23 Febbraio 2003
n. 7
10 Domenica
SPETTACOLI
il nostro
tempo
CINEMA/1 Il kolossal di Scorsese sulle radici violente della città
«Gangs of New York»
capolavoro a metà
A sinistra, Leonardo Di Caprio e Cameron Diaz in «Gangs of
New York» di Martin Scorsese. Sotto, una scena di battaglia fra le
due fazioni rivali che si spartiscono il territorio e, a destra, Daniel
Day-Lewis. In alto, ancora Di Caprio in «Prova a prendermi»
CINEMA/2
«Prova a prendermi»
truffa all’America
PAOLO PERRONE
Scomposto. Disequilibrato. Violento. Eccessivo.
Ipertrofico. Eppure, anche se solo a tratti, memorabile. Sono i primi aggettivi che vengono in mente
al termine della proiezione
di «Gangs of New York», il
film di Martin Scorsese interpretato da Leonardo Di
Caprio, Daniel Day-Lewis
e Cameron Diaz, costato
100 milioni di dollari, girato interamente a Cinecittà in sei mesi di riprese, più volte annunciato
sugli schermi e più volte
rimandato, per via di presunti contrasti fra il regista americano e la Miramax, la casa di produzione dei fratelli Weinstein, e
per la ferita ancora aperta dell’attentato alle Twin
Towers dell’11 settembre
2001. Una ferita, per nulla rimarginata, sulla quale non sembrava davvero
opportuno gettarci subito
sopra il sale urticante
di una pellicola aspra,
cruenta, accusatoria, intenzionata a scoprire le
luride radici di una città
dai mille volti e dalle mille
zone d’ombra.
La vera anima di New
York, per Scorsese, non
nasce solo dal sangue e
dal sudore di razze diverse, approdate nel Nuovo
Mondo dal Vecchio continente, ma anche e soprattutto dalla corruzione, dal predominio della
legge del più forte sulla
legge della democrazia ancora traballante e traditrice di metà Ottocento.
A Manhattan, infatti, nel
1846 le bande rivali dei
Nativi (protestanti, sbar-
LIBRI
Franco Montini
(a cura di)
IL CINEMA ITALIANO
DEL TERZO MILLENNIO
Torino, 2002, Lindau
pp. 287, 19,50 euro
Eppur si muove. E negli
ultimi due anni, anche velocemente. La conferma arriva dal successo di «Ricordati di me», il nuovo film di Gabriele Muccino fresco campione d’incassi. Così come,
in precedenza, da «La stanza del figlio», «I cento passi»,
«Le fate ignoranti», «L’ultimo bacio», «Casomai» e, ancora prima, «Pane e tulipani». Il nuovo cinema italiano, dopo anni di diffidenza
reciproca, è riuscito a ricreare un rapporto privilegiato
con il proprio pubblico. Alla sua “rinascita” e al ritorno d’interesse nei suoi confronti è dedicato questo accurato volume, che, articolato nei capitoli «I registi»,
«Gli attori», «Gli sceneggiatori», «I produttori», «I tecnici», «La critica», «Gli esordi» (con le schede di una
quarantina di opere prime),
mette efficacemente a fuoco gli elementi di novità e di
ricambio generazionale avvenuti un po’ in tutti i comparti produttivi della settima arte made in Italy.
a cura di Paolo Perrone
cati nel XVII secolo) e degli
immigrati irlandesi (i Conigli morti, comunità cattolica che vive sottoterra)
si scontrano al Five Points, la piazza in cui convergono le cinque principali
strade della città.
A trascinare le due opposte fazioni, da una parte
c’è William Cutting (DayLewis), detto Bill il Macellaio, dall’altra c’è padre Vallon (Liam Neeson).
La lotta per il predominio
territoriale è corpo a corpo, spada contro spada.
Asce, bastoni, pugni. Senza pistole. Senza fucili.
Padre Vallon viene ucciso
dal Macellaio sotto gli occhi del figlio, Amsterdam
(Di Caprio). Il bimbo trascorre sedici anni nel riformatorio di Hellgate, e
quando esce giura a se
stesso di vendicare la morte del padre. Incontra tramite amici irlandesi il Macellaio, che nel frattempo
è diventato il leader indiscusso del quartiere con
la complicità della polizia
e del capo del partito democratico, ne conquista
la fiducia, camuffando la
sua vera identità, e ne diviene il bracco destro, innamorandosi a sua volta
di una delle sue donne, la
ladra e prostituta Jenny
(Cameron Diaz).
