Riccardo Becheri
I SONETTI DI SHAKESPEARE
Prato 2004
©Tutti i diritti riservati all’autore
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Prato 2004
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INDICE
INTRODUZIONE
Pag. 5
1Questo è il mio mondo
2Erano anni
3E se
4Ho una famiglia
5Data una scorsa
6Non devo
7LINGUA INGLESE
8SONETTO E ENDECASILLABO
9RIMA E STROFE
10I grandi letterati
11Qui alla fine
SONETTI
Pag. 45
3
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INTRODUZIONE
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1 - Questo è il mio mondo, non quello di Shakespeare.
Anzi, per completare con frasi che suonano orgogliose e
sono invece disincantate se non disperate, aggiungo che
quando, mai e per sempre, questi miei sonetti dovessero
essere stampati, non devono essere stampati nello stesso
volume col testo inglese originale. Di più: il mio nome deve
comparire bene in alto come nome dell’autore e il titolo
dell’opera deve restare I sonetti di Shakespeare. Chi fosse
tentato di fare riscontri, si procuri una delle molte edizioni
dei Sonetti di Shakespeare.
Aggiungo ancora che ritengo questi miei sonetti un
acquisto imperituro della poesia italiana, degni di diventare
un classico nella nostra tradizione.
Ammesso che una tradizione continui. E ammesso che la
poesia, italiana o straniera, non sia già morta da tempo.
Questo è il disincanto, o la disperazione.
In verità fra questi due termini c’è una contraddizione
profonda e come tale la vivo. Se penso a un mondo senza
Dante e senza Shakespeare sono preso dallo sconforto. Se
invece penso a un mondo senza storie letterarie, senza
tradizioni accademiche e senza poeti per forza, mi sento
come disincantato, libero e leggero. Ma di questo voglio
parlare alla fine, come conclusione naturale delle mie
riflessioni. Ora dirò perché e come mi sono deciso a tradurre
i sonetti di Shakespeare e subito dopo stenderò qualche
considerazione sulle traduzioni di poesia dall’inglese.
2 - Erano anni, decenni, che non mi occupavo di poesia.
Non la leggevo, non la criticavo e tanto meno la scrivevo. La
trascuravo: come si deve fare con i vuoti e fantasiosi riti di
mummificazione.
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Un giorno, esattamente un anno fa, più che altro perché
non avevo di meglio da fare, mi sono riletto, fra le altre mie
cose, anche Roberto ed Elvira che non leggevo da anni.
Giacché c’ero rilessi anche l’introduzione su La metrica
della mia poesia. Non avevo riletto questo piccolo saggio da
forse trent’anni e lo trovai ancora valido, nonostante qualche
ingenuità e qualche mancanza di approfondimenti su alcuni
punti.
Sarà stato perché la lettura di Roberto ed Elvira mi aveva
commosso (sì, commosso: è bella e grande poesia quasi
sempre. Ma cosa significa? La poesia non significa niente e
non vale niente.) sarà stato dunque perché ero commosso che
ritenni ancora fattibile un discorso tecnico sulla poesia,
almeno come stimolo intellettuale e curiosità storica. Ciò mi
spinse a comprare La metrica italiana – Teoria e storia di
Francesco Bausi e Mario Martelli. E’ questo uno dei rari libri
che ti riconciliano col mondo universitario, altrimenti odioso
e inutile in campo letterario.
Una frase, alla fine del libro, mi colpì in maniera
particolare: “Scrivere un sonetto… significa compiere un
estremo atto di fiducia nelle capacità conoscitive della
Ragione”. Questa frase mi colpì in misura persino eccessiva;
mi tornava in mente di continuo e la sentivo vera. Eppure
sapevo benissimo che da simili teorie estetiche la poesia era
stata sopravvalutata almeno dalla fine del Settecento: era
stata gonfiata finché non era scoppiata per la forza stessa del
suo nulla. E se Dio vuole era morta, anche se tanti non se ne
sono proprio accorti, o peggio, fanno finta per interesse di
non accorgersene.
Di tutto questo avevo pure scritto tanti anni prima in
conclusione della mia stroncatura d’Ungaretti. Me lo
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ricordavo benissimo ed ero ( un anno fa, come lo sono oggi)
convinto della giustezza del mio pensiero.
Purtuttavia quelle parole continuavano a tornarmi in
mente: “ Sonetto… estremo atto di fiducia… capacità
conoscitive della Ragione”.
3 - E se mi fossi sbagliato prima? Perché negare l’estremo
atto di fiducia?
Si noti che non mi avrebbe minimamente colpito un
collegamento del sonetto alle confessioni sentimentali.
Nemmeno m’avrebbe colpito la rimasticatura del sonetto
come forma poetica per eccellenza. Su questa strada sarebbe
bastato a fermarmi il mio disgusto per la poesia.
Quello che mi stuzzicava era l’idea del sonetto come
strumento conoscitivo, personificazione concreta della
“Ragione” manifestata in una pagina: il tutto è lì e lo vedo
tutto insieme.
Devo confessare che in questo mio stato d’animo non
confluiva solo il mio vecchio rifiuto della poesia, ma anche
un più recente, ma ormai solidificato, sentimento di
stanchezza profonda verso la filosofia, la psicologia, la
sociologia, la critica, la storia e tutte le cosiddette scienze
costruite con le chiacchiere. Se il mondo è conoscibile, lo
deve essere senza bisogno di bibliografie. E con poche
parole: il sonetto, appunto.
Era la fine di luglio. Il primo d’agosto partivo per il mare
con tutta la famiglia. Fu così che presi con me, fra gli altri,
un vecchio volumetto dei Sonetti di Shakespeare edito nel
1965 dall’Universale Economica Feltrinelli, che allora avevo
comprato e che mai prima mi era preso voglia di leggere.
Dopo quasi quarant’anni mi sono accorto che le ultime
pagine di quel volume sono rilegate a testa in giù. Se lo
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avessi sfogliato quando lo comprai, di sicuro lo avrei
riportato indietro reclamando un esemplare perfetto. Ma ora
sono contento di non averlo fatto. Se questo libro fosse un
francobollo da collezione, sarebbe una rarità e varrebbe di
più.
E’ un’edizione integrale curata da Gabriele Baldini, col
testo inglese e la traduzione a fronte, in prosa, di Lucifero
Darchini apparsa per la prima volta nel 1908.
Portai con me questo libro, a preferenza di altri libri di
poesia che pure posseggo anche se non li leggo, forse perché
era l’unico intitolato Sonetti ed era di piccole dimensioni.
Pregherei il gentile lettore che prima o poi anch’io avrò di
non credere che io sia talmente ignorante da non sapere cosa
sia il sonetto, e che è una gloria italiana, e che la sua severa
forma e stringatezza lo hanno sempre eletto a palestra di
forza e d’intelligenza, e che l’esempio del Petrarca si era
diffuso in tutta Europa e da ultimo in Inghilterra, e che di
sonetti all’estero prima e dopo Shakespeare se ne sono scritti
migliaia in tutte le lingue, e che Carducci in un sonetto si
dichiara scrittore di sonetti postremo e non sesto, e che
D’Annunzio ne ha scritti molti, tutti notevolmente vuoti
compresi i quattordici dedicati alla mia città, Prato, dov’egli
studiò da liceale. E così via. Se faccio sfoggio d’ignoranza è
per distinguermi da chi sa tutto.
Mi portai dunque al mare il volumetto dei Sonetti di
Shakespeare solo per verificare se quei sonetti, che
conoscevo gravati di fama ma che non avevo mai letto,
avrebbero potuto passare l’esame dell’estremo atto di fiducia
nella Ragione, meglio di altri sonetti italiani che già
conoscevo.
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4 - Ho una famiglia numerosa. L’anno scorso al mare i
commensali oscillavano da dodici a venti e la casa che
avevamo affittato non aveva la lavastoviglie. Lo dico perché
noi adulti ci eravamo divisi i compiti ed io mi ero riservato
quello di rigovernare almeno una volta al giorno, più spesso
due.
Rigovernare piatti, bicchieri, pentole e tegami, e sedere
d’estate all’ombra d’un albero di fico senza far nulla, sono le
attività più spirituali dell’uomo, le uniche all’altezza della
nostra storia e del nostro futuro, e le uniche degne di essere
perseguite con ogni sforzo.
Non sono però intercambiabili fra loro. Sedere sotto un
fico è un’esperienza contemplativa che arriva spesso
all’estasi del sentimento panico, o della mistica pura, o
dell’illuminazione buddista. Anche ai livelli più bassi e nelle
nature meno dotate, è un’attività altamente filosofica. Queste
cose le so perché ho tre fratelli che sono alberi di fico. Ho
anche tre sorelle, donne in carne ed ossa, debitamente
registrate all’anagrafe. Ma non avevo fratelli. Un bel giorno,
non so se io loro o loro me, ci siamo scelti come fratelli:
sono tre begli alberi di fico lungo l’argine del Bisenzio.
Rigovernare, invece, è un’attività più scientifica e
razionale. C’è da stabilire l’ordine logico in cui vanno lavate
e poi sciacquate le stoviglie ( l’ordine è: i biberon dei piccini,
i bicchieri, le posate, i piatti e infine le pentole e i tegami; da
ultimo i fornelli); c’è da scegliere lo strumento più adatto per
ogni oggetto, se la spugna, o la spazzola, o la retina di
metallo; c’è da decidere qualità e quantità del detersivo.
Dopo un po’ ci si eleva a un livello veramente rarefatto di
astrazione, che non ha però il sentimento panico d’unità con
l’intero creato che si ottiene sedendo sotto un fico.
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Rigovernare, ai livelli più alti di astrazione, genera invece
supremi interrogativi.
L’acqua che vien giù dal rubinetto non cade perché attratta
dalla forza di gravità verso il centro della Terra, ma perché
spinta dalla pressione dell’acquedotto. Non è tirata davanti,
ma spinta da dietro. Certo, anche l’acqua dei piatti sciacquati
gocciola verso il basso e non sembra che ci sia qualcosa che
la spinga. D’altra parte non vedo nemmeno niente che la tiri
in giù. E se la legge della gravitazione universale fosse falsa?
o almeno insufficiente e parziale? Che vuol dire che due
corpi si attirano reciprocamente in proporzione della loro
massa? Newton fece un impercettibile salto, e sotto di lui la
Terra, incontro alla mela? No, mi pare molto più logico
ipotizzare che tutte le cose aborrono il vuoto e cercano di
allontanarsi il più possibile dallo spazio siderale. Non so se
questa ipotesi possa spiegare tutti i fatti dell’universo e se sia
la spiegazione più semplice. Io adoro il principio
d’economia, il cosiddetto Rasoio di Ockham: Entia non sunt
multiplicanda praeter necessitatem. Ma c’è quella solenne
sciocchezza della Terra che girerebbe non solo intorno al
sole, ma anche su se stessa. E molti ci vorrebbero gabellare
che questa sciocca teoria spiega tutto in maniera più
semplice rispetto alla solare evidenza ( sottolineo solare ) che
è il Sole che tramonta da una parte e sorge dall’altra, mentre
la Terra se ne sta bella, pacifica e ferma al centro
dell’universo. Dicono che la loro teoria spiega anche certi
fatterelli del tutto trascurabili, mettiamo tre miliardesimi dei
fatti della mia vita. Domando: dove finisce il principio
d’economia se per spiegare tre miliardesimi si devono
sconvolgere tutti gli altri miliardesimi?
Dopo cinque o sei giorni che ero immerso in simili
esperienze intellettuali presi a mano i Sonetti di Shakespeare.
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5 - Data una scorsa veloce all’introduzione di Gabriele
Baldini, affrontai il primo sonetto. Non avevo affatto
l’intenzione di tradurlo. Volevo soltanto verificare se quei
quattordici versi potevano reggere insieme il peso della
“Poesia” e della “Ragione”, o almeno di una delle due anche
se scritta con l’iniziale minuscola.
Leggevo e rileggevo il testo inglese; leggevo e rileggevo la
traduzione a fronte. Non capivo. Presi a scorrere i cinque o
sei sonetti successivi. Mi fermai perché capivo ancora meno.
Mi dissi che, se non risolvevo il primo sonetto, era inutile
che continuassi; potevo rimetter via il libretto scespiriano e
seppellire anche la metrica insieme alla poesia. La ragione
avrei dovuto seppellirla in un altro riquadro del cimitero, ma
avrei dovuto comunque seppellire anche lei, almeno come
aspirazione a una razionalità esprimibile in poche ed
essenziali parole.
Il testo inglese mi era estraneo. La traduzione del Darchini
era anche troppo esplicativa del senso letterale, ma talmente
sillogistica da risultare banale: una prosaica concatenazione
di sovrabbondanti parole che indebolivano il pensiero
anziché rafforzarlo.
Per trovare un senso che mi soddisfacesse, decisi di
tradurre il sonetto in endecasillabi italiani, raccolti secondo
la nostra tradizione in due quartine e due terzine, la cui
compiutezza strofica non fosse affidata alla rima, ma alla
compiutezza del discorso che doveva chiudere ogni strofa
con un punto fermo.
Ritrovare l’endecasillabo mi divertì come ritrovare un
vecchio amico con cui ci si può abbandonare a discorrere dei
bei tempi andati. Ci presi gusto e continuai a tradurre i
sonetti di Shakespeare seguendo strettamente l’ordine del
libro che ricalca l’ordine canonico dell’edizione del Thorpe.
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Alla fine del mio mese di vacanza avevo tradotto i primi
quarantacinque sonetti con nessun altro supporto oltre al mio
libretto. Ne traducevo sino a tre o quattro al giorno; la
mattina dopo li rileggevo; li paragonavo ad altre traduzioni
se c’erano (il volumetto contiene anche una piccola antologia
di altri traduttori) ed apportavo qualche correzione se mi
sembrava utile. Dopodiché passavo al sonetto successivo.
Quasi mai ho riletto i sonetti dei giorni precedenti.
Se fossi un letterato che deve tener alto il prestigio della
poesia, a questo punto direi che passai una feconda vacanza
d’intensa attività spirituale, in comunione costante con uno
dei più grandi geni dell’umanità, scoprendo di ora in ora
sempre nuovi tesori artistici e milioni di significati testuali
più profondi della fossa delle Marianne. Siccome invece il
mio scopo è, più modestamente, quello di dire la verità,
confesserò che, mentre i miei vicini d’ombrellone si
dilettavano con le parole crociate e con altri giochi
enigmistici, io mi divertivo a scoprire il rebus d’ogni sonetto
scespiriano e a renderlo non con parole crociate, ma con
parole italiane ritmate in endecasillabi raccolti in quartine e
terzine. Tutto qui.
Tornato a Prato, mantenni la stessa assiduità di lavoro,
salvo un intervallo di quattro o cinque mesi per tirar giù un
altro scritto. Anche il metodo rimase uguale. Avevo bensì
aggiunto altri due testi che ho poi consultato regolarmente
sino alla fine: l’edizione dei Sonetti negli Oscar Classici
Mondatori con introduzione di Anna Luisa Zazo e traduzione
di Giovanni Cecchin , diciamo in prosa versificata; e
soprattutto l’edizione Rizzoli curata e tradotta da Alessandro
Serpieri. Quest’ultimo libro è il testo definitivo per un lettore
italiano che voglia affrontare i sonetti di Shakespeare.
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Dal cinquantesimo sonetto in avanti, mi leggevo e
rileggevo il testo originale, leggevo le tre traduzioni dai libri
citati, leggevo il commento del Serpieri a ciascun sonetto e
poi, quasi rigo per rigo, costruivo i miei bravi e begli
endecasillabi. Alla fine, com’era successo fin dal primo
sonetto, emergeva nell’estrema chiarezza il senso di quei
quattordici versi. Il testo inglese non mi era più estraneo; e
capivo.
Volutamente non ho consultato altre traduzioni che ho in
seguito cercato e comprato. Già possedevo il volumetto con i
quaranta sonetti tradotti da Ungaretti. Mi ero riservato di
consultare eventualmente le altre traduzioni solo dopo che
avessi finito l’ultimo sonetto.
6 - Non devo tener alto il prestigio della poesia, però non
vorrei nemmeno spregiarla. Purtroppo il dire pari pari cos’è
suona spesso come uno spregio, ma non è colpa mia.
Ugualmente, non posso vantarmi di nessuna comunione
spirituale con nessun grande genio. Ma certo mi sentivo
vicino Shakespeare mentre traducevo. Lo vedevo quasi farmi
cenno di lasciar perdere i suoi esegeti e sfidarmi a
rintracciare la chiave che avrebbe potuto aprirmi un suo
sonetto. E lo vedevo ridere di gusto quando svelavo un rebus
particolarmente malizioso, come all’inizio con la cosiddetta
“sequenza matrimoniale”. Tutti quei contrasti tra ciò che
cresce e ciò che muore, tra fame e ingordigia, tra usura e
ricchezza, tra morte e discendenza, giravano intorno
all’immagine del bel giovane dedito alla masturbazione
anche più volte al giorno, con grande spreco di ricchissimo
sperma.
Shakespeare rideva alla grande: “Voi, oggi, riducete tutto
al sesso nudo e crudo!”
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E io a ribattere: “Proprio tu dici questo? Tu, coi tuoi sonetti
sulla lussuria e sulla voglia? A proposito, che ci fu fra te e il
bel giovane, quando lui smise di masturbarsi?”
Vedo ancora Shakespeare che saltava dalle risate e
m’indicava col dito: “Anche tu! Sei anche tu fra gl’ipocriti
censori! Ma non avete altro da fare che dedicarvi a queste
curiosità?” E rideva: “Gli ho strinto la mano tre volte,
nient’altro. E voi ci avete costruito sopra un castello di
arzigogoli. Oh, come siete buffi!” Poi si fece quasi serio e
disse: “Se vuoi ti svelo chi era il bel giovane.”
“No, per carità,” lo fermai subito. “Se tu me lo dicessi,
dovrei penare chissà quanto per convincere i tuoi biografi. E
a che scopo? Queste curiosità non sono più nemmeno di
moda. Ora tutti gl’interpreti dei tuoi sonetti son lì a dire che,
nell’insieme, sono un grande dramma con tre o quattro
personaggi. Qualcuno è arrivato a dire che i sonetti sono il
tuo teatro concentrato.”
“Lo so , lo so. Anch’io mi diverto ogni tanto a controllare
le pensate degli esperti nelle mie opere. Non ti dico quanto
rido fra me, quando leggo certe cose. A volte mi dico ‘Questi
sì che sono geni! Su un piedistallo di tre centimetri son
capaci di costruire un castello di trecento pagine.’”
“Grande poeta, grande drammaturgo e anche grande
vanesio, vedo,” lo punzecchiai . “Nemmeno in paradiso
diventano noiose le tiritere libresche?”
“Ma noi non ci perdiamo mica tempo. Basta un’occhiata e
diciamo ‘Oh, che imbecille!’”
“Piuttosto” ripresi io, “dimmi se l’idea di pubblicare i
sonetti fu tua o di Thorpe.”
“Mia?” Esclamò Shakespeare, tra lo sdegnato e il divertito.
“Se m’è toccato un posticino in paradiso è proprio perché
non ho mai pubblicato le mie opere, a parte due cosucce che
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mi sono costate cent’anni di purgatorio. No, no: è colpa di
quel delinquente di Thorpe. Se lo piglio… Del resto, se non
l’ho incontrato in quattrocent’anni di eternità, vuol dire che è
all’inferno e gli sta bene.”
“Non hai tutti i torti a volerlo all’inferno” aggiunsi io.
“Che si fa la dedica d’un libro a chiunque sia, indicandolo
con le iniziali! Però” continuai, “allora Thorpe era più
appassionato di te per la poesia italiana. Forse era più
istruito.”
“Cosa intendi dire?” si alterò Shakespeare.
“La raccolta pubblicata da Thorpe comprende 154 sonetti:
sono uno per ogni sillaba metrica del sonetto italiano. Un suo
omaggio alla patria del sonetto” aggiunsi, “è evidente.”
