gli anziani sono gli unici veri abitanti del
territorio, gli altri lo usano e l’attraversano, quindi un’alleanza è potenzialmente
possibile ed auspicabile proprio a partire dalla strada.
L’incontro intergenerazionale porta con se molte risorse e potenzialità su cui
non ci dilungheremo qui perché ne parliamo specificamente più avanti, ci limitiamo a dire che il riconoscimento dell’altro da noi e la capacità di posizionarsi
in un continuum temporale è legato in particolar modo nell’infanzia e nell’adolescenza al rapporto con altre età, senza il riconoscimento delle quali è possibile
sviluppare la fantasia dell’immutabilità della propria condizione generazionale,
rimanendo incastrati in un eterno presente aprogettuale che sembra caratterizzare le ultime generazioni di adolescenti.
Gli artisti della Comunità X. © Molo7 Photo Agency
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Cap. 4
Educare in città: la sperimentazione di un percorso
partecipato di mappatura emozionale Corviale
La città non dice il suo passato, lo contiene come
le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie,
nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale,
nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere,
ogni segmento rigato a sua volta di graffi,
seghettature, intagli, svirgole
Italo Calvino76
4.1 L’edificio città di Corviale
Corviale è un palazzo, un quartiere, un’utopia, un mostro. Sono tante le
definizioni che nel corso del tempo sono state usate per descriverlo. Forse il
nome che meglio lo esprime è quello con cui lo definiscono i romani: “serpentone”. Del serpente condivide l’ambigua simbologia, l’idea di morte e rinascita77
e Corviale-serpente, rappresenta sia il fallimento di un’urbanistica popolare
razionalista e ghettizzante sia la capacità di riscatto, di rinnovamento dei suoi
abitanti.
Corviale, o più correttamente “Nuovo Corviale”, è un edificio-quartiere, di
proprietà dell’Istituto Autonomo Case Popolari, costruito a Roma tra il 1972 e
l’1985, nei pressi della via Portuense, lungo la via Poggio Verde. Nelle intenzioni
dell’architetto Mario Fiorentino, che lo progettò, coadiuvato da un pool di altri
architetti, doveva costituire modello di sviluppo abitativo diverso da quello che
aveva caratterizzato Roma a partire dagli anni sessanta e che aveva alimentato
l’edificazione di quartieri-dormitorio privi di servizi. L’idea originale era quella
di costruire un edificio-quartiere: due palazzi lunghi un chilometro (stecche),
alti nove piani, posti l’uno di fronte all’altro, con all’interno ballatoi lunghissimi, cortili e spazi comuni, e unito a questi da un ponte, un altro edificio posto
orizzontalmente rispetto ai primi due e più piccolo, e altri edifici più piccoli per i
servizi. All’’interno dei cortili, poi un’altra fila di abitazioni (“case basse”) di due
o tre piani. Situato su una collina, immerso nella campagna, Corviale, avrebbe
dovuto nell’intenzione dei progettisti, diventare una sorta di città, dotata di gallerie di negozi e spazi comuni, come l’anfiteatro all’aperto, che fornivano servizi
agli abitanti dei 1200 appartamenti previsti.
76 Italo Calvino : “Le città Invisibili”
77 Il serpente è uno dei più vecchi e più diffusi simboli, presente nelle mitologie di tantissime culture con significati simili. In quanto
portatore di veleno, è simbolo di morte, ma per il suo cambiare pelle, è simbolo di rinascita, rinnovamento.
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In realtà le cose non sono andate esattamente così. In seguito al fallimento
dell’impresa edile a cui erano stati affidati i lavori, la costruzione del complesso
si arrestò con l’ultimazione della sola parte residenziale. Nell’ottobre 1982 furono comunque assegnati i primi appartamenti. A questa prima assegnazione,
seguì l’avvio di una serie di occupazioni abusive da parte di circa settecento
famiglie, gravati da impellenti necessità abitative, che si insediarono in quelli
che dovevano essere gli spazi comuni, come il 4° piano, in cui era prevista una
galleria di negozi. Si stima che attualmente circa 120 famiglie continuino ad
abitare tali spazi, ovviamente dopo averli ristrutturati e trasformati in appartamenti.
Anche quella che era la filosofia che ispirò il progetto di Fiorentino, debitrice alla moderne teorie funzionaliste e in particolare a quelle dell’architetto
svizzero Charles Le Corbusier, sembrò fallire come l’impresa di costruzione.