«Gangs of New York»,
pur raccontando una storia individuale, è un film
corale sulla nascita di una
nazione. «L’America è nata nelle strade», recita lo
slogan scelto per lanciare
il film. E infatti «Gangs of
New York» è un ritratto
dal basso, una discesa negli inferi delle classi sociali più umili, un romanzo
epico, un affresco storico,
una pagina bianca su cui
motivi religiosi, profili etnici, risvolti politici e rimandi culturali si compenetrano senza sosta. Tratto dal libro omonimo del
giornalista Herbert Asbury, pubblicato per la prima volta nel 1927, ambientato durante la Guerra di secessione fra Nord
e Sud, nell’epoca in cui il
governo federale del presidente Lincoln promulgò la
legge di coscrizione obbligatoria, scatenando la rivolta dei diseredati e degli
immigrati, non solo irlandesi ma anche olandesi,
FICTION
tedeschi, polacchi, russi, il
kolossal nasce da un’idea
che Scorsese aveva cullato fin dal 1970 e tenuto
in un cassetto, pazientemente, per trent’anni.
Ricondotta, una volta
approdata nelle sale, dalle quattro ore originarie di
durata alle due ore e quarantacinque minuti conclusive, imposte, a quanto
pare, dalla produzione, la
pellicola del regista di «Taxi Driver», «Toro scatenato» e «Casinò» vive di momenti di splendido cinema
ma manca, nel complesso, di coesione, scioltezza
narrativa e autentico fascino. Ogni inquadratura,
in «Gangs of New York»,
è densa di folla, tumulti,
arredi, oggetti, ogni immagine odora di legno, sigari e stoffe, ogni sequenza
trasuda umidità balorda,
odio insaziabile, astuzie
fatali, vendette implacabili. Questa ricchezza di
messa in scena, che trova
nella straordinaria ricostruzione scenografica di
Dante Ferretti il vero polmone di tutto il film, si
rivela, però, paradossalmente, il suo stesso limite. Anziché limitarsi ad avvolgere le vicende narrate,
l’imponente predominanza scenografica si erge, in
effetti, ad assoluta protagonista, collocandosi in
primo piano, abbagliando
lo sguardo, invadendo ogni
fotogramma. E così, se la
cornice in cui si muovono i
personaggi è strabordante
di suggestioni, l’approccio
vicendevole fra gli stessi
protagonisti non ne possiede affatto l’identica pregnanza, con Di Caprio,
scialbo snodo nevralgico
della vicenda, surclassato
da un Day-Lewis dall’energia folgorante.
Cappello a cilindro sulla testa, un occhio di vetro, un paio di baffoni neri
all’insù, un vasto repertorio di coltelli pronti ad essere scagliati a raffica e a
conficcarsi ovunque, nelle carni del proprio nemico o sul legno di una parete: proprio la contradditoria figura di Bill il Macellaio, criminale generoso
e assassino fraterno, impersonata dall’attore inglese con stupefacente determinazione e inusitata
ferocia, prende il sopravvento su tutti e si trasforma nel polo d’identifica-
ANNA ABBATE
E’
zione obbligatorio per il
pubblico in sala. La veemenza magnetica davvero rara con cui Day-Lewis
affronta il ruolo del padre-padrone del Five Points impoverisce, di riflesso,
l’ambigua relazione che il
giovane Amsterdan intrattiene con lui. Una relazione tutta giocata, in sede di
sceneggiatura, sull’attrazione carismatica del Macellaio (e fin lì ci siamo)
ma sostenuta, sottotraccia, da una carica vendicativa altrettanto indomabile (che qui, invece, non
riesce ad affiorare).
A parte una splendida
sequenza in cui il Macellaio si confessa, quasi in
punta di lacrime, al suo
allievo, il rapporto fra i
due, su cui dovrebbe articolarsi tutto «Gangs of
New York», resta sostanzialmente inerte e inespresso. Il padre che non
è mai stato e il figlio che
non sarebbe mai voluto
essere, dunque, ci sono
solo a intermittenza, e il
loro rapporto, che dovrebbe grondare attrazione e
repulsione, senso di protezione e impulso omicida, raggiunge una certa
familiarità ma non riesce
a sfondare il muro dell’estraneità, restando a
galleggiare in superficie.
Un peccato. Non solo perché sminuisce la ben nota
abilità di Scorsese nel contrapporre magistralmente
ogni polarità umana, ma
anche perché sciupa, così, un sontuoso décor da
kolossal d’altri tempi e alcune scelte registiche come al solito di prim’ordine.
Certo, l’ingresso nella
New York del 1846 attraverso una porta presa a
calci, che immette subito
nel cuore della storia partendo dai bassifondi catacombali in cui vivono
i Conigli morti, resterà a
lungo nella memoria. Così come l’effervescente sequenza del lancio di coltelli alla Pagoda cinese,
con Jenny vittima sacrificale della perizia balistica
del Macellaio, è orchestrata da Scorsese con perfetta progressione emotiva,
al pari della mezz’ora finale del film, con il calco-
«Mai morti» e la Decima Mas
grande affermazione di civiltà
ERIKA MONFORTE
In certi momenti si ha
la sensazione che un film,
un libro o uno spettacolo
giungano assolutamente
necessari, che rappresentino una precisa risposta
al preoccupante diffondersi di sentimenti, movimenti, atteggiamenti culturali che esaltano le pulsioni più violente della natura umana. È il caso
del monologo teatrale «Mai
morti», scritto e diretto da
Renato Sarti, in scena dal
12 al 15 febbraio al Teatro
Garybaldi di Settimo Torinese.
Destato da immagini di
folla (i funerali per i morti
di Piazza Fontana), in una
notte contemporanea, un
uomo rievoca con fanatico
rimpianto la sua storia
di militante della formazione fascista tristemente
nota come Decima Mas.
Le parole che seguono, i
dati (soprattutto numeri
di morti, elenchi di sevi-
Protagonista Sergio Castellitto
Quasi sette milioni e
mezzo di spettatori hanno
seguito la fiction «Ferrari»
andata in onda su Canale5. Un risultato ottimo,
tenendo conto delle scelte
coraggiose degli sceneggiatori Carlo Carlei (che
ha firmato anche la regia), Mario Falcone e Massimo De Rita. Il film, infatti, non si è limitato a
una ricostruzione agiografica del più celebre costruttore d’auto del mondo, anzi sovente ha fatto
passare in secondo piano
le vicende professionali
per mettere in luce l’uomo
e la sua sfera privata. Proprio questo punto di vista, assai raro in analoghe
produzioni televisive, aveva convinto la famiglia del
costruttore a dare il beneplacito alle riprese, dopo
aver rifiutato per anni le
proposte dei più svariati
registi (tra i quali Sidney
Pollack).
Una decisione, quella
degli eredi, che deve essere stata assai sofferta:
se la vita “sportiva” di Enzo Ferrari appare trionfale, la vicenda umana è segnata da una serie di lutti
precoci (il padre, il fratello
durante la Grande guerra
e il figlio Dino affetto da distrofia muscolare) e dalle
tormentate vicende matrimoniali che sfociano nella
relazione extraconiugale
con Lina Lardi e la conseguente nascita del figlio
Piero. Il film non ha cercato di nascondere questi
aspetti intimi e complessi. Anzi, ognuno di essi
compare come controcanto, quasi a sottolineare
il sacrificio che ogni tappa della fortunata carriera dell’eroe (tale fu in effetti nel suo campo) ha richiesto all’uomo e chi gli
stava attorno.
Sergio Castellitto, dietro
gli occhiali scuri di Enzo
Ferrari, si è rivelato ancora una volta l’attore più
versatile e completo della
fiction nostrana, superando con abilità la difficile interpretazione di un personaggio assai riservato che
difficilmente lasciava trasparire le proprie emozioni («se un uomo non esprime emozioni, non significa che non ne ha», diceva Ferrari-Castellitto). Un
uomo combattuto, che solo alla fine del film, incalzato da un misterioso
cambiata la metropoli, fino alle due Torri Gemelle
svettanti nella skyline più
famosa del mondo, «Gangs of New York» risente
di brusche compattazioni
temporali, inevitabile residuo dei tanti metri di
pellicola finiti nel cestino
in sala di montaggio. E
pur nel suo sguardo impietoso, temerario e solenne, resta un capolavoro
mancato. C’era una volta
in America, ci dice Scorsese. Ma quel che c’era,
a metà Ottocento, puzzava pestilenzialmente di
marcio e colorava, tragicamente, di rosso.
Lo spettacolo interpretato da un ottimo Bebo Storti
TEATRO
Enzo Ferrari e la sua vita:
l’uomo al posto del mito
STEFANO FRASSETTO
lato spostamento d’interesse dal duello fra il cattivo maestro e il giovane
rampollo alla guerriglia civile che insanguina la città (con le aggressioni razziste, gli incendi in tutti i
quartieri e l’intervento dell’esercito).
