A Chiara (per il tuo supporto)
Ai miei genitori (ve lo meritate)
A mia sorella (per la tua “amicizia”)
Davide Continati
Diario di un giovane confuso
GME
© 2006 GME – Medimond s.r.l.
Via Maserati 5 – 40128 Bologna
Allestimento editoriale a cura di Gamma Graphic – Bologna
Stampato nel marzo 2006 da Editografica – Rastignano (Bo)
1° CAPITOLO
31 dicembre
Questa storia del voler passare l’ultimo dell’anno divertendosi a tutti i
costi mi ha veramente stancato. E dove vai, e con chi vai, e cosa fai, e
perché non vieni con noi, e perché non a ballare, e perché non a cena, e
perché di qua e perché di là… Ma lasciatemi in pace tutti! Stasera io e la Titti
andremo dove abbiamo deciso da tempo, alla Fattoria. Punto e basta. Non
rompeteci le palle giorno e notte.
Oggi Titti ha telefonato verso l’una; non è che mi abbia disturbato, anzi,
mi fa sempre piacere sentire la sua vocina così modulata, così carina. Diciamo però che me ne stavo placido a russare sul divanetto del mio monolocale,
che ho preso uno spavento che non ti dico. Però, in fondo mi ha fatto un
favore perché mi stavo appisolando e oggi, invece, ho un mucchio di cose
da fare: devo pranzare, fare la spesa, riordinare per l’ultima volta in quest’anno, questo cesso di monolocale, fare una doccia ben fatta nel mio
minibagno che, tuttavia, ha il vantaggio di abituarti a stare in un loculo, così
poi quando muori sai già dove e come fare la doccia, poi… vediamo… ah,
sì, devo, diciamo dovrei, lavare la macchina, prepararmi il vestito per stasera, andare a prendere Titti alle otto e, eziandio, andare a sta rottura di palle
del cenone di capodanno. D’altronde ha deciso lei di andare lì alla Fattoria
e non sono riuscito a dirle di no.
‘Dai che ci sono Lory e Claudio e ci divertiamo!’ mi aveva detto e io non
sono riuscito a dirle di no. ‘È un bell’ambiente, si mangia bene, c’è bella
gente, poi magari verso l’una andremo a ballare’ e me ne ha dette anche
altre e non sono riuscito a dirle di no. Insomma andiamo alla Fattoria che è
un posto sulle colline, della fattoria ha ben poco o, meglio, dentro è un
bell’ambientino con un arredamento rustico, magari si mangia davvero bene,
chissà, lo saprò fra poche ore, va beh, insomma andiamo alla Fattoria, poi
magari a ballare.
Non è che mi piaccia molto tirare fuori cinquanta eurazzi a testa per un
cenone ma, cazzo, non sono riuscito a dirle di no, lei è così carina, me l’ha
detto con la sua vocina modulata e, va beh, andiamo alla Fattoria.
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Davide Continati
Verso l’una, dunque, la Titti mi chiama, svegliandomi: ‘Stavi dormendo,
pulcino?’ mi fa. Questa storia del pulcino poi non l’ho mai capita. Sì, va beh,
è un bel nomignolo, di quelli tipo ciccino, ciccina, quelli lì insomma che
conoscono tutti. A me è capitato pulcino; ora, io sono alto uno e ottantadue
e peso settantacinque chili, non è che ho molto del pulcino, però se lo dice
lei lo posso anche accettare. ‘No, no, non dormivo, stavo preparando da
mangiare’ dico alzandomi dal divano col cellulare in mano. ‘Mi sembrava di
aver sentito una voce un po’ addormentata’, fa la Titti, forse mi sbaglio,
comunque volevo solo dirti che ho sentito Lory poco fa e loro non vogliono
andare a ballare dopo il cenone. E noi cosa facciamo?’ Onestamente avrei
voluto dirle che non me ne fregava niente di quello che avremmo fatto
dopo, ma con Titti non riesco a essere così diretto e un po’ acido come con
gli altri; no, lei è l’unica, in questi miei primi ventitré anni, che è riuscita a
smussare i miei angoli, ad addolcirmi, se così si può dire.
‘Va beh, Titti, decideremo stasera; se ne abbiamo voglia, noi andiamo a
ballare, altrimenti sentiamo cosa vogliono fare loro.’ Una risposta così diplomatica non l’avrebbe pensata neanche Andreotti. ‘Va bene, pulcino. Allora
ti aspetto alle otto. Ciao ciao.’
Sbadigliando, prendo il pentolone degli spaghetti e vi faccio bollire l’acqua. Da qualche parte in frigo deve esserci ancora del sugo con la pancetta.
Due spaghetti per arrivare al cenone ci stanno, poi riordinerò questo monolocale
del cazzo.
Spugna, shampoo speciale, pelle di daino, Arbre Magique nuovo, insomma un lifting costoso per la mia vecchia Punto blu. Io voglio bene a questa
macchina; è la mia prima macchina, me la regalarono i miei quattro anni fa,
quando feci la maturità all’Ariosto. Questa Punto va bene, è tranquilla, è
comoda, me la godo con la Titti. Per dirla tutta, abbiamo scopato per la
prima volta lì dentro e… insomma queste cose non si dimenticano, anche
perché poi sono solo otto mesi che stiamo insieme e i ricordi sono ancora
vivi e pochi.
Quella sera lei si presentò con un paio di pantaloni neri lucidi aderenti da
far rizzare anche i capelli, aveva un bellissimo maglioncino fucsia e sotto
credo che avesse il più bel reggiseno che la storia ricordi, nero, che le teneva
su quelle due tettine che mi fanno impazzire. A me non piacciono i seni
troppo grossi, sono quasi imbarazzato se mi capita una con i seni grossi. Lei
li ha normali, e sta bene, hanno classe, sono, come dire, maneggevoli. Insomma quella sera lì non scopare con una così sarebbe stato un delitto e
infatti si consumò il nostro primo rapporto sessuale. Titti è molto discreta su
queste cose, non è volgare, è una ragazza speciale, d’altronde, va beh, ne ho
avute altre prima di lei, ma non così, no, no, non così. Davvero.
VA BEH!
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Quella sera Titti si concesse totalmente, che poi sono passati solo tre mesi,
era ottobre, c’era anche freddo, ma sulla Punto col riscaldamento a palla, il
suo corpo caldo, io che bruciavo di passione, non sentii proprio nessun
freddo, soprattutto quando lei si tolse le mutandine Sloggy.
Va beh, ma perché adesso, in pieno pomeriggio dell’ultimo dell’anno,
con la spugna in mano, mi metto a pensare a questo? Già, stasera come
sarà vestita? Non me l’ha voluto dire, ma mi aspetto una sorpresa. E i capelli? Lei ha un bel caschetto, è mora, forse sarà piena di brillantini? Mah, va
beh, lo saprò fra poco. Adesso devo risciacquare la Punto blu e poi una bella
doccia nel loculo mi rimetterà in sesto per andare al cenone di capodanno.
Ah, devo anche telefonare a mamma per fare gli auguri a lei, al babbo e a
Gigetto, che andrà sicuramente alla festicciola a casa del suo amichetto Franco.
Gigetto è mio fratello, ha 15 anni, ma ha una testa da 25, sì è più intelligente
di me, ma alla grande, fa l’Ariosto anche lui, tutti 8 e 9! Insomma, è bravo,
ci sa fare, chissà se si laureerà prima di me. Spero di no, se no Titti mi uccide.
E magari non si toglie più le Sloggy. Ma questo è un altro discorso. Vado a
docciarmi.
1 gennaio
Ho messo la sveglia del Nokia alle 14.00 e il cellulare ha trillato in orario.
Mi stiro la pellaccia, poi decido che magari salutare anche il babbo, seppure
per telefono, sarebbe forse giusto. Bastano due parole con lui, è molto immediato, dice i concetti giusti senza tante storie, senza tanti giri o rotture di
palle. E infatti eccolo con il suo vocione: cosa avete fatto, vi siete divertiti,
salutami la Titti, ogni tanto fatti vedere. Punto e a capo. È un grande mio
padre. Mi passa Gigetto. È un grande Gigetto, mi racconta del festino da
Franco. Ci avrei giurato, cosa poteva fare? Ha giocato a Trivial Pursuit fino
alle 3 di notte, ha vinto. Non avevo dubbi, gli dico, sei un grande. Buon
anno, buon anno, vieni a casa a trovarci, sì vengo presto, ciao, ciao. Mi
passa mia madre. Replay di quello che ha detto mio padre, mi racconta
quello che hanno fatto loro, mi racconta quello che ha fatto Gigetto, mi
chiede se mi sono divertito con la Titti, mi chiede anche lei se vado a casa a
trovarli prima che riprendano le lezioni. Sicuramente, mamma, le dico, in
realtà non ho deciso niente. Alle due e dieci del pomeriggio del primo dell’anno, non ho la lucidità per farlo. Mi alzo, avrò speso cinque euro di telefono per dire tre stronzate, va beh, però dovevo farlo. Punto e basta.
Vado a docciarmi nel loculo. L’acqua è tiepida al punto giusto, sto sotto
almeno un quarto d’ora e ripenso a stanotte. Titti era bellissima, il caschetto
nero ben pettinato, il suo corpo fasciato da un giaccone scuro con il collo di
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Davide Continati
pelo, un paio di stivaletti neri col tacco. Che bella! Si è tolta il giaccone alla
Fattoria, indossava un paio di pantaloni grigio antracite, una bellissima
canottierina fucsia e una giacchettina da sballo che poi si è tolta a tavola.
Sono rimasto paralizzato per un quarto d’ora, non sapevo cosa dire; a volte
Titti mi mette in imbarazzo, è troppo bella, ha troppa classe, è intelligente,
ma soprattutto è carinissima, ha sempre una parola giusta per me, veste
bene, è simpatica, va beh, sono stra-innamorato per la prima volta in ventitré
anni di vita, ma come si fa a non innamorarsi di una così?
Lory e Claudio sono simpatici, ma alla lunga un po’ pesanti, soprattutto
lei, a volte è veramente invadente; dopo un’ora l’avrei mandata a cagare
volentieri, ma mancava ancora più di un paio d’ore a mezzanotte, come
potevo? E poi Titti cosa avrebbe detto? Insomma, l’ho sopportata per un
po’…, un po’?… l’ho sopportata tutta sera, e va beh, tanto poi l’ultimo
dell’anno viene una volta sola. Sì, abbiamo mangiato bene, e d’altronde
con cinquanta euro ci manca solo che si mangi male! Il brindisi è stato carino, la Titti mi ha dato un bacio da film porno, sì insomma con la lingua; lei
non lo fa quasi mai, sono io a volte che inizio con questa tattica eccitante.
Buon anno, buon anno, buon anno, buon anno. Che stronzata, a tutti augurano buon anno. E chi morirà in quest’anno nuovo? Che gufata! E chi
avrà un incidente? E chi si ammalerà? Va beh, comunque brindisi e balli con
la musica del complessino rock della Fattoria (e chi sapeva che c’era anche
questo?). Una buona selezione con U2, Simply Red, Simple Minds, Queen,
sì sono bravi.
A me poi non piace ballare, a Titti piace e infatti a volte mi tocca portarla
in discoteca per farla scatenare. Ma i lenti non sono più di moda? Mio padre
mi racconta dei balli appiccicati l’uno all’altra. Adesso niente, ci si scatena e
vai! Va beh, poi Titti me la appiccico quando voglio, ma mi piacerebbe
ballare un lento con lei incollata a me. Proveremo a casa sua magari. Comunque, stanotte ho ballato anch’io. Dopo mezz’ora avevo la camicia azzurra bagnata di sudore. Niente cravatta, no, la cravatta la metto sì e no due
volte all’anno e non per l’ultimo dell’anno. Titti non ha detto niente, forse
anche a lei frega poco della cravatta. Lo spero, devo chiederglielo.
Verso le tre e mezza ci siamo incamminati verso l’uscita e abbiamo salutato Lory e Claudio. Povero Claudio, che croce quella ragazza. Per carità,
piace a lui, amen, ma è proprio pesante, alla lunga. Alle quattro io e Titti
eravamo nel mio monolocale. All’uscita dalla Fattoria, lei aveva voluto allungare la notte. ‘Vuoi andare in disco?’ le avevo chiesto. ‘No, ho ballato
abbastanza, però non mi va di andare a casa, portami da te.’ Detto fatto,
carissima Titti.
Alle quattro, come dicevo, eravamo da me. Questi sono i vantaggi del-
VA BEH!
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l’avere un monolocale tutto per sé. Fai quel cazzo che vuoi quando vuoi.
Questo cesso di monolocale è di mia nonna. Lei l’aveva comprato tanti anni
fa, lo affittava agli universitari come me. Poi, quando il suo nipotino, reduce
dall’Ariosto, aveva iniziato l’avventura a Scienze Politiche, voilà pronto il
monolocale per lui. All’inizio soffrivo di solitudine, poi per un anno Mauro è
venuto a stare da me e mi sono divertito. Peccato che il mio coinquilino
abbia abbandonato l’Università e sia tornato al suo paese con la coda tra le
gambe. Ora fa il galoppino di una società assicurativa. Poveraccio, non
guadagna un cazzo. Va beh, la vita è così, arriverà anche il suo momento.
Dopo dieci minuti, Titti era già sul mio letto. Era decisamente eccitata;
quasi mai Titti prende l’iniziativa, anzi mai. Stasera, già quel bacio con la
lingua al brindisi di buon anno mi aveva fatto capire tutto. Si è spogliata
velocemente tenendo solo le Sloggy. Quei due seni normalissimi mi facevano impazzire. Le tolsi le Sloggy, la penetrai quasi con eccessiva cautela. A
volte ho l’impressione di rovinare un corpo così, una ragazza così. Poi mi
dico: ma che cazzo pensi, goditela, è tua, finalmente hai una ragazza che
ami che ti piace che ti vuol bene. Va beh, io sono così. Titti è speciale, è
speciale anche quando scopiamo. Alle cinque e un quarto era già a casa
sua. ‘Ti voglio bene, buon anno!’ e mi schioccò un bacio sulla guancia, con
relativo sorriso, che mi ha fatto crollare le ginocchia, menischi compresi.
Buona notte e buon anno, le dissi. Alle cinque e trequarti ero a letto a guardare il soffitto. Che ragazza fantastica, stavo pensando. Poi sono caduto in
catalessi.
Ho finito questa lunga doccia. Mi ci voleva; tra il sudore e l’appiccicaticcio
ne avevo proprio bisogno. Il primo gennaio è il giorno più insulso dell’anno.
Va beh, poi chiamo la Titti, magari ci facciamo un giretto in centro o magari
un partita a Monopoli che a me piace un casino. Mi infilo gli slip dell’Emporio Armani. È il suo regalo dei sei mesi insieme. Magari avrei dovuto indossarli stanotte, invece avevo un paio di boxer qualunque. Va beh, chissenefrega!
4 gennaio
Da tre giorni sono pressoché chiuso in casa a studiare. Ormai manca
poco all’esame di sociologia del lavoro e dell’industria e devo recuperare il
tempo perduto. Leggo, rileggo, sottolineo, ripasso, ritorno sulla stessa pagina centinaia di volte. Che palle! Non so se sono preparato. Faccio mente
locale, va beh, mancano ancora alcuni giorni, ma devo ancora aprire l’ultimo libro. Devo accelerare, ma non ho voglia. Mi faccio un tè caldo; a me
piace molto il tè, caldo d’inverno, con dentro i cannoncini ripieni di crema
pasticcera, e freddo d’estate, ma rigorosamente al limone. Alla pesca mi fa
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Davide Continati
schifo. È da tre giorni che non vedo la Titti. Stasera invece andrò a casa sua,
ho voglia di vedere il suo faccino. Anche lei sta studiando, ha un bell’esamone
che l’aspetta, ma tanto poi lei lo passa, è bravissima la mia Titti. Devo anche
fare una corsa a casa, è dal giorno di Santo Stefano che manco e me l’hanno detto troppe volte. Devo decidermi, va beh, deciderò.
L’acqua è calda, prendo la bustina dell’infuso e la metto nella tazza, poi
prendo un limone, lo sciacquo, ne taglio una bella fettona e la metto nella
tazza. I cannoncini li ho presi? Guardo nella dispensa. Cazzo, li ho finiti. Va
beh, faccio senza, un bel pacchetto di biscotti è sufficiente. Ne mangio cinque.
5 gennaio
Domani vado a casa a pranzo e resto là tutta la giornata. Sì, perché la Titti
è intrattabile. Ieri sera era proprio nera, non con me, no, no, non ce l’aveva
con me. Però, quando studia troppo poi va fuori di testa e le servono due o
tre giorni per rinsavire e tornare buona come un agnellino. Per dire, ieri sera
ha parlato continuamente del suo esame: e il professore è un bastardo, e la
Silvia è più avanti di me e quindi poi sono sicura che prende trenta e io no,
e questa materia non l’ho mai sopportata e non mi va giù, e non so niente e
poi se là mi chiede questo e quest’altro cosa rispondo, e taci tu che non sai
in che razza di condizioni sono, mamma mia…
Va beh, e io cosa dovrei dire del mio esame? Ma questo non gliel’ho
detto, se no doppia incazzatura. Che poi va a finire che mal che vada la Titti
prenderà 28 e poi festeggerà alla grande. Lei ha l’esame fra dieci giorni.
Magari vedo se è il caso di accompagnarla, ma di nascosto perché se no mi
lincia. Insomma, più esibivo argomenti che potessero rimetterla in sesto, più
facevo danni, per cui ho deciso di stare zitto.
Ieri le sono venute anche le sue cose, e in queste occasioni lei diventa è
ancora più intrattabile. Va beh, domani vado a casa, è la Befana, è festa, ma
la Titti deve studiare. Io invece domani faccio festa, a costo di restare indietro con lo studio.
6 gennaio
La mamma mi mette in tavola una porzione di lasagne da far paura.
Sono tornato a casa ieri sera, ho dormito nel mio vecchio letto, con Gigetto
a fianco. Siamo stati a parlare fino alle due e mezza stanotte. Lui mi racconta
tante cose della sua vita, dei suoi amici, dell’Ariosto, della Juve, è un piacere
ascoltarlo. L’ho sempre detto, è un grande. Io, veramente, non è che gli ho
raccontato tanto. Va beh, qualche balla sull’Università, e poi la Titti.
VA BEH!
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Lui vuol sapere tutto della Titti, a lui piace molto, la vuole come cognata.
Va beh, gli dico, ma stai calmo che il tempo deve passare, sto con lei da soli
otto mesi, lei ha solo ventun anni eccetera, insomma tante cazzate. A volte
sono critico con me stesso, vorrei dire tante cose, invece sono sintetico. Che
devo fare?
Le lasagne sono molto buone, anche se c’è fin troppo ragù. Già in mattinata ho subito il quinto grado da mia madre, mentre buttava in lavatrice
tutto il contenuto del mio zaino. Domani devo ritornare in città per studiare.
Dovrei studiare.
Nel pomeriggio mi chiama la Titti. Sta meglio di ieri, sta studiando, è
contenta che oggi piova perché tanto deve restare in casa. Forse uscirà a
fare due passi con la Silvia. Gli racconto la mia giornata a casa. Tra poco
andrò a letto e dormirò tutto il pomeriggio; va beh, le lasagne fanno anche
questo effetto. Dopo un minuto la richiamo: ‘Ho dimenticato di dirti che ti
voglio bene.’
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Sono contento perché un po’ sono riuscito a studiare. Ho pure iniziato
l’ultimo libro. Va beh, mancano ancora dieci giorni. Dovrei farcela. La Titti è
in catalessi, in questi giorni. Lei fa così, si isola; per fortuna che il suo esame
si avvicina. Ieri mi chiama Walter e mi fa: ‘Domani sera siete invitati alla
cena a casa del Porchio.’ ‘Ma che cena è?’ ‘Il Porchio compie gli anni e offre
a tutti i suoi ex compagni dell’Ariosto.’ ‘Va beh, ci penso’ gli faccio.
Mi è sempre stato sul cazzo, il Porchio. Suo padre è miliardario, ha una
villa che non finisce più, la casa in città con un bagno che è grande sei volte
il mio loculo. A me sta su perché non si abbassa al livello degli altri. Punto e
basta. Poi come ragazzo non è male, va beh, non è intelligentissimo, però
anche lui fa Scienze Politiche e va come me, né piano né forte.
Oggi ho mangiato male, quelle confezioni di pasta surgelata poi non sono
nemmeno tanto cattive, però le linguine allo scoglio mi devono essere rimaste sullo stomaco. Mi faccio un tè, sono le tre, squilla il cellulare. ‘Sono io’ fa
la Titti. ‘Ho bisogno di vederti. Ci vediamo tra mezz’ora da Pablo’s?’ ‘Ok’
faccio io. Pablo’s è una paninoteca del centro, abbastanza vicina alla casa di
Titti. Arrivo in anticipo di qualche minuto e mi siedo al tavolo più lontano
dalla porta. Franz, il giovane cameriere, mi viene incontro sorridendo. Lo
rimando indietro e gli dico di tornare dopo, quando arriverà la Titti.
Dopo poco lei arriva con il suo giaccone. Ha i jeans, oggi, aderenti. La
Titti ha le gambe un po’ grosse, ma le stanno bene dentro i jeans. Ha un
maglione dolcevita nero. Mi bacia. Ordiniamo. ‘Sono stanca e volevo ve-
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Davide Continati
derti per staccare. Questo esame mi fa impazzire. Non so niente, pulcino.’
Eccola, ancora. Mi sforzo di trovare le solite parole. Ma lei insiste. Ci portano
l’ordinazione, due panini americani, due coca piccole.
‘Senti Titti, stai tranquilla… eccetera eccetera eccetera. (Mi faccio quasi
pena. Ma che consigliere sono?) Stasera siamo invitati dal Porchio. Fa una
festa per il suo compleanno. Ci andiamo?’ le dico. ‘Vacci tu’ fa la Titti ‘e
divertiti. Io sto a casa a studiare.’ ‘Eh no’ le dico ‘oggi è sabato e stasera esci
con me. Magari non dal Porchio che, per inteso, non me ne fotte un cazzo,
ma esci e ci divertiamo. E quell’esame mandalo affanculo.’ Non sono mai
stato così duro con lei, ho anche alzato la voce per la prima volta in otto mesi
e mezzo. Va beh, alzato la voce, si fa per dire. Adesso che ci penso non
abbiamo mai litigato. Vuoi vedere che… ‘Va bene’, fa la Titti, ma sembra
davvero poco convinta, forse mi vuole fare un favore. Ha il visino triste, si
vede che è preoccupata. Finiamo di bere, ci alziamo, la Titti vuole fare un
giro in centro. Accontentata. Stasera usciremo. Per fortuna.
15 gennaio
Oggi la Titti ha l’esame. Ieri sera si è bevuta tre camomille, alle sei, alle
nove e mezza, alle undici. Me ne sono andato da casa sua verso mezzanotte.
Forse troppo tardi. Di solito lei prima dell’esame va a letto alle dieci e mezza,
stavolta è preoccupata. Mamma mia e io cosa farò fra una settimana? Perché poi lei è preparata.
L’esame è alle dieci, lei è tra le prime. Vado, non vado, di nascosto, si
intende. No, non vado, se mi cucca sai che scenata! Va beh, aspetto fuori,
no, anzi, aspetto in giro per il centro. Alle dieci meno dieci sono da Ricordi,
guardo i cd di musica italiana. Super offerta: Franco Califano, Lando Fiorini,
Marco Ferradini, quello di Teorema. Il cellulare è acceso? Sì, è acceso, ma
sono solo le dieci e un quarto. Una commessa mi chiede se ho bisogno di
qualcosa di particolare. No, niente.