La ricerca di una nuova dimensione dell’habitat, alternativa alla dispersione
della periferia, al ruolo subalterno che questa rivestiva nei confronti del centro
urbano, che aveva guidato Fiorentino, produsse proprio ciò che intendeva evitare: un ghetto di migliaia di persone, isolate dalla città, prive di servizi e collegamenti, in quanto quelli previsti non furono realizzati. E l’abnorme edificio, si
rivelò uno squallido e grigio labirinto di scale e corridoi che non favoriscono la
socializzazione, dove regna l’incuria e l’illegalità. Un luogo in cui dormire e da
cui uscire in fretta, perché fuori non c’è niente.
Ci sono voluti oltre 30 anni, durante i quali il palazzo-quartiere è stato simbolo
di degrado e abbandono, oggetto di invettive e di passioni, motivo di discussioni e
dissertazioni accademiche, pretesto di inverosimili leggende metropolitane (dal
vento ponentino che non spira più dal litorale su Roma a causa della palazzo che
si adagia in cima alla collina come una muraglia, al suicidio dell’architetto alla
vista della sua opera completata, deceduto si nel 1982 ma per ben altre cause
naturali), per avviare un lento processo di riqualificazione urbanistica e sociale.
Dopo decenni di incuria e di abbandono, infatti, sono stati realizzati vari interventi di riqualificazione del palazzo e di completamento del progetto. Così la
parte centrale, chiamata anche “spina servizi”, è stata infine completata ed oggi
accoglie il Consiglio del Municipio e gli uffici tecnici, il Comando del XV Gruppo dei Vigili Urbani, uno sportello anagrafico, un centro per il disagio mentale
della Asl Roma D. Progressivamente sono stati attivati altri importanti servizi:
un centro scolastico (una scuola materna con 60 posti, due elementari per un
totale di 40 aule e una media con 24), una biblioteca comunale (con 13 mila
volumi, accesso ad Internet e un nutrito catalogo di dvd e cd-rom musicali),
una farmacia comunale, un centro anziani. L’anfiteatro, inizialmente, una discarica a cielo aperto è stato ripulito, e di tanto in tanto vi si organizzano eventi.
E’ stato completato ed attivato il Mitreo-Iside, uno spazio di oltre 800 mq per
esposizioni, mostre, laboratori, rappresentazioni teatrali e coreografiche, una
sala prove, una palestra di box e l’interessante esperienza del calcio sociale dove
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bambini e famiglie si ritrovano per praticare uno sport partecipato e solidale78.
Si sono, insomma, cominciate a creare le condizioni per rompere l’isolamento
degli abitanti, per rendere il quartiere attraente anche a chi non vi abita, dotandolo di alcuni servizi importanti, non presenti in altre zone della città.
E gli abitanti del mostruoso “serpentone” (oltre 10.000 persone), hanno
cominciato ad avvertire la fierezza di abitare in un palazzo “famoso” per la sua
eccezionalità a livello mondiale, a guardare oltre le storie di ordinario degrado
(l’ascensore che non funziona, i lunghi e tristi corridoi, ecc.) per immaginare un
luogo diverso e partecipare alla progettazione di un altro Corviale possibile. Perché il luogo è bello, appoggiato alla campagna romana come un soprammobile e
stimola l’immaginazione, la sperimentazione sociale ed educativa. Nel frattempo il quartiere intorno al serpentone, “Casetta Mattei”, è cresciuto rompendo
in parte l’isolamento e la distanza che lo separava dal Corviale e rendendo un
po’ più facile un integrazione sociale con il territorio circostante ancora oggi da
completare.
Più difficile è riscrivere le “regole di Corviale”. Si attivano progetti, come
“Immaginare Corviale, realizzato da Stalker/Osservatorio Nomade curato dalla Fondazione Adriano Olivetti e promosso dal Comune di Roma, nel biennio
nel 2004-2o05. Si immagina e si sogna un altro Corviale, colorato, artistico,
funzionale… I progetti di riqualificazione si susseguono, ambiziosi - come quello che vede il IV° piano destinato in parte alla Facoltà di Architettura della
terza Università di Roma e in parte ad un Museo d’arte contemporanea, in
rapporto con la stessa Università. Ma il IV° piano continua ad essere abitato
dagli ex occupanti che ormai vi vivono da oltre 30 anni. Oggi dopo anni sono
stati presentati diversi progetti di rigenerazione urbana che si propongono di
mettere mano al quarto piano e non solo e un concorso internazionale di ristrutturazione del palazzo e delle aree circostanti che si propone di agire in maniera
partecipata sul serpentone.Così Corviale continua a rappresentare le delusioni
e le aspirazioni di architetti e di cittadini, di tutti coloro che continuano incessantemente ad abitare l’utopia.
4.2 Corviale come luogo in cui sperimentare un progetto di mappatura emozionale
Le contraddizioni, le ambiguità, i paradossi di Corviale costituiscono in qualche modo un terreno privilegiato in cui esplorare il particolare rapporto che intercorre tra gli abitanti di un quartiere e il loro territorio, dal punto di vista della
percezione emotiva. Il progetto qui presentato, realizzato da Il Laboratorio, formazione e consulenze per il lavoro sociale e finanziato dalla Tavola Valdese, si è
proposto di costruire una mappa di Corviale a partire dalle diverse narrazioni
collettive e vissuti emotivi che insistono su questo palazzo-quartiere.
78 Vedi sito: http://www.calciosociale.it
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Il tipo di lavoro realizzato non va però letto in un contesto di ricerca tradizionale, ma contestualizzato nella dimensione operativa della ricerca
azione. Il tipo di mappatura proposta, infatti, ci ha permesso di rilevare i bisogni
della popolazione anche nella loro dimensione implicita e soggettiva ed era tesa
ad aiutarci nella proposta di interventi sociali calibrati sia sulle culture locali che
sulle percezioni dei diversi segmenti della popolazione. La lettura del territorio
dal punto di vista delle diverse fasce di età, così come delle diverse origini geografiche-culturali permette altresì di mettere a confronto le diverse percezioni
e narrazioni e di facilitare percorsi di mediazione intergenerazionale e interculturale nei quartieri. L’obiettivo del progetto non si è limitato però al territorio
dove è stato applicato ma ha rappresentato la costruzione di una metodologia
trasferibile e utilizzabile ogni qualvolta vengano messi in atto nuovi interventi
sociali, nuovi servizi o progetti educativi. In particolare tale metodologia, una
volta testata ed affinata, potrebbe essere proposta all’interno dei piani di zona
previsti dalla legge 328. In questi casi l’analisi dei bisogni, se effettuata, viene
fatta su basi unicamente descrittive, attraverso la lettura dei dati statistici del
territorio ma senza ascoltare direttamente la voce dei cittadini.
In sintesi gli obiettivi del progetto sono stati:
• mettere in moto processi di partecipazione sociale e consapevolezza della
comunità rispetto al tessuto simbolico-emotivo del territorio e rafforzare l’appartenenza e l’identità territoriale;
• costruire un modello di mappatura trasferibile ai contesti di servizio e agli interventi sociali in genere;
• costruire una mappatura dei bisogni affettivi ed emotivi del territorio da consegnare alle istituzioni in sede di piano di zona;
•permettere alla cittadinanza di fare proposte e rivendicare spazi decisionali nei confronti delle istituzioni;
• favorire percorsi di mediazione intergenerazionale e interculturale.
4.3 I presupposti e la metodologia della mappatura emotiva
Il progetto di mappatura emozionale si propone di esplorare il particolare
rapporto che intercorre tra gli abitanti di un quartiere e il loro territorio,
dal punto di vista della percezione collettiva, dei vissuti emotivi e della cultura
locale. L’obiettivo, dunque, non è quello di costruire una descrizione oggettiva
di un territorio, ma di riconoscere e ricostruire le diverse narrazioni collettive e
i vissuti emotivi che insistono sul territorio.
Quando parliamo di mappature, di solito ci riferiamo ad una metodologia di
indagine sociale, che descrive un dato territorio attraverso la rilevazione delle
sue caratteristiche peculiari che lo rendono unico, e che vengono tecnicamente
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definite “matrici”: sono composte principalmente dalla sua struttura “fisica”,
dalle condizioni sociali dei suoi abitanti, dalle sue peculiarità storiche, dal tipo
di abitazioni presenti, dalla sua “micro”economia, dalla presenza di spazi verdi, dallo stato delle strade e dei collegamenti con le altre parti della città, dai
luoghi della cultura di aggregazione e di divertimento; la mappatura in generale
“raccoglie” e descrive tutte le varie risorse che un determinato territorio (città,
quartiere, rione) può offrire a chi lo abita o lo frequenta, creando un prodotto
che presenti una sua immagine descrittiva il più possibile completa ed articolata
dei luoghi e delle persone.
La metodologia pratica che viene solitamente utilizzata per realizzarle è quella
della ricerca-azione; i ricercatori mappano ed analizzano il territorio in maniera dinamica, muovendosi per le strade, osservando la tipologia e lo stato delle
abitazioni, gli spazi verdi, di socialità, divertimento ed aggregazione, le attività
commerciali e produttive che vi si svolgono, i collegamenti ed i vari mezzi pubblici e privati che la attraversano, dialogando ed interagendo il più possibile
con gli abitanti e cercando di individuare le persone più “rappresentative”,
raccolgono documenti, dati, immagini, impressioni, storie; che verranno poi
sistematizzate e posizionate sulla mappa “reale” del luogo, diventando schede
descrittive, piccole tabelle di dati, immagini, racconti, che danno “vita”e struttura alla mappatura.
Attraverso questa metodologia si possono evidenziare le varie “reti” che compongono la “tessitura” , la “trama” quindi la struttura e l’ “anima” del territorio
stesso, elementi che gli conferiscono una identità unica e precisa che è la somma
degli elementi stessi che vanno a formare un “prodotto” finale dinamico che
può quindi essere condiviso, valutato, discusso.
Una ricerca ed un’analisi pratica di tutti questi elementi permette di ricavare
un prodotto concreto (la mappatura appunto) che ne evidenzierà quindi tutti i
punti di “debolezza” ma anche tutti i punti di “forza”; le varie problematiche
che intervengono sul territorio stesso, nonché tutte le varie risorse presenti che
possono concorrere alla loro risoluzione.
Una mappatura può essere utilizzata in vari modi e contesti; ad esempio per
pianificare un qualsiasi intervento di tipo sociale, economico o culturale relativo al territorio, può essere usata per definire la pianificazione operativa delle
diverse attività, da rivolgere alle”strutture” della rete od alle persone al fine di
favorirne una modificazione, un rafforzamento, un adeguamento od uno sviluppo .
Quelli descritti, sono solitamente la metodologia, la struttura ed i possibili
utilizzi di una classica mappatura territoriale, nel caso invece della mappatura emozionale ci troviamo però di fronte ad una sua ulteriore innovazione ed
elaborazione; la metodologia di base descritta per la sua realizzazione rimane
“intatta”, ma la sua finalità è diversa, la mappatura emozionale, descrive sempre
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il territorio, le sue caratteristiche e la sua struttura, ma aggiunge a queste ed
tutte le informazioni raccolte un nuova serie di elementi particolari e mirati: la
percezione emotiva dei luoghi.
Tutti noi nella nostre diverse esperienze di vita possiamo collegare i diversi luoghi che abbiamo vissuto e frequentato con le emozioni che ad essi nella
nostra memoria abbiamo indissolubilmente collegato: una bella giornata di sole
in città, una passeggiata con gli amici, un pranzo speciale, una corsa sotto la
neve, la luce di un tramonto in un parco, un bacio con la persona amata lungo
un viale.
Tutti questi momenti di vita ed esperienze formano nella nostra mente una
mappa parallela dei luoghi, legata proprio alle emozioni che abbiamo vissuto: oltre alle persone ed alle situazioni, diversi elementi possono ricordarci un luogo:
una sensazione emotiva, i colori, una musica o dei suoni, un odore particolare,
il vento, le sensazioni legate alle condizioni atmosferiche. La mappatura emozionale per quanto è possibile tenta di ricostruire ed evidenziare le sensazioni e le
emozioni che le persone provano in relazione ai luoghi, per creare un prodotto
che vada oltre una pura descrizione oggettiva e tecnica , ma che cerchi di introdurvi anche i vissuti emotivi ed affettivi, le storie individuali e collettive che li
si sono svolte e si svolgono e che lo rendono diverso da ogni altro luogo, ma che
sono possibili da riconoscere e narrare e che quindi possono essere rese fruibili
e condivise ad altre persone ed In/con altri luoghi. In particolare la mappatura realizzata a Corviale ha cercato di rintracciare il
particolare rapporto che intercorre tra gli adolescenti ,che con il territorio hanno
un rapporto particolarmente intimo, e i loro luoghi di vita, per poi poter anche
confrontare questi vissuti con i vissuti adulti in un’ottica intergenerazionale.
Le caratteristiche principali di questa metodologia prevedono che :
- venga sviluppata principalmente da persone che abitano e vivono il territorio (con la collaborazione di ricercatori che facilitino la ricerca);
- agisca principalmente attraverso la ricerca e la rappresentazione degli
elementi emotivi ed affettivi che costruiscono l’identità del territorio e dei suoi
abitanti;
- lavori all’individuazione ed all’emersione di tutte quelle risorse e luoghi che
sono stati principalmente costruiti “dal basso” e che compongono una parte importante del “tessuto di connessione” delle reti e delle relazioni del territorio.
Il progetto di mappatura di Corviale che qui presentiamo, ha riguardato
prevalentemente i ragazzi e le ragazze del quartiere incontrati nei loro luoghi
di vita quotidiana, i quali ci hanno guidato alla scoperta del territorio, ci hanno
raccontato il loro punto di vista, i loro vissuti soggettivi e collettivi, i loro sogni,
i loro desideri e le loro paure, ci hanno quindi permesso di vedere e di leggere il
quartiere ed i suoi spazi con i loro occhi. L’utilizzo della musica, abbinata da loro
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ai diversi luoghi, permette di esprimere e di comprendere in maniera diretta il
vissuto emotivo e la “forza” che per loro questi luoghi rappresentano.
Il progetto si è articolato attraverso laboratori scolastici (svolti all’interno
degli istituti del territorio con la partecipazione degli alunni e degli insegnanti) che con una attività diretta di “esplorazione” (utilizzando principalmente lo
strumento della fotografia) degli spazi e delle diverse opportunità presenti con
i ragazzi più grandi del territorio, con una particolare attenzione ai luoghi di
aggregazione ed agli spazi comuni; questa azione si è svolta anche coinvolgendo altri giovani che vivono nel quartiere e/o che ne frequentano le strutture;
insieme ai ragazzi abbiamo raccolto anche voci e testimonianze degli adulti e
delle diverse realtà associative presenti sul territorio, cercando anche con loro
di evidenziare la componente emotiva del loro agire e del loro rapporto con i diversi luoghi (ricordi, storie e leggende legate al territorio, aneddoti, esperienze).
Al termine delle azioni di esplorazione e ricerca è stata creata una mappa
“sensibile” di Corviale con evidenziati tutti i punti riconosciuti come significativi
dai partecipanti, ad ogni “punto mappa” corrisponde un “box” interattivo che
contiene tutti i testi, immagini, suoni , voci raccolte e relative a quel luogo e che
nel loro insieme formano una sua descrizione oggettiva ed emotiva.
La mappa (su base di google map con la presenza di edifici tridimensionali) è stata appositamente realizzata su di una specifica piattaforma “on-line”
Heganoo, (interattiva ed in grado di supportare tutti i diversi contenuti multimediali) , questo al fine di renderla disponibile attraverso l’utilizzo di un qualsiasi dispositivo informatico e quindi facilmente fruibile dal maggior numero di
persone possibile interessate a conoscere e/od a scoprire il territorio di Corviale,
la sua storia , le sue risorse ed i suoi abitanti. Anche in questo caso il prodotto
finale (che per le sue caratteristiche tecniche si presenta come uno strumento “aperto”, quindi potrà essere aggiornato e modificato nel corso del tempo e
rimanere sempre “operativo”) può essere utilizzato dai cittadini e dai diversi
attori territoriali per conoscerne le caratteristiche peculiari, le attività e risorse
presenti e quindi per poterle più facilmente utilizzare; od al fine di progettare e
realizzare nuovi progetti o per rendere quelli presenti sempre più rispondenti
ai bisogni reali dei cittadini ed alla condizione e storia di Corviale.
4.4 Descrizione del progett0
Il progetto si è articolato su due binari paralleli, l’uno dedicato alla
mappatura emozionale con gli adulti e gli anziani del quartiere Corviale e
l’altro che si proponeva di leggere il territorio con gli occhi e i sentimenti dei
preadolescenti, riconoscendo e valorizzando anche le diversità di percezione e
rappresentazione originate dalla pluralità di origini geografiche e culturali degli
abitanti del quartiere. I due percorsi si sono intrecciati con un lavoro costante
di confronto e modellizzazione metodologica all’interno dell’ èquipe di lavoro. 56
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Entrambi i percorsi hanno utilizzato lo strumento della fotografia, che riteniamo essere un ottimo strumento per raccogliere il punto di vista soggettivo
degli abitanti. Quando scattiamo una fotografia, infatti, costruiamo un punto
di vista su una realtà, più che raccoglierla in maniera oggettiva, e possiamo
esprimere e riconoscere i colori e i sapori attraverso cui filtriamo il nostro vissuto sui territori. Per questo far fotografare i luoghi del territorio a diverse persone
e diverse generazioni, grazie al supporto di professionisti in grado di accompagnare all’uso del linguaggio fotografico, può offrire la possibilità di ricostruire
le diverse narrazioni emotive del quartiere con la sintesi delle immagini. L’altro
aspetto comune ad entrambi i percorsi ha riguardato la musica, eccezionale veicolo dei vissuti emotivi e ancora simbolica di momenti significativi, che ci ha
permesso di esplorare i vissuti emotivi collegati ai luoghi del quartiere abbinata
ai luoghi
Il progetto è durato un anno nel quale si è realizzato un laboratorio all’interno della scuola, nel contempo con gli adolescenti del centro di aggregazione
giovanile abbiamo fatto delle uscite facendoci guidare nei luoghi della loro “vita
di quartiere” esplorandoli dal loro punto di vista mentre con gli adulti, a partire
dal coinvolgimento delle forme associative già presenti sul territorio si è costruito un percorso che, attraverso interviste, metodologie narrative, ricostruzione
di storie, aneddoti e sempre attraverso l’uso dell’immagine, e andato a ricostruire i significati e i valori simbolici attribuiti ai diversi luoghi del Corviale.
4.5 Il laboratorio nella scuola
Il laboratorio nella scuola è stato svolto presso l’Istituto Fratelli Cervi, scuola secondaria superiore. È questa l’età infatti in cui i ragazzi cominciamo ad
esplorare e conoscere il territorio in autonomia specialmente nei contesti popolari e intrecciano le identità territoriali con la propria identità soggettiva in
costruzione. Inoltre, in un contesto come Corviale, dove l’identità territoriale
è molto forte ed è prevalentemente legata a un’etichetta negativa che rischia di
incidere sui processi di costruzione delle identità personali dei pre-adolescenti,
lavorare su questa identità ci ha permesso di restituire dignità e valore alle identità collettive e individuali. Per questa ragione accompagnarli in un viaggio di
lettura del territorio e della sua mappa simbolico - emotiva ha voluto significare
l’ accompagnarli in un viaggio identitario più vasto.
Il laboratorio è stato costituito da tre sezioni entro cui sono andate a svilupparsi le varie attività:
1. Auto narrazione, racconto del vissuto emotivo dei ragazzi rispetto al
quartiere e individuazione dei luoghi simbolo partendo dal loro punto di vista;
2. Conoscenza del territorio, della sua mappa sociale, della sua storia,
delle sue risorse e dei suoi problemi;
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3. Rappresentazione emotiva del territorio, rielaborazione di conoscenze
e vissuto in una rappresentazione che tenga conto anche dei loro vissuti, dei loro
bisogni e dei loro desideri.
4.5.1 Lasciare una traccia sul territorio
Il laboratorio nell’Istituto Fratelli Cervi ha avuto inizio, dal mese di ottobre per
terminare nel mese di maggio. Nella prima fase sono state svolte delle riunioni
di coordinamento e condivisione delle attività proposte e di approfondimento sul
progetto in generale. La professoressa Maria Bonajuto, insegnante di sostegno ed
il professor Marco Cesta, insegnante di italiano, si sono resi disponibili ad individuare, in base alla loro esperienza, la classe più adatta al percorso. La scelta è
ricaduta sulla classe 2A (anno 2014-2015). Nella classe erano presenti sia ragazzi
che abitano al Corviale sia ragazzi di Casetta Mattei.
Con i docenti abbiamo poi costruito e condiviso la programmazione degli incontri da svolgersi entro la fine dell’anno scolastico (giugno 2015). Alla fine del percorso è stata realizzata altresì, una mostra dei materiali realizzati, nella scuola al
fine della conoscenza e della condivisione del lavoro con tutti gli attori della scuola
stessa: insegnanti, dirigente scolastico, consiglio di istituto, operatori, genitori e
ragazzi delle altre classi.
Per ciascun incontro è stata sempre predisposta ed inviata ai professori una
“scaletta” di programmazione delle attività. Sono stati altresì predisposti, per
ciascun incontro, “strumenti” di attivazione e lavoro con la classe. In particolare
all’ inizio di ogni incontro è stato utilizzato lo strumento delle meteo- emozioni
invitando i presenti, a seconda del loro stato d’animo in quel momento, di dirigersi
sotto un’immagine o l’altra (le immagine erano quattro relative appunto al meteo;
soleggiato; nuvoloso; pioggia; temporale). È stata utilizzata altresì una “cassetta
dei pensieri” sul laboratorio per consentire agli studenti di lasciare un qualsiasi
tipo di messaggio agli operatori del laboratorio.
Il lavoro in classe ha avuto inizio con la conoscenza dei ragazzi, con la proposta
della “mappatura” delle provenienze, per passare al gioco dei Tipi tipici di Corviale
e Casetta Mattei, alla lettura emotiva del territorio.
Segue la descrizione completa e ragionata degli strumenti utilizzati nel corso del laboratorio.
1. La mappatura delle provenienze
Attraverso questo strumento abbiamo cercato di dare conto dell’eterogeneità
delle provenienze degli abitanti di Corviale e Casetta Mattei per poter poi lavorare
sulla diversità come risorsa e non come stereotipo
Obiettivo: permettere ai ragazzi ed alle ragazze di “raccontare” la propria
provenienza geografica, della propria famiglia. Coinvolgimento indiretto delle
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famiglie con richiesta ai ragazzi di “intervistare” i propri genitori.
Metodologia: discussione in gruppo, domande dirette.
Materiale: un cartellone bianco dove trascrivere e mappare le provenienze.
2. Le “mappe” del territorio di Corviale
Attraverso questo primo momento in classe siamo andati a rintracciare i l
movimenti dei ragazzi nel quartiere e la loro conoscenza dei luoghi di socialità
incontro ecc.
Obiettivo: permettere ai ragazzi ed alle ragazze l’individuazione dei luoghi di
abitazione, di socialità e di incontro nel quartiere.
Metodologia: discussione in gruppo, rappresentazione grafica.
Materiale: mappa del territorio.
3. Quiz a squadre
Avendo in classe ragazzi sia di Corviale che del limitrofo quartiere di Casetta
Mattei ci è sembrato importante condividere delle informazioni base sul quartiere, e anche legittimare la storia di Corviale come una storia degna di essere
raccontata anche se “giocando”
Obiettivo: incuriosire i ragazzi sulla storia del loro quartiere, ricostruzione
della storia.
Metodologia: suddivisione della classe in due gruppi ed attivazione del
gioco “quiz”.
Materiale: scheda con domande del quiz sul quartiere.
4. Tipi tipici
I ragazzi aderiscono molto facilmente agli stereotipi sui quartieri e quindi sui
loro abitanti, con il rischio di rimanere incastrati in gabbie e copioni già scritti
e di non riuscire a comunicare a fronte di culture locali diverse. Il lavoro legato
all’individuazione dei tipi tipici dei due quartieri di provenienza dei ragazzi ci
ha permesso di esorcizzare le etichette facendole emergere in maniera esagerata
per poi giocarci sopra. Ovviamente i tipi tipici di Corviale erano particolarmente
trasgressivi, duri, criminali, mentre quelli di Casetta Mattei sprovveduti, imbranati ecc. A partire da queste visioni è stato possibile dirsi che, al di là del
quartiere in cui abitano, le persone sono diverse e che specialmente possono
scegliere come essere.
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Obiettivo: permettere ai ragazzi di descrivere il personaggio tipico del loro
quartiere al fine di far emergere stereotipi e luoghi comuni.
Metodologia: suddivisione in gruppo e compilazione della scheda del tipo
tipico nella quale sono state inserite domande precise per la costruzione del
personaggio.
Materiale: scheda del tipo tipico.
Il tipo tipico:
Come lo chiamereste?
Quanti anni ha circa?
Cosa fa normalmente in una giornata tipo?
In cosa è davvero bravo?
Cosa ama?
Cosa proprio non sopporta?
La sua espressione più frequente…
Chi sono i suoi alleati?
E i suoi nemici?
5. Attribuzione delle musiche al territorio
Dopo aver effettuate le prime uscite direttamente sul territorio con i ragazzi
e dopo aver scattato molte foto con loro è stato possibile cominciare a riflettere sulla “colonna sonora” che attribuivano ai luoghi, e per questa via sulla
percezione emotiva che avevano su di essi.
Obiettivo: accompagnare i ragazzi e le ragazze nella scelta di brani musicali
adatti ai luoghi fotografati. Cercare di associare a ciascun luogo un brano musicale che possa trasmettere emozioni nel riascoltarlo e scorrendo le immagini di
quel luogo in particolare.
Metodologia: discussione in gruppo, fantasia guidata a occhi chiusi per individuare il sentimento sul luogo, ascolto delle proposte musicali effettuate dai
ragazzi.
Materiale: scheda di riepilogo/lettura sulle uscite; Foto scattate dai ragazzi,
musica.
6. Storia collettiva di due preadolescenti a Corviale
La rappresentazione narrativa della loro età a Corviale ci è sembrato un terre60
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no importante da esplorare, per questo motivo abbiamo proposto loro la costruzione di una storia che avesse come protagonisti due ragazzi della loro età del
quartiere, storia che ci permettesse di esplorare culture, copioni, ma anche desideri collegati alla storia fantastica
Obiettivo: proporre ai ragazzi la scrittura di una storia da “inventare” e
“costruire” durante i mesi di attuazione del laboratorio. Uno spazio per liberare
la fantasia e stimolare la creatività.
Metodologia: discussione in gruppo per dare inizio alla storia e decidere il
nome dei protagonisti della storia. Ognuno in qualsiasi momento può scrivere
un pezzo della storia unica regola è che bisogna continuare la parte scritta
precedentemente dal compagno.
Materiale: un cartellone dove dare inizio e continuare a scrivere la storia.
7. Gioco dell ’isola dei “Saranno Famosi”
A partire dai tipi tipici individuati precedentemente abbiamo immaginato un
percorso di integrazione dei diversi stereotipi all’interno di un gioco : l’”isola dei
saranno famosi”, dove i personaggi si sono trovati insieme, costretti a collaborare e qui i ragazzi hanno individuato punti di contatto tra i tipi tipici
Obiettivo: offrire ai ragazzi uno spazio per la costruzione di storie.
Metodologia: suddivisione e lavoro in gruppi.
Materiale: scheda del quiz “ Saranno Famosi”.
8. Costruzione delle “Leggende metropolitane”
Corviale è oggetto di diverse leggende metropolitane come quella che narra
che bloccherebbe il “ponentino” cambiando il clima di Roma. Il punto è che tutte
queste leggende metropolitane hanno un’ accezione negativa e contribuiscono a
costruire le etichette sul quartiere. Nell’ottica della rivalutazione del quartiere,
e con esso dei suoi abitanti, abbiamo chiesto ai ragazzi di costruire leggende
metropolitane che invece raccontassero eventi in positivo per poi “farle girare”
tra gli abitanti come antidoto allo stereotipo. Di qui l’emersione della storia del
ritrovamento del tesoro dell’imperatore Augusto a Corviale o della presenza
notturna degli alieni che avrebbero scelto Corviale come luogo eletto. Se ognuno
è anche la storia che su di lui si racconta, i ragazzi hanno pensato che Corviale
avesse bisogno di storie diverse
Obiettivo: offrire ai ragazzi uno spazio per la ricostruzione di storie realmente accadute o frutto di fantasia.
Metodologia: suddivisione e lavoro in gruppi.
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Materiale: fogli per la trascrizione della leggenda.
9. Le uscite nel quartiere
Durante le uscite nel quartiere fatte con i ragazzi e gli insegnanti abbiamo
chiesto ai ragazzi di dividersi in tre gruppi : 1) le guide ( tutti ragazzi di Corviale)
2) i fotografi 3) gli intervistatori . Cosi siamo andati a conoscere e fotografare
i luoghi di vita quotidiana e le realtà di servizio del quartiere ( la biblioteca, il
centro anziani, il calcio sociale, il comitato di quartiere ecc.) e abbiamo realizzato una serie di interviste che sono poi state inserite nella mappa interattiva
on-line . Inoltre su indicazione dei ragazzi abbiamo individuato una serie di
posti nel quartiere ( bar, parrocchia supermercato ecc.) dove lasciare, tra un
uscita e l’altra, delle scatole di scarpe con un messaggio nel quale si chiedeva
ai cittadini di mettere dei biglietti con i propri bisogni, desideri o le proprie
proposte e denunce relativamente alla vita di quartiere. I ragazzi si impegnavano successivamente a far arrivare queste voci al municipio ( cosa che è avvenuta
nella presentazione ufficiale del progetto). Con grande sorpresa dei ragazzi gli
abitanti hanno colto questa opportunità e nelle cassette sono stati trovati decine
di biglietti.
Obiettivo: dare spazio alle conoscenze di quartiere dei ragazzi di Corviale,
far conoscere a tutti le risorse del quartiere al di là degli stereotipi, esplorare la
socialità e i vissuti emotivi dei ragazzi.
Metodologia: uscite preparate nell’itinerario, nelle interviste e negli obiettivi precedentemente in classe con i ragazzi.
Materiali: scatola delle scarpe.
Per accedere alla mappa emotiva di Corviale on line potete utilizzare il seguente link: https://www.heganoo.com/node/20205 visualizzerete la mappa con evidenziati i luoghi maggiormente rappresentativi a livello emotivo e la rete delle associazioni identificati
dal lavoro di ricerca. Cliccando su ogni punto si aprirà un box che
contiene tutti i materiali (testi, audio, immagini) che formano la
descrizione del luogo stesso.
Cliccando sulle frecce laterali visualizzerete i luoghi in sequenza.
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Alla cavea di Corviale. © Molo7 Photo Agency
I ragazzi del Centro di Aggregazione Giovanile alla cavea di
Corviale. © Molo7 Photo Agency
Maria è una donna rumena che presta servizio civile presso
l’Arci e collabora a progetti su Corviale. © Molo7 Photo
Agency
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www.laboratorioformazione.org
[email protected]
Copia omaggio-vietata la vendita
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Educare in città, un percorso partecipato