Ma al di là delle lame fatte vibrare in aria o sferrate
a un millimetro dalla gola, dell’emblematica dissolvenza che stringe in
un pugno dalle cinque dita le cinque arterie del Five Points, o dell’immagine
conclusiva che in rapida
sequenza mostra, nei decenni successivi, come è
TUTTO
VERO.
Frank W. Abagnale
Jr. è realmente esistito, anzi vive tuttora felicemente nella sua patria,
gli Stati Uniti. La sua storia rocambolesca è raccontata in «Prova a prendermi», l’ultimo film di Steven Spielberg, interpretato dal divo hollywoodiano
del momento, Leonardo Di
Caprio, protagonista anche di «Gangs of New York»
di Martin Scorsese.
Tratto dall’omonima autobiografia (il best-seller
americano è edito in Italia
da Piemme col titolo «Prendimi… se puoi!»), il film,
campione di incassi in
queste settimane, racconta come un ragazzino di
soli sedici anni abbia potuto diventare, nel giro di
pochissimi anni, il più gio-
Sergio Castellitto in «Ferrari»
e inquietante intervistatore (quasi un fantasma del
passato dickensiano) confesserà che «il più grande
trionfo non vale un unghia
di un uomo». Un’affermazione tesa più a convincere se stesso che l’interlocutore.
Oltre agli interpreti, «Ferrari» si è dimostrata una
fiction di qualità nella regia e nella fotografia. Alcune riprese “a volo d’uccello” delle campagne emiliane al tramonto, tagliate in
due dal bolide rosso, sono
piccoli gioielli che meriterebbero uno schermo più
grande del ventun pollici.
zie) procedono lungo un
filo di memoria che parte
dall’occasione mancata di
rendere l’Italia, attraverso
la strategia della tensione
e il “Golpe Borghese” (il
capo indiscusso di quella
X Mas), un regime di colonnelli come la Grecia; il
filo viene poi srotolato per
tornare alle “gloriose” imprese d’Etiopia (il vergognoso uso di gas tossici
sulle popolazioni civili e i
massacri spaventosi, come l’eccidio della comunità copta di Debrà Libanos) per giungere a sciorinare, come in un rosario di morte e di violenza,
le gesta degli “eroi” della
Decima Mas (di cui «Mai
morti» era il nome di uno
dei più spietati battaglioni). Il tutto reso ancor più
inquietante dalla convinzione della possibilità di
una rinascita, di un ritorno all’attività, certificato
da piccoli e grandi eventi:
dal “passaggio” in televisione, in un pomeriggio di
inizio 2002, dell’inno della
“banda”, con tanto di pubblico stolidamente plaudente, agli episodi di violenza e repressione del G8
di Genova, in un clima di
revisionismo generale, la
cui diffusa superficialità
fa perdere le coordinate
della storia e della memoria.
Quella che si alza dal
letto in cui dorme il carnefice “mai morto”, interpretato da un ottimo Bebo
Storti, non è allora solo la
figura di un uomo spietato e inseguito dai suoi fantasmi, ma è la vera e propria immagine di una memoria nuda, che cerca di
rivestirsi. Ma la memoria
nuda si riveste in due modi: quello ideologico, simboleggiato in scena dalla
lenta vestizione di un’uniforme fascista, e quello
storico, che ricopre di dati certi, sconvolgenti, indiscutibili, il corpo del passato, e lo erge in tutta la
sua fisicità contro l’odierna e diffusa voglia di liquidare con un’assoluzione
totale (simile a quella accordata dai tribunali subito dopo la guerra) una
parte pesante della nostra
Bebo Storti, protagonista del monologo teatrale «Mai morti»
storia recente.
Tra le altre peculiarità
di questo testo di Renato
Sarti, già autore di un importante monologo ispirato alle vicende della Risiera di San Sabba, lager nazifascista tutto italiano, vi
è la capacità di porre in
evidenza, con ironia non
forzata, alcune gravi contraddizioni di una certa
ideologia oggi sempre più
tollerata. «Patriota», si definisce il carnefice, mentre tortura, al servizio dei
tedeschi, i partigiani italiani; «Dio, Patria e Famiglia» sono i punti cardinali del suo agire, salvo
poi vantarsi di un numero impressionante di preti seviziati e massacrati e
affermare con tracotanza:
«Siamo pronti ad uccidere
la nostra stessa madre e
ad inchiodare Cristo ad
una seconda croce».
Il nostalgico, e per certi
versi patetico reduce di
Salò, non farebbe più di
tanta paura se non sapessimo quanti adolescenti,
in ogni parte d’Europa,
esaltando i fasti del Ventennio, sostengono con invasata convinzione idee
xenofobe, maschiliste, e
nazionaliste, e se non
avessimo visto i diari di
tanti studenti, anche liceali, decorati da svastiche,
fiamme tricolori e “santini” di Hitler e Mussolini.
Ecco allora perché il lavoro di Sarti, che ha su-
scitato ovvie polemiche e
contestazioni di neofascisti, va lodato non tanto
come atto politico, ma soprattutto come vibrante
affermazione di civiltà.
MILANO
Una mostra
di fumetti
e dischi
Per tutti gli appassionati torna a Milano «Fumettopoli». L’1 e 2 marzo,
presso l’Hotel Executive
(viale Sturzo 45) si svolgerà dalle 10 alle 20 la nona edizione della mostra
mercato dedicata a fumetti, libri, film, colonne sonore, Cd, Dvd e gadgets,
tutti di argomento fumettistico, oltre ai dischi di vinile, non solo riguardanti
gli eroi di carta ma anche
di idoli pop e rock dagli
anni Cinquanta a oggi.
Saranno allestiti un centinaio di stand per un’autentica full immersion nel
mondo della fantasia. I
visitatori riceveranno in
omaggio un albo speciale
inedito, creato appositamente per la manifestazione. Per informazioni:
www.fumettopoli.com.
vane e astuto truffatore
d’America: sembra incredibile, ma a diciannove
anni Frank aveva già rubato ben quattro milioni
di dollari.
Siamo negli anni Sessanta. Frank fugge di casa il giorno del divorzio dei
suoi genitori. In tasca ha
solo un libretto di assegni
scoperto. Nient’altro. Molto in fretta scopre che riesce a sopravvivere usando
il suo fascino, la sua intelligenza e le sue qualità camaleontiche: inizia la sua
carriera di truffatore falsificando assegni che incassa distraendo l’attenzione
di giovani e ingenue cassiere con imprevisti e svariati inviti a cena. In più
non lascia tracce evidenti
dietro di sé perché, appena ottenuti i contanti, se
ne va in un altro stato,
possibilmente sulla costa
opposta: travestito da pilota della Pan Am attraversa più volte l’America
da Est a Ovest e viceversa: difficile stargli dietro.
Ma i travestimenti di
Frank/Leonardo non finiscono qui: si finge, e sempre con successo, professore, agente segreto, medico, avvocato, senza destare mai alcun sospetto.
Come fa? Da chi impara?
Guarda la televisione: la
sua facoltà di medicina
sono i telefilm del «Dr.
Kildare», quella di giurisprudenza le imprese forensi a puntate di «Perry
Mason»… Tutto fila liscio,
finché sulle sue tracce si
mette un ostinato agente
dell’Fbi addetto alle frodi
fiscali e alle falsificazioni,
che lo insegue con accidiosa ossessione da un capo
all’altro del continente: è
Carl Hanratty, interpretato con grande padronanza dal sempre più bravo
Tom Hanks, che, vestito
alla «Blues Brother», presta la sua faccia qualsiasi
a un personaggio più sfaccettato e complesso delle
apparenze.
Il poliziotto è il contrario di Frank: onesto e niente affatto disinvolto, anzi
molto impacciato, ma dotato di una ferrea volontà e
di una rigorosa intelligenza. Si metterà sulle sue
tracce senza dargli tregua.
Tra i due nascerà, come
spesso accade, un profondo senso di rispetto e ammirazione reciproca (e forse anche ciascuno per l’altro finirà per rappresentare una specie di famiglia),
che li condurrà verso il lieto fine, che si impegna a
dare concretezza alle speranze dello spettatore, che
in un empito di simpatia
per entrambi non vuole né
vincitori né vinti.
Dopo il dittico “futuribile” di «A.I.» e «Minority Report», con «Prova a prendermi» Spielberg mette in
scena uno dei film minori
della sua vasta filmografia: tutto ciò non toglie nulla al film, che peraltro è
una commedia godibilissima, sostenuta da un buon
ritmo dall’inizio alla fine,
interpretata alla perfezione da due superstar come
Leonardo Di Caprio e Tom
Hanks, che si confermano
fra gli attori più ispirati
ed eclettici del panorama
internazionale. Infine, una
menzione speciale va anche a Christopher Walken,
nella parte del padre di
Frank: un personaggio di
evasore fiscale spiritoso
e malinconico, un eterno
perdente sfortunato vittima dei suoi stessi imbrogli, che l’attore interpreta
con grande profondità.
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