È mezz’ora che bighellono qua dentro, c’è poca gente. D’altronde, chi va
da Ricordi il mercoledì mattina alle dieci? Qualche studente che marina la
scuola, qualche disoccupato, che ne so. E io. Esco. Compro la rosea, la
sfoglio vicino all’edicolante, non mi entra in testa niente. Neanche fosse un
libro di sociologia! Va beh, forse era meglio restare a casa a studiare o magari solo a sfogliare i libri. Il cellulare è muto. Sono le undici. Getto la rosea nel
cestino, vado da Pablo’s e mi prendo un tè. Franz mi chiede se sto bene
perché ho una faccia da funerale. ‘Tranquillo’ gli faccio ‘sono solo innamorato.’ Suona il cellulare, finalmente, lo tolgo dalla tasca. Non è lei, è Walter,
mi attacca un bottone clamoroso sui suoi problemi di università e sulla sua
VA BEH!
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morosa che lo fa arrabbiare. Lo tronco. ‘Ho un’altra telefonata in linea’ gli
faccio. Non è vero, ma voglio chiamare la Titti. Il suo cellulare è spento.
Ovvio. Esco anche da Pablo’s e mi avvio verso casa.
A mezzogiorno e un quarto, mentre sto accendendo la tv, chiama la Titti.
Ha preso 27, è entusiasta, è solare, mi ricarica, le dico due cazzate da vergognarsi, non riderebbe nemmeno un deficiente, lei è così contenta che ride lo
stesso. ‘Ti voglio bene’ mi fa. Va beh, le vorrei dire, hai un bel coraggio a
sopportare uno come me. Invece le dico: ‘Anch’io ti voglio bene.’ ‘Ci vediamo stasera’ fa lei ‘usciamo a cena.’ ‘Sei grande’ faccio io. ‘A stasera.’
17 gennaio
È venerdì diciassette. Io non sono superstizioso, però se un gatto nero mi
attraversa la strada, mi tocco. Garantito. Va beh, la superstizione non è solo
questa, è ben altro. Però… L’altra sera la Titti era euforica. Evidentemente
quell’esame era proprio tosto. Abbiamo cenato da Pablo’s, una pizza, una
coca, un buonissimo dolce. Siamo andati a casa mia. Avevo voglia di scopare con lei, lei aveva voglia di scopare con me. Abbiamo scopato. Alla fine
per un quarto d’ora non abbiamo parlato, io stavo a pancia in su a fissare il
soffitto, lei voltata dall’altra parte, con il suo sederotto rivolto verso di me,
ma senza dire nulla e senza dormire. Però è stato bello. Non scopavamo da
capodanno. Noi non abbiamo un calendario. Da ottobre, quando iniziò il
nostro faccia a faccia sessuale, siamo andati a momenti. A volte lo facciamo
spesso, a volte stiamo senza anche per molti giorni, come stavolta. Va beh,
sono sedici giorni, mica una vita, ma un po’ mi mancava il sesso. Alle undici
e un quarto lei era a letto. A casa sua, a dormire.
Stamattina ho studiato, poco ma ho studiato. Mi faccio da mangiare,
spaghetti al tonno, una mela, un cannoncino alla crema pasticcera appena
comprato. Alle due e un quarto suona il cellulare. Il numero che compare sul
display del Nokia non lo conosco. Va beh, rispondo. Una voce femminile mi
chiede se sono proprio io. Certo che sono io. ‘Telefono dalla Ricordi. Le
abbiamo fissato un colloquio di lavoro per lunedì mattina alle 10, qui in
sede. Le interessa?’ Titubo un attimo, ma accetto. Già, la Ricordi. Ora ricordo. A ottobre avevo risposto a un trafiletto su uno di quei giornali di annunci
che ti mettono sotto la porta, che poi alla fine li butti nella carta da riciclare.
Ho mandato loro il curriculum. Cercavano un commesso per il negozio più
grande della città, proprio quello in cui sono stato l’altro ieri aspettando che
la Titti mi telefonasse. E adesso mi chiamano dopo quattro mesi.
Io lunedì ci vado. Va beh, chissà cosa mi proporranno. Io, finora, ho
lavorato solo saltuariamente. L’estate scorsa, ad esempio, facevo il barista
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Davide Continati
della piscina al mio paese. L’ho fatto due mesi, luglio e agosto, paga scarsa,
seicentocinquanta euro al mese, però mi sto pagando le spese della macchina, un po’ di tasse universitarie, le mie spese con e per la Titti. Certo, non ho
fatto le ferie con lei. Va beh, siamo andati un giorno al mare, l’altro al lago,
l’altro a fare il bagno in piscina mentre fuggivo dal bar… Che poi sua madre
non l’avrebbe mai lasciata venire con me in vacanza. Ma scherziamo! Dopo
pochi mesi che stavamo assieme? Già, la Titti. La chiamo, la aggiorno sul
colloquio. ‘Vacci, è una bella occasione’ mi fa ‘poi senti e deciderai.’ La Titti
ha sempre la parola giusta per me. Garantito. Sempre. Va beh, sono innamorato di lei, sì… ha qualche difetto, ma è grande la Titti. Davvero.
A proposito, oggi è venerdì diciassette. Però finora mi sta andando bene.
Io non sono molto superstizioso. Va beh!
20 gennaio
La sveglia suona alle 8 precise. Stamattina niente studio, anche se mancano due giorni, dico solo due giorni, all’esame di sociologia del lavoro, e
salto una preziosa mattina di studio. C’è il colloquio di lavoro stamattina.
Non so cosa aspettarmi. Apro il telefono della doccia ed entro nel loculo.
Passo a docciarmi. Non so cosa aspettarmi, non so nemmeno cosa risponderò.
Va beh, devo sentire la proposta, ma non so proprio cosa mi girerà di
rispondere al momento. Con la Titti ne abbiamo parlato, con mia madre ne
ho parlato per telefono, anche con Walter ne ho parlato. Però non so cosa
aspettarmi, né so cosa risponderò. A volte sono proprio incerto, vedremo sul
momento. Esco dal loculo, mi asciugo, mi vesto con calma, preparo la colazione. Caffelatte bollente, biscotti, niente di più.
Mi pettino mentre il Nokia manda un sibilo: c’è un SMS. Lo sapevo, è lei,
la Titti: ‘fatti valere’ è il testo. Non so cosa risponderle. Lo faccio dopo aver
lavato la tazza e il bollilatte. ‘Lo farò anche per te’ le rispondo. La Titti è
davvero speciale, mi dà la carica anche così.
Esco di casa, sono solo le nove e un quarto, in venti minuti raggiungo la
Ricordi. Entro e chiedo al commesso che sta alla cassa dove devo andare.
Mi accompagna negli uffici. C’è buio. Mi fanno attendere in un salottino con
dei divanetti rossi. Attendo. Non c’è nessuno. Dieci e dieci. Sta a vedere che
perdo tutta la mattina. Dieci e venti, la porta si apre.
Una ragazza bionda mi conduce nel suo ufficio. Si presenta e parla: ‘Il suo
curriculum ci è piaciuto, lei è giovane, fa l’Università, ha una buona preparazione.’ Poi mi fa delle domande banalissime: che scuola superiore ho fatto, come va con gli studi, quali sono i miei hobby, cose banalissime, che poi
VA BEH!
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sono scritte sul curriculum che hai davanti, bionda! Mi propone di lavorare
per loro, commesso in negozio, part time, solo al pomeriggio, dal martedì al
sabato, dalle 15 alle 19, 550 euro al mese che fanno circa 440 netti, contratto di sei mesi. ‘Ci pensi’ fa la bionda ‘si comincia a febbraio.’ ‘Mi chiami
entro due giorni a questo numero. Se le va il posto è suo.’
Undici meno dieci, sono già in strada. Va beh, troppo facile. Mi hanno già
preso. Tac! Facile come bere un bicchiere d’acqua. La ragazza precedente si
è licenziata e vogliono prendere me. Ci penserò. Avverto la Titti. ‘Accetta’ mi
fa lei. ‘Ci penso un attimo’ faccio io. ‘Accetta’ mi ripete lei. ‘Va beh, accetto.’
22 gennaio
Entro nell’aula F verso le 9, tra poco ho l’esame. Sono il nono della lista.
C’è l’appello, ci sono tre assistenti, vado sotto presto. Mi capita una donna;
le donne sono più bastarde di solito, tutte tranne questa. È un angelo, si
chiacchiera di sociologia del lavoro con molta tranquillità, mi mette a mio
agio. Rispondo abbastanza bene, mi incaglio sull’ultima domanda. Mi propone 26, lo accetto senza pensarci. Firmo il verbale, lei mi firma il libretto.
Un esame in meno. Le do la mano. Arrivederci. Addio.
Esco dall’aula F, telefono alla Titti. È entusiasta, ti aspetto da me per il
pranzo, le dico. Va bene. Pranziamo insieme: pasta al pomodoro, cannoncini
alla crema, caffè. Lei è felice più di me. Telefono a casa, li avverto dell’esame. Mia madre, come sempre, va fuori di testa.
Mia madre ha un obiettivo solo: la mia laurea. A me in fondo interessa
poco, cioè, sì, mi interessa, ma non più di tanto, sinceramente. Va beh, sarà
una bella soddisfazione, lo ammetto. Per adesso non ci penso. Un giorno
vedrò sul lavoro quanto mi servirà. Già, il lavoro. Devo telefonare alla Ricordi. Chiamo. Mi risponde la ragazza del colloquio. ‘Accetto’ le dico. ‘Va bene’
fa lei ‘comincerà tra dieci giorni.’
Ho un lavoro per sei mesi. La Titti è contenta. Va beh, anch’io.
25 gennaio
Oggi io e la Titti facciamo nove mesi. È la prima volta che raggiungo un
traguardo così con una ragazza, anche perché la Titti è la prima con la quale
ho un rapporto fisso. Lei vuole andare a ballare. Va beh, la accontento. A
volte la accontento un po’ troppo sta ragazza. Ma come faccio, mi piace
troppo. Lei è speciale, lei è particolare.
Parcheggio la Punto blu sotto casa sua, entro da lei, saluto sua madre,
usciamo. Sua madre è di poche parole, lavora in una ditta fuori città, fa la
segretaria, non so di chi. Titti non ha il papà, è morto sei anni fa, cancro ai
16
Davide Continati
polmoni. Quando gliel’hanno diagnosticato era troppo tardi. Otto mesi e
ciao. Va beh, lasciamo perdere. La Titti stasera è più truccata del solito.
Quando andiamo in disco lo fa spesso, dice che si sente diversa quando va
là dentro, non so, va beh. Però sta bene lo stesso. Con quel faccino. Mi
regala un portachiavi. ‘Cazzo, io non ti ho preso niente’ le dico. ‘Embè’ fa lei
‘mi porti fuori, sto con te, ecco il tuo regalo, pulcino.’ Mamma mia, che
vergogna. L’unico regalo gliel’ho fatto per il nostro sesto anniversario: una
sciarpa. Che lei porta sempre, ce l’ha anche stasera, fa freddo stasera. Fa
freddo anche dentro di me, mi sento una merda, ho una ragazza fantastica
e non riesco a essere come dovrei.
Andiamo alla Cosmo, in collina. È un posto che non mi piace, ma c’è
della bella musica. L’underground a me non piace, mi piace il revival anni
‘80-‘90, il rock, magari la commerciale, l’underground no, la odio. Alla Cosmo ci sono due piste, la Titti va su quella dell’underground. La aspetto a
bordo pista. Un biondo la guarda troppo. Ecco, in discoteca mi dà fastidio
vedere gli altri che guardano la Titti. Non lo sopporto. Va beh, non ci sarà
niente di male, ma non lo sopporto.
Qualcuno mi batte sulla spalla con la mano. È il Porchio. Mi racconta
della sua cena, gli invento delle balle, parliamo cinque minuti, se ne va. La
Titti è sparita. La cerco con gli occhi, mi sposto. Ah, eccola, è al bar, sta
parlando con qualcuno. Mi avvicino. Mi presenta un tale che dice di chiamarsi Gerry. Ma che cazzo di nome è Gerry. Gerry Scotti? Gli do la mano.
Ma poi chi cazzo è Gerry? La Titti tronca il discorso, ce ne andiamo ai divanetti
in penombra.
C’è una puzza di intrugli vari, sudore, sostanze che fanno l’effetto fumo in
pista, profumi di ragazze e ragazzi, alcol. Quando esci da questi locali ti resta
la puzza addosso per tre giorni se non ti lavi subito. I capelli poi, non ne
parliamo. Va beh, la Titti mi bacia. Le chiedo chi è Gerry. ‘L’ho conosciuto
al mare due anni fa, a Riccione’ fa lei ‘è simpatico.’ Per la prima volta sono
geloso. Dopo nove mesi, ho conosciuto la gelosia, almeno mi sembra gelosia. ‘Quanti anni ha, cosa fa?’ le chiedo. ‘E chi si ricorda? risponde la Titti ‘mi
pare che studi economia anche lui, boh!’ Si capisce che vuole troncarla lì.
Beviamo, lei va a coca cola, io coca rhum. Raramente bevo alcolici o
superalcolici. Stasera mi va e li bevo. La Titti mi bacia. Poi vede Francesca.
Si avvicina, è con una amica, parlottano dieci minuti buoni, ridono, io non
capisco un acca, va beh, col casino che c’è qui dentro, per forza non capisco
un acca. Francesca è una sua ex compagna del liceo scientifico. Ora studia
lingue, è brava, è anche bella, ma non è il mio tipo. Il mio tipo è la Titti.
Usciamo verso le due e mezza, la Titti è stanca, la porto a casa, entro in
camera da letto con lei, mi bacia, la abbraccio, puzziamo di discoteca. Tan-
VA BEH!
17
to, va beh. La tocco sul sedere, le tolgo la camicetta rosa di Benetton, è in
reggiseno, i suoi piccoli seni sono fantastici. ‘Stasera non mi va’ mi blocca la
Titti. ‘Tranquilla’ rispondo io. Vado a casa. Sono le tre e mezza. Faccio una
doccia, non ne posso più di questa puzza. Voto alla serata: quattro e mezzo.
18
Davide Continati
2° CAPITOLO
1 febbraio
Mi chiedo se esiste qualche sfigato che inizia il lavoro il sabato, e di pomeriggio per giunta. Eccolo lo sfigato, che alle tre meno venti si presenta in
negozio pronto a cominciare.
Mi accoglie Roberto, è il responsabile di tutti i commessi del negozio. Mi
dà un maglione rosso, misura L, mi va bene, lo indosso. Mi dà una targhetta
da applicarvi sopra. C’è su il mio nome, c’è la mia foto tessera che ho consegnato con i documenti qualche giorno fa quando ho firmato il contratto.
Ho una faccia da delinquente che fa paura. Timbro. Sono le quattordici e
cinquantotto, inizio l’avventura. Mi assegnano alla sezione musica italiana,
con me ci sono, nel turno pomeridiano, Claudia e Francesco. Mi accolgono
bene. Anche Claudia fa part-time, ha il mio stesso contratto. Francesco invece è a tempo pieno, ma ha le scatole piene di questo lavoro e se ne vuole
andare al più presto. Grazie per l’incoraggiamento.
Il mio lavoro è molto professionale, per fortuna studio sociologia, altrimenti non lo saprei fare. Devo sistemare i nuovi arrivi negli scaffali, controllare dove mancano compact disc o dvd, fare una lista delle vendite, compilare degli strani moduli, assistere il cliente che ha particolari richieste. Mi
spiegano tutto in un quarto d’ora, finché c’è poca gente. Va beh, sono acuto, ma imparare tutto così alla svelta è davvero difficile.
Il tempo scorre veloce. Un ragazzino mi chiede un titolo di compact assurdo. Guardo nel nostro data base sul computer. Lo trovo. ‘No, non l’abbiamo’ gli dico. ‘Me lo prenoti’ fa lui. ‘Va bene’ faccio io. ‘Quando arriva?’ mi
chiede. ‘Non te lo so dire’ gli dico. ‘Fate alla svelta’ fa lui. ‘Faremo il possibile’ gli dico. Mi ringrazia e se ne va. Te lo faccio avere a Natale, vorrei dirgli.
Alle sei e un quarto il negozio è strapieno, c’è da correre.
Arriva la Titti, mi sorride. ‘Non hai mai avuto un maglione così bello. E
poi il rosso ti dona’ mi fa. ‘Smetti di prendermi in giro’ le rispondo. ‘Ti
aspetto stasera alle 9 a casa mia’ mi fa. ‘Va bene’ le rispondo cercando un cd
di Fabio Concato. ‘Cambiati il maglione, però’ fa la Titti andandosene. Va
beh!
VA BEH!
19
6 febbraio
Sembra strano, ma alla sera quando torno dal lavoro sono proprio stanco. Va beh, forse perché sto in piedi quattro ore filate. Stasera ho finito alle
sette e tre quarti. Mi pagheranno mezz’ora di straordinario, spero.
Torno a casa, mi faccio da mangiare, anche se ho poca fame. Una mozzarella, insalata, pomodori, una mela, un cannoncino alla crema pasticcera.
Basta. Telefono alla Titti. ‘Non vengo stasera’ le faccio. ‘Sono molto stanco.’
Lei mi capisce, anche se sono tre giorni che non ci vediamo. ‘Lunedì riprenderò le lezioni’ mi fa. ‘Non è che adesso non ci vediamo più, con quel tuo
lavoro lì?’ ‘Sta tranquilla’ le dico ‘per te c’è sempre posto e sempre tempo.’
La saluto, accendo la tv, danno la registrazione di una partita di basket, la
guardo. Mi sveglio all’improvviso, sono le due e dieci di notte. Ho dormito
alla grande. In tv, sulla rete privata, ci sono le hot line. C’è una con due tette
da far paura. No, proprio quelle tette lì non mi vanno. Spengo. Vado a letto.
Spengo il Nokia. C’è un SMS, neanche ho sentito il suono. Leggo. È la Titti.
‘Commesso, vorrei il cd di Paola e Chiara.’ Sorrido per il messaggio. Vado
a letto e mi addormento subito.
8 febbraio
La cosa più brutta di questo lavoro è il turno del sabato pomeriggio. Gli
altri se ne vanno in giro per la città, nei pub, per negozi, sotto i portici, io
sono lì fino alle sette ad aspettare che una ragazzina decida se comprare
Eros Ramazzotti o Alex Britti. Che poi il problema più grande è che quando
esco devo correre a casa, docciarmi nel loculo, prepararmi la cena di corsa
e via dalla Titti che alle nove mi aspetta.
Stasera mi sono fatto un hamburger. Alle nove e un quarto sono dalla
Titti. Sua madre mi chiede notizie sul mio lavoro. Bene, rispondo. Mi chiede
dell’Università. Bene, rispondo. Mi chiede della Titti. Meno bene, rispondo
sorridendo. Ride anche lei. Non è mai stata così espansiva. Forse le sto
diventando simpatico. Non ho mai capito se le sto simpatico o no. È una
donna tanto enigmatica che proprio non so come prenderla. La Titti è tutta
diversa. Forse assomiglia al suo povero papà. Va beh, sarà.
Stasera andiamo da Pablo’s. Troviamo Claudio e Lory, ci sediamo allo
stesso tavolo. Si parla, del mio lavoro, di tante cose. Stasera Lory è perfino
simpatica. Stasera trovo tutti simpatici, forse perché è sabato sera e domani
e lunedì non vado al lavoro. Va beh, forse perché sono con la Titti. Prendo
un Negroni, poi una birra alla faccia di tutto e di tutti. Mi sento euforico
stasera, chissà perché, forse è l’alcol, io non sono abituato a berlo, lo bevo
poche volte. La Titti stasera è un fiore, ha una maglia arancio col collo alto e
20
Davide Continati
un paio di pantaloni grigi.
È quasi l’una, usciamo dal locale, salutiamo Lory e Claudio, camminiamo per il centro, sotto i portici. Stasera non fa neanche freddo. La Titti mi
parla dell’Università, poi di sua mamma, poi non so di che. Ho la vista un
po’ annebbiata, sono un po’ cilindrato, ho caldo, comincio a sudare. Bacio
la Titti con tutta la passione che mi sta attanagliando in questo momento.
Arriviamo alla Punto, saliamo, la accendo, sgommo. Ma che mi succede?
Non ho mai sgommato in vita mia…
Dopo dieci minuti siamo da me. Nemmeno una parola. La spoglio in
dieci secondi, forse meno, la Titti sembra un manichino, si lascia fare tutto.
Ho voglia di lei, ho voglia di averla. Subito. Ci baciamo. Ci abbracciamo, lei
completamente nuda, io completamente partito di testa e ancora con il giubbotto addosso. Ci buttiamo sul letto, nemmeno mi spoglio. Scopiamo. ‘Sono
pazzo di te’ le dico. Sono le uniche parole dal momento in cui siamo entrati
in casa mia al momento in cui la Titti si riveste. Silenzio.
Si rimette il reggiseno, poi gli slip, poi la maglia arancio. Io ho delle vampate di calore che mi salgono dappertutto. Sono a pezzi, sono esausto. Lei
armeggia davanti al fornello. La guardo. Ha un bel sederotto, davvero. Adesso
glielo dico. Mi esce una risata isterica. Lei mi guarda, scuote la testa, sorride.
Accende un fornello. Chiudo gli occhi. Le voglio bene, anzi di più. Va beh, è
proprio una gran ragazza.
Mi porta un caffè. ‘Perché?’ faccio io. ‘Perché sì’ risponde lei. Sono le
prime due parole che pronuncia da quando è entrata nel mio monolocale.
Butto giù il caffè. Mi toglie il giubbotto. Mi toglie il maglione. Mi toglie la
camicia. Mi toglie i pantaloni. Mi mette il pigiama azzurro. Ora il burattino
sono io. Mi sento svuotato, bloccato. Mi mette sotto le coperte. ‘E ora chi ti
accompagna a casa?’ le dico. ‘Dormo qui con te’ mi risponde la Titti. Sprofondo nel sonno.
12 febbraio
L’appuntamento è a mezzogiorno, davanti alla Facoltà di economia. La
Titti arriva alle 12.05. ‘Che palle sta lezione’ mi fa. ‘Eh, ti capisco’ ribatto. Mi
racconta della mattinata, mentre ci incamminiamo verso un bar. ‘Stamattina ho comprato i libri di antropologia culturale, l’esame è in aprile’ le dico.
‘Bene, fa lei, deve essere una materia molto interessante.’
Il bar è pieno di studenti, c’è un caldo assurdo. Riconosco il Porchio che
sta tampinando una bionda niente male. Mi fa un cenno di saluto, rispondo
con lo stesso cenno. Ci sediamo nell’unico tavolino libero. La Titti prende un
panino, io una piadina con prosciutto. È il nostro pranzo. Lei ha lezione
VA BEH!
21
ancora dalle due alle quattro, io alle tre inizio a fare il commesso musicale.
Va beh, è vero, c’è di peggio. Beviamo una coca per uno, parliamo.
Oggi la Titti è un po’ sottotono, io sono un po’ moscio. Usciamo all’una,
facciamo un giro nella zona universitaria, beviamo un caffè della macchinetta della facoltà di Economia. Alle due la Titti entra in aula per assicurarsi il
posto. Saluta Silvia, la sua amica di università. Usciamo dall’aula, ci baciamo, me ne vado. Fra un po’ inizia il mio lavoro, fra un po’ inizia la sua
lezione.
14 febbraio
Stamattina non riesco ad alzarmi, non riesco a connettere. Sono quasi le
dieci, sto ancora poltrendo. A parte che, va beh, potrei stare a letto fino a un
quarto alle tre e poi andare a lavorare.
Decido di alzarmi alle dieci e quaranta. Faccio colazione, esco a fare la
spesa, rientro, mi accorgo che i libri di antropologia culturale sono ancora
dentro il sacchetto, intonsi. Va beh, tanto aprile è lontano. Domenica vado
a casa, pranzo dai miei. Lunedì ne approfitto per iniziare a studiare, forse, se
ne ho voglia. Stamattina non ne ho.
15 febbraio
Mamma mia, che giornata. È da stamattina che piove a dirotto, insistentemente. La Titti ha un raffreddore gigantesco, mi chiama verso le undici e
mi avverte che oggi non uscirà di casa e che anche sua madre è ammalata,
ha l’influenza e forse la prenderò anch’io, pronostica la Titti. Decido di andare a trovarla dopo cena, almeno staremo insieme.
In negozio c’è molta meno gente e d’altronde molti non sono usciti con
questo tempo… Claudia, la mia collega, è in vena di attaccare bottoni; probabilmente vuol fare passare il tempo perché ha poco da fare. Mi parla della
sua storia finita con Ricky. Che poi sto Ricky sembra Rocky Balboa. Muscoloso,
palestrato, fa kickboxing. È forte anche, campione provinciale, o giù di lì. Va
beh, a me me ne frega meno di niente, ma la lascio parlare.
16 febbraio
Sono a casa dai miei, davanti a un piatto di spaghetti alla carbonara
cucinati dal babbo. La mia casa è sempre piacevole, ci sto sempre bene,
soprattutto quando vi ritorno dopo alcuni giorni. Gigetto mi racconta delle
sue ultime avventure all’Ariosto. ‘Ti ricordi Giacomo’ mi fa ‘il bidello?’ ‘E
come no’ gli dico io. ‘È andato in pensione da qualche giorno. Ci manca
molto.’ Una notizia sconvolgente, penso tra me e me. Va beh, tocca a tutti
22
Davide Continati
anche la pensione. Chissà quando ci andrò io, dopo venticinque anni di
commesso al negozio di dischi. Stupendo.
La Titti ieri sera stava male, aveva una voce irriconoscibile, un naso rosso
rosso rosso. Poverina. Sua madre a letto con la febbre. Poverina. Io alle
dieci e mezza le ho salutate e me ne sono tornato a casa. Poverino. Però
avevo bisogno di dormire. All’una ero nel mondo dei sogni, in camera con
Gigetto.
19 febbraio
Stamattina mi sono fatto una full immersion sulle classi d’età. Insomma
ho aperto per la prima volta il manuale di antropologia culturale. Già, aperto, a caso. Mi è capitato il capitolo sulle classi d’età. L’ho letto, mi ha quasi
entusiasmato, l’ho riletto. Bello. Forse l’ho già imparato, forse, queste classi
d’età, le saprei già spiegare al prof. Peccato che siano solo una trentina di
pagine. Va beh, mi impegnerò a studiare tutto il libro.
Mangio velocemente, prosciutto crudo, un sacchetto di patate fritte, una
mela, un cannoncino alla crema pasticcera. Lavo i piatti, suona il Nokia. È
Walter, mi chiede se sabato sera io e la Titti andiamo con loro. ‘Dove?’
‘Forse si va al mare, a cena.’ ‘Ci pensiamo’ gli rispondo. ‘Io però finisco alle
sette il lavoro, dovremo partire alle otto.’ ‘Ok’ fa lui ‘partiamo alle otto.’ ‘Ci
pensiamo’ gli ridico.
Esco di casa, saluto una vicina, mi dirigo verso il centro. Manca un quarto
alle due, ho un’ora di cazzeggiamento a mio favore, giro su e giù per i portici
come un deficiente. A volte mi piace farlo, non so il perché, forse non c’è un
perché, mi rilassa, mi distrae, mi rende più euforico. Un barbone mi chiede
l’elemosina. Non gliela do. Odio dare l’elemosina. Mi disturba. Va contro il
mio essere. Va beh, non sono un tipo generoso, non lo sono mai stato, non
lo sarò mai. Non lo sono con mia madre, con mio padre, con Gigetto, con la
Titti. Non lo sono. Punto.
Già, la Titti. Forse con lei dovrei esserlo di più, lo merita, è una ragazza
speciale lei. Sono io a non essere speciale. Oggi doveva tornare a lezione,
finalmente sta meglio e ha deciso di uscire di casa. Fra un po’ la chiamo.
Devo dirle anche per sabato prossimo. Dobbiamo decidere cosa fare. Che
poi deciderà lei. Come sempre. O quasi.
Entro da Pablo’s, Franz mi fa un caffè ristretto, lo trangugio senza zucchero. Mi carica per le quattro ore di lavoro. Almeno spero. Oggi ero partito con
le batterie cariche, mi si stanno via via scaricando. Chissà che questo caffè
non faccia effetto. Franz mi chiede come va il lavoro. ‘Va’ gli dico ‘va beh,
potrebbe andare meglio, ma anche peggio.’ Insomma quelle classiche rispo-
VA BEH!
23
ste da vecchio ottantenne. Tipo: andava meglio quando andava peggio. A
volte mi chiedo quanto sono rincoglionito e perché non riesco a essere quello che vorrei e che potrei essere. Va beh, ci sarà una risposta. Mi verrà una
risposta.
Intanto mancano venti minuti alle tre. Mi incammino verso il negozio.
Mando un SMS alla Titti: ti chiamo stasera. Ho una grande fantasia. Probabilmente ha il suo cellulare spento, probabilmente è a lezione. Non mi risponde subito come fa di solito. Pazienza, inizio il mio lavoro.
22 febbraio
Malgrado sia ancora pieno inverno, oggi splende un sole luminoso. Mi
alzo contento, quasi euforico. L’unica cosa che rompe le palle, oggi, è il
lavoro. Odio il turno del sabato pomeriggio, c’è poco da fare. È così e sarà
così sempre. Per il resto, mi si prospetta un bel sabato.
Stamattina io e la Titti andremo a comprare un regalo per sua madre che
compie gli anni lunedì; mangeremo insieme, poi, dopo il lavoro, andremo a
cena al mare con Walter e Cristy la sua morosa. Sarà un sabato intenso, un
sabato italiano, come cantava Sergio Caputo qualche anno fa.
Accendo la radio a palla, faccio una colazione super abbondante, mi
doccio nel loculo, esco fischiettando. La Titti mi aspetta già davanti a Pablo’s,
mi bacia, mi sorride, mi racconta di sua madre che pare sia guarita dall’influenza. Optiamo per regalarle un portafoglio. Eccoci in pelletteria, costa
caro, facciamo metà per uno. Con quattrocento euro al mese non è che si
facciano dei miracoli, comunque questi soldi li spendo volentieri. Soprattutto per sua figlia, soprattutto per la madre di sua figlia, soprattutto per me.
Mangiamo da Pablo’s, mi straffogo di patatine fritte. La Titti mangia un
panino americano, beve un’aranciata, ci prendiamo due caffè macchiati ed
eccoci a bighellonare per i portici fino alle tre. La Titti mi accompagna al
lavoro. ‘Vieni dentro’ le faccio ‘fammi compagnia per un po’.’ ‘Ok’ fa lei.
Appena il negozio apre, alle tre in punto, la Titti, con il suo faccino pulito, è
la prima cliente. Mi avvicino a lei appena posso. Parlottiamo sottovoce. Lei
scherza, io scherzo, ridacchiamo. Poi se ne va, sono le quattro, mi ha accorciato il turno. Lei è speciale. Alle otto sono già pronto, docciato e vestito di
fresco: camicia a quadretti, maglioncino blu a coste larghe, pantaloni grigi
regalo di Natale dei miei. Mi metto le scarpe, poi il giubbotto, esco. Dopo
poco sono dalla Titti, dopo poco siamo davanti a Pablo’s, dopo poco arrivano Walter e Cristy, che poi sarebbe Cristiana. Nessuno però la chiama Cristiana, troppa fatica. Cristy, sì, Cristy è meglio. Anche Titti è meglio. Che poi
lei si chiama Valeria. Ma tutti, da sempre, la chiamano Titti. E Titti sia.
24
Davide Continati
Cristy e’ una ragazza dolce, anche se a volte non le manda proprio a dire.
Ultimamente è molto ingrassata, è diventata tonda. Prendiamo l’autostrada
per il mare, ci vuole poco più di un’ora. Siamo in macchina con Walter, lui
va forte. Va beh, però non ha mai fatto nessun incidente, mica lo farà stasera. Siamo al mare, sono le nove e mezza, ceniamo in un bel ristorante sul
lungomare, uno dei pochi aperti in questa stagione. C’è poca gente, si sta
bene. A tavola si ride e si scherza.
Usciamo, è quasi mezzanotte, tira un vento fastidioso. ‘Tutti in spiaggia’
fa Walter. Cristy lo fulmina con uno sguardo. La Titti ci sta subito e ci incamminiamo verso lo stabilimento balneare più vicino. Le cabine sono fisse, c’è
anche il bar, naturalmente chiuso, gli ombrelloni invece non ci sono. La
spiaggia c’è, non è ampia come d’estate ma c’è. ‘Vi aspettiamo in macchina’ fa Walter, quando vede che la Titti insiste un po’ troppo per andare.
Finisco per accettare.
Eccoci sulla battigia, fa un freddo cane. Va beh, è febbraio. La Titti si
siede per terra, d’altronde indossa i jeans. Ci baciamo. Fa davvero un freddo cane. Ci baciamo. Siamo romantici, davvero. Dovremmo venire più
spesso al mare. La Titti si alza e si mette a correre all’improvviso, la rincorro,
ridiamo, improvvisamente lei piega verso le cabine. Adesso ti prendo! Presa! Siamo tra due cabine, in un anfratto dove sono sistemati i lettini e le sedie
a sdraio. Ci baciamo, fa meno freddo qui. Lei mi tocca. Hai capito, la Titti!
Va beh, d’altronde siamo soli. La tocco. Mi toglie i pantaloni, le slaccio i
jeans, ci buttiamo per terra, scopiamo immediatamente. Troppo immediatamente, almeno per me. Lei se ne accorge, sorride. Ci rivestiamo. Silenzio
tombale. Walter e Cristy ci aspettano in macchina.
24 febbraio
Oggi ho deciso di fare un giro in facoltà, tanto per santificare la festa del
lunedì. Arrivo nell’androne, c’è un gran viavai, sono le undici, le lezioni sono
riprese, tanti studenti si cercano, parlano, discutono, ridono, si preoccupano.
Io non mi sono mai preoccupato per l’Università. Va beh, i primi due/tre
esami mi sono un po’ cagato sotto, ma poi ci fai l’abitudine e l’Università
diventa una routine qualunque. Che poi io l’Università non la vivo granché
bene. Non mi dà grandi soddisfazioni ma non perché vada male, no, vado
come tanti altri. Non mi sta simpatica, ecco tutto. Quante persone non stanno simpatiche alla gente? Tante. Anche a me tante. E anche l’Università,
ecco tutto. Punto e a capo.
Guardo le bacheche, compresa e soprattutto quella dell’indirizzo sociologico.
VA BEH!
25
Controllo la data dell’esame di antropologia, ammesso che lo farò. Aprile,
confermato. Mi giro. ‘Ciao’ mi fa una. È l’Anto, incredibile. Non la vedo da
almeno due anni. Eravamo matricole insieme, frequentavamo due/tre lezioni insieme. È simpatica, l’Anto, è una bella ragazza. L’ho anche tampinata,
lo ammetto. D’altronde, allora la Titti non c’era, ero libero. Adesso ha i
capelli ricci, allora no, li aveva lisci.
‘Come stai?’ le faccio. ‘Bene, e tu come te la passi?’ fa lei di rimando.
Parliamo del più e del meno, mentre passeggiamo per la facoltà. Le mancano solo quattro esami. Presto chiederà la tesi. Andiamo al Caffè degli studenti, un luogo sempre pieno come un uovo, dove da mezzogiorno alle due
è praticamente impossibile entrare. Adesso c’è poca gente, prendo un caffè,
l’Anto prende un latte macchiato. Ci sediamo a uno dei tavolini. Parliamo,
mi racconta le sue avventure all’Università, mi racconta i suoi problemi a
casa, il suo ex ragazzo l’ha mollata da tre mesi, è un po’ giù. Le racconto
della Titti, mi sorride, è contenta per me.
È simpatica, l’Anto. L’ho sempre detto. Va beh, avevo preso una sbandata per lei, frequentandola quasi tutti i giorni in facoltà. Ci ho provato di
brutto, insomma. È sempre bella anche adesso, è un tipo diverso dalla Titti,
è più aperta, più, che ne so, più Anto. Mi dà il suo numero di cellulare. Le do
il mio. È mezzogiorno e dieci. ‘Devo andare a lezione’ mi fa ‘è l’ultima
materia che seguo, sociologia urbana e rurale.’ ‘Beata te’ le dico. Ci alziamo,
usciamo dal Caffè degli studenti. Mi saluta, la bacio sulle guance. Ha sempre
un buonissimo profumo, l’Anto. Me lo ricordo già da allora. È sempre quello. Anche lei è sempre quella. Mi incammino verso casa.
25 febbraio
Porca puttana, sono a letto con l’influenza. Stamattina mi sono svegliato
con le gambe a pezzi e un mal di testa clamoroso. Telefono al medico,
arriverà più tardi. Avverto il negozio. Vi saprò dire quanti giorni mancherò.
Telefono alla Titti: ‘Ho 38 e 7, sono bloccato a casa.’ Mi verrà a trovare nel
pomeriggio, a fine lezione.
Che poi oggi è dieci mesi che stiamo insieme. ‘Non vorrai mica prenderla
anche tu?’ le faccio. ‘E chissenefrega’ risponde lei. Mi addormento vinto
dalla febbre. Mi sveglio alle due, mi alzo, vado in bagno, non ho fame, ma
cerco di buttare giù qualcosa: grissini, un po’ di prosciutto rimasto da ieri,
una mela, anzi mezza, non riesco a finirla, torno a letto, ho freddo.
Arriva il medico. Mi prescrive pastiglie e supposte. Certificato medico di
una settimana. Va beh, preferivo andare al lavoro. Sono a pezzi. La Titti
arriva verso le quattro e mezza, è tutta trafelata. Ha un maglione rosso che
26
Davide Continati
non le ho mai visto e una gonna scura. Mi bacia, mi provo la febbre, 38 e 8,
cazzo! Esce, va in farmacia, mi porta le medicine, mi prepara un bicchiere
d’acqua, prendo la prima pastiglia. ‘Stasera alle dieci devi prendere la seconda’ mi fa. ‘Ok’ le dico con un filo di voce.
La Titti chiama casa e avverte che resta un po’ con me. Si mette ai fornelli, non so cosa prepari. Si ripresenta con un tè bollente col limone, come
piace a me. Mangio un cannoncino alla crema pasticcera. È già un’ora che
ho preso la pastiglia e questo tè forse ha fatto il resto. Mi sento meglio, mi
siedo nel letto. La mia infermiera, la Titti, è seduta lì al mio fianco, mi sorride. Le dico che sto meglio.
Certo che ho una ragazza speciale. L’ho sempre detto. Io non sono speciale, tutt’altro. Va beh, sono un ragazzo normale, speciale come lei no,
però. Purtroppo. Sono le sei del pomeriggio, ormai fa buio fuori. In casa è
accesa solo l’abat-jour. La Titti mi chiede come sto, se mi serve qualcos’altro.
‘Sto meglio’ le dico ‘la medicina comincia a fare effetto.’ Comincia a baciarmi, sulla bocca, con la lingua. ‘Allora ti vuoi proprio ammalare’ le dico.
‘Certo!’ fa lei ridendo. È a fianco a me sul mio letto.
Comincia ad alzarsi la gonna, mostrando le sue gambotte coperte dal
collant nero. Mi piacciono le sue gambe, sono un po’ grosse, ma sono molto
belle da accarezzare. Si alza ancora di più la gonna, mostrando il pube. Mi
prende un mano, la dirige proprio lì. La accarezzo per lunghissimi secondi
mentre la guardo negli occhi. Si alza la Titti, spegne l’abat-jour, entra nel mio
letto, le faccio posto. Si toglie la gonna, si toglie il collant nero, si toglie le
Sloggy. Ci baciamo. La penetro dopo alcuni minuti di baci intensi. Facciamo l’amore. È stato il nostro rapporto più bello, davvero. Regalo dei dieci
mesi.
La Titti resta vicino a me anche dopo. Sono in un lago di sudore. Restiamo in silenzio per un bel po’, come sempre dopo aver fatto l’amore. Accendo l’abat-jour: sono le otto. La Titti mi dice che deve andare, tornerà domattina verso le dieci, visto che la lezione inizia alle undici. Esce. A domani,
Valeria. Resto solo, mi provo la febbre. Con quello che ho fatto o mi è
andata a 40 o sono sotto zero. 35 e 9 è il responso. La medicina e la Titti me
l’hanno fatta scendere alla grande. Mi sento stravolto, a pezzi, sudo ancora,
mi tolgo le coperte di dosso, mi viene freddo, mi ricopro. Non ho fame, ma
dovrò pure mangiare qualcosa prima della notte. Mi addormento esausto.
Va beh, che giornata!
28 febbraio
Sto meglio. Da ieri sera la febbre se n’è andata, ma dovrò stare in casa
VA BEH!
27
ancora un paio di giorni, in pratica sabato e domenica. La cose non mi piace
molto, ma sono anche abbastanza giù di forma per cui è quasi meglio così.
Va beh, si fa per dire…
Sia ieri che oggi è venuta mia madre. Mi ha fatto da mangiare, ha dato
una pulitina a questo cesso di monolocale, al bagno e al loculo della doccia,
mi ha fatto la spesa, ha portato il certificato medico al negozio. Insomma il
manuale della brava mamma. Oddio, anche la Titti poteva fare tutto questo, tranquillamente. Però la mamma è sempre la mamma.
Se n’è andata verso le quattro. Mi sono alzato, aspetto che la Titti esca da
lezione perché poi mi viene a trovare. Che faremo stasera? Starà qui con me
anche dopo cena? Non lo so, stamattina al telefono è stata molto evasiva,
aveva un po’ le palle girate evidentemente. Vedremo.
Mangio un arancio. Fa schifo, ne getto via mezzo. Guardo la tv, c’è il
programma di Cucuzza, giro, telenovelas, giro, documentari sugli animali,
giro, pubblicità di merendine per bambini, spengo la tv. Non so cosa fare, mi
sento bloccato qua dentro. Non mi va di leggere, tanto meno di studiare,
tanto meno un libro di antropologia culturale. Non ho la forza per farlo. Mi
butto sul letto, dormo un po’.
Arriva la Titti, mi informa di tutto sulle sue lezioni all’Università. La invito
a cenare lì da me. Resta. Prepariamo la cena. Mangiamo. C’è poco dialogo
stasera, c’è poca voglia di fare, c’è poca voglia di comunicare. Lei ha le palle
girate, io sono giù di tono. Speriamo che passi tutto alla svelta.
28
Davide Continati
3° CAPITOLO
2 marzo
Questo è stato veramente un weekend di merda. Ieri sera mi è tornata un
po’ di febbre e mi sono pure incazzato forte. Va beh, avevo solo 37 e 2 ma
mi scoccia veramente passare il sabato e la domenica in casa. Va beh, c’era
anche la Titti, ma proprio non mi piace.
Stasera sto bene, mi sento bene, sono su di corda, fra poco arriverà la
Titti, ceneremo insieme, poi magari chissà come va a finire. La Titti arriva
verso le sette, ha studiato tutto il pomeriggio, ad aprile lei darà sicuramente
un altro esame. E io? Chissà, forse, magari…
Telefono alla pizza express, una margherita per la Titti, una capricciosa
per me. Il ragazzo della pizza arriva dopo quasi un’ora di attesa. Mi è anche
tornata la fame, neanche apparecchiamo, mangiamo dentro i cartoni, divoro la capricciosa in tre minuti d’orologio, la Titti mi guarda stralunata. Bevo
una birra. È parecchio che non tocco alcol, ma stasera voglio festeggiare la
guarigione e riscattare questo weekend di merda.
Ieri sera ci siamo visti Frizzi in tv fino alle undici. Io volevo fare qualcos’altro,
ma la stanchezza e quel po’ di febbre mi hanno steso. Non volevo che la Titti
andasse a casa da sola a mezzanotte, così è venuta sua madre a prenderla.
Meno male. Va beh, la Titti sa badare a se stessa, ma in città girano delle
facce veramente inquietanti. Non voglio che le succeda niente.
Sparecchiamo, la Titti lava bicchieri e posate, poi mi chiede cosa voglio
fare. ‘Uscire’ le dico ‘sto bene.’ ‘Ok’ fa lei ‘andiamo da Pablo’s.’
Usciamo, andiamo da Pablo’s. Sto bene, anche se uscire dopo alcuni
giorni nei quali sei rimasto murato in casa dà una strana sensazione. Troviamo Walter e la Cristy, parliamo, racconto loro la mia bella settimana, loro ci
raccontano le loro belle litigate per delle cazzate tremende. Va beh, ognuno
ha quello che si merita. È mezzanotte e mezza quando riaccompagno la Titti
a casa. La scorto fino alla sua camera, la abbraccio, le tocco quel bel sederotto.
‘Basta’ fa lei ‘vai a letto, che non puoi. Sei ammalato.’ Rido, vado ancora
all’attacco. Niente. Niente da fare. ‘Vado a casa’ le dico. ‘Ci vediamo domani.’ Mi bacia. Le voglio davvero bene.
VA BEH!
29
Esco da casa sua, mi incammino verso la Punto, vado verso casa. La
stanchezza è tanta, forse ho esagerato, mi tocco la fronte. Non avrò mica
ancora la febbre? Panico. A letto me la provo. Non ce l’ho per fortuna.
Domani starò in casa. Non voglio che mi ritorni.
5 marzo
Oggi torno al lavoro dopo una settimana di malattia. Mi accolgono tutti
col sorriso, anche perché si capisce che c’è bisogno di due braccia in più che
lavorino. Il pomeriggio è davvero lungo. Mi ero già abituato a non lavorare
che adesso quattro ore sembrano un’eternità.
Come sempre Claudia mi stressa con le sue paranoiche avventure. Ora
che non c’è più il suo Rocky o Ricky come cazzo si chiama, evidentemente
deve sfogarsi con qualcuno. In questo periodo si vende più musica italiana,
forse perché c’è stato da poco il festival di Sanremo. Io lo guardavo da
piccolo, il Festival, adesso non più, anche se poi, dopo pochi giorni, conosco
tutte le canzoni. Qui trasmettono in diffusione la festival compilation per
delle ore consecutive. Quest’anno le canzoni le imparerò ancora più alla
svelta. Va beh!
Alle sette e dieci sono in strada, ormai c’è già aria di primavera, oggi poi
c’è stato un sole splendido e quasi quasi c’è ancora chiaro a quest’ora.
Decido di mangiare fuori. Vado da Pablo’s. Franz mi chiede cose voglio poi
mi racconta che si è fidanzato con una tale Carlotta. Mai sentita, d’altronde
ha 16 anni… Io a 16 anni ero un bambino, ma sul serio. In tutti i sensi.
Anche se mi facevo la barba già da due anni. Già, a 14 anni mio padre,
stanco di vedermi con una peluria ridicola, da mafioso, sotto il naso, mi
insegnò a radermi. Adesso ho una barba durissima, anzi voglio, prima o poi,
farmi crescere il pizzetto. Va beh, se alla Titti piace.
Franz mi porta un’insalatona enorme. Chissà se ce la farò a finirla. Pomodori, mozzarelline, insalata, mais, c’è un po’ di tutto. Suona il cellulare mentre mi straffogo. È Walter, vorrebbe vedermi stasera. Lo invito a casa mia.
‘No’ fa lui ‘vediamoci da Pablo’s.’ ‘Ti aspetto’ faccio io ‘ti tengo caldo il
posto.’ Finisco l’insalatona, ce l’ho fatta, ho proprio la pancia piena. Bevo
un birrone. Ultimamente mi piace molto la birra. Prima la bevevo pochissime volte in un anno. Adesso la trangugio volentieri.
Walter arriva alle otto e un quarto con una faccia da funerale che non
finisce più. Si è mollato con Cristy, lo immaginavo. Mi racconta il litigio,
l’ennesimo. Usciamo da Pablo’s e ci incamminiamo verso il centro. Walter
vuole sfogare la sua rabbia, mi propone il bowling. Va beh, faccio io, bowling
sia. È una vita che non ci gioco, però mi piace, mi è sempre piaciuto, davve-
30
Davide Continati
ro. Andiamo in un complesso enorme. Ci sono bowling, sale da biliardo,
sale giochi, un vero paradiso. Ci sono stato solo una volta, qualche mese fa,
ancora non conoscevo la Titti, sarà un anno, adesso che ci penso.
Vinco facile contro Walter, il quale è più attento a raccontarmi le sue
paranoie che a giocare. Finisce male, la partita, per lui. Un trionfo per me.
Ma lo vedo male, Walter. È giù, è incazzato, vuole andare a fare un giro in
macchina. Va beh, lo assecondo, avanti, si va.
Giriamo per un bel po’, andiamo verso le colline, poi si ferma in uno
spiazzo, scende, parliamo sempre della Cristy, ormai so perfino come sono
fatti i suoi capezzoli. Walter crolla in un pianto a dirotto che non finisce più.
Non l’ho mai visto piangere, lui, tutto d’un pezzo. Lo capisco, cerco di consolarlo, ma non ci riesco, dà un calcio alla sua macchina. Mamma mia!
Entriamo in un locale lì vicino, Walter comincia bere a sproposito, si sta
ubriacando, io cerco di restare calmo e di assecondarlo, ma è dura. Non
sono bravo a fare queste cose, è inutile. Quando mi pare abbastanza sbronzo, usciamo dal locale, lo riporto alla macchina e ripartiamo verso casa.
Guido io però. Lo riaccompagno a casa. Io tornerò a piedi. Certo avrò
mezz’ora di strada, ma cammino volentieri. Anche se sono le tre di notte.
7 marzo
Entriamo alla multisala verso le dieci, siamo con Claudio e Lory. A me e
alla Titti non piace molto andare al cinema, ci andiamo poche volte in un
anno, tre, quattro, forse cinque. Ci sono quelli che ci vanno quattro volte al
mese! Va beh, stasera eccoci alla multisala. Io ai popcorn non rinuncio, sarò
banale, sarò poco originale, ma ai popcorn non rinuncio. Compro il bicchierone
maxi, così anche la Titti può attingere.
Stasera la Lory sembra una puttana. Ha una minigonna ascellare nera e
una maglia scollatissima. Il problema è che ha delle brutte gambe e poco
seno. Va beh, piace a lei… e a lui… Il film è bellino, anche se la fine è
scontata. Usciamo verso mezzanotte e mezza, ci rifugiamo da Pablo’s anche
perché si è messo a piovere forte. E comunque nessuno di noi ha voglia di
andare a letto.
Da Pablo’s c’è un casino bestiale, sarà per la pioggia, sarà perché non si
sa mai dove andare a passare qualche ora insieme agli amici. Non ci sono
tavoli liberi, stiamo in piedi al bancone, la Titti si siede su uno sgabello e si
diverte a girarsi e rigirarsi, sghignazza con la Lory. Già è vestita da puttana,
la Lory, adesso sghignazza anche da puttana. Con Claudio parlo del più e
del meno, dopo un po’ mi sono già rotto, sbevacchio un Negroni.
Ultimamente mi sto dando un po’ troppo spesso all’alcol. Va beh, mica
VA BEH!
31
sarà un peccato. Mica sono un alcolizzato. Mica c’è qualcuno che me lo
proibisce. Sì, va beh, lo reggo pochino, ma pazienza!
La Lory passa più tempo a tirarsi giù la minigonna che a fare altre cose.
Sembra un tic, invece è proprio una necessità. Vuoi vedere che fra poco ci
mostrerà il colore dei suoi slip? Va beh, ha il collant, ma… Guardo i quattro
ragazzi che sono seduti nel tavolo di fronte al bancone dove siamo parcheggiati noi. Sono proprio curioso di vedere se allungano gli occhi. Ecco! Sì, sì,
è evidente che lo sguardo cade lì. Per forza. Questo è il momento più divertente della serata.
Usciamo verso le due e mezza, salutiamo Claudio e la Lory, accompagno
a casa la Titti, lei si lamenta, ha un forte mal di testa. Vado a casa, sono le tre
e un quarto quando mi corico. Guardo il soffitto, rifletto sulla serata scadente, sento il Negroni ancora in circolo, non ho sonno. Forse potrei fare una
capatina da qualche altra parte. Mi alzo, bevo un bicchiere d’acqua, tutto
d’un fiato, accendo la tv, hot line, vendite, film di trent’anni fa. Puah! Mi
ricorico. Mi addormento dopo poco.
9 marzo
Suona il campanello mentre dormo profondamente. Che spavento! Mi
alzo di scatto, guardo l’orologio, sono le sette e dieci di domenica mattina,
cazzo!, non potete venire a suonare la domenica mattina! No! Risuona il
campanello. ‘Vengo!’ grido e mi precipito alla porta. È Walter. ‘Ma che fai
qui?’ gli faccio, mentre entra. ‘Devo ancora andare a letto, anzi non ci andrò
proprio’ mi fa. Si siede sul mio letto. Sono ancora addormentato ma vedo
che è stravolto, ha due occhi che sembrano due meloni. Mi racconta che
non dorme da giorni, stanotte ha vagato per la città, si è pure fermato a
parlare con dei barboni vicino alla stazione, poi loro l’hanno invitato a dormire sui cartoni, ma lui ha tirato dritto. È stato all’Internet cafè fino alle 5, poi
ha camminato in centro senza meta, ha fatto chilometri, adesso è stravolto
ed è finito da me. Si vede che ha pianto, questa Cristy ha provocato una
voragine dentro di lui.
Non so cosa dirgli, se non le solite cazzate di circostanza. ‘Ti sei scelto un
bel tipo per venire a piangere’ gli faccio. Metto su il caffè, preparo un po’ di
latte caldo, gli dico di reagire perché se il destino ha deciso così, c’è poco da
fare. Insomma altre cazzate.
Va beh, magari a forza di cazzate si convince che sono vere, oppure mi
manderà affanculo, oppure si metterà a ridere, o magari se ne andrà. Continuo il mio monologo davanti ai fornelli, preparo due tazze di caffelatte da
sogno. Ormai sono sveglio anch’io. Non ricordo da quanto tempo non mi
32
Davide Continati
sveglio così presto la domenica. Tanto tempo. Davvero. ‘Pronta la colazione’ gli dico. Walter nemmeno mi risponde, mi giro verso il mio letto, è crollato, dorme. Mi fa quasi pena, è messo di traverso. Ma guarda un po’ che
bel inizio di domenica.
10 marzo
Stamattina ho proprio voglia di studiare. Miracolosamente. Dopo una
bella colazione alle 10 e mezza, mi degno di prendere in mano il manuale di
antropologia culturale. Che poi io questa materia non so perché l’ho messa
nel piano di studi. Il professore è un mezzo matto, rincoglionito, ha passato
tre anni a studiare le tribù africane in Burundi o dove cazzo non so. Gli
assistenti paiono usciti da un libro di Verne. Mah, che poi è importante
superarlo e basta e il tempo è pure poco.
Mi fiondo sui primi tre capitoli, li divoro, mi sembra di impararli immediatamente. Dopo un’ora, però, sto già sclerando. Va beh, la desuetudine allo
studio dà luogo a risultati inquietanti.
Esco di casa dopo mezzogiorno, gironzolo per il centro come un deficiente, senza meta, per un’ora. Compro la rosea, la divoro in tre minuti. La
getto. Un euro buttato via. È l’una e un quarto quando decido di telefonare
alla Titti. Risponde sua madre, mi dice che è in facoltà, va beh, provo sul
cellulare. È spento. Ma dove si è cacciata? Non spegne mai il cellulare se non
è a lezione. E dall’una alle due non ci sono mai lezioni.
Riprovo dopo cinque minuti. Niente. Quel piccolo languorino di fame
che stava salendo dalle mie budella sta scemando pericolosamente. E se mi
passa la fame per me è un brutto segno. Non so perché ma ho un disperato
bisogno di sentire la mia ragazza. Non ho niente di importante da dirle,
vorrei solo salutarla, sentire la sua voce, assaporarla. Mi prende male quando riprovo a telefonarle. Niente. Mi incammino verso la zona universitaria.
Mi sembra quasi di correre talmente vado forte.
Sono le due quando entro nella facoltà di economia. C’è un casino bestiale nell’androne dove ci sono le lezioni che dovrebbe seguire la Titti. Trovarla è veramente dura. Ritento con il telefono. Niente, spento. Riprovo a
casa, sua madre sembra quasi scocciata. Mi ripete che è a lezione e che ha
detto che tornerà verso le quattro. Già. Lo sapevo anch’io che aveva lezione
dalle due alle quattro, ma stamattina perché è uscita prima? Mi rendo conto
di essere troppo apprensivo. Anzi, sembra quasi gelosia, quella gelosia che
comincio a provare troppo spesso. Va beh, la Titti è speciale, non posso non
essere geloso, però io non so cosa volesse dire la parola gelosia prima di
stare con lei.
VA BEH!
33
La richiamo. Finalmente suona. ‘Sono di fronte a te’ mi fa la Titti al
telefono. E infatti eccola arrivare nell’androne sorridente. C’è un ragazzo
con lei. Mai visto. Arriva, mi bacia. ‘È un’ora che ti cerco’ le dico. ‘Ero a
mangiare con Silvia’ mi fa candida. Mi presenta Luca, un amico di Silvia che
adesso va a lezione con lei. ‘Anzi’ mi fa la Titti ‘dobbiamo proprio andare,
sono le due e un quarto.’ Mi bacia, entra nell’aula 3. ‘Ci vediamo dopo, ti
aspetto qui’ faccio io. ‘Guarda che ho due ore di lezione’ ribatte la Titti. ‘E
chissenefrega’ faccio io.
Bighellonerò due ore, oggi è lunedì, non devo lavorare, per fortuna. La
aspetterò qui fuori alle quattro in punto. Garantito. Sono davvero geloso di
questa ragazza. Sono davvero innamorato. Sono davvero cambiato. Va
beh, forse è normale. Lo spero.
11 marzo
Oggi sono depresso. Non mi capita quasi mai. Oggi mi capita purtroppo.
Sì, lo so, forse è la gelosia a impadronirsi di me e a farmi questi brutti scherzi.
Devo migliorare, devo farmela passare, altrimenti ne soffrirò troppo. Io voglio troppo bene alla Titti, la considero mia, anzi è mia, ma non riesco ad
accettare che nessuno nemmeno la avvicini.
Per dire, ieri, quel Luca. Non è nessuno. Va beh, la conosce, ma non è
nessuno. Non è nessuno per me, non è nessuno per lei. Però, vederla solo
camminare con lei a fianco mi ha fatto sbiancare. Oddio, sono malato, ho
bisogno di uno psicologo, di uno psichiatra. No, sono solo innamorato, forse
troppo.
Mangio in fretta, a pranzo. Stamattina ho studiato, cioè poi in realtà ho
solo sfogliato il libro. Mangio spaghetti aglio, olio e tanto peperoncino. Cazzo, sono quasi immangiabili. Sto quasi male talmente sono piccanti. Ci ho
messo anche un bel po’ d’aglio, così poi al lavoro se ne stanno alla larga e
non mi rompono le palle.
Il martedì per me è un brutto giorno al negozio, è come
il lunedì per gli impiegati che iniziano la settimana. Ieri ho anche ricevuto
la prima busta paga. Bevo come una spugna. Il peperoncino fa effetto. L’aglio
fa effetto. Ho lo stomaco che borbotta, è un po’ incazzato, forse ho esagerato. Vado al lavoro. Non ho nessuna voglia di vedere nessuno. Che brutta
giornata.
12 marzo
Lavaggio auto, è una bella mattina di sole. La Punto esce tirata a lucido,
un blu notte splendido. Purtroppo appena vengono due gocce di pioggia
34
Davide Continati
diventa un cesso. Di solito non giro mai in macchina la mattina, oggi invece
ne ho quasi voglia.
Vado dalla Titti, sta studiando. ‘Dai esci, andiamo a fare un giro.’ Ha
lezione alle due. Accetta un po’ perplessa. Prendo la tangenziale, giriamo a
vuoto per mezz’ora, poi prendo la strada della collina, arrivo fino in cima,
eccoci in un bel posto, si vede la città da qui. Ci sono venuto qualche volta
con qualche altra ragazza. ‘Non lo conoscevo questo posto’ fa la Titti. È
sorridente, ha gli occhiali da sole, ha un giubbottino leggero scuro, ha i
pantaloni grigi che le fasciano le gambotte.
Scavalco una piccola staccionata. Sembriamo lontani anni luce dalla città
e invece siamo a dieci minuti di macchina. Non di più. La Titti mi segue, mi
inoltro in un prato, lei inizia a correre, la inseguo, ridiamo, scendiamo per un
piccolo pendio, cado malamente, mi rialzo, la Titti ride. Io rido. La prendo
per mano, la bacio.
Il sole è splendido, siamo soli, c’è tanta luce attorno a noi. Va beh, sto
bene, mi sembra di rinascere dopo due giorni di ‘total depression’. È bastato
poco per riprendermi. È bastato un ‘pulcino sei grande’. La bacio, la ribacio.
Mi bacia, mi ribacia. Risaliamo in macchina, si va a mangiare, si va alla
Fattoria. Pranzo a sorpresa in collina. La Titti non andrà a lezione oggi.
Pranziamo felici. Io mi sento felice. La Titti è in forma.
Scendiamo in città verso le due e mezza. Faccio appena in tempo ad
arrivare al lavoro. Timbro alle quattordici e cinquantanove.
15 marzo
Oggi è venuta mia madre a pulire il monolocale. Andrò a casa stasera
dopo il lavoro, viene anche la Titti, passiamo il weekend a casa mia.
Quando cucina mia madre è grande festa per il mio stomaco abituato a
robacce. Oggi mi prepara delle pennette panna e prosciutto da far resuscitare
un morto. Ne mangio una quantità industriale. Mia madre mi chiede quando farò il prossimo esame. Rieccola. E d’altronde cosa dovrebbe chiedermi?
Del mio lavoro non è che sia entusiasta, però l’ha accettato.
Mia madre è intelligente. Magari rompe un po’. Magari è troppo premurosa. Magari è troppo apprensiva. Magari è troppo possessiva. Però è intelligente. E fa da mangiare bene. Se ne va dopo le due, chiamo la Titti, mi
aspetta alle sette e mezza per andare a casa dei miei, al paese.
16 marzo
Quando torno a casa dai miei per passarvi il sabato sera, mi sento quasi
spaesato. I miei vecchi amici si trovano ancora per uscire insieme, ma ho
VA BEH!
35
perso tanti legami con loro. Allora magari era più difficile divertirsi. C’è stato
un periodo in cui si andava regolarmente a ballare il sabato sera. Che poi,
ballare… Si fa per dire. Si tampinava come degli ossessi (e come si poteva)
e via il sabato dopo si ripartiva. Stessa storia, stessa discoteca, stesse facce,
stesse ragazze, stesse cazzate, stesse fregature. Ora non lo farei più. Neanche
per idea. Eppure sono passati solo due o tre anni.
Stasera c’è anche la Titti. Mia madre le ha preparato la stanza degli ospiti
come Dio comanda. Lei si è portata addirittura una valigia, neanche dovesse accamparsi e sistemarsi definitivamente a casa mia. Va beh, meglio così.
La porto nel posto più bello del mio paese; è una gelateria bar paninoteca
birreria, insomma c’è tutto e non c’è niente. Incontro la mia vecchia compagnia, sono pacche sulle spalle e tantissimi complimenti per la Titti. Qualcuno
sostiene che non l’avevo mai presentata a nessuno. A me pare di sì, poi mi
rompo e lascio perdere. Ci propongono di andare a ballare. La Titti mi
trasmette un no secco con gli occhi. Va beh, sarà per la prossima volta,
spiego ai miei amici. Certo, se la Titti dice di no alla disco vuol proprio dire
che la compagnia non le piace. Va beh, amen, non andiamo. A me sta
bene.
Facciamo un giro in macchina. Si vede che alla Titti questo posto piace
poco. Lo si capisce da come ragiona, cosa dice, come lo sputtana. Torniamo a casa mia, ci accucciamo sul divano, i miei sono già a letto, Gigetto
pure. Bacio la Titti, lei sembra un po’ fredda. Dopo un po’ vuole andare a
letto: ‘Io nel mio, tu nel tuo’ mi fa. Agli ordini, Valeria.
20 marzo
Sono un po’ di giorni che mi rompo le palle a fare tutto. Si dice scazzato,
mi pare, una scazzatura bella e buona. Non mi va di lavorare, non mi va di
studiare, non mi va di farmi da mangiare, non mi va di leggere, non mi va di
pulire il monolocale. E questo passi, cioè, poi alla fine ci sta. Il problema è
che non ho nemmeno voglia di divertirmi, non ho voglia di uscire, non ho
voglia di guardare la tv, non ho voglia di girare in macchina, non ho voglia
di andare con degli amici. Zero totale. Lo devo dire alla Titti, dobbiamo
escogitare qualcosa di nuovo per cambiare un po’ di cose.
Anche lei è un po’ scazzata, ha ripreso a studiare in grande stile, ci sta su
ore e ore, poi va a lezione, la sera a volte è nervosa, è stanca, ha sonno. Va
beh, passerà.
Finisco il turno al negozio alle sette e zero uno, un record vero e proprio,
d’altronde l’ho detto, non ho voglia di fare niente. Punto e basta. Vado a
casa, mi doccio nel loculo, mangio qualcosa, dei rimasugli da frigo, uno
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Davide Continati
schifo totale. Guardo il tg1, poi un pezzo di tg5, poi guardo le notizie del tg2.
Sinceramente non so cos’hanno detto, se ci sono delle disgrazie o delle belle
notizie, se l’indice telematico della Borsa sale o scende, se i politici hanno
detto le solite cazzate. Non lo so.
Esco di casa verso le nove, vado dalla Titti; non l’ho avvertita, anzi ci
siamo salutati verso le due dandoci un appuntamento a domani. Mi fermo
da Pablo’s, invece, mi sparo una birra fuori di testa. C’è pochissima gente,
una ragazza con i capelli lunghissimi, alla Panicucci prima maniera, si sta
leccando con un tipo strano, barba da tamarro, occhiali fumé. Va beh, piace
a lei.
Franz mi chiede come va. ‘Male’ gli dico ‘sono scazzato.’ Mi racconta di
Carlotta, la sua morosa. Per inciso, deve essere una grande porca se è vero
quello che mi sta dicendo. Eppure ha solo sedici anni. Comincio a credergli
poco, lo assecondo. Bevo un caffè ristretto, esco da Pablo’s quando scoccano le dieci e un mal di testa gigantesco comincia a martellare le mie tempie.
22 marzo
Mi arriva un SMS dalla Titti, mentre mi straffogo di pasta con le acciughe,
anzi di pasta con la pasta di acciughe che costa meno e si fa prima a cucinarle. ‘Scusa’, è il testo dell’SMS. Va beh, scusa. Sì, ieri sera la Titti non ha
voluto uscire con me, era stanca, sta studiando come una deficiente, la capisco, lei ci tiene a laurearsi presto, a prendere bei voti, va beh, la capisco,
però la sera del venerdì e del sabato, almeno quelle, santo Dio. Già che la
luna mi gira storta ci si mette anche lei.
Scusa, va beh, scusa, scusata, ci mancherebbe, però, dai Titti… Mi preparo un bel discorsino per lei. Che poi non sono bravo a fare questi discorsi,
si sa. Non sono bravo a fare discorsi, non sono bravo a fare regali, non do
soddisfazioni, forse. Allora, cosa so fare? Forse non sono bravo nemmeno a
scopare, visto che neanche mi ricordo quando ci siamo accoppiati per l’ultima volta. Accoppiati, un bel termine, a volte davvero mi sorprendo. Sì,
siamo una coppia io e la Titti, questo va detto.
‘Ne riparliamo, comunque sei scusata’, è il testo dell’SMS che le mando
con il mio Nokia. Non devo avere nemmeno tanta fantasia.
Lavo i piatti, li asciugo, li ripongo, suona il campanello. Cazzo, chi è che
rompe all’una e trequarti che io alle tre devo andare al negozio e voglio
anche fare un riposino? Apro la porta. ‘Sorpresa’ fa la Titti sorridente. ‘Entra’ le faccio. Ecco, io in questi momenti mi sento l’uomo più felice del
mondo. Sì, perché mi passa tutto, la scazzatura, l’incazzatura, la paranoia, la
noia, tutto. E quando vedo il suo sorriso io sparisco, sono accecato. È troppo
VA BEH!
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bella, è troppo speciale, è troppo Titti. Ma chissenefrega se ieri sera non ha
voluto uscire!
‘Entra’ le rifaccio. Richiudo la porta. Mi guarda mentre si toglie il giubbotto. ‘Sei ancora arrabbiato con me?’ mi fa mentre si toglie una maglia violetta, mostrando subito il reggiseno nero. ‘Forse’ le dico sorridendo. Adesso
neanche mi ricordo il discorsino che mi ero preparato. Forse non è il caso. Si
toglie anche i pantaloni grigi, i suoi preferiti. I miei preferiti. Resta con le
Sloggy, mi guarda. ‘Sei ancora arrabbiato?’ ripete. ‘Un po’ meno’ rispondo.
Adesso ho capito a che gioco sta giocando. Devo essere un po’ tardivo. Si
toglie il reggiseno, mi mostra quelle due tettine che mi fanno impazzire.
Riesco a gorgogliare: ‘Mi sta passando quasi del tutto’.
Non sorride più la Titti, si toglie le Sloggy, è nuda davanti a me, devo solo
allungare le mani, devo solo abbracciarla, devo solo toccarla, è mia, devo
solo penetrarla. Adesso lo dico ad alta voce. Mi sto accoppiando con lei, è
stupendo sentirsi dentro di lei. Altro che incazzature! Va beh, insomma, è o
non è la Titti? È o non è speciale? Adesso ricordo l’ultima volta che abbiamo
scopato. Oggi, dopo pranzo.
25 marzo
Da undici mesi sto con la Titti. Undici mesi stupendi. Undici mesi di emozioni. Stasera usciremo a cena, pago io. Le ho comprato un mazzo di fiori.
Sto cambiando, decisamente.
Mia madre oggi mi chiede quando faccio l’esame. ‘Non lo faccio’ le rispondo ‘non ho tempo di studiare.’ ‘Quel lavoro lo devi mollare’ fa lei ‘appena ti scade il contratto.’ Lo sapevo che sarebbe finita così. Mia madre
certe cose non le capisce, purtroppo. Va beh, la capisco, però dovrebbe
mettersi anche nei miei panni. Se non avessi la Titti, scoppierei. Garantito.
Certo che non è un periodo tanto felice, mi girano le palle facilmente, sono
nervoso, sono geloso, sono possessivo, mi prende il panico facilmente.
Tutto per la Titti. Sarò morboso? Lo pensavo prima docciandomi nel
loculo. Forse sono morboso. O no? Va beh, chi ha come morosa la Titti non
può che essere morboso, insomma, possessivo, insomma innamorato, insomma non so. Lei mi ha cambiato la vita e anche adesso, che è un periodo
un po’ incasinato, lei è un punto di riferimento. Questo è l’essere morboso?
Forse, o forse no. Va beh, lasciamo perdere…
28 marzo
Ci mancava solo l’Autovelox! Stamattina viaggiavo tranquillo, insomma,
i miei rari giri mattutini in macchina, per rilassarmi prima di una lunga gior-
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Davide Continati
nata di lavoro. Sì, perché è lunga, quattro ore là dentro con tanti deficienti
che ti chiedono dei dischi assurdi sono lunghe.
Da qualche giorno sto anche alla cassa. Allora, a me stanno su quelli che
comprano le vecchie musicassette in superofferta, per dire 4,99 € o 5,99 € e
vengono a pagare con un cinquantone. Ma dico, non hai lo straccio di un
deca in tasca? Quanti fanno così! Va beh, l’ho fatto anch’io, forse. Boh, non
mi ricordo.
Comunque oggi me ne andavo tranquillo con la Punto blu quando trac!
Paletta della polizia municipale. Sarà un controllo, penso. Ma quale controllo, mi beccano alla spaventosa velocità di 71 chilometri orari. Pazzesco,
sono da galera, immediatamente. Ecco il verbale, pronto. Più di centotrenta
euro come contributo per il prossimo. Benissimo, ci mancava solo l’Autovelox
in questo periodo del cazzo.
39
VA BEH!
4° CAPITOLO
1 aprile
Mi sto mangiando il fegato. Davvero. Che poi a me il fegato piace, quello
con la cipolla mi piace molto, mi pare sia quello alla veneziana. Comunque,
fatto sta che mi sto mangiando il mio fegato e questo mi piace molto meno.
Per dire, oggi ho anche litigato con il mio capo servizio perché prima
avevo litigato con Claudia e prima avevo litigato con un cliente. Che poi,
litigato… si fa per dire. Gli ho risposto un po’ così su una sua domanda che
non capivo. Allora Claudia mi ha ripreso, abbiamo discusso, quasi litigato.
Va beh, d’accordo, litigato.
Allora quella stronza è andata a riferirlo al mio capo servizio che mi ha
propinato un bel cazziatone. Se avessi torto lo accetterei, ma non credo,
sinceramente, di avere avuto torto. Sì, va beh, il cliente ha sempre ragione,
però, dai, c’è cliente e cliente. Insomma una bella giornata a litigare, per
iniziare bene la settimana lavorativa. A volte mi viene il dubbio che mia
madre abbia ragione, che questo lavoro… mah, va beh, guadagno, mi diverto anche (a volte), però se studiassi seriamente magari sarebbe meglio.
Stasera mi sono comprato due cotolettone da far paura, le friggo nell’olio
bollente riciclato da altre due fritture, e intanto penso a questi casini sul
lavoro. Più tardi chiamerò la Titti, chissà che non mi passi un po’ questo
malessere, anche se ormai dura da alcuni giorni.
Mi scolo una bottiglia d’acqua da litro nel giro di mezz’ora, chissà quanto
piscerò stanotte. Mi lavo le budella, termino la cena con un cannoncino alla
crema pasticcera, penso di farmi un caffè, no, va beh, stasera me lo concedo
da Pablo’s. Chiamerò la Titti, berrò il caffè, sentirò le prodezze sessuali della
Carlotta e di Franz, guarderò la tv fino a che crollerò dal sonno. Questa è la
mia serata.
3 aprile
Oggi piove che Dio la manda. Non ho mai capito il significato di questo
proverbio. Perché mai Dio dovrebbe incazzarsi e far piovere alla grande
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Davide Continati
come stamattina? Va beh, sarà anche così, ma io non credo che sia così.
Credo in Dio, invece, profondamente. Oddio, non vado a Messa da tempo.
Adesso che ci penso, quand’è stata l’ultima volta che ho messo piede in una
chiesa? A Natale forse, anzi senz’altro, a Natale e a Pasqua io sono come gli
abbonati Rai: ho un posto in prima fila in chiesa.
No, non sono un buon cristiano, tutt’altro. Però credo. Però quando è il
momento, prego. Forse non so cosa dico quando prego, però prego. Davvero. Se non ci fosse Dio o Gesù Cristo è come se mi mancasse una gamba,
davvero.
Oggi piove che Dio la manda e stamattina non ho voglia di alzarmi.
Aprile dolce dormire. Mi rendo conto che continuo a ragionare per modi di
dire. Sto rincoglionendo davvero, lo sospettavo, questi sono i primi sintomi.
Faccio colazione velocemente, il caffè è venuto su male, fa schifo, ha anche
bollito un attimo e fa veramente schifo. Pazienza.
Esco, non so perché acquisto la rosea e la leggo d’un fiato sotto i portici
appoggiato al muro. C’è profumo di pioggia, c’è un’atmosfera autunnale
piuttosto che primaverile, ma è quasi piacevole e comunque in linea col mio
umore.
Getto la rosea nel cestino. A volte mi viene l’istinto di darla ai barboni, là
in piazza, ma poi mi sembra di prenderli in giro. Magari però avrebbero un
po’ di sollievo. E poi un barbone avrà pure una squadra del cuore. O no? Va
beh, non so proprio più cosa pensare stamattina.
Accendo il Nokia, c’è un SMS. È Walter, vuole parlarmi. Immagino che
siamo daccapo con quella donna. Non riesce a darsi pace, Walter. Però lo
capisco. Lui le vuole bene, c’è rimasto malissimo, anche se le cose andavano sempre peggio tra loro. Va beh, lo richiamerò più tardi. La Titti oggi è a
lezione. Tra due settimane, dopo Pasqua, avrà l’esame.
Già, l’esame, avrei dovuto farlo anch’io, invece l’antropologia culturale
rimarrà nel cassetto. Peccato perché potevo farcela. Ma non è un buon
periodo. E poi c’è il lavoro. E poi non ne ho voglia. Punto e a capo. Lettera
grande.
Incrocio il Porchio con una bionda. Mi saluta e prosegue per la sua strada. Non riuscirò mai a capire se quello se ne fa una dietro l’altra o se dopo
un po’ che tampina, quelle gli danno tutte buca. Va beh, io sono un po’ di
parte, a me il Porchio non sta simpatico, lo ammetto, però sarei curioso.
Anche perché se riesce a farsele tutte o, diciamo, farsene almeno due su tre,
è un grande e forse dovrei cambiare idea su di lui. Però credo che quasi tutte
gli diano buca.
VA BEH!
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6 aprile
Sono le undici e trequarti quando mi alzo dal letto di casa mia. Ieri sera,
accompagnata a casa la Titti, verso le due ho puntato verso casa. Avevo
avvertito mia madre e infatti non si è sorpreso nessuno quando verso le tre
ho fatto il mio ingresso nella mia camera da letto. O meglio, tutti dormivano,
ma il mio letto era pronto, ben fatto, e Gigetto mi aveva preparato sulla mia
vecchia scrivania un messaggio: bentornato.
Gigetto è un ragazzo davvero incredibile. A volte mi chiedo se sia davvero
mio fratello o se mia madre…, va beh, lasciamo perdere. Certo, mio padre
e mia madre devono avere avuto due gradi di concentrazione diversi in
quelle due occasioni.
Credo che quando hanno avuto il rapporto colpevole della mia creazione, magari volevano solo divertirsi, oppure mio padre non deve essersi molto
impegnato. Quando invece hanno ‘creato’ Gigetto devono avere preparato
un progetto, devono avere fatto una cernita degli ovuli e degli spermatozoi.
E poi mio padre deve essersi impegnato tanto. E d’altronde, visto il primo
modello di produzione, non avrebbero potuto che fare così. Cioè meglio.
Molto meglio.
Mi alzo, non farò nemmeno colazione, passerò direttamente al pranzo.
Saluto mio padre, saluto mia madre che sta sistemando l’ulivo della domenica delle Palme. Parliamo del più e del meno, discutiamo animatamente
sull’esame di antropologia culturale che non farò. Gigetto è fuori, purtroppo, lui mi avrebbe aiutato nella discussione, anche perché non ho molti
argomenti a mio favore, tranne il lavoro.
È davvero un momento di vita incasinato. Per fortuna le lasagne al forno,
l’arrosto con le patate al forno e i pasticcini mignon mi risollevano il morale.
Forse dovrei tornare a casa un po’ più spesso. Non sono sicuro.
9 aprile
Al negozio mi chiedono se sabato prossimo, il sabato di Pasqua, sono
disponibile a lavorare anche al mattino. Non mi conviene rifiutare, anche se
non ho la minima voglia di lavorare. Ma i regali si fanno anche a Pasqua?
Pensavo che si facessero solo a Natale. Accetto.
La Titti mi telefona verso mezzogiorno. È di malumore, ma ormai non ci
faccio più caso, è quasi una regola. Con l’esame in vista, sai che entusiasmo…
Oggi non mi va di lavorare, quasi quasi mi invento una malattia che duri
un paio di giorni, anzi no, fino a Pasqua. Ma che malattia posso inventarmi?
Prima di andare al lavoro devo passare in facoltà. Voglio almeno leggere
42
Davide Continati
le bacheche. L’esame neanche lo considero. Con grande rabbia di mia madre.
11 aprile
Piove anche oggi. È incredibile, è un periodo in cui piove sempre. Vado
al lavoro con l’ombrello. A me piacciono questi ombrellini portatili, sono
comodi, carini, con la molla che li fa aprire. Belli, insomma, va beh, sarebbe
meglio non usarli, a me la pioggia fa abbastanza incazzare però alla fine
sono contento perché posso usare l’ombrellino.
Oggi al negozio c’è animazione, è il venerdì di Pasqua, forse ormai è
davvero di moda regalare qualcosa anche a Pasqua, come a Natale. O no?
Adesso che ci penso potrei regalare qualcosa alla Titti. Un compact-disc
magari. Sorrido tra me e me, poi sghignazzo, è il colmo, un compact-disc,
rido quasi sfacciatamente. Una ragazzina bionda mi fissa mentre rido da
solo. Chissà cosa penserà di me. Forse ho fatto perdere un cliente al negozio. Anzi no, perché poco dopo acquista due cd: venticinque euro tondi. Vai
bionda! Mi saluta con un sorriso, glielo ricambio volentieri.
13 aprile
Come ho già detto sono cristiano. Almeno a Pasqua, e infatti eccomi alla
Messa delle 11 nella chiesa del mio paese. C’è la ‘crema’ della società: eccoli
lì elegantissimi nei loro abiti appena usciti dalle boutique cittadine. Buongiorno
dottore, buongiorno avvocato, tanti salamelecchi da farne indigestione. Questa
Messa è come quella di mezzanotte a Natale: più conti e più non devi mancare. Va beh, anch’io sono elegante, ho un bel vestito grigio leggero, primaverile, una bella camicia azzurra, no, la cravatta no, non la metto. Ho un bel
paio di scarpe nuove, lucide, tipo quelle da discoteca. Sto bene, d’altronde
mi ha consigliato il tutto mia madre che se ne intende. Oggi sarà una giornata pallosa. La Titti resta in città a studiare, io resto qua a dormire. Domani
invece grande gita fuori porta. Si va al mare.
14 aprile
A me scoccia chiamare il lunedì di Pasqua con il nome di Pasquetta. Ma
che Pasquetta e Pasquetta! È il lunedì dell’Angelo e basta. E poi la gita fuori
porta che cosa vuol dire? Niente. Si va in gita con gli amici, le morose, gli
amanti, con chi cazzo vi pare e basta. Che poi anch’io, alla fine, ho portato
la Titti al mare.
Sono le nove e mezza quando rientro nel mio monolocale in città. Mi
getto sul letto di schianto, di botto, al volo. Sono a pezzi. No, non ho fatto il
bagno, non ho camminato, non sono ubriaco, non ho nemmeno fatto trop-
VA BEH!
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pi chilometri in macchina. Non ho nemmeno fumato una canna. Non le ho
mai fumate in vita mia, mica la fumerò a Pasquetta, cioè volevo dire il
Lunedì dell’Angelo.
Abbiamo litigato di brutto e poi la capisco, anche se poi ha torto. Va beh,
torto, non può dire che la accuso di avere un altro. Le ho solo detto che
nomina sempre quel tipo dell’Università, adesso nemmeno mi ricordo il
nome, sono confuso, non lo so. Però, cazzo, ogni dieci minuti, parla di quello là. Sarà anche stressata dall’esame, ma non può parlare più di lui che di
me.
Insomma, da cosa nasce cosa e addio cena sul lungomare, addio bacini
sul bagnasciuga, addio bagno insieme, addio scopata al ritorno a casa mia.
Un disastro, che poi a lei passerà, a me passerà, però, santo Dio, non l’ho
affatto accusata di niente, le ho solo detto che mi dà fastidio che parli così
spesso di quello. E quindi magari… Punto e a capo. Chissà se questa notte
dormirò.
16 aprile
Da due giorni non ci sentiamo. Da lunedì non la vedo, non la sento, non
le parlo, non la tocco. Sono in astinenza, ma non voglio cedere. Perché
cederà lei, ne sono certo. O almeno lo spero. In certi momenti mi chiedo se
ho fatto bene a fare tutta questa polemica su quel tizio, sì insomma Luca,
quello lì. Magari se lasciavo stare era meglio. O forse ci ho azzeccato e allora
lei non aspettava altro, quella stronza. Sono due giorni che ogni dieci minuti
cambio idea, che mi sforzo di cercare di capire, di chiedermi cosa fare. Perché io le voglio bene davvero e gliel’ho dimostrato sempre. Magari in maniera strana, magari in maniera confusa, ma lei lo sa, l’ha capito.
Cuocio gli spaghetti, ho comprato un vasetto di pesto alla genovese. Poi
magari la chiamo. Scaldo il contenuto del vasetto in una piccola padella.
Tanto poi chiama lei. Scolo la pasta dopo averla assaggiata. E faremo pace,
me lo sento, la amo troppo. Condisco gli spaghetti, sembrano belli. Dai
chiama, Titti, per favore.
Finisco gli spaghetti, basta, non mangio più, squilla il Nokia, resto paralizzato un attimo, deglutisco, che emozione, non guardo nemmeno chi telefona e rispondo. Ho il cuore che mi batte a 632 battiti al minuto. Presto sarò in
unità coronarica se non mi calmo. ‘Come stai, mi riconosci?’ mi fa una voce.
È l’Anto. Biascico qualcosa, lei ride. Non so nemmeno cosa le ho detto. Mi
racconta di lei, mi chiede alcune cose sull’Università, le rispondo, poi le
racconto che sono in crisi. Le spiego la rava e la fava, insomma una pezza
tremenda, povera Anto.
44
Davide Continati
Mi propone di vederci a cena, se ho voglia di parlarne di più. Tergiverso,
poi accetto, a meno che, le dico, la Titti non mi chiami. ‘Ok’ fa lei ‘fammi
sapere.’
L’Anto è fantastica, l’ho sempre detto, l’ho sempre pensato. Magari mi
darà la carica. Magari prima di sera la Titti chiamerà. Lo spero.
17 aprile
Mi sveglio di soprassalto e guardo l’orologio. Sono le nove e un quarto e
l’Anto dorme ancora placida accanto a me, pressoché nuda. Va beh, ha gli
slip e una camicetta bianca, mia tra l’altro. Ho mal di testa, ho le gambe
pesanti, ho anche fame. Metto le gambe giù dal letto.
Ripenso a ieri sera. La Titti non ha chiamato, ho incontrato l’Anto da
Pablo’s, abbiamo parlato un po’, il suo profumo mi ha sconvolto, il suo
sorriso mi ha rapito. Insomma sono innamorato di lei come allora, come
quando eravamo matricole in facoltà.
Lei ha capito l’antifona, forse era in astinenza di sesso, cioè praticamente
dopo mezz’ora me la sono portata a casa, abbiamo scopato, non so nemmeno quante volte l’ho penetrata, ero davvero in forma. Ho anche fumato,
abbiamo bevuto non so cosa, forse lei mi ha usato. Quando mai mi si era
concessa? Mai, appunto. Stasera ha fiutato odore di maschio in crisi e zac!
Pronto cassa!
Sono davvero un pollo da spennare, sul serio. La guardo, quasi mi gira la
testa dallo sforzo di girare il collo. È davvero bella, niente da dire, qualche
anno fa sarebbe stata la notte più bella della mia vita, adesso che l’ho avuta
quasi mi faccio schifo, ho tradito la Titti, la ragazza più fantastica che ci sia.
Sì, l’ho tradita, questa è la verità, tradita, punto, tra-di-ta. Oggi la chiamo, ho
deciso, non posso farne a meno.
Preparo la colazione, caffè, latte caldo, qualche cannoncino alla crema
che mi è rimasto. L’Anto dorme ancora, la butterei fuori di casa. No, non ci
riesco, tutto sommato le voglio bene, insomma ho un casino in testa che non
so più cosa fare o pensare.
Facciamo colazione in silenzio, dopo che si è svegliata, alzata e rivestita.
Sorride, l’Anto. Mangia tutti i cannoncini, io ripiego su fette biscottate schifose e vecchie. Ma ho fame, ho speso troppo. ‘Ho tradito la Titti’ le dico.
‘Quella ti ha mollato’ fa lei. ‘No, ribatto, dopo la chiamo.’ ‘Perdi tempo’ mi
dice l’Anto. ‘Vedremo’ faccio io. ‘Chiamami se hai bisogno’ mi dice alzandosi da tavola e prendendo la sua borsetta. Bisogno di scopare?, stavo per
dirle, poi la lingua mi si è attorcigliata e ho detto più o meno: ‘Forse è meglio
se non ti vedo più.’ Insomma un dialogo da film. ‘Vedi tu’ fa lei con un
VA BEH!
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sorriso che mi fa andare in solluchero. È bellissima, niente da dire, l’Anto, è
intelligente, niente da dire, è elegante, niente da dire. Però mi ha fregato, mi
ha usato, più passano i minuti più ne sono certo e vorrei ammazzarla. Ciao.
Ciao. O addio, magari.
19 aprile
Da lunedì non la vedo, non la sento, non le parlo. La Titti per ora non
vuole parlarmi, non vuole vedermi, sua madre la protegge, non me la passa
al telefono, non mi aprono la porta di casa. Non pensavo di avere causato lo
scoppio della terza guerra mondiale. Mi ingegno. Stamattina la aspetto sotto
casa fino a che lei uscirà. Perché dovrà pure uscire, prima o poi.
Ho chiesto un giorno di ferie al negozio. Concesso. Concesso seppur con
molti dubbi sulla veridicità delle mie motivazioni. Ho raccontato una balla,
che mi è morta una zia a Catanzaro e devo andare al suo funerale. Per
fortuna non mi hanno chiesto di più. Hanno capito che avevo bisogno di un
giorno libero. Concesso.
Sono le sette e tre quarti di un sabato mattina di aprile, fa freddo per
giunta; ho addosso un giubbotto jeans, ma ho quasi freddo. Non mi importa, spero che esca il sole più tardi. Spero che esca la Titti, più tardi.
Sono le nove e mezza, sono seduto sui gradini d’ingresso al suo palazzo,
esce qualcuno, entra qualcuno, presto mi chiederanno chi sono e cosa voglio. Risponderò, oh, sì, risponderò. Intanto le tapparelle della sua camera
sono state alzate. Madre e figlia devono già essere in piedi.
Sono le undici e dieci. Eccola, cioè no, è sua madre. La fermo appena
esce, le dico che sto aspettando dalle sei della mattina, che ho bisogno di
vedere e di parlare con Titti, ‘Sto male, mi faccia spiegare’, le dico.
‘Valeria è molto delusa da te’ risponde sua madre con un filo di voce,
addirittura mi sembra quasi dispiaciuta di dovermi parlare. ‘Valeria vuole
stare da sola qualche giorno. È da lunedì che non esce, piange, ha perso
fiducia in te. Lasciala in pace per un po’, vedrai che le cose si sistemeranno.’
Insomma, mi fa un comizio. Non aveva mai parlato così a lungo da quando
la conosco. Anzi, sommando le parole di stamattina, il totale supera quelle
che mi ha detto in un anno. Va beh, il discorso forse era pronto.
Incasso quasi zitto. Poi reagisco mentre lei fa per andarsene. ‘La prego, le
dica che è meglio se ne parliamo assieme, la Titti è intelligente, capirà…’
Nulla da fare, la signora mi ripete le parole di prima. Un disco. Un
qurantacinquegiri di una volta che si incanta. Punto e a capo. Se ne va. Io
resto lì come un deficiente, mentre un marocchino mi chiede l’elemosina.
Gli rispondo male, anche se non ne ha colpa. Lui ride. Almeno lui è abituato
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Davide Continati
alle delusioni.
Torno a casa, prendo un po’ di soldi, vado dal fiorista, faccio il romantico,
le mando un mazzo di rose rosse, undici, come i mesi che abbiamo passato
insieme. Mancano sei giorni e sarebbe stato un anno. Forse sarà un anno.
Sul biglietto le scrivo solo due parole: scusami amore. Non mi viene altro.
Speriamo. Cazzo, trentadue euro. Spesi bene o male, non lo so. Certo, sto
male.
20 aprile
Il sabato sera al mio paese è uno schifo, a maggior ragione se sei senza
morosa, se non sai cosa fare, se non hai voglia di cazzate, di girare, di ridere.
O se sei in crisi con la morosa. Le ho mandato sei SMS ieri pomeriggio.
Niente. Faccio il numero del suo cellulare due volte all’ora. Niente, spento. A
casa sua nemmeno rispondono. I fiori saranno arrivati senz’altro. Niente.
Ieri sera ho parlato a lungo con Gigetto, ho parlato con mia madre, ho
pianto, sì ho pianto, anche adesso piangerei, perché alle quattro e dodici di
notte della domenica mattina non si può essere svegli a pensare a una donna che mi rifiuta solo perché le ho rinfacciato qualcosa.
Va beh, più ci penso più credo di avere sbagliato, però almeno una possibilità di parlarne… cazzo, almeno una… invece niente. Il mio Nokia è
sempre acceso, ma al massimo mi chiama Walter (e gli ho messo giù), il
Porchio (l’ho mandato affanculo), mia madre ieri sera (l’ho ascoltata e infatti
eccomi a casa).
Quattro e ventinove. Mi alzo, accendo il computer di Gigetto, mi connetto a Internet, navigo a casaccio, siti porno. Non ho nessuna reazione fisiologica nemmeno a vedere delle ventenni nude. Zero. Gigetto ha gli occhi
sbarrati, poi si alza anche lui. Da un sito porno vado a un sito di sport.
Parliamo a lungo. Parliamo, parliamo, parliamo. Forse l’ho persa. Questa è
la conclusione cui arriviamo alle cinque e ventidue del mattino. Arriva l’alba.
Sarà una pessima domenica.
22 aprile
La aspetto alle 9.30 da Pablo’s. Faremo colazione insieme. Mi ha chiamato ieri sera, la Titti, sul cellulare. Non mi ha detto altro. Ci vediamo domattina da Pablo’s, alle nove e mezza. Passo e chiudo.
Eccomi, tranquillo. Sono qua dalle otto e venti, ho già fatto colazione,
non sono riuscito a stare a stomaco vuoto. Franz mi chiede se sto bene,
perché ho la faccia del disperato. Sorrido, sto bene, gli dico, aspetto la Titti.
Mi chiede se domattina voglio aprire io il locale, vista l’ora in cui mi sono
VA BEH!
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presentato oggi. Un umorista. Un vero umorista. Mi racconta della sua solita
morosa. Va beh, dopo un po’ lo prego di smettere. Credo davvero che sia
un ballista nato.
Alle nove e trentuno la Titti entra da Pablo’s. Jeans, maglietta chiara,
giubbottino jeans, capelli raccolti in una coda che non le ho mai visto. È
seria, ha gli occhi incavati. Si siede, ci salutiamo, le ordino la colazione,
prende solo un succo di frutta.
Come stai, come non stai, sto male, sono stato male, anch’io, insomma i
film sono anche un po’ veritieri a volte. Quelle parole si dicono e le diciamo
anche noi.
‘Non mi aspettavo che ti comportassi così’ mi fa lei. Sto zitto. ‘È vero, è un
periodo che parlo molto di Luca anche con te.’ Sto zitto. ‘Ho riflettuto molto
in questi giorni su di te.’ Sto zitto. ‘E su di lui.’ Sto zitto, ma la cosa comincia
a suonarmi male. ‘Da un po’ non sei più lo stesso, davvero non è un modo
di dire, te lo giuro, ti vedo con occhi diversi.’ Sto zitto, ma ho già capito. ‘Io
ti voglio bene, te l’ho dimostrato per un anno e vorrei dimostrartelo ancora.’
Sto zitto. ‘Tu non puoi comportarti così, va beh, la gelosia ci sta, ti capisco,
ma ultimamente è un’ossessione.’ ‘Cominci a dire va beh anche tu?’ la
interrompo.
Sorride, la Titti, con quel suo sorriso splendido. Sono ancora cotto di lei,
questa è la verità. È un sorriso unico, tipo quelli che Grignani nominava in
quella canzone: quel sorriso mi ha aperto il paradiso, almeno mi pare faccia
così.
‘Vedi, ho imparato tanto da te’ mi fa. Sospiro. ‘Dì qualcosa anche tu.’ ‘Va
beh, forse ho sbagliato, anzi ho sbagliato, ho cercato di scusarmi, ma tu mi
hai rifiutato, sto malissimo, è una settimana che sto malissimo. Aiutami a
superare il tutto.’
‘Ti capisco’ fa lei ‘anch’io sono stata male, malissimo. Vedi, anche Luca
mi ha aiutato a capirti di più. Oddio, rieccola… ‘Senti, Valeria (credo di non
averla mai chiamata Valeria, va beh, in questi momenti solenni non si sa
cosa fare e cosa dire), io vorrei metterci una pietra sopra. Ti chiedo scusa.’
Sospiro. Sospira. ‘Purtroppo, riprende la Titti, mi sono innamorata di lui.’
Un TIR entra nel negozio, sbatte via i tavolini, le sedie, le bottiglie, i bicchieri, tutto il locale viene messo sotto sopra; eccolo il TIR, mi travolge, mi
schiaccia, mi spappola le budella, il mio piccolo e povero cervello va in
poltiglia, le mie ossa scricchiolano e diventano polvere. Sono finito. Il TIR
esce da Pablo’s, tutto ritorna miracolosamente a posto, tutto tranne me.
‘Allora avevo ragione’ le dico. ‘Grazie per le rose, risponde lei, erano
bellissime, ho pianto su quelle rose.’ Mi sembra di avere a che fare con
un’altra persona. No, dai, non è la Titti, è la controfigura, la vera Titti l’ha
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Davide Continati
rapita quel Luca, sì, è così. ‘Però avevo ragione’ insisto. ‘L’ho capito quando
me l’hai detto’ mi fa lei.
Scoppio a ridere, una risata isterica, nervosa, di quelle da ricovero neurologico immediato. Insomma io le avrei fatto capire che si è innamorata di un
altro. Siamo al colmo, davvero, al colmo dei colmi, al parossismo. ‘E quindi?’ cerco di concludere ritornando serio. ‘E quindi, fa la Titti, vorrei pensarci
su. Non vediamoci per un po’, magari mi sto sbagliando, è solo una sbandata. Credimi, è meglio per tutti e due.’ Lo dice con un sospiro come se avesse
emanato l’ultimo respiro.
‘Ho capito, le dico, mi molli.’ ‘Non dire così’ mi fa. ‘E che cazzo devo
dire? Mi lasci, te ne vai con un altro…’ Alzo la voce, tanto che Franz si volta
di scatto dal bancone. ‘Non pensavo che fossi così’ le dico ‘forse ho sbagliato
su di te.’ ‘Hai ragione’ ribatte la Titti ‘ma aspetta, dammi del tempo, non ti
lascio.’ ‘Me ne vado. Ciao.’ Mi alzo ed esco sul serio dal locale.
Lei resta lì, seduta, bellissima, eccezionale ragazza di cui sarò sempre
innamorato. È la prima ragazza in vita mia di cui mi sono innamorato per
davvero, la prima che ho pensato di difendere da tutto e da tutti. Mollato,
per un signorino qualunque, uno studente modello di nome Luca. Va beh,
così va il mondo.
Esco da Pablo’s e mi incammino verso casa.
23 aprile
Sembro un automa. Da due giorni sembro un automa. A casa sembro un
automa. Tac, tac, tac! Al lavoro sembro un automa. Prendo, catalogo, prendo, catalogo, metto a posto. Un automa. A casa non parlo, neanche con me
stesso. Al lavoro dico tre parole all’ora, proprio l’indispensabile.
Mi ha chiamato mia madre, le ho parlato trenta/trentadue secondi, poi le
ho quasi sbattuto il telefono in faccia. Però lei ha capito, le mamme capiscono sempre. Magari a volte rompono, ma capiscono sempre. Forse dovrei
parlare con Gigetto, ma di andare a casa non mi va.
Veramente non mi va nemmeno di stare qui alle otto e venticinque di
sera buttato sul letto a pancia in su a pensare che sono un automa. Non mi
va di mangiare, oggi ho buttato giù un panino col prosciutto e basta. E infatti
il mio stomaco gorgoglia, forse mi accusa, mi insulta. Ma la mia testa dice
no, devi soffrire anche tu, caro stomaco.
Non mi va nemmeno di guardare la tv, non mi va di telefonare a Walter,
di vedere il Porchio con le sue puttanelle, di tornare a casa dai vecchi amici.
Non mi va di vedere l’Anto, anche se adesso magari una persona che mi
ascolta mi ci vorrebbe e lei mi ascolta, alla fine. Va beh, mi usa, è vero, si fa
VA BEH!
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scopare, è il dazio che le pago per ascoltarmi. Ripensandoci bene, è un bel
dazio.
Sorrido. È la prima volta da ieri mattina quando la Titti mi ha mollato. Il
silenzio è sceso nella mia vita, l’apatia è scesa nella mia vita, l’automa che
c’è in me è sceso nella mia vita.
Controllo il Nokia per vedere se qualcuno ha telefonato o mandato SMS
mentre ero in trance: è spento. Sono davvero in crisi. Nemmeno mi ricordavo di avere spento il telefonino…
26 aprile
Serata cosmica, stroboscopicaaaaa….
Eccoli i Ridillo, un gruppo che ho iniziato ad ascoltare un po’ di tempo fa.
Sì, sono tornato sul luogo del delitto, la mia vecchia discoteca, i vecchi amici
del paese, un vecchio sabato sera, un vecchio inutile tampinare, un vecchio
due di picche, una vecchia schiumosa birra.
Eccoli lì, sempre loro, il Grillo, quel vecchio marpione delle discoteche, il
Gionni, ormai spelacchiato tanto che ormai la pelata non gliela toglie più
nemmeno il Signore, l’Alex, con quel pizzetto color zabaione che davvero fa
vomitare. E poi io, appena mollato dalla ragazza più straordinaria che la
galassia ricordi, io, l’automa, io, il povero bravo ragazzo vittima dei soliti
capricci delle donne. Io, che ieri dovevo festeggiare un anno con Valeria e
che invece ho festeggiato il quarto giorno senza di lei.
Sarà due anni che non ballo in questo posto. È sempre lo stesso: due
piste, musica underground da manicomio in una, dove le ragazzette sono
svestite più che vestite, una pista con musica commerciale e revival anni ’80
e ’90 nell’altra. Il solito, insomma, come le ragazze del cubo, la Giovanna e
la Samantha, che poi si chiama Iolanda, ma poverina te l’immagini annunciare una cubista di nome Iolanda…
Sbevacchio la mia birra, non ho la minima voglia di tampinare, sono
venuto per non accentuare la mia paranoia, e ringrazio il Gionni, l’Alex e il
Grillo perché mi sono stati e mi stanno vicini. Il Grillo tampina a manetta,
forse concluderà qualcosa. O forse concluderà la serata ubriaco e in bianco.
C’è anche Anna, una mia vecchia compagna di scuola al Liceo; è simpatica, è attiva, è intelligente, è brutta. La saluto volentieri, parliamo due minuti, è con una ragazza mora con la coda. Mai vista. Brutta anche lei. Il solito,
insomma, anche l’orario dell’uscita, le 3.30 precise, senza il becco di una
ragazza, senza un numero di telefono, senza divertirsi, senza un soldo in
tasca.
Serata cosmica, stroboscopicaaaa…
50
Davide Continati
29 aprile
Ho ripreso un libro in mano, l’ho sfogliato. Penso di fare un esame in
giugno, al prossimo appello. Per inciso, chissà se la Titti ha passato l’esame.
Basta con sta Titti! Già, basta, è una parola…
Dopodomani è il primo maggio, andrò al mare con gli amici; mi fanno
quasi pena, per come si stanno facendo in quattro per me. Davvero grandi.
Anche se io soffro come un cane. Bastardo magari, ma come un cane.
Ho ripreso a mangiare un po’ di più. Il weekend a casa è servito, è servito
anche per sfogarmi con Gigetto, per parlare con mia madre, per rivedere
tutti. Forse, finito il lavoro al negozio, tornerò ad abitare a casa mia. Forse.
51
VA BEH!
5° CAPITOLO
1 maggio
Quando si dice un periodo nero. Va beh, sembra un modo di dire, tipo
‘una volta qui era tutta campagna’ o ‘si stava meglio quando si stava peggio’, quelle stronzate lì insomma. Fatto sta che è un periodo nero. Oggi si
doveva andare al mare con gli amici. Gita, pranzo, spiaggia, quella pulita e
semi-vergine del pre-stagione, ozio, cazzate, cena e via.
Sarà che è un periodo nero, fatto sta che siamo giunti al mare sotto
l’acqua, stipati nella Volkswagen Polo dell’Alex, che esibiva l’improbabile
pizzetto color zabaione. ‘Che giornata del cazzo’ fa il Gionni. ‘E bravi noi ad
andare’ faccio io.
Certe volte mi sembra di essere l’autore di testi di Max Pezzali, tipo ‘Rotta
per casa di Dio’ o quelle canzoni lì. Oggi è proprio una giornata da casa di
Dio, di quelle dove tutto gira storto e dove le cose vanno per conto proprio.
Sono stanco anche di viaggiare con loro, sono stanco di vivere così, mi
mancano gli stimoli giusti, non studio più, lavoro miseramente mezza giornata al giorno, la Titti mi ha mollato in mezzo alla strada. Un disastro, una
precipitazione a tutto gas. Proprio come la pioggia che scivola sulla macchina dell’Alex.
A volte nemmeno ascolto i loro discorsi, mi sembra tutto irreale. Ho bisogno di nuovi stimoli, di una nuova meta. Di un nuovo corso, di una nuova
vita, di una nuova motivazione. Devo trovarla, ma non certo al mare.
3 maggio
Ho rassegnato le dimissioni. Al negozio, intendo. Terminerò domani. Basta,
non reggo più niente, cd, cassette, dvd, cdrom, che ne so. È tutto confuso
dentro di me, un disastro totale, non vorrei perdere la pazienza e farla pagare ai clienti, non lo meritano per niente. Per dire, ieri ho quasi litigato con un
ragazzino per venti centesimi. Non si può.
Praticamente mi sono licenziato prima che lo facessero loro.
52
Davide Continati
5 maggio
Sto meditando, a letto, nel mio monolocale. Sono le sette e un quarto del
mattino di una luminosa domenica di maggio. I libri sono sparsi per la camera, le mie idee sono sparse nel cervello, cercano rifugio altrove, si sparpagliano. È vero, l’amore fa diventare poeti, sia quando lo trovi sia quando lo
perdi.
Non sono mai stato così aleatorio come in questi giorni; mi sento leggero,
mi sento volare tre metri da terra, fatico a leggere la realtà, fatico a essere io,
o almeno quello che ero. Dovrei scandire e raccontare la mia vita in due
parti: p.T. e d.T., prima della Titti e dopo la Titti.
Me ne vado da qui, dal monolocale, dalla città, da Pablo’s, dalla facoltà,
da tutto, me ne vado, per dimenticare, per riprovare certe emozioni. Me ne
vado. Il problema è: dove vado? Fuggo solo per fuggire o mi creo una meta?
Mi frullano tante idee, tante scemate, tanti desideri. Va beh, forse dovrei
anche dormire un po’.
Ieri sera ho bighellonato in centro, da solo, fino alle due. Già, come Walter,
come lui quando fu mollato. Mi sono sentito come Mark Renton, in
Trainspotting, sotto overdose, in una buca, fuori dal mondo. Bel modo di
passare il sabato sera, raccontando agli amici tra l’altro di aver incontrato
una gran gnocca e di andare a spassarmela. Pamela, Deborah, Sandy, Wendy,
l’ipotetica gnocca aveva tanti nomi. Peccato che non ci fosse…
6 maggio
Il sole splende, stamattina, sono le dieci, mi alzo, mi lavo i denti in un
amen, faccio colazione: caffelatte, cannoncini alla crema, addirittura uno
yogurt ai cereali, un vero ben di Dio.
Sto bene, ho finito di lavorare e sto bene, mi pagheranno tutto al più
presto, liquidazione compresa: una gran bella cosa.
Stamattina ho un solo obiettivo, un solo punto di riferimento: la stazione
ferroviaria. Mi studierò gli orari dei treni a memoria. Parto, me ne vado, una
destinazione nella mia mente: Parigi. Da solo, all’avventura, da solo. Va
beh, con grande entusiasmo…
Vado a piedi verso la stazione, c’è parecchio movimento in città stamattina, come tutte le mattine d’altronde, fa anche un gran caldo, si vedono le
prime magliette attillate, le prime tette svolazzanti della primavera. Sì, è un
bel vedere.
Arrivo in stazione, leggo i cartelloni delle partenze, mi focalizzo sulle località di arrivo. Ecco, Parigi, dunque, sì. Si parte alle 21.30, si arriva alle 8.40
della mattina dopo. Direi che è perfetto. Decido di prenotare il biglietto per
VA BEH!
53
domani sera, così avrò il tempo di organizzare un po’ di cose, di preparare la
valigia, di passare a salutare a casa eccetera.
Già, a casa. Ho accennato qualcosa per telefono domenica sera, non so
se mia madre non mi ha preso sul serio o se io non mi sono spiegato bene.
Comunque devo inventare una buona scusa, di quelle che reggono per un
po’, diciamo almeno un mese, altrimenti che ci vado a fare a Parigi…
Eccomi allo sportello. Prenoto. Domani sera. Carrozza cuccetta. Non ci
sono problemi, ecco la cifra. Cazzo! Prendo solo andata, ovviamente, ma è
sempre una bella cifra, un bel po’ di eurazzi. Va beh, insomma, devo andare. Pago felice. Mi danno due biglietti. Metto in tasca, saluto, me ne vado
verso il monolocale. Felice. Domani sera partirò per Parigi. All’avventura.
7 maggio
Stamattina devo fare un sacco di cose. Prima cosa, e fondamentale, ritirare tutti i soldi che ho in banca. Adesso con questi Euro neanche c’è da
cambiare la valuta. Meglio, una rottura di palle in meno. Seconda cosa,
altrettanto fondamentale, convincere i miei, anzi mia madre, che devo andare a Parigi per studio.
Ieri sera, ritelefonando a casa, mi sono spiegato bene e mi hanno chiesto
di rifletterci su; ok, va beh, ecco, insomma, sì, ci ho riflettuto stanotte e vado.
Punto. Punto e non discutete per favore. Io devo andare a Parigi. Ufficialmente per aderire a un progetto dell’Università sullo studio dei barboni che
vivono nelle stazioni della metropolitana parigina; in realtà, va beh, insomma, si è capito, a me dei barboni della metropolitana parigina non me ne
fotte un beneamato. Poi, dico, almeno esistesse questo progetto, va beh,
forse gli darei anche un’occhiata. Non esiste, anche se l’ho chiamato
‘Barbonisme’.
Mi vergogno un po’, lo ammetto, fregare i miei così non è da me, ma fa lo
stesso. Poi, un giorno, magari tornerò a casa con la Laurea e allora saranno
feste a non finire. Forse sto anche fregando me stesso, non lo so.
Terza cosa, e anche questa da non sottovalutare, devo fare la valigia,
riempirla con tutto quello che mi servirà e poi sarò a posto.
Quarta cosa, mettere un po’ a posto questo monolocale in modo che
possa stare chiuso tanti giorni senza che marciscano mele, puzzino ciabatte
lasciate in mezzo alla stanza, rimangano letti da rifare, si sprigioni puzza di
fogna. Ok, lo farò per ultimo. Ora vado in banca a prosciugare il mio conto.
Eccomi, binario 8, in partenza per Parigi, da solo, con una valigia, uno
zaino, tanta rabbia dentro, tanta incertezza, tanto coraggio. Già, da solo. La
solitudine è la sensazione più frequente che ho provato da quando la Titti mi
54
Davide Continati
ha lasciato, quella che ho ancora dentro. Da allora ho vissuto tante emozioni
negative, tanta amarezza, questo viaggio servirà per farmi dimenticare, per
tornare, chissà fra quando, con un nuovo spirito, una nuova voglia, ne sono
certo. Ecco il treno che arriva. Salgo sulla carrozza cuccette, per ora nel mio
compartimento sono solo, saliranno a breve altri personaggi, sicuramente.
Mi sveglio di soprassalto, guardo l’orologio, sono le tre e dieci. Uno dei
miei compagni di viaggio russa come un russo. Siamo in quattro, due cuccette sono rimaste vuote. Ho un po’ di mal di schiena, ci sto stretto, ma io ai
loculi sono abituato. Uno più, uno meno, non fa differenza. Tra poche ore
sarò a Parigi, non so cosa farò e dove andrò, ma mi sento bene. Sono certo
che questa fuga mi farà bene. Dovremmo già essere in Francia a quest’ora
della nuit.
8 maggio
Alloggio in una camera d’albergo. Per ora va bene, è modesto, ma mi
sembra pulito e questa è la cosa che conta di più. In treno, prima di scendere
ho chiesto aiuto a uno dei miei compagni di viaggio. Jean, mi pare di aver
capito che si chiamasse così, mi ha dato questo indirizzo. Sono vicino alla
stazione ferroviaria, 20 eurazzi al giorno per la camera e la colazione. Pochi
o tanti? Boh, per ora va bene, poi vedrò. Non so nemmeno quanto resterò,
quindi… Per ora ho prenotato per due settimane.
Nel pomeriggio decido di andare alla tour Eiffel, mi ha sempre affascinato. Arrivo verso le tre, c’è un bordello di gente attorno, salgo con l’ascensore
al secondo piano, mi godo il panorama e una sferzata di aria che mi sveglia.
Ho sonno, in cuccetta ho dormito sì e no quattro ore e la fatica comincia a
farsi sentire.
Rientro per ora di cena, mi sono comprato due paninazzi bellini da vedere. In realtà non sono granché, anzi fanno abbastanza cagare, ma mi accontento. Bevo mezza bottiglia d’acqua che mi sono portato dall’Italia, telefono
a casa, faccio l’entusiasta, dico che domani mi metterò in contatto con i
responsabili di ‘Barbonisme’, mia madre è serena, mi pare. Crollo dal sonno. Sono solo le otto e mezza. Mi pare che gli occhi non abbiano la forza di
sostenere le palpebre. Va beh, come prima serata parigina non c’è male…
10 maggio
Sono contento per due motivi. Uno, il mio francese scolastico si è rivelato
comprensibile, o meglio, forse mi compatiscono, ma le parole che dico vanno a segno. Due, dopo due giorni di assenza quasi totale di vita sociale e di
relazione, ho conosciuto qualcuno. Va beh, si tratta del cameriere dell’alber-
55
VA BEH!
go. Credo che mi abbia preso in simpatia. Il bello è che si tratta di un giapponese! Va beh, abita in Francia da dieci anni, parla un francese che io mi
bacerei il gomito a saperlo parlare così, ma è giapponese. Però è simpatico.
Conosce anche qualche parola di italiano, così almeno il mattino mi faccio dare qualche indicazione su cosa fare o dove posso trovare, ad esempio,
una farmacia, o un salumiere, o un negozio di telefonia. Metti che mi prenda
la stitichezza, che faccio? Almeno so dov’è un farmacista per un purgante. O
no? Va beh, spero che non mi prenda, ma con le schifezze che sto ingurgitando
in questi primi giorni parigini, non so proprio come reagirà il mio intestino.
A metà pomeriggio, mentre poltrisco su una panchina del parco vicino al
Louvre (il Louvre lo visiterò prima di tornare in Italia, euro rimasti permettendo…), mi chiama mia madre. Litigo con lei, ha capito che sto facendo
una cosa strana, di ‘Barbonisme’ nemmeno l’ombra, insomma. Rispondo a
tono, lei fa altrettanto, alla fine sospetto che si sia informata in Università e
abbia capito l’antifona. Insomma, sono un po’ scarso a dire le bugie, anche
se grosse.
In serata mi farò una pizza in un ristorante italiano. Garantito. Ci sarà
pure una pizzeria ‘Bella Napoli’, o no?
12 maggio
Prima domenica a Parigi, me ne sto a letto fino alle 10 e mezza, poi vado
a spasso sui campi Elisi, vado alla Virgin, l’ho sempre sognato e ora eccomi
nel tempio della musica e non solo.
Quante volte ho sognato di venire qua con la Titti, a scegliere cd, o solo a
bighellonare per ore. Invece sono da solo, guardo i miei ex-colleghi della
Virgin, va beh, pazienza.
Sto dentro parecchio, esco, mangio un cheeseburger dopo mezz’ora di
fila al Mc, un bordello di gente attorno a me, solo, a Parigi, lasciato dalla
ragazza, senza un lavoro, scappato di casa senza quasi un motivo, anzi un
motivo c’è: iscritto, senza nessuna motivazione, a Scienze politiche. Va beh,
mi laureerò. Forse fra qualche anno.
Penso a tutto questo mentre mangio il panino e bevo una coca, mentre
un bambino gioca con un palloncino finché lo fa scoppiare. Bum! È come il
mio cuore, mon coeur, monsieur. Qualche cosa farò, devo inventarmi qualcosa, qui da solo, così, non ha senso, lo penso veramente.
Senza te, io senza te,
solo continuerò, io dormirò,
mi sveglierò, camminerò, lavorerò,
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Davide Continati
qualche cosa farò, qualche cosa farò,
sì, qualche cosa farò,
qualche cosa di sicuro io farò,
piangerò, io piangerò.
14 maggio
Forse ho fatto una cazzata, una grossa cazzata, a venire qui a Parigi da
solo. A parte il cameriere dell’albergo, non conosco nessuno; non pretendo
certo di andare a un party organizzato da Chirac o da Platini, forse mi basterebbe conoscere Corradino Mineo, l’inviato Rai.
Insomma, sto pensando a tutto il mio passato e quello, invece di appannarsi, sembra diventare ogni giorno più pesante. No, così non va. Devo
inventarmi qualcosa, altrimenti fallirò e magari finirò a fare il barbone nella
metro e verrà sul serio qualche studente a studiarmi. Comincio anche a
straparlare.
15 maggio
Stamattina c’è un sole lucente e quasi non fa freddo, che a Parigi è già
tanto a metà maggio. Decido di andare a visitare il quartiere latino, un posto
molto intrigante.
Yoon, il cameriere giapponese dell’albergo, mi indica due/tre posti carini,
lo ascolto, poi lo invito. Non ha tempo, ma mi promette che qualche sera ce
ne andremo insieme al Moulin Rouge. ‘Paghi tu?’ faccio io. ‘Pago io’ fa
Yoon. Aggiudicato. Forse non ha un cazzo da fare e allora si accontenta di
uscire con uno studente italiano in gita a Parigi senza meta. Va beh, la gente
è proprio strana. Figurati i giapponesi. A Parigi, poi.
Eccomi al quartiere latino, giro parecchio a piedi, è bello girarlo a piedi,
c’è una bella atmosfera, insomma, mi piace.
Pranzo in un bistrot, anche se poi prendo solo una crepe buonissima con
la cioccolata. Mi costa qualche euro, ma è buona. Sono seduto all’interno di
una veranda che è aperta da un lato e guarda su un magnifico boulevard.
Bevo acqua minerale, la mitica Perrier. Non voglio dire che mi piace solo la
Perrier, anzi è anche molto costosa rispetto alle altre, ma è l’unica che qui in
Francia assomiglia davvero all’acqua minerale gassata. Le altre hanno un
gusto, come dire, sì, metallico; dopo un sorso ti viene un mezzo conato di
vomito. Garantito. Va beh, a me piace solo l’acqua gassata e non quella
naturale e quindi sono costretto a spendere di più.
Sto controllando con attenzione le finanze rimaste nel portafoglio, quando sento una botta terrificante alla spalla. Una ragazza con i capelli rossi mi
VA BEH!
57
guarda e si scusa per avermi urtato, mentre si siede al tavolino di fianco al
mio.
Dico due parole di circostanza in francese, lei sorride e si scusa ancora.
Non capisco se sorride per il mio ridicolo francese scolastico o perché il
galateo le suggerisce così. O forse perché non ha capito un’acca. Però si
scusa ancora, addentando un simil-panino. Va beh, ho capito, scuse accettate, baby, anzi petite o giù di lì.
Questa attacca bottone. Si chiama Françoise, ha vent’anni, vive nella
banlieue, ma non capisco come cazzo si chiama il suo paese e onestamente
non me ne frega niente, fa l’Università, ma non ho capito quale facoltà,
glielo richiedo. Non è possibile, fa sociologia, ridacchio, le spiego che faccio
Scienze Politiche, ma con indirizzo sociologico, sorride anche lei, insomma è
tutto un sorridere che facciamo schifo. Per fortuna mi sono lavato i denti!
Anche se ho appena mangiato una crepe con cioccolata!
Mi invita a fare due passi, deve tornare a lezione nel pomeriggio, ma
vuole fare due passi. Va beh, facciamo due passi, petite.
Françoise è più bassa di me, forse anche più bassa della Titti, però dopo
pochi passi mi piace già. Ha dei pantaloni grigi e un giubbottino blu che
tiene aperto e lascia vedere una maglia di colore rosso scuro. Mi pare che
vesta abbastanza elegante. E parla, parla, parla, a volte le chiedo qualcosa e
lei mi dice che me l’ha appena detto, ma cazzo, il francese non lo so bene!
Le dico di parlare più adagio, lei capisce e ride. Quando ride le si vede
mezza gengiva, ma ha un sorriso carino, ha due occhioni che spalanca quando
mi guarda e mi ascolta, forse perché parlo maluccio e deve leggere i sottotitoli. O forse perché è così e basta.
Bighelloniamo per circa tre quarti d’ora e mi racconta tanto di lei, dei suoi
amici, dell’Università, di tante altre cose che non capisco, insomma parla lei
e io ascolto, poi parlo io e lei spalanca gli occhi.
Mi lascia il suo numero di cellulare, io le lascio il mio e l’indirizzo dell’albergo, mi dà tre baci sulle guance prima di salutarmi, nell’ordine destra/
sinistra/destra, ma senza fini politici come canta Gaber, ci salutiamo, ci diamo la mano, la mia è gelida e non so perché. Freddo o vampate di caldo in
un altro posto del mio corpo?
Tutto fa supporre che ci rivedremo presto. Sono certo che ci rivedremo.
Va beh, ho un’amica francese, di vent’anni, carina, non bella ma carina,
simpatica e chiacchierona. Ritorno all’albergo con la metro dopo aver bighellonato ancora per un’ora da solo.
Non mi resta nulla di quello che ho visto al quartiere latino, non saprei
dire che posti ho visto né tanto meno descriverli. Penso a lei. Punto e basta.
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Davide Continati
17 maggio
Lo sapevo, ecco, è venerdì 17 e la sfiga mi perseguita. Sfiga… non so se
è sfiga. Fatto sta che oggi ho litigato alla grande con mia madre. Ora, che
barbone in francese si dicesse ‘clochard’ purtroppo, nella mia ignoranza,
non lo sapevo. Il mio è davvero un francese scolastico e fin lì non ci era
arrivato. Fatto sta che mia madre ha scoperto che ‘Barbonisme’ non esiste,
né come parola di uso corrente, né come progetto universitario. Bello! Fatto
sta che ci siamo insultati telefonicamente per bene e lei comunque non ha
capito cosa ci faccio a Parigi.
Onestamente, se le avessi detto ‘Non lo so neanche io’ sarei stato: 1)
sincero in senso assoluto, perché non lo so davvero, 2) onesto con lei e mio
padre che cacciano e hanno cacciato tante vecchie lire e tanti nuovi euro per
sta rottura di scatole della Laurea in Scienze Politiche.
Alla fine, mi sono comunque salvato in calcio d’angolo dicendo che
‘Barbonisme’, no, non esiste, ma io ero davvero a Parigi a studiare i barboni
per una tesina di Sociologia urbana e rurale. Che, per inciso, non so nemmeno dove stia di casa, per ora, questa sociologia urbana e rurale, non
avendo fatto l’esame, non essendo mai andato a lezione e non sapendo
nemmeno che faccia abbia il chiarissimo Professore. Va beh, dettagli. È poi
l’esame che sta studiando l’Anto. Già, l’Anto, dove sarà ora?
Finita la sgradevole telefonata (tanto fra due giorni mamma chiamerà e
tutto si sarà sistemato), ne inizio un’altra e chiamo Françoise per chiederle se
possiamo vederci. Il telefonino è squallidamente spento, riprovo dopo un’oretta,
nulla. Forse è a lezione. Boh! Va beh, esco da solo e vado a pranzo in centro.
Da solo.
19 maggio
Incredibile ma sono già undici giorni che sono a Parigi. Ci penso mentre
mi sveglio verso le undici del mattino di una piovosa domenica parigina.
Undici giorni senza fare un cazzo è un buon risultato, se poi sei a Parigi direi
che ormai siamo sulla strada della vacanza totale.
Ieri sera avrei dovuto andare al Moulin Rouge, ma Yoon ha finito troppo
tardi e poi si era addirittura dimenticato di procurarsi i biglietti. Va beh,
poveretto, ha tante di quelle cose da pensare in quella cucina e in quel
refettorio del cazzo!
Riprovo a telefonare a Françoise; ho perso il conto delle volte in cui l’ho
fatto, anche ieri pomeriggio. Sempre spento sto cellulare. Ora, o mi ha tirato
un gran bidone, oppure ho un numero sbagliato, oppure il mio telefonino fa
il numero in italiano e il suo, francese, non lo capisce!
VA BEH!
59
In sostanza, anche stamattina è spento, maledettamente spento. Quando
le persone mi bidonano, io non lo sopporto, mi viene dentro una rabbia e
un’ansia che spaccherei tutto. Da questa, poi! Escusez-moi, taratatà… e
voilà, ma per piacere!
Mi giro dall’altra parte e riprendo a dormire. La pioggia batte copiosa
contro i vetri della finestra. Oggi me ne sto a letto fino al pomeriggio, poi
decido di andare a spasso per i Campi Elisi. Da solo e ancora.
21 maggio
Oggi scadono le due settimane di prenotazione all’albergo e decido di
prolungarla ancora di una. Poi magari torno in Italia. Non so. Intanto stasera
vado al Moulin Rouge con Yoon e non è poco. Nel pomeriggio invece decido di studiare qualcosa e infatti riemergono dalle nebbie italiane i libri di
Antropologia Culturale. Che poi, nemmeno mi ricordavo di averli presi con
me, invece, rovesciando lo zaino, sono spuntati come i funghi. Un destino?
Un segnale? Una rottura di palle, direi. Comunque eccomi a ripassare, diciamo studiare, il libro/malloppo color tiziano fumé.
Dopo dieci minuti, mi distraggo. Ieri ho fatto pace con mamma, ma è
stata dura perché lei ha capito che sono qua a non fare un vero e proprio
cazzo. Ma le mamme poi capiscono tutto, va beh!, tutto… capiscono abbastanza. Fatto sta che abbiamo fatto pace e lei sta cercando di farmi tornare
all’ovile. Vedremo.
Riprendo a studiare con scarsa voglia e scarsa lena. La Titti nella testa c’è
sempre, un martello pneumatico, ci convivo, ma a fatica. Domani è un
mese che mi ha mollato. Ingrata. Stronza. Stupida. E mi fermo.
Pranzo al ristorante dell’albergo e Yoon mi conferma che lui alle sette è
pronto per andare al Moulin, anche perché ha la serata di riposo. Mi frego le
mani, sono certo che mi divertirò. Rientro in stanza verso le due. Sono sceso
in strada e ho acquistato la rosea, che qui la si trova abbastanza facilmente,
così come i principali giornali italiani. Va beh, non è che in ogni edicola trovi,
per dire, Il Corso Cucito, no, questo no, però è abbastanza facile avere
quello che serve.
Mentre mi spaparanzo sul letto e mi viene un totalissimo abbiocco, suona
il Nokia. Ecco, sarà la mamma che rompe ancora e, invece, sorpresa delle
sorprese delle sorprese, è Françoise. Comincia a parlare veloce, la fermo,
‘Non capisco se parli troppo in fretta!’ Rallenta, ma non molto a dire il vero,
glielo dico, ride. È anche simpatica, questa ragazza, ma a volte mi pare una
radio. Radio Paris, Fatale, magari.
Alla fine mi chiede se stasera ci vediamo. Cazzo, stasera! Ora, dico io, da
60
Davide Continati
due settimane sono a Parigi a ingegnarmi per trovare qualcosa da fare per
divertirmi e praticamente non ho trovato nulla. Stasera c’è il Moulin Rouge
e Radio Paris Fatale che mi aspettano! Roba da matti!
Il bello è che le dico di sì e così poi alla fine mi incarto con Yoon. Che gli
dico ora? ‘Alle sette?’ fa Françoise. ‘E come no!’ Faccio io. ‘Alle sette nello
stesso posto dove ci siamo conosciuti.’ ‘Très bien.’ Très bien un cazzo!
22 maggio
Mi sveglio di soprassalto verso mezzogiorno. Ho fatto tardi ieri sera con
Françoise, erano le due e mezza quando ho messo le chiavi nella toppa della
stanza dell’albergo. Ho anche un po’ di mal di testa. Alla fine ho scelto di
andare con Françoise e ho sganciato Yoon e il Moulin Rouge. Gli ho detto la
verità, che dovevo fare!
Va beh, ci ho un po’ ricamato sulla cosa, dicendogli che uscivo con una
bellissima ragazza, che doveva partecipare alle selezioni per Miss France,
che era un’occasione da non perdere, che il Moulin Rouge, poi alla fine
restava sempre lì e, va beh, si poteva anche andare la prossima settimana.
Alla fine ho pagato il biglietto non usato spendendo una cifra esorbitante,
ma Yoon ha capito.
Non so se uscirà ancora con me, a dire il vero, ma il richiamo di una
ragazza è superiore a quello di un cameriere giapponese! O no?
Morale, alle sette precise ero davanti al bistrot dell’incontro, alle sette e
mezza lei si è presentata scusandosi del ritardo. Certo, questa Françoise è
una maestra nello scusarsi!
Abbiamo cenato lì, mangiando schifezze, poi siamo stati in un locale strano dove c’era un piano bar abbastanza squallido. Tra l’altro, a parte ‘La vie
en rose’, non conoscevo una canzone nemmeno a pagarla ventimila euro e,
pertanto, sai che goduria.
Françoise però è simpatica, poi quella mezza gengiva che mostra ridendo
mi fa andare nel panico, davvero. Va beh, non è bella, questo no, ma è
carina, anche se quando accende la radio diventa quasi insopportabile. Che
poi, va beh, io sono anche in difficoltà con la lingua, non riesco a capire
tutto, così poi alla fine dovevo farle ripetere alcuni discorsi che duravano tre
minuti, che poi diventavano sei, dovendo ripetere tutto, ma era solo la metà
perché decelerava e quindi ci metteva di più. Insomma, adesso forse capisco perché mi sono svegliato con il mal di testa! Va beh, anche perché forse
non sono più abituato a certe rincasate a queste ore. Almeno da un mese in
qua. Almeno con una ragazza.
Alla fine ho saputo che ha un piccolo appartamento a Parigi, non so in
VA BEH!
61
quale arrondissement (né me ne frega granché peraltro) e lo divide con
un’altra studentessa universitaria. Sono stato bene con lei, mi sono anche
divertito, alla fine penso che ci rivedremo ancora, presto. Ammetto che mi
piace. Abbastanza, almeno, non come la Titti, ma mi piace. Abbastanza.
26 maggio
Non so quali siano i divertimenti dei francesi e dei ragazzi parigini il sabato sera. In quasi tre settimane non ho ancora fatto nessuna indagine e non lo
so proprio. Forse andranno anche loro in discoteca o ai pub o che ne so.
Stasera esco con Françoise, andiamo a cena, poi non lo so. Né me ne
frega. Ho talmente bisogno di stare con qualcuno e di divertirmi che se
anche mi porta a vedere un’operetta pallosissima ci vado anche a piedi.
Comanda lei il gioco, gioca in casa lei, io le corro dietro come un cagnolino,
non so che strada sto prendendo né quella che vuole prendere lei, ma in
fondo per ora me ne strafrego.
I soldi cominciano a scarseggiare, potrei farmene mandare da casa, dal
mio conto, s’intende, ma la faccenda diventerebbe piuttosto difficile da sopportare. Devo trovare un modo per averne presto e senza problemi con i
miei. Vedremo.
27 maggio
Mi stiro la pellaccia mentre un campanile di una chiesa sconosciuta, di un
arrondissement sconosciuto, batte le undici del mattino. Mi giro nel letto di
Silvie, che occupo abusivamente, vista la sua assenza. Le lenzuola sanno
ancora di fresco, anzi sono quasi profumate. Silvie, che pure non conosco,
non so che faccia ha, non so come vive, non so dove sia ora, beh, Silvie
deve avere un bel profumo addosso e magari ora con la mia puzza di sudore
ho rovinato tutto il suo lettino.
Françoise è nel letto di fronte e dal respiro si capisce che dorme ancora.
Questo appartamentino è carino, piccolo ma carino, altro che il mio monolocale
del cazzo. Intanto il bagno non è un loculo. Oddio, non è che ci puoi fare un
rave party lì dentro, questo no, va beh, sarebbe il colmo, però c’è spazio a
sufficienza per definire quella stanza un bagno!
Poi c’è una bella stanza con l’angolo cottura, c’è un divano, una postazione per il computer, insomma hanno un po’ tutto queste due ragazzette di
vent’anni, perché poi credo che anche Silvie abbia vent’anni, visto che andava a scuola al Liceo con Françoise. Va beh, per farla breve, questo
appartamentino mi piace e, cazzo, siamo a Parigi!
Ieri sera dopo aver girovagato da un pub all’altro, che poi qui non si
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Davide Continati
chiamano pub, abbiamo ripiegato nel suo appartamento. È stata un po’ più
zitta, stavolta, va beh, magari ha le pile che si stanno scaricando e qualche
volta dovrà pure tacere Radio Paris Fatale! Ci siamo baciati. Davvero. Baciati come due fidanzatini, seduti sul suo letto, abbracciati. Baciati con la
lingua, insomma. È stata una sensazione forte, da tempo non baciavo una
ragazza diversa dalla Titti, e nemmeno mi ricordo chi fosse l’ultima disgraziata che si era appropriata della mia bocca.
Non siamo andati oltre, per quanto il clima fosse quello giusto:
appartamentino parigino, due letti, l’amica che manca… No, io a letto nel
mio e tu, caro italien, a letto nel tuo, cioè in quello di Silvie. Buonanotte. E
così è stato.
Va beh, mica pretendevo tanto, d’altronde non so nemmeno perché sono
qui, anche se poi lei mi piace abbastanza, però deve essere una ragazza
posata, che parla, sì, sì, parla, però magari è molto…, sì, posata. Posata, sì,
una forchettina, una bella posata. Rido dentro di me per questa battuta
degna del miglior Vergassola.
31 maggio
Sto finendo gli eurazzi, purtroppo. Ieri ho tentato la carta Gigetto, inutilmente. Alla fine la mamma mi ha mandato i viveri, i miei viveri, quelli conservati gelosamente nel mio conto in banca.
Li riceverò domani, credo, perché comunque resto qui a Parigi ancora un
po’, sto bene ora, ho anche una cara amica, se è una fidanzata non so, ho
un amico giapponese che prendo per il culo, e tanta voglia di divertirmi. Va
beh, avrei anche i libri di Antropologia culturale, ma quelli è meglio lasciarli
marcire nello zaino, dove li ho riposti. Eppure per luglio potrei anche preparare l’esame… Forse.
Françoise studia spesso al pomeriggio, poi ci troviamo verso sera, da lei,
e io poi ritorno in albergo a tardissima ora, anche perché Silvie adesso c’è, e
il suo letto è inesorabilmente occupato. Silvie è davvero brutta, ma sul serio.
Ha una faccia triste, hai i capelli ricci, è alta, ma è brutta davvero. Non è
nemmeno antipatica, anche se mi rivolge la parola raramente perché, dice
Françoise, è molto timida. Però è brutta davvero, brutta e timida. O forse le
sto sul cazzo, penso io in italiano. Domani visiteremo la Geode, il posto più
tecnologico di Parigi. Sono venuto qua per quello… Va beh, insomma…
63
VA BEH!
6° CAPITOLO
2 giugno
Mi ha chiamato Alex stamattina, siamo stati al telefono mezz’ora, abbiamo riso, scherzato, parlato tanto. Gli ho raccontato di me, tutto, davvero
tutto. Va beh, io ad Alex voglio bene, è talmente tanto che ci conosciamo
che ci capiamo perfettamente.
Lui sta bene, anche gli altri stanno bene, tampinano il sabato sera in
discoteca, insomma tutto normale. ‘Ah, c’è una grande novità’ fa lui alla
fine. ‘Quale?’ faccio io. ‘Mi sono tagliato il pizzetto zabaione.’ ‘Ottimo’ faccio
io ‘è una notizia sconvolgente da titoli di testa del TG5!’
Alla fine tenta di convincermi a tornare e non so se è farina del suo sacco
o c’è la regia occulta della mamma, la mia, ovviamente. Non lo so, lo mando a cagare. ‘Certo che tornerò’ gli dico. Va beh, è scontato, ora però sto
qua. A Parigi. Quando gli dico che stasera uscirò con un cameriere giapponese perché Françoise è dovuta tornare a casa dai suoi genitori nel paese
che non so come cazzo si chiama, Alex comincia a ridere sguaiatamente.
‘Torna a casa’ fa lui ‘è meglio.’ Della Titti nessuna notizia.
5 giugno
Françoise è tornata stamattina a Parigi e stasera usciamo insieme. Con
Yoon poi mi sono divertito, abbiamo riso, lui è un tipo molto alla mano, gli
piace scherzare e poi il suo italiano è degno del miglior Stanlio. Ridicolo,
davvero. Va beh, parlassi così io il giapponese!
Con la ventenne parigina ormai c’è un rapporto da fidanzati, però chissà
perché io ancora non mi sento il suo ragazzo e lei non è la mia ragazza. Va
beh, ci sto bene insieme, adesso parla anche di meno, mi piace abbastanza
anche fisicamente, con quella mezza gengiva che il suo sorriso mette in
mostra.
Non so se per delle mie remore sulla Titti, che rimane fissa nel mio cervello, o per quale altro stupido motivo, non la considero ancora la mia fidanzata. Mi viene il dubbio: che sia perché non abbiamo scopato? Va beh, con la
64
Davide Continati
Titti prima di scopare sono passati mesi, eppure era la mia ragazza.
Stavo per mettere il verbo al presente, invece è un passato. Prossimo,
magari, ma passato. Va beh, fatto sta che Françoise non è la mia ragazza. Ci
sto insieme, ma non lo è.
Mangiamo vicino a casa sua, stasera mi racconta della sua famiglia; io
non sapevo un’acca della sua famiglia, e forse adesso ne so di più, ma molte
parole mi sfuggono ancora. Adesso, però, vado meglio con il francese, ma
devo ancora migliorare. Il tempo ce l’ho. Stai a vedere che questa fuga a
Parigi diventa una vacanza studio di lingua francese! E magari preparo anche l’esame di Antropologia culturale! A proposito, e i clochards parigini
quando li studierò?
Rientriamo nel suo appartamentino prima del solito, saranno sì e no le
undici e mezza. Ci baciamo nelle scale. Ecco, una cosa che non mi piace di
questo palazzo sono le scale. C’è una puzza di stantio, di muffa, di vecchio
che davvero mi dà quasi nausea. Poi, però, le labbra tenere della ventenne
parigina riconciliano. Non so dire se bacia meglio lei o la Titti. Forse addirittura bacia meglio lei.
Mi accorgo che sto pensando a queste cose mentre la bacio e quasi mi
vergogno. Entriamo da lei e ci baciamo ancora; Françoise chiude la porta,
ma non accende la luce. Ci baciamo in piedi davanti alla porta, al buio.
Questa francesina, che non è la mia ragazza, è eccitante. Sì, sì, bacia meglio
della Titti. Cosa sto a pensare, quasi quasi mi vergogno.
Raggiungiamo la camera da letto ancora al buio, lei si butta sul suo, le
casco addosso come un sacco, la schiaccio, lei fa un gridolino, poi mi sussurra qualcosa nell’orecchio, tanto che mi viene quasi prurito. Mi gratto l’orecchio. Quasi quasi mi vergogno. Non ho capito quello che mi ha sussurrato,
ma, va beh, mica serve un professore di lingua francese per capirlo.
Mi trascina sotto le coperte, si toglie le mutandine e le lancia (credo) per
terra, io vado a tentoni, o meglio a tastoni. Lei ha ancora la gonna addosso,
se la alza sotto le coperte, mandando qua e là le lenzuola che si stanno
appallottolando. Un casino, insomma. Poi ridacchia e non so cosa sto facendo. Quasi quasi mi vergogno. Ormai credo di essere rosso Ferrari, ma
non si vede con questo buio pesto.
Scopiamo, velocemente, e non è un modo di dire. Il letto poi fa anche
uno strano cigolio che prima non avevo sentito. Va beh! Mi sento la testa
che mi scoppia, mentre mi giro da un lato e lei dall’altro. Sono tutto umidiccio,
ma non ho quasi il coraggio di accendere l’abat-jour per mostrare la mia
faccia rosso fuoco. Françoise sussurra qualcosa in francese. Avrei bisogno
della luce anche per capire cos’ha detto. Non rispondo e quasi mi vergogno
a chiederle di ripeterlo.
VA BEH!
65
Decido di alzarmi, ho bisogno di lavarmi e di andare in bagno, vaffanculo
il rossore e tutto il resto. Cerco a tastoni l’interruttore dell’abat-jour e non lo
trovo. Ma dove cazzo è? Poi lo trovo mentre Françoise ridacchia, forse le
parolacce le capisce. D’altronde, tutti gli stranieri, quando vengono in Italia,
per prima cosa imparano le parolacce; è incredibile, ma è così, sul serio.
Quanti ne ho sentiti biascicare l’italiano, ma poi quando c’è da dire di peggio, eccoli, sono primi in classifica. Sarebbe, in pratica, come se io, che so
poco di francese, parlassi con le parolacce dimenticando, ad esempio, come
si dice buongiorno.
Va beh, mentre sto pensando trovo finalmente questo cazzo di interruttore e accendo la luce, mettendo i piedi giù dal letto. Mentre sto per alzarmi, mi
cade lo sguardo verso il letto di fronte, dove ho dormito qualche notte fa,
quello di Silvie. Già Silvie… Silvie è lì che guarda, seria, e mi fissa negli
occhi, sotto le coperte. Stavolta la vergogna mi assale profondamente, credo di essere di un colore indefinito, ho la lingua attorcigliata, non posso
alzarmi, sono senza slip e insomma non è che mi piaccia tanto mostrare
tutto a quella lì.
‘Ciao’ dico io abbozzando un sorriso squallido. Lei si volta dall’altra parte,
Françoise nemmeno si accorge di tutto questo, ha la faccia rivolta verso il
muro. Ma forse lei sapeva che la sua amichetta era nella stanza. Forse lei si
è già scopata qualcuno con Silvie nella stanza. Lei, ma non io. Vado in
bagno a lavarmi. Uscirò di qui fra tre minuti di orologio.
8 giugno
Da tre giorni vivo quasi rinchiuso nella mia stanza d’albergo. Esco la
mattina per andare a fare colazione, poi vado a comprare la rosea, poi mi
spaparanzo a leggerla in camera. Le donne delle pulizie mi trovano così e io
sono costretto a sostare sul pianerottolo fintanto che finiscono di riordinare
la stanza. Poi rientro.
Al pomeriggio dormo, poi esco un po’, girovago per il quartiere a piedi, si
sta bene in questo periodo, la temperatura comincia ad alzarsi e anche Parigi è più piacevole. Ieri sono stato all’Internet Café per un’ora e ho navigato
alla grande. Mi mancava il computer. Va beh, non è che uno nella vita non
possa farne a meno, no, questo no. Però mi piace. Però a volte serve. Insomma qualche euro buttato all’Internet Cafè ci sta. Non tutti i giorni ma ci
sta. Forse.
Mi ha chiamato mamma, stanno bene a casa, vogliono che ritorni presto,
un po’ gliel’ho promesso, sì, tornerò mamma, vedrai. Però non so quando
lo farò. Questa vita da parigino non mi dispiace, non fare un cazzo non
66
Davide Continati
dispiace davvero. Anche se poi la mia vita è là, e l’esame di Antropologia
culturale potrebbe servirmi a qualcosa. Forse.
Françoise non la sento dal momento in cui ho abbandonato il suo
appartamentino. Ho fatto una figura davvero mitica. Io non la richiamo, e
non so nemmeno se richiamerà lei. Forse ha avuto quello che voleva. Forse.
10 giugno
Oggi sono andato a Messa, per la prima volta dopo il mio arrivo a Parigi.
Ora, non è che ci abbia capito molto, va beh, è normale, ci mancherebbe,
però mi sono sentito bene, è stata una sensazione nuova, che avevo quasi
dimenticato. Avevo anche una mezza idea di confessarmi dopo anni e anni
di peccati italiani e stranieri. Poi ho fatto una considerazione: come gliele
spiego certe cose? Va beh, posso dirgli che ho fatto l’amore con una ventenne, e già questo mi porterebbe via mezz’ora per far passare il concetto. Ma
poi, quando devo spiegare al sacerdote, al Don Parigi, che c’era un’amica di
lei che assisteva inerme nel letto accanto, come faccio? Gli presento un disegno? Sarebbe micidiale! Morale della favola, decido di non confessarmi,
assistere alla Messa è più che sufficiente.
Stasera il Moulin Rouge è mio, finalmente ho raggiunto l’accordo con il
povero Yoon, e se quella ragazzetta parigina chiama, stavolta la mando in
bianco. In tutti i sensi.
13 giugno
Sono le sette e venti quando Walter mi chiama sul Nokia. Mi sveglio di
soprassalto e ci impiego anche un po’ a capire chi sia e cosa voglia. Sta
bene, voleva salutarmi perché è una vita che non ci sentiamo, e lui sta bene,
non ha problemi, sta tampinando una nuova, ma la Cristy…, il lavoro procede bene anzi sta andandoci proprio adesso, e i suoi stanno bene e i tuoi, sì
grazie credo anche i miei ma non li vedo da più di un mese, e cosa fai di
bello a Parigi, in realtà non sto facendo un beneamato, ma mi diverto…
Insomma, le compagnie telefoniche fanno soldi con questi discorsi che a
me fanno venire il latte bollito alle ginocchia. Con gli amici si parla poco al
telefonino, ci si accorda, toh, poi ci si vede e li ci si parla e racconta! Altrimenti sono bollette da capogiro, e poi per telefono racconti quello che vuoi, ma
vuoi mettere vedere in faccia l’amico e leggergli negli occhi? Va beh, insomma, sì sono a Parigi e non è che posso pagare un viaggio a Walter per
vederlo negli occhi, però insomma, il telefonino ti mangia tanti soldi, ecco
dove volevo arrivare. E intanto saluto Walter.
Faccio il punto della situazione e mi accorgo che in più di un mese ho
VA BEH!
67
speso un tot di euro, ho bighellonato per giorni senza concludere un tubo,
sono uscito con un cameriere giapponese, ho visto tante belle cose, mi sono
fatto una studentessa ventenne parigina che dopo la scopata è sparita, ho
visto tante belle cose, la Tour Eiffel, mais oui, i Campi Elisi, la Geode, tanti
boulevard, tanti bistrot, le Moulin Rouge, e vai…
Ho anche studiato dieci pagine di Antropologia Culturale, record storico.
Quante righe di media al giorno? Poche, pochissime, una vergogna. Forse è
giunto il momento di tornare in Italia? Non lo so, lo penso mentre mi rado e
mi taglio pure sotto il collo. Tampono alla bell’e meglio una sottile striscia di
sangue. Va beh, cose che capitano.
15 giugno
Riccardo alloggia nella stanza vicino alla mia. È arrivato a Parigi ieri e
Yoon mi ha subito avvertito che c’era un nuovo ospite, e italiano per giunta.
Questo, da quello che ho capito, è un albergo per rappresentanti o promotori finanziari, o gente che sta a Parigi due/tre giorni, non di più. Tranne me,
ovviamente. Di stranieri comunque non ce ne sono. Il proprietario è un tipo
pelato, gentile, ma non molto simpatico, almeno da quello che ho capito.
Ma non me ne frega granché.
Riccardo è a Parigi per la sua ditta, è venuto a vendere un progetto per
delle calzature, non ho capito bene. È giovane, avrà sì e no 35 anni, ma
sembra molto alla mano. Mi racconta di sua moglie che è incinta. ‘Stasera
possiamo andare a mangiare un piatto di lasagne, se ti va’ mi dice. Abbocco
come un pesce gatto. Si tratterrà a Parigi tre/quattro giorni, finché non avrà
ottenuto qualcosa di positivo per la sua ditta.
Non farei mai un lavoro così, eppure lui sembra contento. Usciamo a
cena in un bel ristorante italiano, alla fine vuole pagare lui, metterà tutto in
conto alla sua ditta. Mento spudoratamente quando mi chiede cosa sto facendo a Parigi. Gli racconto le solite cose, le stesse che infinocchiarono,
almeno per un po’, mia madre.
Il bello è che ora gli racconto anche dei clochard, mi invento delle interviste che non ho mai fatto, delle storie assurde, insomma, mi riscopro anche
un gran ballista. Nella vita, bisogna davvero fare di tutto. E poi, chi mi assicura che anche lui non mi stia raccontando un sacco di palle? Comunque
sia, la serata è piacevole, Riccardo è simpatico, le lasagne sono anche buone
e mangiare così bene, all’italiana, dopo mesi di porcate varie, non è male. E
poi paga lui, o meglio, la sua ditta.
Rientriamo verso l’una, con la pancia piena e io sono quasi felice di una
serata così. Non so se sto cambiando o se è normale. Appoggio il Nokia sul
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Davide Continati
comodino della stanza d’albergo e mi accorgo che ho ricevuto due telefonate. Nella confusione del ristorante non le avevo sentite. Controllo i numeri
dei chiamanti. Uno è il numero di Alex, l’altro è incredibilmente quello di
Françoise.
Decido di rinviare le chiamate alla mattina dopo, anche se Alex è sicuramente sveglio a quest’ora del venerdì sera, ma magari sta tampinando o
magari in discoteca non sentirebbe il suono del cellulare. Ve beh, rimando a
domani, è la cosa migliore. Quanto a Françoise, non riesco a immaginare
cosa voglia. O forse vuole solo uscire con me. O farmi uscire con Silvie.
Sorrido mentre mi doccio nel bagno dell’hotel parigino.
16 giugno
Con Alex sto al telefono la solita mezz’ora, ridiamo e scherziamo, mi
racconta tante novità anche sul mio paese, di questo che va con quella e di
quella che cornifica quell’altro. Alla fine è sempre una risata, di quelle da
amici veri.
Gli chiedo se ha notizie della Titti, ma lui non può sapere nulla, non va
mai in città, non la conosce bene, insomma, alla fine taglia corto, va beh, ha
ragione, lo capisco, l’Alex.
Mi chiede del progetto sui barboni. Non so se mi sta prendendo per il culo
o è serio, alla fine ridiamo, insomma, quali barboni? ‘Ci vediamo presto’ gli
dico ‘ho quasi finito gli eurazzi.’ ‘Trovati un lavoro lì’ mi fa lui, ‘la donna ce
l’hai, ti sposi la ventenne, a posto.’ Resto muto, va beh, l’Alex scherza sempre.
Chiudo la conversazione. Già, Françoise, ora devo chiamare anche lei e
lo faccio mentre mi siedo su una panchina di un bellissimo giardino parigino. Sono quasi le tre del pomeriggio, faccio il numero, risponde subito.
Come va, come non va, ormai parla adagio, questa ragazza, forse ha capito
che è meglio sprecare un po’ di fiato prima piuttosto che il doppio dopo. Lei
sta bene, sta studiando per un esame della settimana prossima, Sociologia
del diritto, mi pare di aver capito, ma non ne sono certo, anche perché non
so se la materia esiste. Fatto sta che lei si scusa per non essersi fatta sentire.
Non ho mai conosciuto una ragazza che si scusi così tanto. È incredibile.
Davvero. ‘Anch’io non mi sono fatto sentire’ le dico ‘e mi dispiace.’ Mi invita
da lei, solo a mangiare, stasera. Preferisco se mangiamo qualcosa in un
bistrot, faccio io, sai, la tua casa mi piace, però non voglio disturbare, e non
è giusto che venga sempre io. Insomma una tiritera che non finisce più e a
un certo punto non so neanche se lei capisce perché sta zitta per qualche
secondo. O non ha capito un’acca del mio francese, migliorato sì, ma anco-
VA BEH!
69
ra zoppicante, oppure c’è rimasta malissimo e non sa più cosa dire. ‘Ci sei?’
le faccio. ‘Oui’ risponde lei. ‘Stai tranquillo. Silvie non c’è, mi ha abbandonato.’
Ha capito tutto la francesina, ha capito che non sarei andato da lei perché
non avrei potuto incrociare lo sguardo di Silvie, no, proprio non ce l’avrei
fatta, ma come avrei osato? Cosa avrei potuto dirle? Ciao, tutto bene? Oppure, dormi bene la notte? O ancora, piaciuto il film porno, anzi, il romanzo
radiofonico porno? No, davvero, e Françoise l’ha capito.
Vado da lei alle sette e mezzo. Anzi no, ci vado subito.
17 giugno
Non ci vedevamo da più di dieci giorni, io e Françoise, la ventenne mitica
Radio France Fatale. Quando l’ho rivista credo di essere arrossito ancora.
Non so perché adesso provo un imbarazzo totale anche solo a entrare là
dentro, a vedere il letto, ormai abbandonato, di Silvie.
Non ci vedevamo da più di dieci giorni e lei mi è saltata al collo, mi ha
baciato sulle guance paonazze, ha attaccato la radio. Non so cos’ha detto,
non riuscivo ad ascoltare, ero distratto e poi parlava ancora troppo veloce.
Non so più cosa pensare di questa ragazza, di questa strana storia. Lei non
mi è mancata, non l’ho cercata, mi ha fatto fare una figura di merda, però
adesso che sono tornato qui e che mi ha messo le braccia al collo, sento che
le voglio bene, va beh, non so se è amore, no, non è amore, non può
esserlo, però non so.
Non ci vedevamo da più di dieci giorni e ci siamo abbracciati per tanti
minuti, e tanti bacini… Stop, le ho detto a un certo punto e lei da brava
ragazza si è staccata. Abbiamo parlato tutta la sera, adesso parla anche un
po’ di italiano, non vorrei che le prendesse la fissa dell’italiano solo perché è
finita una volta a letto con me!
Mi ha detto che Silvie se n’è andata il giorno dopo il fattaccio e così ho
capito che era la prima volta che Françoise faceva una cosa del genere.
Hanno litigato, Silvie ha fatto le valigie e ha tagliato l’angolo. Va beh, chi le
dà torto? Io no di certo. Al di là del fatto che io quella sera, fossi stato in
Silvie, mi sarei fatto sentire. Sono sicuro che avrei dato almeno un colpo di
tosse, nel momento in cui Françoise mi trascinava sul lettino. Anzi, avrei
avuto una crisi bronchiale.
Lei è sicura che tornerà, altre volte hanno litigato ed è sempre tornata;
secondo me stavolta sarà più dura. Abbiamo cenato, ho mangiato bene, ho
aiutato Françoise a fare da mangiare, ci siamo anche divertiti. Ci sto abbastanza bene con lei, ne sono certo. Però… non so.
70
Davide Continati
Stavolta l’argomento sesso non è stato nemmeno toccato. Io mi sono
accomodato nell’ex letto di Silvie e ora sto per alzarmi per aprire le finestre.
Lei è di fronte a me, dorme ancora. Françoise è carina, sto bene, però non
potrà mai essere la mia ragazza. Non so il perché, non lo saprei spiegare, va
beh, potrei tentare, ma non ci riesco. È così, è una questione di pelle.
Mi alzo, vado ad aprire le persiane, c’è il sole oggi. Sono le dieci del
mattino di una bella domenica parigina. Meglio così, tra poco tornerò in
albergo. All’una mi aspetta Riccardo: oggi pomeriggio andrò con lui allo
Stade de France per la finale della Coppa di Francia di calcio.
20 giugno
Incredibile, ma vero. Da tre giorni studio almeno quattro ore al giorno. Mi
si è accesa una lampadina dentro, non so dove, in quale parte del cervello o
del cervelletto, va beh, non so nemmeno se c’è l’ho il cervelletto. Ma non
importa. Fatto sta che mi sono messo a studiare quattro ore al giorno. Preferisco farlo nel primo pomeriggio, dalle due, prima che mi assalga l’abbiocco,
fino alle sei circa. In mattinata invece bighellono, ormai ho fatto amicizia con
i padroni dell’albergo, che mi hanno anche ridotto la spesa della camera,
vista la mia lunga permanenza qui.
La mia camera, già. Meno male che fanno le pulizie, meno male che c’è
una lavanderia nell’hotel, altrimenti sarei messo certamente peggio di un
barbone, di un clochard. Ah, ah, eccoli, gli amici clochard. Forse sono anch’io uno di loro, sono un barbone dentro.
Riccardo è partito ieri sera, è tornato in Italia, gli ho offerto anche da bere
ieri sera, mi ha lasciato il suo numero di telefono. Forse tornerà a Parigi a
fine luglio, certamente a settembre, dopo le ferie. Credo che non ci rivedremo, a meno che, come dice l’Alex, io mi sposi con la ventenne parigina. Il
che, va beh, è logico, è praticamente escluso.
Insomma sto studiando bene e sono contento e non è poco e spero che
mi duri questa voglia. Anche perché se mi dura è meglio che torni in Italia.
Perché spendere euro a casaccio a Parigi per una cosa che potrei fare anche
a casa?
Françoise mi chiama all’ora di cena. Ha l’esame domani, le faccio i miei
in bocca al lupo, magari domani ci vediamo, dopo l’esame. Mi faccio dire
dov’è la Facoltà, almeno vado un giorno a vedere anche l’Università parigina. La raggiungerò lì domani, nel primo pomeriggio. Mi sa che domani
studierò in mattinata. Ho voglia di studiare. Va beh, i miracoli a volte accadono.
VA BEH!
71
21 giugno
Ero abituato al casino delle facoltà universitarie italiane, non solo la mia,
non solo scienze politiche, no, ne ho viste anche altre, Filosofia, Economia e
commercio. Ecco, il casino che ho visto a Economia e commercio sfiora la
pazzia. Però qui a Parigi, la pazzia non la si sfiora, la si raggiunge!
Un bordello di studenti ovunque, in marcia, che chiacchierano, che gridano, che urlano, dopo dieci minuti in quel girone infernale (il girone dei
Fessi, lo intitolerei nella mia personalissima Divina Commedia), avevo già
voglia di tagliare l’angolo e di mandare a puttane anche l’incontro con Françoise.
La quale mi ha telefonato all’una per dire che l’esame l’aveva passato, che
era contenta, che avrebbe mangiato con una tizia di cui non ho capito il
nome e che poi verso le tre era libera e tutta mia.
Certo che trovarsi qui, nel Girone dei Fessi, è impresa improba e penso
ormai di ricorrere al telefonino per capire dove sia questa francesina o che
mi dica lei dove devo andare di preciso perché non ci capisco più niente.
Françoise mi dice un posto che non capisco, un po’ perché il bordello che
c’è in questo atrio è terrificante, un po’ perché non conosco davvero quel
posto lì. È come se io le dicessi di venire a Scienze Politiche e le dicessi vieni
nell’aula F. Trovala, se ci riesci, è la più imboscata della mia facoltà. Trovala,
Françoise!
Morale della favola, decidiamo di vederci in un bistrot lì vicino, altrimenti
non ne usciamo più. O, se ne esco, ne esco pazzo. Sul serio. Garantito.
Stiamo insieme un’oretta, lei deve andare a casa, nel paese dal nome
impronunciabile. Un giorno me lo farò scrivere su un foglio e lo voglio imparare a memoria. Sul serio. Garantito.
La accompagno, prendiamo la metro e ci avviamo verso la stazione che
riporterà Françoise a casa sua. Starà via qualche giorno, forse fino a martedì. Mi invita a casa sua sabato. Se sapessi almeno il nome del paese, petite,
forse mi attiverei, le dico. Me lo scrive, mi scrive l’indirizzo, mi spiega che
treno devo prendere, non capisco un’acca. Troppo veloce, e poi il rumore di
questa metro copre la sua voce. Alla fine qualche cosa mi resta. Deciderò se
andare o no.
Usciamo dalla metro e lei raggiunge la stazione di Paris Lyon, e io dietro.
Raggiunge il binario e io dietro. Mi bacia. ‘Ti aspetto sabato’ fa lei. ‘Ci penso’
faccio io. ‘Ti aspetto’ rifa lei. Sorrido, mentre sale sul treno e mi saluta.
23 giugno
Continuo a studiare che è un piacere. Oddio, un piacere, un dovere, che
ora sento più mio e non so il perché. Fatto sta che ormai supero tranquilla-
72
Davide Continati
mente le cinque ore giornaliere, mi sento pronto per fare l’esame in luglio.
Vado all’Internet Cafè e decido di iscrivermi online all’esame di Antropologia Culturale. Yoon, che ha la mattinata libera, mi segue e decidiamo di
chiedere due postazioni vicine. L’Internet Cafè è un posto enorme, non so
quanti computer ci siano, una esagerazione, però sono ben organizzati, però
alla fine si sta tranquilli, insomma navighi senza problemi, anche se è un po’
costoso. Pazienza.
Mi iscrivo all’esame, è il 13 luglio, alle ore 9, neanche a farlo apposta
nell’aula F, quella imboscata. Ci sarà un caldo allucinante, il 13 luglio, pazienza, stavolta mi impongo di farlo, questo benedetto esame.
Yoon sta navigando in un sito giapponese piuttosto ridicolo. Gli chiedo
cos’è, è quello ufficiale della sua città. ‘È ridicolo’ gli faccio. Lui sorride.
Stiamo all’Internet Cafè un’ora circa, poi paghiamo, usciamo e ci fermiamo a mangiare un panino insieme in una rosticceria, o giù di lì, gestita da un
greco.
Nel pomeriggio andrò nel paese di Françoise, mi ha chiamato anche
stamattina, insiste, vuole che vada a trovarla, non riesco a dirle di no, ci
andrò nel pomeriggio, in treno. Ma ora ho un nuovo obiettivo: il 13 luglio.
Domani, tornando a Parigi, deciderò il giorno in cui tornerò in Italia,
definitivamente.
24 giugno
La casa di Françoise è carina, piccola ma carina; un po’ come lei, d’altronde, non bella ma carina, non un tappo, ma piccola. Sua madre dev’essere quasi coetanea della figlia. Anzi, credo che siano gemelle, sia perché
hanno la stessa espressione, sia perché la madre sembra davvero una ventenne. Non so se usi quelle strane pozioni magiche che stirano la pelle o che
ne so, quelle tipo Oil of Olaz. Fatto sta che davvero sembra la sorella e non
la madre di Françoise. Mi ha accolto bene, anche se non è di molte parole e
anche se lo fosse capirei sì e no la metà e quindi forse è meglio così. Suo
padre invece è un omone un po’ burbero, sui quarantacinque, brizzolato,
un bel tipo, se non fosse per un grosso neo sulla guancia decisamente sgradevole.
Ieri sera non ho voluto restare a cena, siamo andati in un ristorante del
paese (l’unico a dire la verità) e mi sono pappato almeno sei qualità di
formaggi. Ora, non è che il formaggio sia la mia passione, però mi piace
abbastanza e ne ho approfittato. Almeno, dico io, non rischio il palato con
quelle porcate francesi di cui non capisco il gusto e a volte nemmeno gli
ingredienti.
VA BEH!
73
La campagna attorno a Parigi è bella, ma preferisco vivere in città. Lo so,
vado controcorrente, ma sono abituato alla città, a vivere in maniera frenetica, nel monolocale del cazzo, in un bagno che sembra un loculo, in mezzo
al casino. Sì, anche a Parigi ormai ci ho fatto l’abitudine e mi piace. Tanto.
Di Françoise non so cosa dire. Sì, mi piace, ma non è tutto, non so se
quello che provo è abbastanza e poi io fra pochi giorni tornerò in Italia per
l’esame di Antropologia Culturale. Garantito. Sicuro.
Gliel’ho detto mentre stavamo per alzarci da tavola. Lei ha sorriso, poi mi
ha passato una mano nei capelli, poi mi ha dato un bacino sulla guancia, poi
mi ha dato uno schiaffetto e io ho esclamato ‘Ahi’, poi ha sorriso, anzi ha
riso mostrando la gengiva. ‘Non voglio che torni là’ mi ha detto in italiano.
Sta a vedere che la frasettina era già pronta. ‘Devo farlo’ le ho detto io ‘è
inevitabile.’ Non ha capito inevitabile. Meglio. Le ho spiegato dell’esame e
che comunque starò a Parigi ancora qualche giorno. ‘Tanti giorni’ ha aggiunto lei. ‘Ok’ faccio io ‘ma resto solo una settimana.’ Ho deciso in quel
momento, non so perché, ho deciso lì, non so perché, ma ho deciso, partirò
fra una settimana. Siamo usciti dal ristorante e Françoise era decisamente
triste. È stata la prima volta che l’ho vista così.
Mi stiro nel mio posto di seconda classe. Sto tornando a Parigi, sono le
undici di una serata frizzante. C’è un vento fastidioso ma non freddo. Tiro su
il finestrino. Di fronte a me un signore anziano dormicchia, anzi dorme.
Anzi, russa. In francese.
27 giugno
Mentre ancora poltrisco nel mio letto, bussano alla porta della stanza
d’albergo. Guardo l’orologio, sono le 8 e dieci, cazzo, ma chi viene alle 8 e
dieci a rompere le palle mentre dormo così bene… Che poi, dico, almeno ti
servissero in camera da letto la colazione! Allora sì, direi avanti, prego, si
accomodi, anche se sono le otto e dieci. Magari a questo albergo manca
qualche stella, per queste cose, e forse a me manca qualche rotella a restare
qui ancora.
Mi alzo a piedi nudi, d’altronde ormai anche qui a Parigi fa abbastanza
caldo, sono in maglietta e pantaloncini corti. Chiedo chi è in italiano, mi
sento rispondere in francese, una vocina bella e sinuosa. È Françoise. Ma
che ci fa qui?
La faccio entrare, mi bacia, o meglio, mi slinguazza, mi abbraccia, ha un
profumo nuovo, non gliel’ho mai sentito. Eau de… de che? Va beh,
chissenefrega. Comunque è un bell’inizio di giornata, profumato e felice.
‘Non andare, ti prego’ mi fa ‘voglio che resti avec moi.’ Eh, avec toi,
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Davide Continati
tesoro, le vorrei dire, avec toi, non si può. Devo tornare in Italia, gli eurazzi
stanno finendo, devo fare un esame, e poi ho gli amici là, la famiglia là, il
loculo là, tutto là. ‘Non ci sono io!’ fa lei. Eh, ci sono io, moi e toi e lui… ‘Mi
metti in crisi’ le dico ‘mi dispiace Françoise, non ho nemmeno un lavoro
qua, non posso, davvero. Sei carina, mi piaci, però ci sono troppi problemi,
dai, insomma, capiscimi…’ ‘Te lo trovo io il lavoro’ fa lei ‘purché resti avec
moi.’ E dai con questo avec moi. Va beh ho capito, mi vuoi bene, però non
posso davvero, Françoise, credimi…
Dentro di me spero che molli la pezza velocemente, altrimenti non so più
cosa dire e poi a me queste scene mettono in crisi. Tanto. Tantissimo. Sono
insopportabili.
Mi molla un cazzotto sul braccio, si siede sul letto, abbassa la testa, si
mette le mani nei capelli rossi, poi mi guarda, si rimette le mani nei capelli
rossi, inizia a piangere, un pianto a dirotto, sincero, con lacrimoni che sembrano uragani, monsoni, che ne so. Che poi i monsoni io mica li ho mai visti.
E perché mi sono venuti in mente? