Da ‘Tra le Righe’ --- di Chiara Rodeghiero
Butter
A Gigi,
che mi conduce
in emozionanti
giri ispiratori
al parchetto
Butter era sempre stato un cane felice. Il suo padrone si premurava di non fargli mancare nulla: lo
coccolava, lo nutriva con bistecche di manzo, a volte gli cucinava lo spezzatino, l’accompagnava
fuori cinque volte al giorno, gli lustrava il pelo e lo accoglieva nel suo letto a dormire. Inoltre gli
regalava palline rumorose, ossi anti-alitosi, e una volta al mese gli invitava a casa qualche cagnetta.
Era la vita comoda di un cane agiato, nulla da dire, ma fu durante il suo ottavo anno di vita che
Butter scoprì qualcosa che lo cambiò per sempre.
Una sera se ne stava accucciato sul divano col padrone, davanti alla televisione accesa. C’era un
film, e il protagonista sembrava essere proprio un cane, un bellissimo pastore tedesco. L’animale
sfilava per lo schermo fianco a fianco col suo padrone, e passeggiavano così, per la città, per le
campagne, ovunque. Butter fu subito colpito da un particolare, che lo lasciò allibito. Quel cane non
portava il collare, né il guinzaglio: nulla lo legava al padrone. Erano due individui separati che
camminavano vicini, e non c’era nessuno dei due che tenesse l’altro legato. Come mai?
Abitando in città, Butter era abituato a camminare legato. Il padrone lo guidava in emozionanti giri
attorno all’isolato, e Butter dimenava la coda felice. Più d’ogni altra cosa gli piaceva fare la pipì sul
paraurti delle auto posteggiate. Si era inventato addirittura un gioco: ogni giorno sceglieva un
colore, e prendeva di mira solo le auto di quel colore. Il padrone, educato, si fermava a seconda dei
suoi bisogni, rispettando i suoi tempi.
Il collare e il guinzaglio erano il simbolo stesso della passeggiata, una sorta di cordone ombelicale
che lo univa al padrone. Solo quando glieli metteva addosso Butter sapeva che si usciva, ed iniziava
a scodinzolare. Come faceva il cane della televisione a regolarsi, allora? Insomma, è un po’ come
vedere un semaforo che lampeggia di viola e non sapere se attraversare o meno.
Butter cercò di non pensarci, ma la cosa lo sconvolse tanto che quella notte non riuscì a dormire.
Forse il mio padrone non si fida di me, si diceva.
Nei giorni seguenti continuò a rifletterci e smise di mangiare.
Nelle solite passeggiate ora Butter si trascinava di malavoglia con la coda moscia. Non toccava più i
suoi giochi, né il cibo, e la notte non chiudeva occhio. Nel giro di una settimana era dimagrito di
qualche chilo e gli erano venute le occhiaie, anche se col pelo non si vedevano.
Il padrone lo portò dal veterinario, che lo visitò dalla testa alla coda, ma non seppe diagnosticare
nulla. Faremo delle analisi, mi porti un campione di cacca, disse infine.
Butter, che aveva qualche problema con la lingua umana, capì tutt’altro.
Temo la paralisi, mi porti il Campione in una sacca.
Ovviamente il ‘Campione’ in questione era lui, fino a quel momento solo il suo padrone l’aveva
chiamato così. Succedeva quando giocavano... Ei, Campione, prendi la palla! Ei, Campione, molla
l’osso!
Come si permette il dottore tante confidenze, pensò Butter indignato. D’altra parte ciò che più gli
dava pensiero erano le tragiche previsioni del veterinario sul suo futuro. Sarebbe morto di lì a poco
paralizzato e gettato in un sacco della spazzatura!
1
I giorni seguenti Butter si lasciò andare completamente. Se ne stava tutto il tempo rannicchiato nella
sua cuccia senza fare nulla. Il padrone era esasperato, cercava di farlo rinsavire in tutti i modi. Gli
offrì della soppressa, salsicce di bufalo, cosce di vitello, enormi costate di maiale, gli regalò palline
parlanti e cagnoline gonfiabili, ma nulla da fare. Butter non si moveva. Ormai aveva deciso che
avrebbe aspettato la morte in quella cuccia. E pensare che era cominciato tutto per un collare e un
guinzaglio! e poi aveva scoperto di essere ad un passo dalla morte...
Butter era così debole che ormai anche volendo non sarebbe riuscito a muoversi dalla sua
postazione.
L’ultimo tentativo del padrone fu regalargli un collare nuovo, con una medaglietta d’oro col nome
inciso. Un tempo Butter sarebbe saltato su in un baleno, riconoscendo che era l’ora della
passeggiata, ma quella volta fece l’incontrario, nascose il muso sotto le zampe, e il padrone decise
di rinunciare.
Quella sera il padrone invitò a cena la sua fidanzata, perché era il loro anniversario. Non aveva un
granché voglia di festeggiare in realtà, perché vedere il suo cane così gli metteva tristezza.
La ragazza entrò, e salutato calorosamente il padrone si precipitò alla cuccia di Butter, preoccupata.
Ma il cane si ritrasse, svincolandosi dalle sue carezze. Non l’aveva mai sopportata, quella femmina.
Troppe volte veniva a rompere la tranquillità di quella casa, inoltre aveva preso la malsana
abitudine di fermarsi pure a dormire. E quando c’era lei, il padrone non aveva occhi per nessun
altro. Addirittura chiudeva la porta della camera e Butter era obbligato a passare la notte nella sua
cuccia.
Butter la odiava. Era geloso perché anche con lei il padrone andava a fare lunghe passeggiate.
Anche per lei cucinava golose pietanze. Anche a lei comprava dei giochi, pupazzi, gingilli, fiori e
altro. Anche con lei divideva il suo letto.
Butter sentiva che il suo padrone la amava molto, forse più di quanto amasse lui...
Si erano seduti a tavola, i due, uno di fronte all’altra, e si guardavano tenendosi la mano.
Ad un certo punto lui disse, Amore, ho una sorpresa per te.
Butter nella sua cuccia faceva l’indifferente ma in realtà friggeva di gelosia. Siccome aveva dei
problemi con la lingua umana, capì Amore, ho una soppressa per te.
Ecco, pensò Butter, io sto morendo, e lui già offre a quella la mia eredità. Le regalerà anche le mie
palline...
Chiudi gli occhi, disse il padrone alla fidanzata.
Sputa gli ossi, tradusse Butter.
Il padrone si alzò da tavola e andò in camera. Lo si sentiva ravanare nell’armadio, strano posto per
il salamone, pensò Butter.
Lei intanto, seduta al tavolo, sorrideva piena di aspettative e aveva chiuso gli occhi, sicuramente
pregustava una grande mangiata di soppressa.
Il padrone le arrivò alle spalle e mentre lei aveva ancora le palpebre serrate, si mise a trafficare sul
suo collo. Butter non riusciva a vedere bene dalla sua postazione, ma un pensiero gli balenò in testa.
Che quello della soppressa fosse un trucco e in realtà volesse strangolarla? Ancora aveva le mani
sulla sua nuca, ma i movimenti sembravano troppo dolci per sembrare un tentativo d’omicidio.
Posso aprire gli occhi? chiese lei in un sussurro.
Mordo prima gli ossi? capì Butter. Tsè, che donna pessima! Preferire gli ossi alla soppressa!
Lei aprì gli occhi, e si guardò il collo. Poi cominciò a fare urletti e alzandosi in piedi con un balzo
saltò addosso al padrone, lo avvolse con le braccia e lo baciò appassionatamente esibendo
chilometri di lingua.
Fu allora che Butter riuscì a vedere cosa portava la donna al collo. Era un bellissimo collare d’oro
che emanava bagliori per tutta la stanza.
Ecco, ora m’hanno proprio rimpiazzato, si disse Butter. Ha pure il collare adesso! E ora se ne
andranno a passeggiare...
Invece i due si chiusero in camera da letto e non ne uscirono fino all’indomani.
Bah! Strano, pensò Butter. Le mette il collare e poi vanno a dormire...
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Con le idee sempre meno chiare sui fatti della vita, Butter si rannicchiò di nuovo nella sua cuccia e
finalmente, dopo tante settimane, riuscì a dormire.
3
I venditori di personalità
Esisteva un tempo un lavoro chiamato il Venditore di Personalità.
Si aggiravano per la città dei tipi loschi, il corpo avvolto da un lungo impermeabile nero e il volto
quasi interamente nascosto sotto un enorme cappello, anch’esso nero.
Si appostavano dietro l’angolo, nei pressi di supermercati, banche e uffici. Stavano lì, guardinghi,
ad aspettare clienti.
Ovviamente erano dei fuorilegge, e dovevano ben guardarsi alle spalle, specie in quel periodo…
Certo, non era più come prima, quando i venditori di personalità potevano circolare liberamente e
concludere affari senza problemi. Mentre ora gli Uomini in Divisa davano loro la caccia…
In effetti il loro mestiere aveva provocato qualche piccolo danno alla società negli ultimi tempi…
D’altra parte loro non facevano altro che dare alla gente ciò che voleva! Nient’altro che un po’ di
felicità! Che c’è di male?
Un Venditore di Personalità ha sempre tanto lavoro: incredibile quante siano le persone scontente
di sé, che darebbero il proprio stipendio di dieci anni di lavoro per cambiarsi!
E allora, libretto degli assegni alla mano, basta scendere in strada e rivolgersi a uno di quegli
strani individui tutti neri… Ormai ce n’è uno dietro ogni angolo. Chiunque ci può andare… Be’
certo bisogna avere un bel po’ di denaro, i loro servizi sono alquanto cari, ma dicono che sia un
buon investimento…
Diventi un uomo nuovo.
Alla lunga, le richieste ai Venditori erano sempre le solite.
Facilmente si potevano suddividere i clienti in otto determinate categorie: c’era il Perdente, che
chiedeva di diventare fiero, orgoglioso e di riuscire ad affrontare il mondo a testa alta; il Timido,
che voleva essere più estroverso ed intraprendente; il Tranquillo, l’Annoiato e -categoria ancor
peggiore- l’Amorfo, che chiedevano più brio e vivacità nella loro vita. Poi c’era l’Insicuro, che
voleva acquistare una maggiore caparbietà, e lo Sfigato, che sognava di trasformarsi in un ganzo.
Infine c’era la categoria del S.R. (SessualmenteRepresso), che comprendeva Impotenti e Segaioli,
aspiranti a diventare stalloni da primato…
A volte si presentavano dai Venditori certi individui, vittime dell’autocommiserazione, che se ne
stavano a rigurgitare i loro problemi psico-socio-sessu/coniugali per ore e ore. Ovviamente, la
tariffa per loro aumentava salatamente, dato che gli sfoghi troppo lunghi erano da considerarsi come
extra, in quanto rientrava nei compiti dello psicologo più che del Venditore di Personalità…
In ogni caso, la gente se ne tornava a casa col portafoglio prosciugato, ma soddisfatta e convinta di
aver fatto un vero affare!
Dev’essere una bella sensazione diventare quello che hai sempre voluto essere…!
Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Ormai in giro non si vedevano più né timidi né sfigati. Erano
tutti bulli, audaci e forti. Nessuno voleva sottomettersi a nessuno, ognuno voleva dettare le proprie
leggi ed era convinto di essere nel giusto. Non c’era tregua, era una guerra tra vincitori. Si arrivò
all’intolleranza più totale e alla prepotenza. Il tutto si trasformò in un pandemonio, e le persone
finirono per odiarsi l’una con l’altra.
Per non parlare degli episodi di delinquenza generale che si susseguirono in quel periodo!
I Perdenti erano diventati Vincitori, e si trovavano ogni pomeriggio in piazza, davanti alla Loggia
del Municipio, ad insultarsi per cause inesistenti e darsele di santa ragione. Ognuno di loro si
sentiva il paladino della giustizia!
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I Tranquilli e gli Annoiati avevano portato la loro voglia di sentirsi vivi all’esasperazione
diventando teppisti di strada: scippavano le vecchiette, rubavano le biciclette e rapinavano
supermarket. Gli Amorfi si erano dati alla vita estrema, dentro un circolo vizioso sempre alla ricerca
dello sballo peggiore…
Gli Insicuri invece erano diventati così sicuri di sé e convinti delle proprie ragioni, che spesso nelle
pagine dei quotidiani si potevano leggere trafiletti come questo: “Commerciante ottantenne durante
una riunione dell’Associazione Fruttivendoli Riuniti (AFR), espone chiassosamente la propria
opinione contraria a proposito dell’aumento di prezzo delle patate. Per protesta lancia frutta e
ortaggi addosso a tutti i presenti e si lega ad una pianta di patate piangendo e urlando ‘la patata è
vita!!’. L’aumento di due centesimi verrà comunque applicato su tutte le patate in commercio”.
Almeno lo Sfigato non aveva creato più di tanto scompiglio nella società: si limitava ad andare in
giro per le strade vestito esclusivamente-grandi-marche e con gli occhialini neri da vip palpando il
culo alle ragazze.
E poi c’erano i Sessualmente Repressi, che si erano trasformati nei peggiori stupratori di borgata. Si
infilavano tra le cosce delle bambine come delle ultranovantenni. Non si rendevano quasi neanche
conto della differenza, tanto erano maniaci ed assatanati.
La città e i suoi abitanti erano arrivati alla degenerazione più completa: regnava il caos.
Tutti. Si sono trasformati tutti.
Ormai qui in città non c’è più nessuno che sia rimasto sé stesso. Conoscevo della gente, forse avevo
degli amici, ma ora…? Non so più chi siano.
Forse sono l’unico che ha resistito alla tentazione.
In città non si poteva più girare l’angolo, che ci si trovava inevitabilmente davanti ad un Venditore
di Personalità. Era una figura inquietante, tutta nera, con quello sguardo scuro che si intravedeva
sotto il cappello.
Ce n’erano sempre di più, stavano popolando la città. Gli angoli non bastavano più, così iniziarono
lentamente ad espandersi e si piazzarono anche davanti ai portoni dei palazzi.
Figure silenziose, solenni, quasi immobili; si direbbe che stonavano in quella città di disordine.
Bisognava guardarsi bene intorno prima di avvicinarsi ad un Venditore. Si sapeva benissimo che
tutti lo facevano, ma bisognava essere sempre cauti, non si sa mai… Potevano esserci degli Uomini
in Divisa nei paraggi! Proprio quella mattina, il telegiornale delle sette e trenta aveva mandato in
onda, in diretta esclusiva, l’appello del Sindaco che esortava vivamente i cittadini a ‘stare alla larga
da traffici illegali di personalità’, ricordando loro che ‘si trattava di un gravissimo reato perseguibile
a norma di legge, e chiunque fosse stato colto in flagrante avrebbe pagato dure conseguenze’.
Assicurava inoltre che ‘le autorità competenti avrebbero preso in mano la situazione per ristabilire
al più presto la quiete pubblica’.
Ormai la dolce signora aveva deciso che anche per lei era tempo di cambiare: perché stare sempre
lì a casa ad aspettare il marito, a preparargli nobili pietanze su tavole imbandite? Perché
preoccuparsi dei figli, se non vogliono studiare, o se hanno la febbre? perché lavare mutande e
calzini per tutti? Perché preoccuparsi pure per la nonna decrepita? e migliaia di altri perché…
Annoiata dalla vita. Categoria numero quattro. Era ora di cambiare.
Persino mia moglie. Mi aveva detto che lei no, non ci sarebbe mai andata da quegli strozzini rubaanima, ma è così cambiata, che non la riconosco più. Prima era dolce, quasi fragile. Ora è… dura.
E poi mancano tanti soldi nel fondo pensione: dove sono andati?
Non la riconosco più.
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Tutto così semplice. I venditori, da bravi commercianti sapevano ascoltare, sapevano farti sentire a
tuo agio, e infine sapevano consigliarti la personalità che più si adattava a te, come un commesso in
un negozio di abbigliamento che ti aiuta a scegliere l’abito per la sera.
Incredibile! Niente imposizione delle mani, niente formule magiche in latino, del tipo opus
digitorium ecc., nessuna ascensione né discensione di alcun tipo di spiritello. Niente!
Avvenne e basta! Alla dolce signora parve che nulla fosse accaduto. Semplicemente nel momento
in cui lui glielo chiese, scambiò i suoi soldi con una nuova signora, un po’ meno dolce e più dura.
Mia moglie se n’è andata, dice che ha bisogno di più tempo per sé.
I miei figli sono giù, in piazza davanti alla Loggia del Municipio, a fare a botte con altri valorosi
guerrieri per non so quale ragione.
Lo scompiglio in città aumentava di giorno in giorno. Sembrava che le autorità avessero
dimenticato quale fosse il proprio ruolo, e gli Uomini in Divisa, che avrebbero dovuto ristabilire
l’ordine, si erano invece aggregati alla massa di rivoluzionari-di-cause-perdute. Alcuni di essi si
dilettavano a importunare prestanti donzelle o a distribuire multe senza motivo, soltanto per il gusto
di creare discordia.
Intanto ogni edizione del telegiornale riportava il solito appello perentorio, tutti i giorni.
Non faceva più effetto a nessuno, tanto meno al Sindaco stesso che, stanco dopo quarant’anni di
lavoro a servizio del popolo, aveva ben pensato di prendersi una pausa. Aveva quindi acquistato con
i fondi comunali una personalità hippy nuova di zecca, ed era partito on-the-road a bordo di una
due-cavalli, verso la California.
Tuttavia il Sindaco continuava ad apparire incessantemente in tv, col suo solito discorso registrato:
rassicurante testimonianza che un buon pastore non abbandona mai il suo gregge di pecorelle
impazzite…
Ho deciso, sono stanco. Voglio cambiare la mia vita. Sono un perdente: mia moglie mi ha lasciato
e anche i miei figli sono stanchi di me.
Perdente. Categoria numero uno.
Forse l’unico modo per capirci qualcosa è integrarmi in questo branco di dannati.
Basta! Spengo il televisore, ormai la ramanzina del Sindaco la conosco a memoria. Esco.
Non c’è bisogno che faccia molta strada. Ce n’è uno appostato davanti al portone del mio palazzo.
Sguardo nero, come l’impermeabile, mi mette angoscia. Se ne sta ritto, impassibile, incurante del
caos circostante. Sembra vivere in una realtà parallela, fatta di immobilità.
“Voglio una doppia personalità” dico, ed è quello che voglio; almeno credo. Potrò fare il doppio
delle cose con due personalità, e se mi andasse male con una, avrò sempre la seconda di scorta...
Il venditore mi fissa. “Ti costerà il doppio se ne vuoi due.”
Il fondo pensione è ormai misero, così cerco di trattare.
“Abiti qui?” mi chiede indicando il palazzo sopra di noi. Annuisco. Dice che gli abitanti del suo
(ha detto suo!!) palazzo hanno diritto ad uno sconto del venti per cento.
Accetto.
Non succede nulla. Mi aspettavo come minimo un rito vodoo, e invece mi chiede l’assegno ed è
tutto finito.
“Ma come, è tutto qua?” chiede una parte di me.
“Eh, a quanto sembra! Però intanto sei economicamente rovinato!” risponde l’altra parte di me.
6
“Be’ almeno a quanto vedo siamo in due…” ribatto a me stesso.
Ed ora? Cosa posso fare con due personalità?
Potrei stare qua chiuso in casa a fare botta e risposta tra me e l’altra parte di me, e fare la gara
per vedere chi è il più forte.
Potrei fare il gioco dei quiz e scommettere chi tra noi risponderà prima.
Potrei raccontare le barzellette al mio alter ego sperando che rida…
Potrei stare qui, io e me e me e io, e non ci sentiremmo mai soli.
Due parti opposte di me, due metà della mela.
Ad una darò il nome di Sopravvivenza.
E’ la più tranquilla delle due: non si lamenta quasi mai e prende tutto ciò che viene senza farci
particolarmente caso. Tutto le scorre addosso, ma niente le fa né caldo né freddo.
Ormai si è arresa alla situazione che la circonda ed ha accettato di adeguarsi ad essa. Non soffre,
ma neppure gioisce. Non vegeta, ma neanche vive: semplicemente sopravvive!
L’altra parte invece è passionale e ribelle . Si chiama Indipendenza.
Irrequieta, critica ogni cosa e vorrebbe rivoluzionare il mondo. Ha continui battibecchi con
Sopravvivenza, la quale l’accusa di non accontentarsi mai di niente.
“Almeno io ho più dignità di te!” risponde Indipendenza offesa. “Tu accetti tutto e non hai il
coraggio di opporti! Non fai niente, ti limiti a rimanere a galla, come una boa nel mare. Vivi in un
limbo che è molto lontano da ciò che io chiamo vita…”
Indipendenza soffre, non è felice. Vorrebbe andare alla ricerca di una realtà diversa, più pura.
Decido che forse è arrivato il momento di lasciarla andare, di darle respiro.
Seguirà parallela il mio cammino, sempre parte di me, ma senza vincoli allo stesso tempo.
E’ così che ho comprato dal venditore la mia libertà.
Voglio dare a Indipendenza un’altra opportunità al di fuori di questa città ormai nera come
l’impermeabile nero dei venditori.
Che ormai si sono presi tutto ciò che un tempo era nostro.
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Amici
Avevo un grande amico: ci trovavamo ad un bar, sempre alla stessa ora e facevamo dei discorsi
lunghissimi. Parlavamo per interi pomeriggi. Mi piaceva il suono di quello che gli usciva dalla
bocca, lo stavo ad ascoltare per ore senza interromperlo, finché arrivava il mio turno. Allora lui
faceva lo stesso con me, sembrava si saziasse delle mie parole. Non commentavamo mai i discorsi
dell’altro, ci agganciavamo così, come aggiungendo note musicali ad un unico pentagramma.
Eravamo due strumenti diversi che si alternano in una melodiosa sinfonia. Io ero l’oboe, lui
sicuramente il clarinetto.
Poi il mio amico un giorno sparì: credo sia tornato nel suo paese, in Cina. Forse me lo disse durante
la nostra ultima conversazione, ma non posso saperlo. Non conosco il cinese, come lui non
conosceva una parola della mia lingua.
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