“O codesta?” fece Shakespeare. E dopo un attimo di
sbalordimento prese a ridere forte: “Codesta è più bella della
storia della masturbazione. Thorpe era un caprone molto più
ignorante di me. Io non ho mai saputo una parola d’italiano,
ma Thorpe non sapeva nemmeno che fosse esistito un poeta
di nome Petrarca. No, fu un caso.”
“Quale caso? Per arrivare a 154 Thorpe ( o sei stato tu?
Comincio a dubitare che tu continui a recitare anche in
paradiso), o tu o Thorpe avete messo insieme i sonetti
dedicati al bel giovane, quelli per la dama bruna (era una
civetta o soltanto una gran puttana?), altri sonetti sparsi e
infine avete tirato fuori da chissà dove gli ultimi due, che
fanno piangere, solo per completare l’omaggio di 154.”
Shakespeare continuava a ridere e a dire: “No, fu un caso.”
Poi aggiunse: “Ho scritto centinaia di sonetti. Per fortuna la
maggioranza sono andati persi. Voi non capite: allora, per
noi, scrivere un sonetto era come per voi, oggi, fare una
telefonata: ‘Ciao, come stai? Dove sei?’ e giù quattordici
versi in rima.”
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“Se ti sentissero, chissà cosa direbbero i critici strutturalisti
e i semiotici che si sono tanto sbizzarriti sui tuoi sonetti!”
“Mah! Forse nel loro mondo pedante hanno ragione. Certo,
se per scrivere un sonetto avessi dovuto tener presente tutto
quello che loro dicono di scoprirci, non avrei scritto
nemmeno il primo verso del primo sonetto.”
“Su questo son d’accordo con te. Quando uno è insicuro, si
preoccupa della teoria e della critica. Quando matura, se
matura, si abbandona alla spontaneità: se c’è qualcosa
emergerà; sennò, pace.”
“Vedo che anche tu credi al genio innato” mi canzonò lui.
“Mi fa molto piacere: tutti dicono che io sono uno dei più
grandi geni dell’umanità.”
“ Ma no! Anzi è il contrario. Si diventa spontanei dopo che
per anni si è accumulato cose altrui e per altrettanti anni, e di
più, le abbiamo buttate via e dimenticate.”
“E lo dici a me? Io tiravo giù i miei drammi, in fretta e
come venivano, su dei fogliacci già divisi per le parti da
distribuire agli attori. E dopo dugent’anni vengo a scoprire
che sono un genio universale! Tu, piuttosto, ti attacchi al mio
nome e invece di scrivere qualcosa di tuo, ti metti a
rifriggere i miei sonetti.”
“Rifriggere?” saltai sù io, punto sul vivo. “Innanzi tutto,
tanti miei sonetti tradotti sono migliori dei tuoi originali; e
poi… e poi…”
Smisi perché vedevo Shakespeare ridere e battere le mani e
indicarmi come uno zimbello: “Signore e signori, ecco a voi
uno che crede ancora alle gare letterarie, a chi è migliore e
peggiore, e alle classifiche dei poeti . Se metti Dante prima
di me, ti ricuso per legittima suspicione di nazionalismo.”
“Va bene” convenni sorridendo. “Ma dimmi almeno una
cosa importante: si può esprimere in un sonetto una piccola
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verità particolare che, non si sa come, racchiuda tutta intera
la verità?”
Shakespeare si fece serio, mi guardò e disse: “Ti svelerò
un segreto ben più interessante dell’identità del bel giovane o
della dama bruna. Quando voi viventi guardate un sasso, o
un fiore, o anche un topo, e specialmente un grande albero
secolare, voi vedete la verità tutta intera. Ora lasciami
andare. Noi che disgraziatamente abbiamo un nome
conosciuto dai posteri siamo solo anime in pena
continuamente evocate da tutti. Dobbiamo correre come
ossessi a ogni richiamo e non troviamo mai pace. Oh, come
vorrei essere un albero anonimo in mezzo a una foresta!”
7 –LINGUA INGLESE.
Se fossi in vena di scherzi, e ci fosse qualcosa su cui
scherzare, direi che ho una buona conoscenza scolastica della
lingua inglese scritta. Potrei addurre la prova dell’unico
trenta e lode guadagnato nella mia carriera di studente
universitario, appunto in lingua e letteratura inglese. La
verità è che se un inglese parla non capisco una parola e io,
in inglese, incespico su ogni vocabolo e sono incerto sulla
pronuncia. Che gusto potrei avere della lingua inglese?
Nessuno, infatti.
Sono nato e ho sempre abitato nel centro della Toscana.
Ho il gusto della lingua italiana per queste origini e per gli
studi, le letture, le frequentazioni, la pratica che ne faccio da
decenni cercando di adattarla al mio pensiero e di adattare il
mio pensiero alla mia lingua. Con tutto questo, ne scopro
sempre nuove possibilità e il mio gusto per l’italiano
aumenta ogni giorno, quel gusto che è insieme istinto e
amore coltivato.
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Per chi è di madrelingua inglese e per la sua lingua
percorre il mio stesso sentiero, ho comprensione e amore
fraterno. La lingua inglese è una lingua capace di grande
poesia, grande prosa e grande scienza.
Quello che non comprendo è come possa uno nato in una
lingua avere per un’altra lingua il gusto che ho io per
l’italiano. Questo non lo comprendo in generale. Per
l’inglese, in particolare, non riesco a capire come uno nato in
una lingua neolatina possa averne amore: semplicemente;
non dico un gusto elevato. E mi limito alle lingue neolatine
perché non conosco abbastanza bene lingue di altri ceppi per
dirne qualcosa.
A un orecchio neolatino l’inglese suonerà sempre come un
borbottio monosillabico, una lingua infantile piena di
omofoni, priva dell’ossatura di un verbo, incapace di sintassi
e che perciò si rimette al non detto, ai modi di dire e ai molti
significati di una parola altresì detti polisemia.
Mi piace citare Julia Alvarez nata di lingua spagnola,
emigrata da bambina negli Stati Uniti e diventata scrittrice di
lingua inglese. E’ sua madre sotto pseudonimo che parla in
Yolanda la bugiarda: “Per molto tempo ho pensato che gli
americani fossero più intelligenti di noi latini, altrimenti
come potrebbero parlare una lingua tanto difficile? In seguito
mi sono convinta del contrario. Dato che si può scegliere in
che lingua esprimersi, solo un idiota può decidere
volontariamente di parlare in inglese.”
Tante volte s’intuiscono i grandi rivolgimenti storici da
fenomeni che a tutta prima sembrano trascurabili. Il
cambiamento riportato da Julia Alvarez, del giudizio su chi
decide di parlare in inglese, rivela che il fascino dell’impero
statunitense è crollato nelle coscienze; e come sempre
avviene, non tarderà a manifestarsi un crollo anche
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nell’economia e nella politica. Potrei azzardare un’altra
previsione: che da questo crollo inizierà anche la fine del
predominio internazionale della lingua inglese durato
duecento anni al seguito, prima, dell’impero britannico e poi
di quello statunitense. Certo, se non la smetteremo di farci
imporre la lingua dell’impero di turno, corriamo tutti il
rischio di dover imparare migliaia d’ideogrammi cinesi. Non
rimpiangeremo mai abbastanza l’uso del latino come lingua
dei rapporti internazionali, della filosofia e della scienza. Era
sì la lingua di un impero, ma di un impero ormai scomparso.
Ed è una lingua che non solo si legge come si scrive e si
scrive come si parla, ma è soprattutto una lingua esatta in
cui, quando si parla, si dice.
Ma queste sono solo sparate in aria che in fondo non ci
interessano. Quello che voglio sottolineare è che troppo
spesso chi affronta la letteratura inglese e la traduzione da un
autore inglese parte, senza rendersene conto, facendo prima
di tutto un inchino e rimanendo per tutto il tempo a bocca
aperta: “Dato che lui scrive in una lingua tanto difficile, una
lingua che ha consentito a chi la parla di dominare il mondo,
non sarà più intelligente di noi latini?” E’ proprio una riserva
mentale di questo genere che traspare dall’atteggiamento di
tanti interpreti della letteratura inglese.
Non voglio certo riesumare le polemiche ormai
bicentenarie fra poesia germanica e poesia neolatina, di cui
dette un riassunto Benedetto Croce già nel 1918-19 nel suo
saggio su Shakespeare. Notava Croce che alle vanterie
tedesche, fatte proprie con ritardo dagl’inglesi, “dettero fede
anche critici francesi e italiani” che “si chinarono riverenti
alla superiorità” della poesia germanica e del suo campione,
Shakespeare appunto.
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Io, ora, non sto parlando di poesia, sto parlando della
differenza della lingua inglese dalle lingue neolatine e in
particolare dall’italiano. Mi soffermerò un minuto a
esaminare il monosillabismo e la polisemia di tante parole
inglesi.
Il fatto che in inglese moltissime parole siano costituite da
una sola sillaba e che una sola sillaba, scritta ma ancor più
pronunciata, assuma quindi moltissimi significati differenti a
seconda del contesto, questo fatto viene pregiudizialmente
considerato una ricchezza che le altre lingue non potranno
mai raggiungere.
Ecco allora Elio Chinol che, commentando le sue
traduzioni dei sonetti scespiriani, fra l’altro quasi sempre
buone anche se in versi liberi, esce a dire: “E’ ben noto, ed è
stato ripetutamente sottolineato come gli agili monosillabi di
tante parole inglesi debordino e straripino negli equivalenti,
pesantissimi, polisillabi italiani.”
Ed ecco che il fatto dei molti significati che ha un
monosillabo inglese invece di essere qualificato per quello
che è, cioè una povertà di vocabolario, viene rovesciato in
una ricchezza che deborda e straripa (è il caso di ripeterlo)
nel magnificarne i tanti significati.
Sotto quest’ultimo aspetto è notevole l’effetto che fanno i
commenti del Serpieri ai singoli sonetti. Sono commenti
precisi e ricchissimi, frutto d’alta filologia e d’una profonda
conoscenza dell’inglese elisabettiano, nonché naturalmente
dell’inglese moderno. Invidiabile: io lo invidio. Pure,
l’effetto globale che fanno le sue note alle parole dei sonetti,
con la ricchezza di campi semantici continuamente
richiamati e illustrati, ti porta a esclamare, se uno non sta
attento: “Accidenti a me che sono nato in una lingua
povera!”
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Si veda, per fare un esempio, già la nota al primo sonetto:
“la parola increase copre un ampio campo semantico… sta
sia per ‘procreazione’ e per il suo effetto, la ‘progenie’, che
per ricca ‘riproduzione’ di un modello, nella specie, e per
generoso ‘allargamento’, ‘crescita’, ‘perpetuazione’ del
soggetto.” E continua: “questa prima parola in rima ha la
forza di un intero campo semantico generativo.” Infatti si
evidenzia una “opposizione di campi semantici, l’uno
all’insegna dell’increase e l’altro del decease (la prima rima
che si ha ai vv. 1 e 3): al primo appartengono i termini della
bellezza, dell’abbondanza e della vita (fairest, beauty, heir,
abundance, ornament, gaudy spring, bud), al secondo quelli
della fame, della sottrazione e della morte (die, decease,
contracted, foe, cruel, buriest, churl, waste, niggarding,
grave).” E naturalmente conclude: “Qualsiasi parola italiana
che appartenga al campo semantico di increase… risulta
pertanto inadeguata a renderne la piena estensione.”
Tutto ciò mi porterebbe allo sberleffo e a trovare su due
piedi una parola, di due sillabe come increase, che ne rende
la piena estensione anche in italiano. Proporrei “pene”, o
anche “cazzo” se vogliamo andare sul pesante, che sboccia
come una rosa all’inizio e alla fine muore e sparisce nella
tomba. Ma mi trattengo per rispetto e riconoscenza verso il
Serpieri che le merita.
Chi merita invece d’esser detto un trombone che soffia
trombonate è Ungaretti. Sarà la mia antica antipatia verso di
lui che illustrai anni fa nel mio libretto, ma per me le sue
traduzioni fanno pena. Qui voglio soltanto segnalare la sua
nota alla traduzione di record con “ricordo” nel sonetto 59:
per illustrare questa difficilissima (ed errata) traduzione gli ci
sono volute 14 pagine a stampa. Vi riporta due versioni
integrali del sonetto 59, una francese di Charles-Marie
23
Garnier e l’altra italiana di Piero Rebora; vi cita Les Belles
Lettres, Péguy, i Cahiers de la Quinzaine, il Simbolismo, il
Barocco, Amyot, Valéry-Larbaud, i collaboratori di Mesures
e di Commerce, André Gide, Mallarmé, Poe, Caro, Monti,
Leopardi, Sainte-Beuve, Petrarca, Ronsard, Scève, Colombo,
Flaubert, Hugo, Madame Roger des Genettes, Cavalcanti,
Dante, Tasso, Manzoni, Bossuet, Pascal, Racine, il
Quattrocento, il Petrarchismo, Meleagro, il Neoplatonismo,
il Manicheismo, Filone Ebreo, Platone e, per finire, Cristo.
Naturalmente non manca l’affondo sulle “omonimie e
sinonimie che con tanta liberalità i lessici inglesi offrono
all’espressione lirica, dandole la flessibilità fonetica
impareggiabile ch’essa possiede.”
Allora diciamola tutta e chiara: le omonimie, cioè i molti
significati che può assumere una parola, esistono in tutte le
lingue e sono una ricchezza per chi parla. Ma quando le
omonimie, in una lingua tendenzialmente monosillabica,
sono inevitabili, non sono più una ricchezza, ma una
maledizione che rivela l’intrinseca povertà di vocabolario di
quella lingua, come ho già detto. E infatti l’inglese ha
cercato rimedio alla povertà originaria del suo anglo-sassone,
prima, scrivendo in maniera differente lo stesso suono, e poi,
appropriandosi di migliaia di termini latini, direttamente o
tramite il francese dopo la conquista normanna. E andando
per questa via aldilà del segno. Si sono infatti creati anche
migliaia di sinonimi, che sono una dubbia ricchezza e una
sicura confusione. Tanto è vero che qualcuno ha
scherzosamente proposto che gli uomini di lingua inglese
usino solo monosillabi d’origine anglo-sassone e le donne
solo polisillabi d’origine latina. Inoltre l’inglese è una lingua
incredibilmente prolissa, nonostante tutti i suoi monosillabi.
Ha una costruzione pedante del periodo e del discorso con
24
tutti quei pronomi personali necessari per dare un senso ai
suoi verbi monchi e col balletto ossessivo degli aggettivi
possessivi. E’ stato calcolato, e ce ne dà conto Giorgio
Melchiori in L’uomo e il potere – Indagine sulle strutture
profonde dei Sonetti di Shakespeare, che Shakespeare adopra
I, me, my, thou, thee, thy, messi insieme, la bellezza di 10,19
occorrenze in media per ogni sonetto: quasi un’apparizione
per ogni verso. Anche nella resa grafica d’un suono (vedi il
nome Shakespeare), nessun’altra lingua adopra così tante
lettere alfabetiche come l’inglese; in maniera cervellotica e
in forme cangianti perdipiù. Vero è che per le tante parole
monosillabiche una pagina di buona prosa inglese tradotta in
buon italiano, o viceversa, richiede un minor numero di
battute sulla tastiera. Ma è vero anche che molti hanno
scambiato il minor numero di battute per agilità, flessibilità,
concisione e ricchezza di significati. Ma in queste qualità
l’inglese non ha nulla da insegnare all’italiano.
Con questo non voglio essere frainteso. Ho già detto che
l’inglese è una lingua capace di grande poesia, grande prosa
e grande scienza. Ha naturalmente le sue caratteristiche,
differenti da quelle dell’italiano e da quelle delle lingue
neolatine. E’ una lingua che, quando parla, non sempre dice,
ma più volentieri accenna e rimanda a qualcos’altro. Non è
un caso che il predominio dell’inglese coincida con l’epoca
romantica.
Ammiro la letteratura inglese e americana. L’ammiro
molto, ma non la amo; come non amo il romanticismo in
genere, con tutto quel puzzo di disfacimento, di suicidi, di
morte e di pazzia, già presente alla fine del Settecento e che
poi ha ammorbato tutto l’ambiente spirituale, specialmente
dalla fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento.
25
Per ciò che qui m’interessa, il romanticismo si riassume
nella sopravvalutazione della poesia, nell’osannare la lingua
inglese come la vera lingua adatta ai tempi e nello sforzare
Shakespeare come precursore e campione insuperabile del
nuovo sentire poetico.
Doveva essere evidente da subito che la poesia non
avrebbe potuto reggere quel carico di responsabilità e quel
rango che le attribuirono i filosofi e i critici, soprattutto
tedeschi, fra Settecento e Ottocento. Ma tant’è: poeti e
letterati si abbandonarono con entusiasmo alla mitologia
dell’arte e ne fecero una religione. Quando si accorsero che
la gente era stufa delle loro pose, invece di prender coscienza
onestamente che la poesia non era quella gran cosa che
dicevano i teorici, cominciarono a maledire il pubblico
ignorante e profano, che non capiva. E per rendere chiaro a
tutti che i profani non capivano la poesia, cominciarono a
non voler farsi capire a bella posta. Da qui nasce, dopo una
prima stagione interessante, il disfacimento della letteratura
romantica, da Mallarmé e Rimbaud, fino al dadà, al
futurismo, all’ermetismo, e fino al nulla del secondo
Novecento.
E da qui deriva l’assurda conseguenza che i mitomani della
poesia diventarono i più fieri detrattori della loro lingua a
favore dell’inglese e poi, dato che più sù dell’inglese non si
poteva andare, di ogni lingua in generale. La chiacchierata
senza senso sui limiti del linguaggio, d’età anche questa
bicentenaria, è tutta un annaspare intorno alla poesia
concreta, fatta di parole versi e strofe, messa a confronto col
mito romantico della poesia. Invece di riconoscere
onestamente che quel mito era un’invenzione cervellotica,
molti hanno continuato per l’arco di due secoli a disquisire
sui limiti del linguaggio e a tentare di superare quei limiti
26
immaginari per attingere la Poesia, l’Arte, lo Spirito e
qualunque astrattezza scritta con la maiuscola. E sono finiti a
spregiare la chiarezza comunicativa fra la comunità dei
parlanti; e quelle lingue che nonostante tutto la preservano
più di altre.
8 - SONETTO E ENDECASILLABO.
E’ pacifico e ammesso da tutti che il sonetto elisabettiano,
e quindi scespiriano, composto da tre quartine e un distico,
deriva dal sonetto italiano composto da due quartine e due
terzine, o da un’ottava e una sestina come altri preferiscono
dire. E’ altrettanto pacifico che il verso decasillabo usato da
tutti i poeti elisabettiani, e anche da Shakespeare, deriva
dall’endecasillabo italiano. Che poi alcuni chiamino il
decasillabo inglese “pentametro giambico”, per dargli un
lustro classicheggiante, e che la prosodia inglese sia
differente da quella italiana, non significano nulla a questo
riguardo: è pacifico che il sonetto scespiriano, come metro e
come verso, deriva dall’italiano.
Ci sono state sicuramente ragioni profonde che hanno
indotto i poeti elisabettiani a quelle modifiche per adattare
all’inglese il modello italiano. Sono state ampiamente
studiate e le accetto in blocco.
Mi sembrerebbe pacifico, però, che un traduttore italiano
di sonetti elisabettiani fosse cosciente che sta tentando di
riportare alla forma originale una copia. E che le solite
ragioni profonde che consigliarono le modifiche in un senso,
valgono a maggior ragione, ora, nel senso opposto.
Ciò non riguarda, evidentemente, chi si contenta di una
versione in prosa. Inoltre ognuno è libero di scrivere le sue
traduzioni come meglio crede, anche una parola per ogni
rigo, e può spargere quindi un sonetto in tre o quattro pagine.
27
Tuttavia una discussione su questo punto sarebbe stata
gradita. Niente, nessuno dei traduttori italiani s’è posto il
problema: tutti lì a inchinarsi alle tre quartine e al distico e a
maledire l’italiano perché richiederebbe 16 o 17 sillabe in
media per le 10 inglesi. Perciò ne farò io una piccola
discussione.
Non intendo raffazzonare l’ennesima teoria della
traduzione, non mi interessano né le brutte fedeli né le belle
infedeli, non voglio citare nomi di teorici, voglio soltanto
parlare della traduzione dei sonetti elisabettiani in italiano. Il
mio discorso vale pertanto solo per la loro traduzione in
italiano, perché dall’italiano derivano.
Certo, devo premettere un discorso generale: quello della
coerenza. Preferisco “coerenza” a “fedeltà”, ma non ne
faccio una guerra di religione; anche “fedeltà” può andar
bene. Se uno è profondo conoscitore di Shakespeare e del
linguaggio elisabettiano e vuol avvicinare il lettore italiano
agli originali, dovrebbe essere coerente col proprio assunto:
stampare la sua traduzione a fronte o in calce all’originale;
una traduzione completa e precisa, in prosa, che non disdegni
di esplicitare in un intero discorso il senso completo anche di
una sola parola originale; una traduzione accompagnata,
sonetto per sonetto, da un commento e da una serie di note
testuali. Diciamo, per i sonetti di Shakespeare, la traduzione
di Lucifero Darchini rivista e aggiornata, e i commenti e le
note di Alesssandro Serpieri. Si avrebbe così la perfetta
coerenza e la perfetta traduzione intesa come ausilio per la
lettura dell’originale.
Se uno invece intende tradurre quei testi in poesie italiane,
anche in versi liberi, persino in prosa artistica, cambia con
ciò stesso il suo dovere di coerenza, che non è più verso
l’inglese, ma verso l’italiano. Non è necessario che sia un
28
profondo conoscitore dell’originale e può sfruttare
tranquillamente il lavoro dei traduttori dell’altro tipo che
proprio a questo servono. Deve però essere un profondo
conoscitore della lingua in cui traduce, delle sue forme e
delle sue tradizioni; e solo verso di essa essere coerente.
Voler tradurre i sonetti scespiriani in poesia italiana significa
voler dare preminenza alla traduzione sull’originale e
accettarne coerentemente tutte le conseguenze. Non si può
esser fedeli a due padroni.
Per questo ritengo ipocrita e incoerente la stampa
dell’originale accanto alla traduzione e per me non la voglio.
Ipocrita e incoerente, perché si fa una scelta ardita e poi, per
paura di tanto ardire, ci si appoggia agli originali reclamando
comprensione dal lettore per le proprie insufficienze di stile,
accampando la necessità di non tradire il testo. E per la
medesima incoerenza si mettono le mani avanti, con
l’ingigantire le difficoltà della traduzione da una lingua così
ricca e profonda in un piccolo idioma primitivo come
sarebbe l’italiano.
Detto questo, veniamo alla questione delle famose 16 o 17
sillabe italiane che sarebbero necessarie per rendere, in
media, le 10 sillabe del decasillabo inglese. Queste cifre
angustiavano molto Ungaretti, ma anche Alberto Rossi e
altri che, pur senza dare numeri, hanno commentato le loro
traduzioni.
Bene, l’endecasillabo italiano ha quasi sempre undici
sillabe, ma può averne anche dodici o tredici. Per cui, se
proprio vogliamo fare i contabili, la differenza con l’inglese
si ridurrebbe. Ma ancor più si riduce con la sinalefe, cioè la
contrazione di due o più vocali successive di parole differenti
in un’unica sillaba metrica, o con la sineresi, che è lo stesso
fenomeno nell’ambito di una parola. Di più: oltre a quanto
29
ho detto circa i pronomi personali necessari per dare un
senso ai verbi inglesi e alla pletora degli aggettivi possessivi
inglesi (pronomi e aggettivi che quasi sempre si possono
tranquillamente trascurare), voglio aggiungere che gli
asciutti sostantivi italiani, uniti a verbi altrettanto precisi,
danno spesso alla frase un significato più vicino al senso
degli originali sostantivi, accompagnati da aggettivi che è
meglio trascurare. Ma l’essenziale è la maggior concisione
del pensare in italiano rispetto al tradurre dall’inglese. E
questa, se leviamo “italiano” e “inglese”, è forse l’unica,
vera, teoria della traduzione.
Leggo nella Nota sulla traduzione di Alberto Rossi che nei
sonetti di Shakespeare circa il dieci per cento dei versi è
costituito da dieci monosillabi. Chi resta affascinato da
questi numeri (dieci per cento, dieci monosillabi, sedici
sillabe italiane), tradisce inevitabilmente l’italiano: l’esempio
pessimo è Ungaretti che si adagia a fare versi di sedici
sillabe, veri tortelloni ripieni di parole senza babbo.
A questo punto della mia scrittura, in piena notte, sono
stato preso dalla tentazione di strafare a proposito del
numero di sillabe. Ho fatto una cosa che uno studioso per
bene non farebbe mai, ma che io, che non devo rispondere a
nessuno, mi posso permettere. Ho compiuto lo sberleffo che
mi frullava in mente da giorni e ho tradotto il primo sonetto
di Shakespeare in un sonetto italiano composto da
quattordici quinari.Eccolo:
Fiore è il tuo pene
che cresce e muore.
Ma la bellezza
lasci un erede!
30
Tu, primavera,
tu, gioia al mondo,
dolce spilorcio,
sprecone avaro,
nel boccio tuo
riversi il seme e
solo te ami.
Pietà del mondo!
Non divorare
ciò che gli spetta.
Sono settanta sillabe, la metà esatta delle centoquaranta di
Shakespeare. E traducono perfettamente il suo sonetto in una
bella e divertente poesia italiana che ha una sua unità di
timbro e di vocaboli. Questa è la coerenza verso l’italiano
unita alla fedeltà verso l’originale inglese. Stiamo perciò
attenti a contare le sillabe: non si parla con la bocca ma col
cervello.
Questa è la terza versione che do del primo sonetto; ne ho
già scritta una quarta, pornografica, che evito di pubblicare
per decenza. Prima di morire voglio vedere se mi riesce fare
154 versioni differenti del primo sonetto, o almeno 140,
come omaggio a Shakespeare.
Ho già detto come nacque la prima traduzione del primo
sonetto. La seconda mi parve necessaria come riscontro,
dopo che avevo tradotto tutti i sonetti, per vedere come era
cambiato il mio modo d’interpretare l’originale e di renderlo
31
in italiano. Devo dire che l’esperienza mi ha fatto più
guardingo: la seconda versione è più fedele all’originale, ma
forse la prima è migliore. Non l’avevo letta da mesi e non la
rilessi che dopo aver scritto la seconda versione.
Ho fatto altri due esperimenti. Ho tradotto il sonetto 66 con
quattordici endecasillabi intervallati da quattordici quinari,
rispettando anche la divisione in tre quartine e un distico, se
così si può dire. Forse mi condizionò la sequela di dieci versi
che cominciavano con and. O forse non ebbi la pazienza di
cercare una versione di soli endecasillabi; ma quando mi
ritrovai la poesia come poi è rimasta, mi sembrò perfetta e
non l’ho più cambiata.
Il sonetto 145 è già anomalo di suo perché ha i versi non di
dieci sillabe come tutti gli altri, ma di otto: è composto da
tetrapodie giambiche, come dicono. Nel tradurlo non volli
interrompere la mia serie di sonetti italiani in endecasillabi;
ma poi, lo stesso giorno, mi prese lo scrupolo che anch’io
avrei dovuto renderlo con versi più brevi. Il novenario
avrebbe rispettato le proporzioni dell’originale, ma non so
perché usai il decasillabo, che fra l’altro è un verso che non
mi è mai piaciuto con quel suo ritmo taratà taratà taratà.
Forse rispetta meglio l’insulsaggine dell’originale. Conservai
anche le tre quartine e il distico, con la coda “Non te”, che è
la cosa più bellina delle due versioni, insulse però anche
loro.
Ci sono poi nel testo originale altri due sonetti irregolari: il
99 che ha un verso in più e il 126 che ha due versi in meno o,
per meglio dire, è una poesia composta da sei distici a rima
baciata. Anch’io li ho tradotti come sono: con un verso in più
e con sei distici, senza rima naturalmente.
32
9 – RIMA E STROFE.
A che serve infatti la rima? Ha una funzione eufonica che
vuol dire musicale; ha una funzione semantica perché svela o
crea un rapporto fra due parole differenti; ha una funzione
strutturante perché i suoi schemi determinano la forma
metrica dell’intero componimento e delle strofe in cui si
divide. Se non me lo ricordassi, ho ancora a portata di mano
il libro sulla metrica italiana di Bausi e Martelli.
Ma io continuo a chiedermi: a che serve la rima?
Mi ha colpito il fatto che quest’ultima frase inizi e finisca
con la sillaba “ma”, come “Martelli” subito prima e, sù sù
fino all’inizio del paragrafo, “mano”, “forma”, “semantica”,
“rima”. Il suono “ma” è abbastanza eufonico o devo per
forza abbinare “rima” con “cima” per dare musicalità al mio
discorso? E se basta “ma”, non potrebbero essere eufonici
anche gli altri suoni della emme? Avremmo allora,
dall’inizio: “rima”, “musicale”, “semantica”, “schemi”,
“determinano”, “forma”, “metrica”, “Martelli”, “ma”,
“chiedermi”, “rima”. Vedo che mancano il suono “mo” e
diversi suoni composti di emme con altre consonanti, ma
diamo per scontato che ci siano. E se sono eufonici i suoni
della emme, come sono quelli della bi, della ci e di tutte le
consonanti, per tacere delle vocali?
Diciamo allora meglio che la musicalità di una poesia
italiana dipende dall’insieme dei suoni delle parole italiane;
distribuiti in sequenze ordinate di sillabe accentate e atone.
E dunque: a che serve la rima? Ha una funzione semantica,
dicono, ma che significa? Non mi pare che la rima sveli
arcane rispondenze fra le parole. La rima prima era in cima e
ora è ima: cosa ho svelato? O quali inauditi rapporti ho
creato?
33
Il mio cognome è Becheri; si pronuncia sdrucciolo con due
e chiuse. Nessuna parola italiana fa rima in -écheri. Una
volta un mio professore d’italiano su un compito in classe mi
dette il giudizio: “Becheri, becero” che è un’assonanza, una
quasi consonanza e una rima imperfetta. E creò una
rispondenza semantica di cui vado fiero. Riconosco che se
avesse scritto “Becheri, troppo scurrile” oggi non me lo
ricorderei. Se è questa la funzione semantica, può esserlo di
tutte le parole, non solo di quelle in rima: di tutte le parole
che siano unite fra loro da un legame significativo, anche se
non formale: come ci insegnano le metafore.
Finalmente: la rima avrà la funzione strutturante, per cui
essa, sola, crea fra i versi quei legami detti strofe e quei
legami fra le strofe detti metri, come il sonetto?
Ebbene, la rima di per sé non ha nemmeno questa funzione
strutturante, né da sola né insieme ad altri accorgimenti
tecnici. E non ha nemmeno le 18 (diciotto!) funzioni che vi
rintraccia Alvaro Valentini in un suo libro su La rima, la
forma e la struttura. Tutte queste funzioni sono invenzioni
distillate da teorici e professori. La rima tra “funzioni” e
“invenzioni” è voluta. La rima in –ioni, come quella in –ente
degli avverbi, è una di quelle che ricorre più spesso nella
prosa d’oggi, e delle più fastidiose. Sicuramente nemmeno io
personalmente le sfuggo. Nei sonetti che seguono ho cercato
di evitare le rime. In alcuni casi di rime spontanee che sono
capitate, ho usato degli artifici per evitarle; in altri casi,
quando proprio mi sembrava che non significassero nulla, le
ho lasciate.
La rima ha avuto una grande importanza nella poesia
italiana dei primi secoli. Ma già dal Quattrocento ha
cominciato a scendere di tono. Per ancora un secolo se ne è
potuto fare un uso tra l’ironico e il distaccato, come nei
34
poemi cavallereschi. Poi è diventata sempre più una nenia
cantabile che assai di rado riusciva a raggiungere e a
mantenere per più di tre o quattro versi un livello serio di
espressione. Nell’ultimo secolo è diventata dominio dei
parolieri delle canzonette e dei pubblicitari scadenti. Ed oggi,
nella poesia, la rima ha una quarta o diciannovesima
funzione che è la più frequente di tutte: rende volgare un
componimento.
Tutto questo non lo dico per giustificarmi per non aver
usato le rime nei miei sonetti. Mi sarebbe bastato dichiarare
che le trovo ridicole. E se proprio avessi dovuto, potevo
portare la giustificazione del Leopardi che riteneva rima e
traduzione incompatibili.
Io mi chiedo invece: se togliamo le rime, cosa resta di un
sonetto? E che differenza c’è tra il sonetto italiano, il sonetto
elisabettiano e un qualsiasi componimento di quattordici
versi sciolti? Per rispondere a queste domande si deve avere
ben chiaro cosa forma davvero una strofa e cosa distingue
una strofa dall’altra, pur mantenendo fra di loro un’unità che
nel nostro caso si dice “sonetto”. La risposta non è affatto
difficile: il sonetto ideale è un discorso compiuto, diviso in
quattro periodi, ciascuno dei quali si emana in quattro o tre
respiri detti “versi”, che acquistano il loro intero valore
dall’unione del significato e del suono delle parole con
l’alternarsi di tempi forti e deboli. Il valore del singolo verso
trae forza dal respiro e la rende aumentata alla sequenza dei
respiri stessi, sì che ogni periodo afferma una realtà. E le
quattro affermazioni di realtà, compiutamente armonizzate
fra loro, svelano una verità certa e indiscutibile. Questo è il
sonetto ideale dove la rima non è necessaria nemmeno per
definirne la struttura; e se la rima c’è, deve giustificarsi di
per se stessa e non pregiudicare il risultato. Nemmeno è
35
richiesto che il verso sia endecasillabo; già prima ho
proposto un sonetto in quinari e uno in decasillabi. A rigor di
logica non è richiesto neanche che i versi abbiano tutti la
stessa misura, ma certo il sonetto in endecasillabi è il
modello che chi scrive cerca di imitare e chi legge o ascolta
tiene come termine di paragone. Le deviazioni dalla sua
norma acquistano un significato per il fatto stesso di non
rispettare il modello. Il periodo può debordare dalla strofa e
concludersi nella successiva; il respiro può non combaciare
col verso canonico e spezzare il successivo. O la strofa
contenere due o più periodi; o il verso due o tre affannosi
respiri; o i versi possono non essere endecasillabi. Tutto
questo acquista un significato per il fatto stesso di deviare;
così come acquista un significato, oltre al senso delle parole,
al valore dei versi, alla forza dei periodi, alla realtà e verità
del sonetto, il pieno rispetto del modello. Modello che non è
un’idea platonica , ma una poesia che da secoli tutti possono
leggere:
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi no la prova;
36
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo all’anima: Sospira.
“Questo sonetto è sì piano ad intendere… che non
abbisogna d’alcuna divisione” ci conferma Dante. E
nonostante il passare dei secoli e il parere contrario di
Gianfranco Contini (Varianti e altra linguistica, pag. 166)
me ne sto ben stretto all’affermazione di Dante. La
traduzione in concetti moderni che ne dà il Contini è una di
quelle esibizioni professorali che, se esistesse un Dio, ci
sarebbero risparmiate.
Quale sia allora la differenza fra un sonetto nostro e un
sonetto in italiano di tre quartine e un distico è presto detto:
deviando dalla norma, l’autore dichiara d’esser succube
d’una predominanza straniera, perdipiù d’altri tempi. Le due
quartine e le due terzine sono uno svolgimento che si affretta
alla fine con equilibrio, gravità ed eleganza. La terza quartina
invece pesa con un dipiù che è quasi sempre un riempitivo
inutile; e scoppia nel distico con la smania di dire alla fine
tante cose che meraviglino il lettore; concettini,
preziosaggini, e “maraviglia”: il barocco. Niente mi pare più
lontano dal sentire moderno, e di sicuro dal mio,
dell’esteriorità barocca. Ed anche Shakespeare, quando vi
soggiace, non è più Shakespeare. Sarebbe bene cercare
d’esser fedeli a Shakespeare nella sua grandezza, non nelle
sue cadute. Per un italiano, tradurlo in tre quartine e un
distico, quando non sia occasionale e comunque attenuato
dalla scrittura in due quartine e due terzine, significa
confinarlo nella sua isola e nel suo secolo e perdere in
37
partenza quello che di eterno e universale Shakespeare ci ha
lasciato con i sonetti.
10 – I grandi letterati non rigovernano e quindi non si
pongono i supremi interrogativi che poi, per una censura da
loro imposta, vien fatto credere al popolo che siano domande
che uno studioso serio non può e non deve porsi.
Io invece rigoverno e mi chiedo: che valore avrebbero i
sonetti di Shakespeare se lui avesse scritto solo questi e
nient’altro? E inoltre: che valore avrebbero, se sapessimo
tutto di lui e del bel giovane e della dama bruna, e di quante
volte hanno fatto all’amore, in due o in tre e in quale motel?
O anche: che giudizio ne daremmo se l’in-quarto edito dal
Thorpe riemergesse intonso dal fondo d’una biblioteca dopo
quattro secoli, senza nessuna indicazione dell’autore?
Queste domande non sono soltanto ingenue trasposizioni
dei precetti di Benedetto Croce, che raccomandava ai critici
di distinguere fra persona pratica e persona poetica e di
tenere la mente ben stretta all’opera da esaminare,
trascurando tutto ciò che è indifferente all’arte che in quella
opera si manifesta, salvo poi fare una disamina di tutta la
critica scespiriana.
La domanda potrebbe essere messa in questa forma:
parlando dei sonetti di Shakespeare, parliamo di 154 poesie
di 14 versi, o parliamo di queste poesie più una mole
sterminata di libri, memorie, tesi e confutazioni che le
riguardano?
Per parlare solo delle poesie si è tentata la strada
dell’analisi strutturalista e semiotica. Ma è apparso quasi
subito chiaro che l’indagine, per questa strada, diventava
“autopsia di un cadavere; anzi, è lecito sospettare che, per
agevolare l’esame, siano gli stessi analisti a provocare la
38
morte del soggetto”, come notava argutamente Giorgio
Melchiori nel già citato L’uomo e il potere. Devo dire, però,
che anche lui non ci risparmia le sue brave dissezioni
anatomiche.
Sembrerebbe allora che l’unica strada percorribile sia
quella tradizionale e letteraria che ho esemplificato col nome
di Benedetto Croce. E in effetti ritengo il suo saggio su
Shakespeare perfetto e insuperabile, premettendo
naturalmente che ne ho letti pochi di altri critici. Ma chi mi
potrebbe dare le mille vite necessarie per leggerli tutti? Da
una ricerca su internet Google mi dice che Shakespeare ha
3.880.000 segnalazioni e i suoi sonetti 96.000, di cui 55 in
cinese, 200 in giapponese e 53 in coreano. Quando imparerò
il coreano?
Il punto debole della critica letteraria tradizionale è
l’ipocrisia ammantata di sicumera professorale. Ne va salvo
Croce, naturalmente, che si muove su un altro piano. Ma che
dire di tanti altri? Rimanendo ai sonetti di Shakespeare, ho
comprato negli ultimi mesi tutte le traduzioni che sono
riuscito a trovare; per ora sono a undici. Quasi tutte riportano
una bibliografia più o meno estesa: dando per scontato che la
maggioranza siano segnalazioni di studiosi inglesi, perché
non vi compare una, dico almeno una, segnalazione di un
critico tedesco, francese, spagnolo, per non dire coreano? Ci
sono alcune segnalazioni di autori italiani, che completano il
sottinteso ipocrita e lo esplicitano: noi che ci occupiamo dei
sonetti di Shakespeare siamo il ponte che unisce il mondo
anglosassone all’Italia; quello che passa sotto il ponte non
riguarda le cattedre di Lingua e Letteratura Inglese delle
università italiane.
L’assunto della critica letteraria tradizionale, ma dovrei
dire di tutte le cosiddette scienze basate sulle chiacchiere, è
39
che sia doveroso affrontare un argomento o un autore
impadronendosi anche della letteratura che lo riguarda,
prima di apportare il proprio sassolino alla grande muraglia
della bibliografia relativa. Il compito è impossibile e il
tacerlo è ipocrita. Spacciare poi la favola che gli esperti della
materia, debitamente riconosciuti dai loro simili, sanno come
muoversi in quella letteratura e sanno estrarne l’essenziale
senza doversi sobbarcare davvero l’intera bibliografia, questa
è la sicumera professorale.
Ma tutto ciò, a parte il segnalarlo, non m’interessa granché.
Quello che mi preme evidenziare, invece, è che per questa
via si perde di vista l’opera, l’autore o l’argomento che ci
aveva fatto muovere all’inizio.
Anche l’altra strada, quella dell’analisi strutturalistica e
semiotica, conduce allo stesso punto. All’inizio, la novità del
metodo sembrava che potesse liberare l’opera dalle
incrostazioni secolari e attingere direttamente il significato,
per esempio, del sonetto 146 di Shakespeare. Ma subito è
diluviato anche con questo metodo e ora si può fare, e di
sicuro qualcuno l’avrà già fatta, una ricca bibliografia delle
analisi strutturalistiche dei sonetti scespiriani debitamente
ordinata per numero. E se là ci si perde dietro alla biografia
romanzata dell’autore e dei personaggi, o alle vicende del
periodo elisabettiano , o alla pronta dimenticanza di
Shakespeare e alla sua riscoperta agli albori del
romanticismo, o al successivo gonfiare come un unico
pallone dell’importanza dell’arte, dell’importanza di
Shakespeare e del subentro dell’inglese al francese quale
lingua di riferimento internazionale, qui ci si perde dietro ai
diagrammi a clessidra, agli schemi fonici, alle statistiche di
frequenza dei vocaboli e alle indagini elettroniche, il tutto
naturalmente con le poesie ridotte a cadaveri.
40
Il metodo giusto non può che essere quello di negare in
partenza qualunque valore alla letteratura che vortica intorno
ai sonetti di Shakespeare, come a qualunque altro argomento
che ci venisse desiderio di conoscere direttamente. Se fossi
di madrelingua inglese, mi sarei limitato ad additare il
volume William Shakespeare – Sonnets, senza aprir bocca;
ma siccome per fortuna sono di madrelingua italiana, li
posso trasportare nel mio mondo, tradurre secondo
l’etimologia. E qui giunto, mi guardo bene dal commentarli;
mi limito ad additare i miei sonetti. Se per me c’è un senso
nei sonetti di Shakespeare, aldiquà delle migliaia di libri che
li commentano, lo si deve ritrovare nelle mie traduzioni.
11 – Qui alla fine devo dare una risposta all’interrogativo
che all’inizio mi aveva spinto verso i sonetti di Shakespeare:
scrivere un sonetto significa davvero compiere un estremo
atto di fiducia nelle capacità conoscitive della Ragione?
Spero che la definizione del sonetto che ho dato prima
faccia sospettare a chi legge quanto sarei felice di rispondere
sì e come sarei pronto a innalzare lodi alla poesia.
Disgraziatamente la realtà non obbedisce ai miei desideri e
ha la protervia di stare per virtù propria. E la realtà è che
nessuno sa più cosa farsene della poesia.
*
*
*
BABELE
Gigantesco nella radura un faggio
gli alberi intorno domina e presenta
a ciascuno del sole quanto deve,
perché ciascuno viva della terra.
41
Hanno radici gli alberi e non parlano;
linfa profonda scavano e la vita
insieme dalla terra, senza muoversi,
larga protendono al cielo, sicuri.
Pensano insieme gli alberi all’eterno
che in eterno ritorna, ed ogni volta
sempre più il cielo con la vita scalano.
Vaga invece, terribile, ogni uomo;
ferocemente parla e non capisce:
da solo ognuno al cielo innalza tombe.
New York 11 settembre 2001
Non ho voglia di continuare. E’ duro fare profezie e
vederle subito dopo cominciare a realizzarsi nella maniera
più tragica.
Per chiudere il mio discorso in qualche modo, elencherò
alcune asserzioni senza argomentarle e senza armonizzarle.
La poesia non ha più nessuna funzione sociale. Nessuno la
vive e nessuno la legge. Chi si ostina ad atteggiarsi a poeta è
un illuso. Solo pochi accademici, per motivi di cattedra,
fanno finta di dare importanza alla poesia moderna e così
finiscono di ucciderla.
La poesia, e il sonetto che ne è la forma paradigmatica,
non hanno nessuna capacità conoscitiva e non sono mai
momenti o strumenti della “Ragione”. I frutti delle capacità
conoscitive e della ragione, qualunque cosa significhino,
sono beni sociali duraturi e presuppongono che chi li riceve
42
se ne arricchisca come chi li crea e li trasmette. Questo la
poesia non è mai stata, forse; di sicuro non lo è oggi.
Un sonetto, per chi lo scrive, può al massimo essere
paragonato alla preghiera intima o a un momento di
illuminazione interiore. Chi scrive un sonetto confida nella
illuminazione mistica, cioè nella sua capacità di chiarire a se
stesso un momento, un fatto, un sentimento e di inviarlo
come una preghiera verso l’assoluto. Senza mai ricevere una
risposta diretta, come sempre avviene con le preghiere
rivolte a Dio.
Per chi lo legge, ammesso che qualcuno lo legga, ha lo
statuto di un’esperienza altrui in un ambito per sua natura
ineffabile; o, il che è lo stesso, dicibile solo con le parole, i
versi, le strofe con cui è stato scritto quel sonetto.
Spiegazioni, analisi, commenti, critiche e teorie estetiche non
hanno nulla a che fare con la poesia alla quale pretendono di
riferirsi. In genere la uccidono ed estirpano i germogli.
Per questo la poesia non significa niente: è, ma non può
essere significata, cioè messa in altri segni, spiegata,
tradotta. Se nel migliore dei casi c’è, è lì e basta; non
significa nient’altro. E non vale niente perché i prodotti
dell’uomo, per acquistare valore, devono avere una funzione
e un commercio sociale. Manipolare un organismo che non
fa più parte della società degli uomini vivi sperando di
traghettarlo nell’eternità, è un rito di mummificazione, come
dicevo all’inizio. I rapporti con l’assoluto, voluti e cercati
dall’individuo, sono in genere autoesaltazioni, droghe
psicologiche che non portano a niente. O a distruzioni.
Che Dio, se ce n’è almeno uno, abbia davvero misericordia
di noi tutti e specialmente degli ultimi e dei più deboli.
16 settembre 2001
43
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SONETTI
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1.
Dalle più belle creature vorremmo
figli sì che la bellezza si eterni.
E se appassisce ogni singola rosa
possa tramandarla un tenero erede.
Ma tu, sposato ai tuoi occhi lucenti,
sol la tua luce fecondi d’eterno;
troppo crudele al tuo dolce te stesso,
la tua abbondanza riduci in penuria.
Avaro principe di primavera,
fresco ornamento del mondo, tu sperperi
su te stesso la tua ricca energia.
Pietà del mondo! Perché la tua morte
non privi ciò che è dovuto al futuro:
la bellezza che nessun altro incarna.
8-8-2000
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1.
Dalle creature più belle vogliamo
figli sì che non muoia mai la rosa.
E se col tempo dovrà pur morire,
un erede ne trasmetta memoria.
Ma tu, sposato al lume dei tuoi occhi,
quella luce alimenti per te stesso,
facendo carestia con la ricchezza,
a te stesso nemico e a te crudele.
Tu, della primavera unico araldo,
nel tuo stesso bocciolo ti riversi.
Tenero avaro, fai spreco di te!
Abbi pietà del mondo, tu del mondo
fresco ornamento! Ciò che gli è dovuto
non tenere per te, e per la tomba.
24-6-2001
47
2.
Quando quaranta inverni solcheranno
di profonde trincee la tua fronte,
la veste giovanile di bellezza
che ora ti lodano sarà scomparsa.
Allora sarà vana lode dire,
e vergogna, e un niente, che permane
dei tuoi giorni fiorenti la bellezza
nel profondo dei tuoi occhi infossati.
Quanta gloria maggiore ti sarebbe
mostrar tuo figlio con la tua bellezza,
che salda il conto e la vecchiaia sfugge.
Il legittimo erede del tuo corpo,
riscattando l’orgoglio dei tuoi giorni,
giovane e caldo il tuo sangue farebbe.
48
3.
Lo specchio guarda ed a te stesso imponi:
“Ora è il tempo che un’altra faccia crei.”
Del tuo volto non derubare il mondo
né maledire d’ogni madre il ventre.
Dov’è la donna che vergine e bella,
sdegnerebbe l’abbondante tuo seme?
E chi è quello sì amante di sé
che neghi agli altri la sua discendenza?
Come lo specchio del suo primo Aprile
tu sei a tua madre, così tu vedrai
in quella faccia il tuo tempo dorato.
Ma se infecondo ti arrendi alle rughe,
senza curarti della tua memoria,
solo morrai e con te la tua immagine.
49
4.
Amore prodigo, perché riversi
sopra te stesso il tuo bel patrimonio?
E’ un prestito il retaggio di natura
e per ridarlo ai generosi è dato.
Perché abusi dei munifici doni
e bello e avaro per te li trattieni?
Perché, usuraio ma senza profitto,
usi tanta ricchezza per non vivere?
In solitudine amando te stesso
te stesso frodi del tuo dolce io.
E quando il conto chiuderà natura
quale bilancio lascerai, sciogliendo
nella tomba con te la tua bellezza,
che, usata, a noi eredi parlerebbe?
50
5.
Le ore che lievi l’aspetto formarono,
amabile a ogni sguardo che v’indugia,
con protervia costante disfaranno
la bellezza che bella ora vi eccelle.
Travolge il tempo nell’odioso inverno
la linfa dell’estate: gela, cade
l’ultima foglia e il rigido squallore
copre ogni cosa e regna anche sul bello.
Se intanto dell’estate il distillato
liquore in vasi di vetro raccolto
non fosse, la bellezza e la memoria
rapite ci sarebbero. E se i fiori,
pur distillati, perdono l’aspetto,
ne vive ancora dolce la sostanza.
51
6.
Non lasciar dunque sfiorire l’estate
senz’aver distillato il seme tuo.
Rendi preziosa la fiala che accoglie
la tua bellezza prima che si estingua.
Uso felice, e non usura, paga
chi il dovuto concede: dieci volte
più felice saresti se, per uno,
dieci te stesso ispiri, e ancora dieci.
Quale potere avrebbe allora morte
sopra di te, se alla tua ora trova
nella tua discendenza te vivente?
Non ostinarti ad amare te solo:
sei troppo bello per cadere preda
della morte e dei vermi, tuoi eredi.
52
7.
Guarda ad oriente quando il sole spunta
con la benigna fiammeggiante testa:
quaggiù ogni occhio alla sua maestà
l’omaggio rende e segue il suo apparire.
Ed anche quando del cielo ha scalato
la cima, gli occhi mortali lo adorano,
seguendo la bellezza nel suo culmine,
come giovane e forte in piena luce.
Ma quando come in tarda età saluta
pesante il giorno, dal tragitto basso
si distolgono gli occhi e s’allontanano.
Così tu nel tramonto del tuo giorno
lontano da ogni sguardo morirai:
ammenoché tu non procrei un figlio.
53
8.
Perché ascolti tristemente la musica,
tu che sei musica per chi ti ascolta?
Perché ami ciò che non lieto accogli?
Forse hai piacere di ciò che ti annoia?
Se i giusti accordi di sposati suoni
offendono il tuo orecchio, è perché sciupi
in una voce sola i molti suoni
che, insieme fusi, tu dovresti reggere.
Gioie e dolcezze non si fanno guerre:
guarda come ogni corda maritata
vibri con l’altra in un dolce accordo.
Così un padre e una madre, tutti in uno
col figlio, cantano lo stesso suono.
Ma tu, da solo, resterai nessuno.
54
9.
Per timore del pianto d’una vedova
forse te stesso da solo consumi?
Se morrai senza figli il mondo intero
sarà come tua sposa inconsolabile,
come una vedova che sempre piange
l’immagine di te che ormai non ha:
ogni altra vedova in mente rivede
negli occhi di suo figlio il volto amato.
Ciò che il prodigo spende resta al mondo,
ma scade e si consuma la bellezza
che, non usata, si distrugge invano.
Nessun amore per gli altri in quel cuore
risiede, che su se stesso commette
il vergognoso assassinio d’amore.
55
10.
Nega se puoi di non amar nessuna.
Vergogna, ché a te stesso non provvedi.
D’essere amato da molte puoi dire,
ma è evidente che nessuna ami,
poiché si preso sei d’odio omicida
che mai non cessi a danneggiar te stesso,
l’edificio bellissimo cercando
di rovinar che riparar dovresti.
Cambia, ch’io possa cambiare giudizio!
Potrà più l’odio che il gentile amore?
Come il tuo aspetto, sii grazioso e dolce
ed a te stesso mostrati pietoso.
Per amor mio procrea, come te, altri;
e la bellezza viva in te o nei tuoi.
56
11.
Quanto declini d’altrettanto cresce
in un dei tuoi quel che tu stai perdendo;
e il nuovo sangue, che giovane infondi,
tuo puoi chiamare quando invecchierai.
Da ciò, saggezza e il bello e lo sviluppo.
Sennò, follia, vecchiaia e decadenza.
Se tutto al mondo come pensi fosse
cesserebbero i tempi e il mondo e tutto.
Chi la Natura non vuole che duri,
bruti e senza bellezza, che si estingua;
guarda invece a chi lei tutto concesse:
tu, quale dono munifico sei.
Ti scolpì suo sigillo e tu, munifico,
devi imprimerti in altri e non morire.
57
12.
Quando conto il passaggio delle ore
che muta il giorno nell’orrida notte,
quando sfiorita la violetta guardo,
e dei riccioli il nero farsi argento,
quando alberi orgogliosi vedo nudi
della chioma che i greggi proteggeva,
e il verde dell’estate nei covoni
restrinto e con le barbe ispide e bianche,
allora penso alla bellezza tua:
come anche tu rovinerai nel tempo,
perché tutte le cose dolci e belle
di per sé vanno ed altre ne ricrescono;
e niente contro il tempo ci difende
se non la prole con cui tu lo vinci.
58
13.
O amor mio, se tu ben riflettessi!
Tu ti appartieni fino a che tu vivi.
Contro la fine che verrà prepàrati,
e il tuo sembiante a qualche altro cedi.
Così quella bellezza che hai in prestito
non cesserebbe, perché tu saresti,
dopo la morte, di nuovo te stesso
con le tue forme nella bella prole.
Chi lascerebbe cadere sì bella
casa, che la saggezza salverebbe
dai tempestosi giorni dell’inverno
e dallo sterile freddo di morte?
Solo un dissipatore. Amor mio,
tu avesti un padre, lo abbia anche tuo figlio.
59
14.
Non dalle stelle traggo i miei giudizi,
eppur mi sembra di leggere gli astri,
ma non per dire la buona fortuna,
o la cattiva, malattie o morti;
né l’avvenire raccontare posso
a ciascuno coi suoi venti ed i tuoni;
o che d’un principe il regno predica
con frequenti letture delle stelle.
Ma nei tuoi occhi traggo il mio sapere
da stelle fisse dov’io leggo questo:
virtù e bellezza sempre insieme andranno,
se cambierai per far di te un vivaio .
Altrimenti di te questo predico:
virtù e bellezza con te finiranno.
60
15.
Quando vedo che tutto ciò che cresce
solo un momento risplende perfetto,
che sulla scena del mondo ombre s’agitano
su cui arcane imperano le stelle,
quando comprendo che uomini e piante,
mantenuti dai medesimi influssi,
si vantano della lor fioritura
ma giunti al sommo nell’oblio si perdono,
allora penso allo stato fugace
in cui m’appare la tua gioventù,
trionfante mentre il tempo distruttore
disfà ogni giorno nella sconcia notte.
Per amor tuo muoverò guerra al tempo:
ciò che disfà, di nuovo io t’innesto.
61
16.
Perché non fai una guerra più potente
contro il tempo, sanguinoso tiranno,
e ti rinforzi per la tua vecchiaia
con veri mezzi anziché le mie rime?
Ora sei dei felici giorni al culmine
e molte vergini serre vorrebbero,
con desideri virtuosi, portare
i tuoi fiori, tuoi viventi ritratti.
Così vivrebbe per linee di vita,
nel suo valore e nella sua bellezza,
ciò che un pennello o la mia penna incerta
mai potranno di te rappresentare.
Dando te stesso, te stesso conservi:
vivrai ritratto dal tuo dolce seme.
62
17.
In futuro chi crederà ai miei versi
anche se descrivessi ogni tuo merito?
Come una tomba finora nascondono
la tua vita e solo in parte ti mostrano.
Se la bellezza potessi descrivere
dei tuoi occhi, o elencare le tue grazie,
l’età futura direbbe ch’io mento,
ché sì celesti sembianze mai furono.
E queste carte ingiallite dal tempo,
non più che un vecchio ciarliero apprezzate,
nessuno crederebbe che di te
diano il giusto ritratto e non la favola.
Ma se qualche tuo erede allor vivesse,
in lui e nei miei versi, allor vivresti.
63
18.
Paragonarti a un bel giorno d’estate?
Più dolce sei e amabile: le gemme
di maggio strappano i venti improvvisi
dell’estate, che troppo breve resta.
Talvolta il sole in cielo troppo brucia
e poi offusca la sua luce d’oro.
Dalla bellezza ogni bellezza scade
per il cambio di sorte o di natura.
Ma la tua estate eterna non tramonta:
nessuno ruberà la tua bellezza
né vagherai fra l’ombre della morte.
Perché tu sempre in versi eterni vivi.
Finché l’uomo respira o l’occhio vede,
finché vive il mio verso, tu vivrai.
64
19.
Strappa gli artigli al leone e la terra
fa’ che divori le sue stesse dolci
creature; e la Fenice imperitura,
tempo divoratore, fa’ che bruci.
Come tu vuoi, stagioni tristi o liete
alterna, e ciò che vuoi al vasto mondo
e alle caduche sue dolcezze imponi,
tempo troppo veloce: tutto fa’.
Ma di solcare ti vieto con rughe
la bella fronte del mio amore: lascia
questo modello inviolato al futuro.
Oppure no, puoi fare anche il tuo peggio,
tempo e vecchiaia: il mio amore diletto
vivrà giovane sempre nei miei versi.
65
20.
Volto di donna dipinto di mano
stessa della natura hai, signore
e anche signora della mia passione;
ed hai un cuore gentile di donna,
ma non volubile com’è costume
di infide donne; ed hai l’occhio più terso,
che non inganna nel suo guardare
e fa d’oro l’oggetto su cui posa.
Sei perfezione d’ogni umanità:
rubi gli occhi degli uomini e alle donne
l’anima avvinci. E se donna Natura
ti concepì, s’innamorò di te
e perciò aggiunse cosa, per me inutile,
delizia per le donne. A me il tuo amore.
66
21.
Non scrivo versi come quella Musa
che in un dipinto vien sforzata all’opera
e s’ingegna d’usare ogni artificio
e si compara a ogni bellezza e al cielo.
Doppi confronti orgogliosi facendo,
la luna e il sole, le gemme del mare
e della terra, nei suoi versi usa,
e le più rare piante che fioriscono.
Lasciate che io scriva nei miei versi,
io che sono sincero nel mio amore,
semplicemente che il mio amore è bello,
come ogni figlio agli occhi di sua madre.
Altri esageri con frasi retoriche:
ciò che non voglio vendere non lodo.
67
22.
Niente potrà persuadermi che vecchio
io sia, finché tu e gioventù
tutt’uno siete: invecchierò anch’io
quando vedrò su te segni del tempo.
Perché quella bellezza che ti copre
è solo rivestita dal mio cuore
che nel tuo petto vive e il tuo nel mio.
Come allora potrei esser più vecchio?
Abbi amore, così, cura di te
com’io per te, e non per me, farò,
custodendo il tuo cuore ch’è sì caro.
Da tutti i mali lo terrò lontano;
ma se io muoio non riavrai il tuo cuore:
tu me lo desti per mai più riaverlo.
68
23.
Come inesperto attore sulla scena
che per paura oltrepassa la parte,
e come chi per ira incontrollata
indebolisce la sua stessa forza,
così son io che, per paura, il rito
di perfette cerimonie d’amore
dimentico; e la forza del mio amore
sembra andar oltre per la troppa forza.
Oh, lascia allora che i miei libri siano
l’eloquenza che, muta, amore implora
e ricompensa cerca al mio parlare
che più e più, e forse troppo, ha detto.
Ciò che l’amore silenzioso ha scritto
a udir con gli occhi impara, per amore.
69
24.
Il mio occhio è il pittore che ha ritratto
la tua immagine bella sulla tela
del mio cuore; il mio corpo la incornicia
e il tutto è fatto dal miglior pittore.
Solo tramite gli occhi dell’artista
si può cercare la tua vera immagine,
appesa nel negozio del mio cuore
che per finestre ha i vetri dei tuoi occhi.
Gli occhi per gli occhi come bene rendono!
I miei hanno dipinto le tue forme;
i tuoi sono finestre sul mio petto
da cui il sole si gloria di mirarti.
Eppure gli occhi non tutto dipingono:
di ciò che sente il cuore niente sanno.
70
25.
Chi è favorito dalle stelle vanti
pubblici onori e titoli orgogliosi.
Io che son privo di questi trionfi
solo gioisco di chi più onoro.
I favoriti dei principi roteano
a girasole le altezzose foglie,
ma il loro orgoglio che uno sguardo uccide
in una tomba spenge il suo splendore.
Ed al guerriero di mille vittorie
una sconfitta cancella l’onore,
e delle sue fatiche anche il ricordo.
Felice io che amo e sono amato
e che nessuno potrà mai spostare
da quest’amore; né io mai potrei.
71
26.
Padrone del mio amore che m’hai stretto
in vassallaggio pei tuoi grandi meriti,
questi devoti versi io te li invio
non per mostrare ingegno ma omaggio.
Povera cosa a causa del mio ingegno
questa sì grande devozione appare;
ma in un benigno tuo favore spero
che tu nuda l’accolga nel tuo animo.
O tu stella che guidi il mio cammino,
finché non vesti con grazioso aspetto
ciò che d’amore, disadorno, invio,
di come t’amo non oso vantarmi:
solo se mostri la benigna faccia,
alla tua prova metterò l’ingegno.
72
27.
Rotto dalla fatica, cerco il letto
per riposar le membra dal viaggio;
ma subito mi inizia nella testa
l’altro lavoro, come di un ritorno.
Per quant’io sia lontano, a te i pensieri
devoti corrono e le stanche palpebre
tengono aperte: nel buio riguardo,
come un cieco, cercando la tua immagine.
Finché la vista della mente vede
un gioiello sospeso: la tua ombra
che rende bella la notte spettrale.
Così di giorno le mie membra e poi
di notte la mia mente, a causa tua,
a causa mia, non trovano riposo.
73
28.
Come recupero la mia salute,
del beneficio del riposo privo?
Quando la notte non ristora il giorno
e m’opprimono insieme e notte e giorno?
Sebben di regni fra loro nemici
fra lor s’alleano per torturarmi,
con la fatica il giorno e col rimpianto
d’esser, la notte, sempre più lontano.
Lusingo il giorno e la notte dicendo
che tu sei l’oro splendente del sole
e delle stelle la grazia vibrante.
Ma ogni giorno prolunga il mio tormento
ed ogni notte sembra che più forte
renda la forza di questo tormento.
74
29.
Quando, in disgrazia con la sorte e gli uomini,
piango da solo il mio stato infelice
e con vani lamenti accuso il cielo
e da me maledico il mio destino
augurando a me stesso d’esser altro,
simile a chi è ricco di speranza,
simile a lui d’aspetto e come lui
ricco d’amici e d’arte e di sapienza,
e quasi arrivo a disprezzar me stesso,
felicemente ti penso, il mio stato,
come allodola risvegliata, canta
inni di gioia alle porte del cielo:
perché il ricordo del tuo amore dolce
non cambierei con lo stato di re.
75
30.
Quando richiamo con malinconia
dolci ricordi di cose passate,
lamento il vuoto di ciò che bramai
e del mio tempo migliore la perdita.
E allora l’occhio mi s’empie di pianto,
al ricordo degli amici diletti
rapiti nella notte senza fine;
e di pene d’amore cancellate;
e di sì tante immagini svanite.
Allor mi dolgo dei dolori andati
e di ciascuno il già pianto ripiango.
Ma se in quel mentre, amico mio diletto,
a te io penso, ogni perdita resa
mi viene e termina tutto il dolore.
76
31.
Il tuo petto m’è caro per i cuori
tutti che, assenti, io ho creduto morti;
là con tutti i suoi pregi regna Amore,
e con gli amici che credei sepolti.
Quanto tributo alla morte han versato
i miei occhi di religiose lacrime
e sante per gli amori a me rapiti
che, ormai lontani, in te celati giacciono.
Tu sei la tomba dove sempre vivono
i trofei dei miei amori sepolti,
che a te rendono ciò che a loro diedi.
Quel che di tanti fu è tuo soltanto:
io vedo in te le immagini che amai
e tu, che tutte sei, hai di me tutto.
77
32.
Se tu vivrai oltre il mio giorno ultimo,
quando morte mi coprirà di polvere,
e per fortuna rileggessi ancora
questi poveri versi del tuo amante,
coi migliori del tuo tempo comparali;
e pur se ogni altra penna superasse
di ben altri poeti questi versi,
per amor mio, e non per loro, serbali.
Concedimi amorevole un pensiero:
“Se innalzata si fosse del mio amico
la poesia fino a quella d’oggi,
rime migliori avrebbe scritto Amore;
ma poiché lui è morto, gli altri versi
per lo stile, i suoi per amore leggo.”
78
33.
Ho visto spesso un glorioso mattino
accarezzare la cima dei monti
e indorare con celeste alchimia
i verdi prati e i pallidi torrenti.
Ma poco dopo la sua faccia ho visto
oscurarsi di densissime nubi
e correre sul mondo, derelitta,
a occidente, per la disgrazia in fuga.
Così da prima ha brillato il mio sole
su me trionfante; ma, ahimè! Fu mio
un’ora e poi fu coperto da nubi.
Ma non per questo disdegno il mio sole:
ben può il sole dell’amore oscurarsi
se anche il sole del cielo vien coperto.
79
34.
Perché sì bella giornata promettere
e far che viaggi senza il mio mantello,
per poi sorprendermi con basse nuvole
che sporcano di pioggia il tuo splendore?
Non basta che tu rompa fra le nuvole
ad asciugare il mio viso sbattuto:
nessuno reputa buona la cura
che la ferita allevia e lascia il male.
La tua vergogna non sana la perdita,
né il dispiacere solleva la croce
di chi sopporta un’offesa sì dura.
Ma le lacrime che il tuo amore versa
sono perle preziose che guariscono
ed ogni mala vicenda riscattano.
80
35.
Non ti angustiare più per ciò che hai fatto.
Anche le rose hanno spine, la luna
e il sole sono oscurati da nubi
e i bruchi vivono in dolci boccioli.
Tutti sbagliano; ed anch’io: che i tuoi falli
autorizzo scusandoli nei versi
e i tuoi peccati giustifico troppo,
abbassando il mio essere per te.
Poiché alla colpa dei tuoi sensi un senso
trovo, contro di me faccio il processo:
la parte avversa si fa tuo avvocato.
Tra l’amore e il rancore è in me una guerra
che mi trasforma in complice del ladro,
che dolcemente, e atroce, mi deruba.
81
36.
Noi due dobbiamo essere due
sebbene uno sia il nostro amore:
così la macchia che a me è rimasta
senza il tuo aiuto dovrò sopportare.
I nostri due amori hanno una sola
dignità, che crudelmente separa
e dolci ore d’amore sottrae,
ma non cambia quell’uno che è l’amore.
Non potrò più riconoscerti sempre,
perché la mia vergogna non ti macchi.
Né tu mi onorerai pubblicamente,
perché il tuo onore non ti venga tolto.
Non farlo! T’amo talmente che mio
sei e così mio è anche il tuo amore.
82
37.
Come d’un figlio giovane e vivace
si compiace orgoglioso un vecchio padre,
così io, dalla fortuna abbattuto,
dei tuoi pregi e valori mi consolo.
Perché se nascita, bellezza e ingegno
e tutto questo e altro e altro ancora
è di diritto tuo in sommo grado,
a questo tronco innesto anche il mio amore.
E allora, né abbattuto, o disprezzato,
o povero, mi sento: la tua immagine
è sì ricolma di pregi che vivo
anche di ciò che la tua gloria emana.
Se avrai del meglio il meglio che a te auguro,
dieci, e dieci volte me felice!
83
38.
Come può la mia Musa ricercare
altri argomenti finché tu respiri,
troppo eccellente per carte volgari,
ma che ti versi dolce in questi versi?
Rendi grazie a te stesso se di mio
qualcosa degno alla tua vista appare:
chi sarebbe di scrivere incapace
quando tu stesso poesia accendi?
Sii la decima Musa, dieci volte
più degna che le nove d’eternare
con accenti immortali chi ti invoca.
Se a questi strani giorni mai piacesse
la mia esile Musa, sarà mia
la fatica, ma certa è a te la lode.
84
39.
Come posso cantarti degnamente
quando di me sei la parte migliore?
Perché lodare io stesso il mio me stesso?
E quando te lodo, cos’altro lodo?
Anche per questo viviamo divisi
e il nostro amore cessa d’esser unico;
perché, lontano, ciò che t’è dovuto
io possa darti. E che tu solo meriti.
Oh, assenza, qual tormento mai saresti
se nel tuo ozio ore dolci non dessi
per impiegarle in pensieri d’amore
che dolci ingannano ore e pensieri;
e come insegni a dividere l’unico,
qui lui lodando che da qui è lontano.
85
40.
Prenditi tutti i miei amori, amor mio,
prendili tutti, e cosa avrai di più?
Nessun amore che chiamare amore
tu possa, amore, perché il mio è tuo.
Se allor per amor mio usi il mio amore,
non posso biasimarti; eppur ti biasimo
se, ingannando te stesso, assaggerai
gustando ciò che tu stesso rifiuti.
Ma ti perdono il furto, dolce ladro;
eppur l’amore sa che più dell’odio
brucia il torto inatteso dell’amore.
Grazia lasciva in cui bene si mostra
tutto il male, coi tuoi dispetti uccidimi:
non dobbiamo per questo esser nemici.
86
41.
Questi torti leggeri che commetti,
assente io talvolta dal tuo cuore,
alla bellezza tua ed ai tuoi anni,
che in te tentano sempre, ben s’addicono.
Tu sei gentile e quindi da esser vinto;
bello tu sei e quindi da assalire.
Chi potrà mai, quando una donna chiama,
lasciarla austero senza che prevalga?
Ahimè! Ma almeno potresti non prendere
il mio posto; e sgridare la bellezza
e gli anni tuoi, che proprio là ti portano
a infrangere una doppia fedeltà:
di lei, che tenti con la tua bellezza;
di te, che la bellezza rende falso.
87
42.
Che tu l’abbia, non è tutta la pena.
Eppur l’amavo! Ma che essa abbia te
è il colmo del mio soffrire, la perdita
d’amore che più profondo mi tocca.
Ma io vi scuso, amanti traditori:
tu ami lei perché sai che io l’amo;
e similmente lei, per amor mio,
soffre, ingannandomi, che tu la provi.
Se perdo te, del mio amor sei il guadagno;
se perdo lei, tu trovi quella perdita:
voi vi trovate ed io entrambi perdo.
Per amor mio la croce m’imponete.
Ma, lusinghiera dolcezza! se uno
tu ed io siamo, me solo lei ama.
88
43.
Quanto più chiudo gli occhi e più essi vedono:
di giorno solo cose indifferenti,
ma in sogno essi te scorgono brillante
e luminosi nel buio s’accendono.
Se la tua ombra fa brillare l’ombre
ad occhi senza vista,dimmi allora
quale sostanza lieta mostrerebbe
la tua ombra di giorno in chiara luce!
Benedetti sarebbero i miei occhi
posando su di te nel giorno vivo,
non tra il sonno sull’ombra tua imperfetta.
Finché non ti vedrò, son notti morte
i giorni e giorni vivi quelle notti,
quando brillante in sogno a me ti portano.
89
44.
Fosse pensiero la pesante carne,
a dispetto delle avverse distanze,
da lontanissimi limiti a te,
dove ora stai, mi porterebbe subito.
Potrei anche la terra più remota
calpestare, ché l’agile pensiero
e terre e mari per te varcherebbe
e là sarebbe dove sta pensando.
Però il pensiero che non son pensiero,
ma d’acqua e molta terra son composto
e non posso annullare lunghe miglia,
m’uccide. E riempio di lamenti il tempo;
e lacrime dai grevi miei elementi
solo ricavo, del dolore emblema.
90
45.
Ovunque io sia gli altri due son con te:
l’aria sottile che è il mio pensiero
e del mio desiderio il fuoco puro,
presenti assenti, instancabili corrono.
Quando a te in dolce ambasceria d’amore
questi elementi più veloci vengono,
io che da quattro a due sono ridotto,
fino a morir di tristezza m’abbatto.
Quando essi, della tua buona salute
assicurati, a me veloci tornano,
gli elementi di vita si reintegrano.
E godo alla notizia; ma per poco.
Non più felice, li rimando indietro
di nuovo ancora e aumenta la tristezza.
91
46.
Si fanno guerra mortale il mio occhio
e il mio cuore per la visione tua:
l’occhio vorrebbe proibire al cuore,
mentre il cuore la vuole, la tua immagine.
Il cuore afferma che in lui tu stai
là dove nessun occhio è penetrato;
nega l’assunto l’altra parte e dice
che in lui è riflessa la tua bella immagine.
Per decider la causa è convocata
una giuria di pensieri, schiavi
del cuore, che con verdetto dividono:
al mio occhio è dovuta la bellezza
tua esteriore, e al diritto del cuore
tutto l’intimo amore del tuo cuore.
92
47.
Un’alleanza di mutui servigi
ora s’è stretta fra il mio cuore e l’occhio,
quando il mio occhio ha fame d’un tuo sguardo
o il cuore soffoca pei suoi sospiri.
Si sfama l’occhio allor col tuo ritratto
e al banchetto dipinto invita il cuore;
l’occhio altra volta è ospite del cuore
per aver parte ai pensieri amorosi.
Così col tuo ritratto e col mio amore,
benché lontano, sei sempre con me:
dai miei pensieri tu mai t’allontani.
E quando dormono, in me la tua immagine
risveglia il cuore e la visione tua
è diletto al mio occhio ed al mio cuore.
93
48.
Quante sciocchezze misi sotto chiave,
quando partii, in sicura custodia,
sì che nessuna mano falsamente
le adoprasse al mio posto! E quanta cura!
Ma tu, al cui confronto i miei gioielli
sono sciocchezze, tu degno conforto
ed ora grande affanno, caro e unico
cruccio, di ladri infidi sarai preda.
Nella dolce prigione del mio petto,
dove non sei ma pur ti sento chiuso,
e non in un forziere ti lasciai.
Ma anche là sarai rubato, temo,
perché diventa ladra la virtù
per ottenere un premio così caro.
94
49.
In previsione del tempo, se mai
verrà quel tempo, quando i miei difetti
tu noterai, e trarrai l’ultima somma
del tuo amore dietro saggi consigli,
In previsione del tempo, in cui tu,
passando, mi guarderai indifferente
col sole dei tuoi occhi e convertito
avrai il tuo amore in ragione austera,
In previsione di quel tempo, io
mi rinsaldo cosciente dei miei meriti;
e questo affermo contro il mio interesse:
per lasciarmi, me misero, hai ragioni
legali e forza di legge, mentre io
per amare non allego motivi.
95
50.
Come procedo gravoso nel viaggio
quando la fine del triste percorso
farà dire al mio ristoro e riposo:
“Tanto più sei lontano dal tuo amico.”
Procede l’animale che mi porta,
e con me porta il mio dolore, stanco
come sapesse che il suo cavaliere
non vuol fretta che da te lo allontani.
Quando talora nell’ira lo sprono
fino al sangue, non si scuote e risponde
con un lamento greve, a me più acuto
che a lui lo sprone, perché quel lamento
mi ricorda che a me davanti giace
il mio dolore e dietro la mia gioia.
96
51.
Così il mio amore la lentezza pigra
scusa dell’animale che da te
m’allontana: perché dovrei affrettarmi?
Fino al ritorno, non serve che corra.
Che scusa, allora, la povera bestia
mai troverà, se anche l’andar veloce
sembrerà tardo? Darò sprone al vento;
ma anche il volo scoprirei immobile.
Nessun destriero, allora, sarà pari
al desiderio del perfetto amore,
in fiera corsa senza pigra carne
lanciato. E amore scuserà il ronzino
che per amore volle esser lento:
io correrò, e lui potrà andar piano.
97
52.
Così son io: come il ricco al tesoro,
dolce, nascosto, con chiave beata
non tutte l’ore accede, per acuire
la fine punta del piacere raro.
Per questo così solenni le feste
e così rare lungo l’anno sono,
come pietre di valore e gioielli
messi a intervalli lungo una collana.
Così ti tiene il tempo come scrigno
o forziere che cela vesti rare,
per rendere beato qualche istante
quando di nuovo schiude il suo splendore.
Beato sei, perché dai modo, avendoti,
di trionfare e, assente, di sperare.
98
53.
Di che sostanza, di cosa sei fatto
che milioni di ombre ti corteggiano?
Ciascuno ha, ognuno, un’ombra sola
e tu, solo, tutte l’ombre proietti.
Si può descrivere Adone, e l’immagine
sarà una povera tua imitazione;
o sulle guance d’Elena porre
ogni artificio di bellezza, e tu
sarai dipinto allora in vesti greche;
la primavera e il raccolto dell’anno
per noi sono ombre della tua bellezza.
D’ogni grazia esteriore hai qualche parte.
Ma tu a nessuno somigli e nessuno
ti somiglia per costanza di cuore.
99
54.
Quanto più la bellezza sembra bella
quando adorna l’essenza di dolcezza!
Sembra bella la rosa, ma più bella
la teniamo per quell’odore dolce
che in essa vive. Le rose canine
hanno lo stesso profondo colore;
su uguali spine pendono e lascive
aprono i bocci al soffio dell’estate.
Ma il loro pregio è solo nel mostrarsi:
vivono ed appassiscono neglette;
da sole muoiono. Le dolci rose,
morte, ancor danno profumi dolcissimi.
Quando tu svanirai, gioventù bella,
la tua essenza diffonderà il mio verso.
100
55.
Né marmo, né monumenti dorati
di re sopravvivranno a questi versi.
E tu in essi brillerai più che pietre
neglette, lorde di lurido tempo.
Guerre e rivolte abbatteranno statue,
case, fortezze; ma né spade o fuoco
mai potranno bruciare la vivente
testimonianza della tua memoria.
Contro la morte ed il nemico oblio,
tu durerai; la tua lode avrà spazio
anche negli occhi dell’ultima gente.
Finché il mondo si porterà alla fine,
tu vivi in questi versi ed hai dimora,
sempre viva, negli occhi di chi ama.
101
56.
Dolce amore, rinnova la tua forza:
la tua punta non sia meno affilata
dell’appetito che oggi il cibo sazia
ma domani ritorna come prima.
Così amore sii tu. Sebbene oggi
tu riempia gli occhi affamati e li sazi,
domani guarda ancora e non uccidere
con sazietà perpetua questo amore.
Come un oceano è il triste intervallo
che separa le coste, ma agli amanti
promette il beato ritorno d’amore.
E come è pieno d’affanni l’inverno!
Ma benvenuta fa aspettar l’estate,
tre e tre volte più desiderata.
102
57.
Sono tuo schiavo: cosa posso fare
se non attendere per ore e giorni
ai desideri tuoi? Non ho servizio
più prezioso finché tu non mi chiami.
Né oso recriminare sull’ora
senza fine in cui guardo l’orologio
in tua attesa, mio sovrano; o pensare
all’amara tua assenza quando esci.
Né oso domandare al mio pensiero,
con gelosia, dove e a far cosa vai,
ma come schiavo rattristato resto.
Certo, là dove vai sono felici.
L’amore ch’è sì pazzo alle tue voglie,
d’ogni cosa che fai non pensa male.
103
58.
Quel dio che m’ha fatto tuo schiavo eviti
ch’io pensi ai tuoi momenti di piacere
o chieda il conto insistente delle ore,
poiché, vassallo, son stretto ai tuoi comodi.
Lascia che soffra, se sono al tuo cenno,
della tua libertà l’imprigionata
assenza, e docile e paziente aspetti,
senza accusarti, e sopporti i tuoi colpi.
Stai dove vuoi: tu hai sì tanti diritti
per far ciò che ti aggrada del tuo tempo.
E a te compete il perdonar te stesso
delle colpe che contro te commetti.
Devo aspettare, pur se è un inferno,
non biasimare, giusto o ingiusto sia.
104
59.
Se niente è nuovo, ma ciò che è fu,
come s’ingannano le nostre menti
che il nuovo cercano e invece abortiscono
la placenta d’un bambino già nato.
Oh, potesse la memoria all’indietro
cercare anche di cinquecento anni,
per mostrarmi in antichissimi libri,
dacché l’uomo li scrive, il tuo modello.
Vedrei cosa diceva il mondo antico
della meravigliosa tua figura:
se noi, o loro, o nessuno migliora.
Oh, ma sono sicuro che gl’ingegni
delle ere passate han tributato
lodi a soggetti di te meno degni.
105
60.
Come le onde incalzano alla riva,
così i nostri minuti; che s’affrettano
alla fine, rubando ognuno il posto
al precedente. E innanzi tutti spingono.
La nascita, appena entrata nel mare
di luce, in maturità si trascina:
è incoronata, ma eclissi contorte
contro la gloria combattono. E il tempo
i doni che già dette ora distrugge:
strappa alla giovinezza la ghirlanda;
divora alla natura ogni virtù;
e sotto la sua falce niente sta.
Ma tuttavia contro il tempo crudele
i miei versi staranno in lode tua.
106
61.
Sei tu che vuoi che le mie stanche palpebre
sulla tua immagine di notte s’aprano?
Desìderi che i miei sonni si rompano
sull’ombre, simili a te, che m’ingannano?
E’ il tuo spirito che tu fuori mandi
così lontano a spiare i miei atti,
per scoprire vergogne e ore inutili
come alimento alla tua gelosia?
No! Se anche è tanto, non è così grande
il tuo amore. E’ il mio che mi tien sveglio;
il vero mio amore che per te
ruba il riposo e sta di sentinella.
Per te veglio, mentre tu vegli altrove,
da me lontano e sì vicino ad altri.
107
62.
Interamente possiede i miei occhi
e la mia anima ed ogni mia parte
questo peccato d’amare me stesso,
che tanto m’è infiltrato dentro il cuore.
Nessun volto è grazioso come il mio,
nessuna forma perfetta e nessuna
perfezione, come la mia, vera.
E da me dico che tutti sovrasto.
Ma quando questo specchio come sono,
sbattuto, svela, e avvizzito dagli anni,
l’amor di me allor leggo al contrario:
se così è, l’amare me è iniquo.
Sei tu, il me stesso, che per me dipingo,
col fiore dei tuoi giorni, la mia età.
108
63.
Come son io ora, anche il mio amore
sarà consunto dal tempo oltraggioso;
quando l’ore seccheranno il suo sangue
e la fronte gli empiranno di linee;
quando il mattino suo di gioventù
sarà corso nella scoscesa notte
e le bellezze di cui ora è re
spariranno con la sua primavera.
Per quel tempo mi fortifico ora
contro il coltello crudele degli anni,
sì che non tagli mai, oltre alla vita,
anche il ricordo della sua bellezza,
che in queste linee nere sarà vista.
Esse vivranno, e lui con loro, giovane.
109
64.
Quando ho visto sfigurata dal tempo
la superbia di età ormai sepolte,
e torri altere vedo rase a terra,
e il bronzo eterno schiavo della morte,
quando ho visto l’oceano guadagnare
famelico sul regno delle terre,
e il fermo suolo emergere dall’acqua,
e ognuno perdere, e acquistare, e perdere,
quando ho visto tali scambi di stato,
e lo sfacelo delle cose stesse,
dalla rovina ho imparato a pensare.
Verrà quel tempo e ruberà il mio amore.
E al pensiero di morte senza scelta
piango d’avere, ché temo di perdere.
110
65.
Se né pietra né bronzo o terra o mare
contrastano il potere della morte,
come potrà a questa rabbia opporsi
la bellezza non più forte d’un fiore?
E l’alito di miele dell’estate
reggerà i colpi di molte tempeste,
se anche rocche dalle porte d’acciaio
non resistono all’assedio del tempo?
Come, allora, la più preziosa opera
del tempo al tempo celare, e fermarlo,
e impedire il saccheggio di bellezza?
In nessun modo, se non ha potere
questo miracolo: nel nero inchiostro
possa il mio amore luminoso splendere.
111
66.
Stanco di tutte queste cose invoco
morte e riposo:
quando vedo che il merito già nasce
come un pezzente;
e nullità bisognose di tutto,
ricche di fronzoli;
e la fede più pura rinnegata
miseramente;
e grandi onori concessi a persone
degne d’infamia;
e la virtù verginale con forza
prostituita;
e la retta perfezione negata
malignamente;
e la forza da poteri deformi
debilitata;
e tutte le arti dalle autorità
imbavagliate;
e la stoltezza che usurpa le cattedre
negare il genio;
e la nuda verità dileggiata
di scherni astuti;
e il bene schiavo che ubbidisce al male
suo superiore.
Stanco di tutte queste cose, andarmene
vorrei dal mondo,
se morire non fosse anche lasciare
solo il mio amore.
112
67.
Perché dovrebbe egli vivere in mezzo
all’infezione, e l’empietà graziare,
sì che il peccato di lui s’avvantaggi
e si adorni della sua compagnia?
Perché dovrebbe una morta cosmesi
rubare alle sue guance il colorito?
Perché dovrebbe una triste bellezza
imitare l’ombra delle sue rose?
Perché dovrebbe egli vivere, adesso
che la natura ha fallito ed implora
sangue vivo da infondere, giacché,
fiera di molti, di lui solo vive?
Lo preserva per mostrar quanto ricca,
prima di questi tempi orrendi, fosse.
113
68.
La sua guancia è così il vero modello
dei tempi quando viveva e moriva
la bellezza, come ora fanno i fiori
e invano tentano i falsi ornamenti;
prima che bionde trecce tolte ai morti,
anziché prede di tombe, vivessero
su un’altra testa una seconda vita:
morto vello per chi osa lo sfarzo.
In lui si vedono le sante e antiche
età, vere in se stesse e senza orpelli,
che non chiamano estate il verde altrui.
Lui, vera mappa e modello, preserva
la natura contro l’arte falsata,
per mostrare com’era la bellezza.
114
69.
Ciò che di te si vede non necessita
altro di più che il cuore possa aggiungere:
la nuda verità che ti è dovuta,
come lode al nemico, ognuno dice.
Il tuo aspetto esteriore di esteriori
lodi è sovrano; ma le stesse lingue,
con altri accenti, le lodi confondono
guardando quello che gli occhi non mostrano.
Scrutando infatti dentro la tua mente
che dai tuoi atti traspare, il pensiero,
anche se l’occhio fu appagato, scopre
che il tuo bel fiore ha fetore d’erbacce.
Se con la tua apparenza ciò contrasta,
così si spiega: diventi volgare.
115
70.
Che tu sia biasimato, non significa
che tu n’abbia la colpa: la calunnia
colpì sempre la bellezza e il sospetto
vola nell’aria più dolce del cielo.
Se agisci bene, la calunnia è lode,
segno dei tempi che ai migliori tocca,
perché il vizio dei vermi ama il più dolce
frutto e tu gli offri la pura primizia.
Gli agguati della giovinezza hai vinto
o non ti hanno assalito; eppur l’invidia
non frena ma dilaga, pei tuoi meriti.
Se un sospetto di male non macchiasse
la tua apparenza, allora re, tu solo,
di tutti i regni dei cuori saresti.
116
71.
Finché delle campane udrai i rintocchi,
lugubri e mesti, annunziar che passai
dal vile mondo ai vilissimi vermi,
tu potrai piangermi; ma non più a lungo.
Anzi, se leggi questi versi, ignora
chi li scrisse, perché ti amo talmente
che se pensarmi ti reca dolore
non voglio avere i tuoi dolci pensieri.
E non ridire il mio povero nome
quando sarò mescolato all’argilla.
Con la mia vita spengi anche il tuo amore:
non abbia il saggio mondo alcun motivo
di curiosare dentro ai tuoi lamenti
e di schernirti, insieme a me assente.
117
72.
Non abbia il mondo a costringerti a dire
per quali meriti, anche dopo morto,
mio dolce amore, tu mi ami: dimenticami!
Niente in me potrai mostrare di buono.
Non devi escogitare oltre il mio merito
virtuose menzogne, o lodi appendere
sulla mia tomba, maggiori di quelle
che la severa verità vorrebbe.
Non abbia a sembrar falso quel tuo amore
che per amore il non vero riporta,
sia sepolto il mio nome col mio corpo.
Esso non viva a mia o tua vergogna,
perché a mia vergogna è ciò che faccio
e così a te, se ami cose non degne.
118
73.
Quella stagione in me puoi osservare
dell’anno, quando poche foglie gialle
pendono scosse dal freddo sui rami,
nudi cori dove uccelli cantarono.
In me tu vedi del giorno il crepuscolo,
quando la luce sparisce a occidente
a poco a poco nella nera notte,
come altra morte che il riposo afferra.
In me tu vedi del fuoco l’ardore
che giace come sul letto di morte,
sulle ceneri di ciò che ha bruciato.
Questo rende il tuo amore ancor più forte,
come ben sai, perché appieno si ama
solo colui che tra non molto lasci.
119
74.
Ma sii sicuro: quando più riscatti
mi salveranno dall’ultimo arresto,
sempre il diritto la mia vita avrà
di restare con te in questi versi.
Rileggendoli, rivedrai di me
quella parte che ti fu consacrata:
la polvere sarà polvere, a te
il mio spirito, la mia vera parte.
Allora avrai di me perduto solo
le scorie, un corpo morto, vile preda
dei vermi, indegno che tu lo ricordi.
Quello che esso contiene è ciò che vale.
E questa essenza è la mia poesia;
e questa sempre con te resterà.
120
75.
Per me sei come il cibo per la vita,
o per la terra in estate le piogge.
E per la pace che mi dai io lotto
come l’avaro con le sue ricchezze,
ora esultante d’avere e poi, subito,
sospettoso che il mondo lo derubi.
Ed io, ora voglio star solo con te
e poi, che tutti il mio piacere vedano.
Or sazio di godere la tua vista,
poco dopo, affamato d’uno sguardo;
ora e dopo, da te la gioia prendo.
E così giorno dopo giorno anelo,
o sono sazio; divorando tutto,
o di tutto mancante ti desidero.
121
76.
Perché il mio verso di nuovi ornamenti
è così spoglio? e senza variazioni?
Perché non guardo, come oggi tutti,
ai metodi stranieri ed agli effetti?
Perché scrivo tranquillo nel mio modo
e l’invenzione vesto in noti panni,
sì che mostra ogni parola l’origine
e il suo studio, e quasi dice il mio nome?
Oh, sappi, dolce amore, che di te
sempre io scrivo e dell’amore tuo,
perciò il mio meglio è vestire di nuovo
le parole già spese. Come il sole
che un giorno dopo l’altro è nuovo e vecchio,
quel che fu detto, il mio amore ridice.
122
77.
Lo specchio, come fu la tua bellezza;
la meridiana, che l’ore preziose
svaniscono; e questo libro, t’insegni
che i vuoti fogli la tua impronta attendono.
Le rughe che di te lo specchio mostra
son memoria di tombe spalancate;
la meridiana furtiva ammonisce
che il tempo scivola verso l’eterno.
E allora affida a questi bianchi spazi
ciò che la tua memoria non contiene,
e i tuoi pensieri ti parranno nuovi.
Queste abitudini, se tanto spesso
guardi e rifletti, gioveranno molto;
e te ed il tuo libro arricchiranno.
123
78.
Tanto spesso t’invocai per mia musa
e al mio verso ho trovato tale aiuto,
che ogni altra penna ha copiato il mio modo
e al tuo servizio sparpaglia poesie.
I tuoi occhi che insegnarono a un muto
il canto e il volo alla bassa ignoranza,
penne aggiungono all’ala di quei dotti
e una doppia maestà alla grazia loro.
Ma sii fiero di ciò che io compilo,
la cui influenza è tua e da te nasce:
negli altri emendi soltanto lo stile.
Della mia arte invece tutta l’arte
sei ed innalzi la goffa ignoranza
che già fu mia come alto sapere.
124
79.
Finché fui solo a invocare il tuo aiuto
solo il mio verso aveva ogni tua grazia;
ma ora son decaduti i miei metri
e la mia musa lascia il posto a un altro.
Ammetto che il tuo amabile argomento,
dolce amore, ben altra penna merita;
ma il tuo poeta di te quel che inventa
a te rubò ed ora ti rimborsa.
Virtù ti presta e rubò la parola
al tuo contegno; ti dà la bellezza
e la trovò sulla tua guancia: solo
di ciò che in te già vive può lodarti.
Non ringraziarlo dunque degli omaggi:
te li deve perché già ti appartengono.
125
80.
Oh, come tremo quando di te scrivo,
sapendo che uno spirito migliore
loda il tuo nome, usando ogni potere
per farmi muto sulla tua grandezza.
Ma poiché è un oceano, il tuo merito
regge l’umile vela e la superba;
così la barca mia, tanto inferiore,
naviga audace l’ampia tua distesa.
Anche se poco profondo il tuo appoggio
mi tiene a galla, mentre egli cavalca
con l’alto scafo i tuoi insondati abissi.
Se naufrago come misera barca
mentr’egli avrà fortuna, questo è il peggio:
perché il mio amore fu la mia rovina.
126
81.
Ch’io viva per dettare il tuo epitaffio,
o che tu viva quando sarò sciolto,
da qui la morte non potrà slegarti
pur se di me sarà tutto sparito.
Da qui il tuo nome avrà vita immortale
anche se io a tutto il mondo muoia.
Io avrò in terra una tomba comune,
ma il tuo sepolcro è negli occhi degli uomini.
Il mio verso sarà il tuo monumento
letto da occhi non ancora nati
e recitato da bocche future.
Così, quando quel che ora respira
sarà morto, tu vivrai pei miei versi
dove più spira la vita degli uomini.
127
82.
Lo so, non sei sposato alla mia musa
e puoi scorrere perciò senza biasimo
le devote parole che scrittori,
con libri che tu benedici, dedicano.
Nella coscienza e nell’aspetto sei
tanto bello che trovi oltre il mio elogio
i tuoi confini, e sei costretto a prendere
lodi più fresche di più freschi giorni.
Fa’ pur così; ma quando la retorica
t’avrà dipinto coi suoi strani tocchi,
vedrai davvero, tu vera bellezza,
le piane lodi del tuo vero amico.
Su guance esangui grossolani adoprano
tinte e pennelli, ma su te è un crimine.
128
83.
Che tu avessi bisogno di belletto
mai me n’accorsi e perciò non lo misi
sul tuo bel volto. Trovavo, o mi parve,
che tu eccedessi ogni lode poetica.
Perciò fui parco nel cantarti i pregi,
ché tu stesso, presente, ben mostravi
come una penna comune non renda,
parlando di valore, il tuo valore.
Questo silenzio m’imputasti a colpa:
per me è più gloria assai restare muto
che creare una tomba di parole.
Altri pretendono di darti vita,
ma c’è più vita in uno dei tuoi occhi
di quanto entrambi i tuoi poeti inventino.
129
84.
Cosa dirà di più, chi parla al massimo,
che questa lode: tu solo sei tu,
nei cui confini è chiusa la ricchezza
ch’è limite ed esempio per chi cresce?
Penuria estrema in quella penna abita
che non dà qualche gloria al suo soggetto;
ma chi scrive di te, se riesce a dire
che tu sei tu, degna opera ha fatto.
Basta copiare ciò che in te è scritto;
non fare peggio di quel che sì chiaro
fece natura: questo il vero stile.
Tu però aggiungi alle tue belle doti
una maledizione, che le lodi
vuoi cumulare e con ciò le svilisci.
130
85.
Tace impacciata la mia musa mentre
dissertazioni in tua lode, da tutte
le altre muse, son limate in preziosi
fraseggi, impressi in caratteri d’oro.
Io penso bei pensieri, mentre belle
parole un altro scrive; e come un chierico
analfabeta “Amen” sempre grido
al suo inno in sì bella forma sciolto.
Ti lodano e io penso: “Sì, è così”,
ed altre lodi aggiungo col pensiero
che in amore più che parola vale.
Dunque gli altri rispetta per il soffio
delle parole loro; me, pei muti
miei pensieri che veramente parlano.
131
86.
Fu la superba vela del suo verso,
salpata per far preda del tesoro,
te, più prezioso di tutti, che uccise
e chiuse i miei pensieri dove nacquero?
Fu il suo spirito, istruito da spiriti
a scrivere altamente, che mi uccise?
No; né lui, né i compari che di notte
l’aiutano, hanno bloccato il mio verso.
Né lui, né il suo domestico fantasma
che di notte gli svela altri segreti,
mi piegano al silenzio: non li temo.
Ma quando i tuoi favori le sue righe
riempiono superbe, allora manca
la materia al mio verso ed esso langue.
132
87.
Addio. Troppo prezioso tu sei,
lo sai bene, perché io ti possegga.
La carta dei tuoi diritti t’affranca
e su te scadono quindi i miei titoli.
Solo per tua concessione ti tengo:
dov’è il mio merito in tale ricchezza?
Manca la causa in me di sì bel dono
e perciò si disperde il mio diritto.
Desti te stesso ignorando i tuoi meriti,
oppur sbagliando a chi ti desti, a me.
Il dono malinteso, ora che sai,
riprendi. Come un sogno che lusinga
t’ho avuto re nel mio sonno; ma ora,
svegliandomi, ti vedo in altro modo.
133
88.
Quando ti aggraderà di disprezzare
ogni mio merito agli occhi di chiunque,
contro di me combatterò al tuo fianco
per dimostrare che tu sei virtuoso.
(E sei spergiuro!) Ogni mia debolezza
ben conoscendo, inventerò una storia,
riprovevole a me e a tuo favore,
per cui lasciandomi otterrai più gloria.
Anch’io però riceverò un guadagno,
perché amandoti in ogni mio pensiero,
facendo il tuo vantaggio, io n’avrò il doppio.
Tale è il mio amore e a te così appartengo,
che per darti ragione, volentieri
sopporterò calunnie ed ogni torto.
134
89.
Di’ che m’abbandonasti per mia colpa,
e aggiungerò ragioni alla tua accusa.
Se racconti che son zoppo, all’istante
zoppicherò senza oppormi al tuo dire.
Non potrai, amor mio, screditarmi,
per dare forma al cambio che vagheggi,
più di quanto io farò, perché lo vuoi.
Strangolerò l’amicizia, estraneo
mi mostrerò, evitandoti e tacendo
il tuo nome, affinché non lo profani
coi racconti d’una vecchia amicizia.
Per te contro me stesso faccio voto
di combattere, perché mai dovrò
amar colui che sì tanto hai in odio.
135
90.
E allora odiami quando vorrai;
e se è così, ora; ora che il mondo
mi è contro, piegami; unisci i tuoi colpi
alla sfortuna e finiscimi subito.
Non fare che, scampato ad un dolore
ch’io abbia già sconfitto, tu m’assalga
con un tempo peggiore. Non protrarre
la mia disfatta se l’hai già decisa.
Se vuoi lasciarmi, io non sia alla fine
già fiaccato da piccole ferite,
ma vieni in prima linea, sicché il peggio
della sfortuna dall’inizio assaggi:
altri dolori che sembran dolori
altro parranno, contro la tua perdita.
136
91.
Chi della nascita, chi dell’ingegno,
chi della forza, chi della ricchezza,
chi delle vesti, anche alla moda e brutte,
chi di falchi e levrieri e di cavalli,
ognuno ha il suo piacere a lui affine,
superiore per lui a tutti gli altri.
Ma questi aspetti non sono all’altezza
della gioia che tutti in me li aduna.
Il tuo amore più che nobile nascita
vale per me, più che ricchezza o vesti
o cavalli o levrieri o falchi vale.
E avendo te, mi vanto d’ogni orgoglio.
Solo di ciò son misero, che puoi
togliermi tutto e il più misero farmi.
137
92.
Ma per sottrarti a me fa’ pure il peggio,
perché io vivo finché tu sei mio:
non durerà la vita oltre il tuo amore,
perché da quest’amore essa dipende.
Così non temo il peggiore dei torti
quando al minore la mia vita ha fine.
Vedo per me un migliore destino
che dipendere dalla tua incostanza.
Sta la mia vita in te, se vuoi cambiare:
oh, quale titolo felice trovo,
felice del tuo amore e di morire!
Ma c’è felicità senza una macchia?
Tu potresti, o già puoi, essere falso
ed io, né ora né giammai, saperlo.
138
93.
Così vivrò, credendoti fedele,
come un marito illuso, finché il volto
d’amor, pur se non è, tale m’appaia:
con me il tuo sguardo, ed il tuo cuore altrove.
Nei tuoi occhi non può vivere l’odio,
così da quelli non saprò se cambi.
Nel sembiante di molti il falso appare
in umori e cipigli e strane rughe.
Ma tu fosti creato sì che sempre
sul tuo volto apparisse il dolce amore,
qual che fosse il tuo segreto pensiero.
Oh, quanto simile alla mela d’Eva
diventerebbe quella tua bellezza
se la virtù non rispondesse al volto.
139
94.
Chi può ferire e non usa il potere,
chi non fa ciò che più fare potrebbe,
chi muove gli altri e lui sta come pietra,
lento alla tentazione, freddo, immobile,
grazie celesti giustamente eredita
e dagli sprechi le ricchezze salva:
solo per sé padrone del suo volto
e servi gli altri della sua eccellenza.
Quel fiore che d’estate sa d’estate
ma per sé vive e muore, se infettato,
anche l’erba più vile lo sovrasta;
perché le cose più dolci diventano,
coi loro stessi atti, le più aspre:
i gigli marci più che erbaccia puzzano.
140
95.
Come amabile e dolce la vergogna
rendi, che simile ad un verme rode
la rosa e intacca il tuo bel nome in boccio:
di dolcezze rivesti i tuoi peccati.
Chi racconta la storia dei tuoi giorni
con lascivi commenti sui tuoi svaghi,
nominando il tuo nome benedice
la maldicenza che diventa lode.
Oh, quale bella dimora hanno scelto
i vizi in te, che li veli ed ogni cosa
che l’occhio può vedere rendi bella!
Ma a questo privilegio così grande
sta’ attento, dolce cuore: anche il più duro
coltello, male usato, perde il taglio.
141
96.
Chi dice giovinezza o esuberanza,
chi giovinezza o gentile capriccio,
siano tue colpe o grazie, essi le amano:
per tutti volgi in grazie le tue colpe.
Come al dito d’una regina in trono
un brutto anello sarà ben lodato,
così gli errori che in te tutti vedono
son trasformati in oneste virtù.
Oh, quanti agnelli ingannerebbe un lupo
travestito da agnello! Così tu:
oh, quanti ammiratori traviare
potresti con la forza del tuo rango.
Non farlo! T’amo talmente che mio
sei e così mio è anche il tuo nome.
142
97.
Quanto simile all’inverno l’assenza
da te, tu gioia dell’anno fugace!
Che gelo e quanti giorni bui ho visto!
Ovunque intorno era un nudo dicembre.
Eppur la lontananza fu d’estate
e in quel primo fecondo autunno, pregno
della lascivia della primavera,
come parto di vedova nel lutto.
Sembravano quelle messi abbondanti
solo speranze e frutti senza padri,
perché tu solo dai gioia all’estate.
Ma tu lontano, anche gli uccelli tacciono,
o danno un canto tetro che le foglie
ingiallisce come se fosse inverno.
143
98.
Fui lontano da te in primavera,
quando l’aprile con superbe tinte
di giovinezza ogni cosa vestiva
e anche il greve Saturno a lui rideva.
Ma né canto d’uccelli né profumo
di fiori, vari d’odore e d’aspetto,
seppero indurmi ai dolci canti estivi
o a coglier fiori dal superbo grembo.
Né mi stupii al candore del giglio
né del profondo rosso della rosa:
solo dolci figure da te tratte,
tu che di tutto questo sei il modello.
Sembrava invece inverno e, tu lontano,
come tue ombre queste cose vidi.
144
99.
Così sgridai la violetta precoce:
“Dolce ladra, dove se non dall’alito
del mio amore rubasti il tuo profumo?
Dalle sue vene attingesti impudica
il colore del tuo dolce incarnato.”
E il giglio condannai perché rubò
la tua mano; e i boccioli i tuoi capelli;
e le rose i tuoi colori più puri:
una bianca, una rossa; e un’altra, ladra
che derubò entrambe, al furto aggiunse
il tuo alito, ma nel suo splendore
un bruco ti vendicò e l’uccise.
Osservai molti fiori, ma nessuno
mai ho visto in cui dolcezza, o colori,
o profumo a te rubato non fosse.
145
100.
Dove sei, Musa, che da tanto tempo
dimentichi di parlare di lui
che la potenza ti dona? Il tuo fuoco
forse avvilisci su soggetti indegni?
Ritorna, Musa immemore, e riscatta
coi tuoi bei versi il tempo così vano.
Al cuore canta di chi sa ascoltarti
ed è per te lo stile e l’argomento.
Levati e guarda se sul dolce viso
del mio amore abbia il tempo inciso un segno.
E ovunque sprezza del tempo il passaggio.
Dona gloria al mio amore sì che il tempo
non giunga prima a guastare la vita:
ferma e previeni la sua falce curva.
146
101.
O oziosa Musa, perché non affermi
che verità e bellezza insieme stanno?
Esse, entrambe, dal mio amore dipendono;
e così in te: in questo è il tuo destino.
Rispondi, Musa, vorrai forse dire:
“La verità non richiede colori,
né la bellezza verità applicate:
il meglio è meglio se a niente è mischiato.”
Lui non richiede lodi e tu stai muta?
Vane scuse! Se a una tomba dorata
sopravvivrà, dal tuo canto dipende.
Fa’ la tua opera e fra molto tempo
fallo sembrare come ora appare,
ché le future età possan lodarlo.
147
102.
Il mio amore, anche se appare più debole,
si è rafforzato pur se non lo mostro.
L’amore invece che viene esibito
diventa merce per chi lo possiede.
Quand’era nuovo il nostro amore (ed era
appena primavera!), lo cantavo
come usignolo sul far dell’estate,
che poi tace nei giorni più maturi.
L’estate è sempre amabile, ma gl’inni
che ora gravano dai rami son musica
assordante che toglie ogni diletto.
Perciò talvolta, come l’usignolo,
mi trattengo in silenzio e non m’abbasso,
per non tediarti, in un comune canto.
148
103.
Quali misere opere produce
la mia Musa se il suo argomento è tale
che, tutto spoglio, è di maggior valore
di quante lodi io possa mai aggiungere!
Non biasimarmi allor se più non scrivo:
guarda il tuo specchio e lì vedrai il tuo volto
che di tanto sovrasta ogni invenzione
e, offuscando i miei versi, mi discredita.
Coi miei versi vorrei solo cantare
le tue grazie e i tuoi pregi. Perché allora
emendare ciò che per sé è bello?
Così, più che in un verso possa stare,
molto di più, ti mostrerà lo specchio
quando te stesso guarderai riflesso.
149
104.
Mai per me sarai vecchio, dolce amico:
com’eri quando per primo il mio occhio
nel tuo si pose, ancora sei. Tre freddi
inverni il vanto all’estate hanno tolto;
tre splendide primavere cambiate
in gialli autunni ho visto; e per tre volte
bruciò nel giugno il profumo d’aprile,
da quando te, come ora sei, ti vidi.
Tuttavia la bellezza impercettibile
scorre come le ore, ed il mio occhio
sulla tua dolce forma può ingannarsi.
Per questo dubbio, ascolta tu che ancora
non sei nato: prima che tu nascessi
della bellezza era morta l’estate.
150
105.
Non chiamate idolatria il mio amore,
né il mio diletto appaia come un idolo,
se le mie lodi e i canti, tutti uguali,
sono per uno, d’uno e di lui sempre.
Costante è oggi il mio amore e costante
domani in meravigliosa eccellenza;
così il mio verso, servo alla costanza,
solo una cosa esprime e mai non cambia.
“Bello, gentile e vero”, questo canto.
“Bello, gentile e vero” sono i temi,
tre in uno, che meravigliosi vario.
Bello, gentile e vero: separati
finora furono, ma ora i tre
in uno solo si sono incarnati.
151
106.
Quando vedo descritte in vecchie cronache
le persone più belle, che più belle
rendevano l’antiche rime in lode
di dame e cavalieri ormai spariti,
allora, quella più dolce bellezza,
di mano o piede o labbra o occhio o fronte,
lodata dall’antica penna, vedo
che è la bellezza che tu ora hai.
Perciò son profezie di questo tempo
le antiche lodi che te prefigurano,
anche se il canto è inferiore al tuo merito.
Ma anche noi, che il presente vediamo,
abbiamo occhi bensì per stupirci,
ma fallisce la lingua nel lodarti.
152
107.
Né i miei timori, o l’anima profetica
del grande mondo che sogna le cose,
possono più limitare il destino
del mio amore nella sua durata.
Or che la luna superò l’eclissi,
ride anche chi predisse sventure:
le incertezze s’incoronano certe
e la pace esibisce ulivi eterni.
Come gocce di balsamo del tempo,
queste rime mantengono il mio amore
sempre vivo. E la morte a me s’inchina,
lei che divora genti ottuse e mute.
Tu in questi versi avrai il tuo monumento,
quando anche il bronzo si sarà disfatto.
153
108.
Cosa ancora può vergare l’inchiostro
ch’io non abbia di te già raccontato?
Cosa dire, o registrare di nuovo,
tal che il mio amore esprima od il tuo merito?
Niente, dolce ragazzo; devo solo
ripetere, come preghiera a Dio
da che primo santificai il tuo nome,
la stessa cosa: tu mio, io tuo.
L’eterno amore che in ognuno è nuovo
non si cura del tempo o della polvere;
ed anche la vecchiaia fa sua serva,
mostrando il primo germe dell’amore
che là si genera, dove più il tempo
e l’aspetto lo vorrebbero morto.
154
109.
Oh, non dir mai che il mio cuore era falso!
Neanche l’assenza smorzò la mia fiamma.
Come potrei strapparmi da me stesso
o dall’anima mia che in te vive?
Quella è la casa del mio amore; e là,
sempre in tempo, mai cambiato dal tempo,
come un viandante di nuovo ritorno,
della mia assenza lavando la macchia.
Se tutte le debolezze che assediano
il sangue umano anche me travolgessero,
non dubitare ch’io possa lasciarti.
Io chiamo nulla l’intero universo
eccetto te, ogni bene, mia rosa.
E niente lascio perché tu sei tutto.
155
110.
Come un buffone mi sono mostrato
qua e là errando: è vero. I miei pensieri
ho trafitto; ciò che è caro, svenduto;
rinnovato vecchie offese agli affetti.
Ed è vero che verità e costanza
guardai con sdegno. Eppure quegli errori
un’altra gioventù m’hanno arrecato,
provando al peggio che il tuo amore è il meglio.
Senza più fine, or che tutto è passato,
accogli il mio desiderio. Mai più
con nuove prove tenterò l’amico,
un dio d’amore a cui sono devoto.
Dammi il tuo benvenuto, come in cielo,
dentro al tuo puro ed amoroso petto.
156
111.
Oh, sgrida per amor mio la fortuna,
vera colpevole delle mie azioni,
perché provvide alla mia vita mezzi
volgari che volgari modi creano.
Da lì il mio nome ha ricevuto un marchio.
Da lì, come la mano del tintore,
la mia natura quasi porta il segno.
Compatiscimi e fa’ ch’io mi rinnovi:
come docile paziente berrò
le più amare pozioni per curare
questo grave contagio, anche più volte.
Compatiscimi allora, caro amico,
e sii sicuro che da sola basta
la tua dolce pietà per farmi sano.
157
112.
La tua pietà e il tuo amore mi cancellano
il solco inciso da volgari scandali.
Chi dice bene o male non m’importa,
se tu copri il mio male e il bene approvi.
Per me sei tutto: i miei pregi, e vergogne,
solo da te mi sforzo d’ascoltare.
Nessuno esiste, e per nessuno esisto,
che, giusta o no, la mia natura cambi.
In un abisso le altre voci getto,
di critica o di lode. E resto sordo
come un serpente ai richiami e agl’incanti.
Sappi perché degli altri non mi curo:
sei tanto radicato nel mio animo
che tutto il mondo, altro, è per me morto.
158
113.
Lasciato te, solo attraverso l’animo
vede il mio occhio, e nell’andar mi guida
soltanto in parte e in parte resta cieco;
sembra che veda, ma in effetti è spento.
Nessuna forma più consegna al cuore,
d’uccello o fiore o d’altro ch’egli afferri;
dei suoi fugaci oggetti non ha l’animo
nessun riscontro e non può trattenerli.
Perché ogni cosa nelle tue sembianze
ritraccia l’animo, bella o deforme
che sia, cigno o corvo, giorno o notte.
Di te ricolma, né d’altro capace,
la più profonda verità dell’animo
rende falso il mio occhio e ciò che vede.
159
114.
Forse il mio animo di cui sei re
l’adulazione, peste dei potenti,
beve? Oppure il mio occhio dice il vero,
ma dal tuo amore imparò la magia
di trasformare mostri e cose informi
in cherubini dal dolce sembiante
simile al tuo, creando perfezione
d’ogni oggetto caotico che aggrega?
E’ il primo caso: il mio animo beve,
come un re, la lusinga del mio sguardo
che al suo palato sa cosa prepara.
L’occhio sa bene cosa gli è gradito;
e se è veleno non farà peccato,
perché lo ama e per primo lo beve.
160
115.
Quei versi che finora ho scritto mentono,
proprio nel dire che di più amarti
non potevo; ma non sapevo allora
perché più ardente poi bruci la fiamma.
Ero conscio del tempo, i cui accidenti
rompono voti e decreti di re,
scoloriscono il bello e il forte piegano
secondo il corso di cose mutevoli.
Questo allora temendo, e di me certo,
trascurai il resto e incoronai il presente
proprio dicendo: “Il mio amore è massimo”.
L’amore è un bimbo: questo non sapevo.
Non dovevo cantare la pienezza
di ciò che va crescendo e ancora cresce.
161
116.
Non porrò impedimenti al matrimonio
di due anime fedeli. L’amore,
quando muta o recede, ancorché muti
o receda il compagno, non è amore.
Oh, no! E’ un faro saldo che sovrasta
tempeste e non ne è scosso; è come stella
per una barca errante che l’altezza
ne prende senza saperne il valore.
Non è l’amore zimbello del tempo;
per la sua falce non cade; né muta;
e impavido resiste fino all’ultimo.
Se questo fosse errore, e su di me
provato fosse, io non ho mai scritto
e nessun uomo mai avrà amato.
162
117.
D’essermi tutto risparmiato accusami:
nel ripagarti dei tuoi grandi meriti;
nell’aver trascurato quell’amore
a cui giorno per giorno più mi stringo;
che ho frequentato gente sconosciuta;
che al mondo prodigai il tuo diritto;
che a tutti i venti innalzai la mia vela
perché da te lontano mi rapisse.
E colpe e dolo a mio debito segna,
e a giuste prove i tuoi sospetti cumula,
esponendomi all’ira del tuo sguardo.
Ma non colpirmi col tuo odio vivo!
Io mi sforzai soltanto di provare
la costanza e la forza del tuo amore.
163
118.
Come per render l’appetito acuto
stuzzichiamo il palato con le spezie,
e per curare malanni mai visti
ci ammaliamo curandoci con purghe,
così, mai sazio della tua dolcezza,
con salse amare ho condito il mio cibo
e, malato di star bene, ho cercato
la malattia prima che arrivasse.
Così talmente ho anticipato i mali,
per astuzia d’amore, che ho peccato;
e sano e in forze mi curai col male.
Ma da ciò ho imparato, e la lezione
sento vera, che le droghe avvelenano
me che di te così caddi malato.
164
119.
Quali lacrime di sirena bevvi
distillate da alambicchi infernali,
mescolando paure alle speranze
fino a perdere, credendo di vincere?
Che gravi errori commise il mio cuore
pensando d’esser più che mai beato?
Come i miei occhi dall’orbita uscirono
nel delirio di questa pazza febbre?
Oh, beneficio del male! Ora so
che ancor meglio dal male è reso il meglio;
e che l’amore infranto, quando nuovo
rinasce, è assai più bello e grande e forte.
Così istruito, al mio bene ritorno
e tre volte guadagno ciò che spesi.
165
120.
Che tu una volta a me fosti infedele,
ora m’aiuta: il dolor che provai
ora mi piega a forza nel rimorso,
perché d’acciaio altrimenti sarei.
Se della mia infedeltà hai sofferto
com’io soffrii, hai passato un inferno.
Ed io, crudele, non mi sono detto
quanto una volta ho sofferto per te!
Quella notte di miseria potesse
avermi ricordato quel dolore!
E offerto a te, e tu a me allora,
l’umile balsamo che ai cuori è caro.
Ma quella colpa tua è ora un pegno:
la tua la mia, la mia la tua, riscatta.
166
121.
E’ meglio essere abietto, se il non esserlo
riceve la condanna d’abiezione:
così stimato dalle altrui vedute,
anche il giusto piacere viene perso.
Perché mai gli occhi altrui, corrotti, falsi,
accennano al mio sangue sensuale?
O spie di me più deboli, cattivo
fra sé contano quel ch’io penso buono?
No, io sono quel che sono. Chi conta
le mie colpe si basa sulle proprie:
posso essere dritto e loro storti.
Costoro, marci, ai miei fatti non pensino.
O il male universale essi propugnano
che nella cattiveria l’uomo regni?
167
122.
Ho nella mente il tuo dono, il taccuino,
tutto scritto per memoria costante
che rimarrà, sopra vani caratteri,
aldilà d’ogni data, nell’eterno;
o almeno, quanto alla mia mente e al cuore
la natura concederà d’esistere.
Così tanto vivrà il tuo ricordo
e non prima ti ruberà l’oblio.
Non mi serve un registro per sommare
il tuo amore, e mi arrischiai a lasciarlo,
perché la mente mia più ti conserva.
Tenermi un povero accessorio aggiunto
per ricordarti, sarebbe lo stesso
che ammettere che mai io ti dimentichi.
168
123.
No, Tempo, non vantarti che io cambi!
Con sempre nuova potenza elevate,
le tue piramidi per me son nulla,
rivestimenti di cose già viste.
Son brevi i nostri giorni; e ciò che vendi,
per questo come nuovo lo ammiriamo,
e fatto nascere apposta per noi,
piuttosto che pensare che son cose
già dette. E te e i tuoi annali sfido:
non mi stupisce il presente; o il passato;
mentono le vestigia che vediamo,
frutto soltanto del continuo spingere.
Questo fo voto e questo io sarò:
costante resto contro te e la morte.
169
124.
Se il mio amore fosse dovuto al rango,
da bastardo potrebbe la fortuna
trattarlo; all’odio o all’amore del tempo
soggetto; erbaccia fra le erbe; o fiore.
No! Lontano dal caso esso fu eretto.
Non si guasta nello sfarzo gioioso,
né cade nel servile malcontento
a cui inviterebbe questo tempo.
Non lo scuote la cattiva politica,
quell’eresia meschina sulle ore,
ma tutto solo sta, grande politico
che domina ogni volgere del tempo.
Ne chiamo a testimoni quei buffoni
che criminali vissero e ben muoiono.
170
125.
Io, perché reggerei un baldacchino
per onorare di fuori l’esterno,
o getterei eterne fondamenta
che poi caduche e in rovina si svelano?
Non ho visto che tutto, e più, perdeva
chi pagò troppo di forme ed ossequi,
gli arrivisti consunti nel guardare,
che al sale preferiscono il dolciastro?
No! Sia il mio omaggio al tuo cuore, sincero:
povera offerta senza scorie, libera,
senza arte alcuna; ma da me a te.
Tu, delatore prezzolato, vattene!
L’animo onesto, tanto è più accusato
e tanto meno in tuo potere resta.
171
126.
O tu, caro ragazzo, che hai potere
sul volubile tempo e la sua falce,
tu che calando, dolcemente cresci
e a chi ti ama mostri il suo appassire,
se Natura, sovrana su rovine,
mentre innanzi procedi, ti trattiene,
al suo scopo ti lega: contro il tempo
essa si afferma e il vile istante uccide.
Ma temila, o tu, suo favorito:
lei trattiene ma non serba il tesoro.
Alla resa dei conti, anche protratta,
dovrà saldare consegnando te.
172
127.
Da sempre il nero non è come il biondo,
bello. Oppur bello non fu mai lodato.
Ma ora è il nero di bellezza erede
e il biondo da bastardo si svergogna:
quando chiunque usurpa la natura
e impresta al brutto una bionda cosmesi,
allora il nome e la sacra dimora
della dolce bellezza è profanata.
Perciò nero di corvo sono gli occhi
della mia donna e per quelle, né bionde
né belle, che il creato falso rendono,
vestiti a lutto quei suoi occhi sembrano.
E il loro lutto per l’altrui infamia,
a ognuno dice che così è il bello.
173
128.
Quanto spesso, tu mia musica, suoni
la musica su quei legni beati,
dove le dolci tue dita governano
l’armonia delle corde che m’incanta!
Quei tasti invidio che agili saltano
per baciarti l’incavo della mano,
mentre le labbra mie, che ciò vorrebbero,
all’ardire arrossiscon di quei legni.
Vanno, con passo gentile, le dita
che tu muovi facendo più beato,
delle mie labbra vive, il morto legno.
Se in questo son felici quei legnetti,
da’ pure a loro le tenere dita:
alle mie labbra, le tue da baciare.
174
129.
Spreco di spirito e d’infamia scempio
è la lussuria finché è lussuria:
falsa, assassina, sanguinaria, immonda;
selvaggia, estrema, infida e crudele.
Goduta, subito vien disprezzata.
Fuor di ragione rincorsa e inghiottita,
fuor di ragione è odiata come un’esca
apposta tesa per far impazzire.
Pazza nel perseguire e nel possesso.
Avuta, avendo, e per avere, estrema.
Alla prova, beata, e poi sventura.
Davanti gioia, e dopo solo un sogno.
Nessuno sa come sfuggire il cielo
che a questo inferno gli uomini conduce.
175
130.
Occhi di sole non ha la mia donna,
né di corallo sono le sue labbra.
Bianca è la neve? Lei ha il petto grigio.
Fili d’oro i capelli? Sono neri.
Ho visto rose, insieme, rosse e bianche,
ma tali rose non ha sulle guance.
C’è più delizia in diversi profumi
che nel respiro che da lei si parte.
Amo udirla parlare benché sappia
che la musica ha suoni più piacevoli.
Non ho mai visto una dea che incedeva:
so che calca la terra la mia donna.
Eppure la mia amata è così rara
come qualunque lei dei falsi canti.
176
131.
Pur come sei, tu sei tiranna al pari
di quelle orgogliosamente crudeli
per la loro bellezza, perché sai
che il mio gioiello sei più caro e chiaro.
Ma in verità c’è chi dice, guardandoti,
che il tuo volto non può far sospirare.
Non oso dire che costoro sbaglino,
lo giuro tuttavia tra me e me.
Per secondare che non giuro il falso,
mille sospiri uno sull’altro partono,
al pensier del tuo volto, a testimoni
che a mio giudizio il nero tuo è bello.
Certo: anche i tuoi atti sono neri;
da lì, io credo, nasce la calunnia.
177
132.
Amo i tuoi occhi ed essi, conoscendo
che il tuo cuor mi tormenta con disdegno,
in amoroso lutto si son messi,
neri, compassionando il mio dolore.
E in verità, né il sole mattutino
dona alle grige guance dell’oriente,
né la fulgida stella della sera
dà tanta gloria al placido occidente,
come i tuoi occhi donano al tuo volto.
Fa’ così che s’addica anche al tuo cuore
quell’amoroso lutto che ti dona.
Se ogni tua parte di pietà rivesti,
giurerò nera la bellezza stessa
e laide quelle che hanno altro colore.
178
133.
Maledetto sia il cuore che fa gemere
il mio cuore, per le ferite inferte
al mio amico oltre a me! Io non bastavo?
Schiavo anche lui della mia schiavitù!
Me da me stesso il tuo occhio m’ha tolto;
e, più crudele, anche l’altro me stesso.
Di lui, di me, di te, son ora privo:
tormento triplice da attraversare!
Nel tuo cuore d’acciaio il mio imprigiona,
ma guardiano esso resti del mio amico:
dentro di me, non potrai più ferirlo.
E tuttavia tu lo farai perché,
essendo in te rinchiuso, sono tuo
e così tuo è ciò che è chiuso in me.
179
134.
Così ho ammesso che lui ora è tuo
e che io stesso a te sono asservito.
Io m’abbandono, ma l’altro me stesso
rendimi a mio conforto, ancora e sempre.
Ma tu non lo vorrai, e lui nemmeno:
tu sei bramosa e lui è compiacente.
Solo doveva garantir per me
quel contratto che invece ora lo lega.
Tu, usuraia che tutto dai in uso,
vuoi la penale per la tua bellezza
e lui persegui, per me debitore.
Così lo perdo, ché cercai un garante!
Entrambi, e lui e me, tu hai: intero
egli ti paga ed io mai non m’affranco.
180
135.
Mi chiamo Voglia e tu hai già un Voglia,
e Voglia ancora e Voglia in sovrappiù.
Sono d’avanzo io che ti molesto
volendo penetrare la tua voglia?
Vorrai concedermi mai di nascondere
la mia voglia nella tua così larga?
L’altrui voglia sembrerà sempre grazia
ed alla mia non brillerà accoglienza?
Il mare, tutto d’acqua, in abbondanza
la pioggia aggiunge ancora alle sue scorte.
Così tu, che hai il tuo Voglia e le tue voglie,
allàrgati con me che sono Voglia.
Non sdegnare gentili pretendenti;
pensali tutti in uno, e tutti in Voglia.
181
136.
Se l’anima ti frena quando incalzo,
giura all’anima tua ch’io sono Voglia:
l’anima sa che lì voglia è ammessa
e fino in fondo per amore accoglila.
Voglia vorrà il forziere del tuo amore,
pieno di voglie e la mia voglia in quelle.
Nelle grandi accoglienze entra un gran numero
e uno è nulla: inosservato io passi.
Uno conto nel conto dei tuoi beni:
per nulla prendimi, purché ti piaccia
prendere un nulla, come dolce in te.
Fa’ che sempre il mio nome sia il tuo amore,
amalo sempre e così me vorrai.
Ma tu lo sai, perché il mio nome è Voglia.
182
137.
O cieco Amore, cosa fai agli occhi,
ché guardo ma non vedo ciò che vedo?
Cosa sia la bellezza, e dove, sanno;
ma il peggio come il meglio fanno essere.
Se i miei occhi con sguardi generosi
si fermano dove tutti veleggiano,
perché di questi occhi hai fatto uncini
a cui legasti il giudizio del cuore?
Perché il mio cuore pensa, quel che pubblico
vedono gli occhi, un pascolo privato,
facendo onesta quella faccia impura?
Su cose giuste e vere hanno sbagliato
il cuore mio e gli occhi; ed ora essi
son condannati a questa falsa piaga.
183
138.
Quando il mio amor mi giura fedeltà,
benché sappia che mente, io le credo,
sì che mi pensi giovane e inesperto
delle sottili falsità del mondo.
E vanamente pensando che giovane
mi pensi, e tutti invece sa i miei giorni,
semplicemente credo alla sua lingua:
così entrambi il vero cancelliamo.
Perché non dice che mi è infedele?
Ed io perché non dico d’esser vecchio?
Oh, la fiducia in amore è un sembrare!
Perciò io mento a lei e lei a me:
giacendo insieme con le nostre colpe,
veniamo lusingati da menzogne.
184
139.
Non chiedermi ch’io giustifichi il torto
che la tua crudeltà m’infligge al cuore!
Non con l’occhio, ma di lingua feriscimi;
ad armi pari, senza inganni, uccidimi.
Dimmi che il cuore ti trascina altrove,
ma il tuo occhio si astenga in mia presenza
di pascersi dattorno. Che bisogno
hai dell’astuzia se con forza vinci?
Ti scuserò così: “Ah, la mia amata
sa che i suoi sguardi nemici mi furono,
ed ora altrove con gli occhi ferisce
e da me li distoglie.” Ma non farlo!
Poiché quasi son morto, con gli sguardi
uccidimi e questa pena abbia fine.
185
140.
Sii saggia quanto sei crudele: evita
di sdegnare la mia muta pazienza
e il dolore non mi dia le parole
per narrare la sconsolata pena.
Se potessi insegnarti la saggezza,
ti direi di chiamarmi sempre amore
anche se non mi ami: ai moribondi
la salute pronosticano i medici.
Se disperassi, ne potrei impazzire
e dire cose su di te cattive,
tali che il pazzo mondo crederebbe.
Perché non sia così, né diffamata
tu resti, gli occhi tuoi sappi dirigere,
anche se il cuore fai girar lontano.
186
141.
In verità, non ti amo con gli occhi,
essi notano in te mille difetti;
ma è il mio cuore che ama e si compiace
d’amare ciò che la vista disprezza.
Né delizia l’udito, la tua voce;
né il tatto inclina a certi toccamenti;
né gusto né odorato da te sola
inviteresti alla festa dei sensi.
Ma facoltà o sensi un cuore folle
non posson dissuadere dal servirti;
e come schiava del tuo cuore altero
lasciano ingovernata un’ombra d’uomo.
Ma in questa peste conto anche un guadagno:
lei che mi fa peccare, mi punisce.
187
142.
L’amore è il mio peccato, e la tua cara
virtù è l’odio, odio per l’amore
mio che è peccato; ma compara il mio
col tuo stato: non merito rimprovero.
Comunque, non dalle tue rosse labbra
che falsi patti d’amore suggellano
per profanarli (come anch’io ho fatto),
e il dovuto rubando ai letti altrui.
Sia legittimo, dunque, che ti ami
come tu ami quelli che con gli occhi
corteggi, mentre a te i miei son gravi.
Radica in cuore la pietà sì che
tu la meriti, quando la vorrai:
col tuo esempio non ti sia negata.
188
143.
Guarda una brava massaia che insegue
qualche pennuto che le sfugge avanti,
come posa il suo bimbo per star dietro
a quell’essere che lei vuol fermare;
e intanto il bimbo dà a lei la caccia,
e piange e grida a lei, tutta affannata
a seguire chi davanti le vola,
del bambino non curando il dolore.
Così tu corri dietro a chi ti sfugge
ed io, il tuo bimbo, lontano t’inseguo.
Se mai raggiungi chi speri, a me volgiti.
Come una madre sii gentile: baciami.
Pregherò che tu abbia ciò che vuoi,
se torni indietro e il mio pianto consoli.
189
144.
Ho due amori, di speranza e sconforto,
che al pari di due spiriti mi tentano:
l’angelo buono è un uomo biondo e bello,
l’altro è una donna coi capelli neri.
Per condurmi all’inferno, il male femmina
l’angelo buono tenta dal mio fianco;
e cerca di corromperlo in demonio,
coprendo la purezza di lussuria.
Che il mio angelo si sia volto in diavolo,
sospetto ma non so: lontani sono
e amici fra di loro. E vivo e dubito
che un angelo si trovi in quell’inferno.
Mai lo saprò, finché il cattivo spirito
rigetterà marchiato quello buono.
190
145.
Quelle sue labbra che l’Amore fece
sibilarono un suono che diceva
“Io l’odio”, a me che per lei anelavo.
Ma quando vide il mio pietoso stato
la compassione le addolcì il suo cuore,
rimproverando la lingua che sempre
era solita a parole gentili;
e le insegnò a parlare di nuovo.
“Io l’odio” essa alterò con un finale,
simile a giorno gentile che segue
una notte infernale di demoni.
Ogni odio essa tolse a quell’ “Io l’odio”
che le sfuggì di bocca; e mi salvò
la vita, subito “Non te” aggiungendo.
191
145.
Le sue labbra che l’Amore fece
in un soffio mi dissero: “Odio”
proprio a me che per lei mi languivo.
Quando vide il pietoso mio stato,
la pietà nel suo cuore discese,
riprendendo la lingua che sempre
era solita a un fare gentile,
e diversa la fece parlare.
Alterò quella frase: “Io odio”
con la fine che seguì, gentile
come giorno che succede a notte,
infernale demonio caduto.
Affrancò quell’ “Io odio” dall’odio
e la vita mi rese dicendo:
“Non te”.
192
146.
Povera anima, della mia terra
peccaminosa centro di potenze
ribelli, dentro inaridisci e soffri
e il muro esterno decori: perché?
Perché sì tanto spendi nell’affitto
d’una dimora che ogni giorno scade?
L’eredità di quanto a te è affidato
non spetta ai vermi? Non finisce il corpo?
Che il tuo corpo languisca, anima mia.
Lascia che soffra e aumenterai i tuoi meriti;
compra ore divine e cedi polvere.
Nutrita dentro e non più ricca fuori:
così farai la morte della morte,
e lei morta, non sarà più il morire.
193
147.
Il mio amore, come una febbre, anela
ciò che più a lungo ne alimenti il morbo
e che il male, nutrendosi, rinnovi
l’incessante appetito da appagare.
La ragione m’abbandonò con sdegno,
medico del mio amore le cui cure
lasciai cadere; ed ora disperato
con lei concordo: il desiderio è morte.
Incurabile, delirante e pazzo,
or che più la ragione non m’assiste,
a caso penso e senza posa parlo.
Perché lontano dal vero ho giurato
che bella sei e luminosa appari:
tu, come inferno nera e notte buia.
194
148.
Povero me, che occhi in fronte Amore
mi ha messo che la realtà non vedono?
O se la vedono, dov’è fuggito
il mio giudizio che falsa la vista?
Se è bello ciò che gli occhi bello notano,
perché dice la gente che non è?
Se non lo è, il mio amore dimostra
che l’occhio innamorato il falso dice.
Come potrebbe esser vero quell’occhio
così turbato da veglie e da lacrime?
Finché non s’apre il cielo, il sole stesso
non vede niente. Di lacrime cieco
mi tieni, o amore, perché, se vedessi,
tutti i tuoi immondi difetti vedrei.
195
149.
Puoi dire tu, crudele, che non t’amo,
quando contro me stesso te difendo?
Non penso a te, quando per te dimentico
me stesso e sono a me stesso tiranno?
C’è chi tu odi e che io chiami amico?
C’è chi tu guardi male ed io lusinghi?
Quando ti vedo irritata, non corro
alla vendetta su di me, gemendo?
Che ho rispettato del mio orgoglio, quando
ti basta un cenno degli occhi per farmi
adorare persino i tuoi difetti?
Ma continua ad odiarmi, amore. Adesso
conosco la tua mente: quello ami
che come sei ti vede, ed io son cieco.
196
150.
Da quale mai potenza hai tu il potere
per dominarmi proprio coi difetti?
Per farmi dire che i miei occhi mentono
e giurare che il giorno non ha luce?
Da che discende che il brutto ti doni,
e che dal fondo dei tuoi atti affiori
tale una forza e prova di bravura,
che di te il peggio tutto il meglio eccede?
Chi t’insegnò a farti amar di più,
tanto più vedo e sento cause d’odio?
Se amo quella che altri detesta,
non dovresti con altri detestarmi.
Se la tua indegnità mi fece amarti,
tanto più sono degno che tu m’ami.
197
151.
Troppo giovane è Amore per sapere
quale coscienza dall’amore nasca?
Non incolparmi, o dolce ingannatrice,
se non vuoi che il mio fallo a te s’incolpi.
L’anima mia ripete che l’amore
sul corpo trionfi, ma non sente il corpo
altre ragioni e al tuo richiamo induce
la più nobile parte al tradimento.
Ergendosi al tuo nome, la sua preda
ti elegge. Ed orgoglioso del suo orgoglio,
d’esser tuo schiavo si contenta, al fine
di star nelle tue cose, e lì cadere.
Manca coscienza, se io chiamo amore
lei, per il cui amore mi ergo e cado?
198
152.
Tu sai che amandoti sono spergiuro,
ma tu, giurando amore a me, due volte
spergiura sei: nel primo letto ed ora,
giurando odio a me dopo l’amore.
Ma di doppio spergiuro accuso te,
quand’io venti e più volte ho infranto voti,
travisando coi voti quel che eri?
La mia fiducia in me per te ho perso.
Ho giurato del tuo profondo affetto,
del tuo amore, sincerità e costanza.
Per darti luce ho accecato i miei occhi,
li ho costretti a giurare che eri bella:
spergiuro è proprio quell’occhio che giura,
contro il vero, una sì turpe menzogna.
199
153.
Posò la torcia, Cupido, e dormì.
Colse il momento una ninfa di Diana
e quel fuoco, che amore accende, immerse
in una fredda fonte della valle.
La fonte da quel sacro fuoco trasse
un calore sempre vivo che sana,
bagno bollente che tuttora gli uomini
scoprono cura sovrana ai malanni.
Ma Cupido, riaccesa la sua torcia
dagli occhi della mia donna, il mio petto
toccò e, malato, ricercai quel bagno.
Ma non trovai la cura in quella fonte:
mi possono sanare solo gli occhi
dove Cupido prese nuovo fuoco.
200
154.
Giacendo addormentato il dio d’Amore
posò la torcia che ogni cuore infiamma.
Molte ninfe votate a vita casta
là intorno vennero danzando; e il fuoco,
che molti cuori aveva riscaldato,
a lui prese la devota più bella:
così il sovrano di calde passioni
fu disarmato da vergine mano.
Quella torcia lei spense in una fonte,
che, preso il fuoco d’Amore, divenne
calde terme e rimedio ai mali umani.
Io, schiavo della mia donna, dico
che se il fuoco d’Amore scalda l’acqua,
l’acqua giammai raffredderà l’amore.
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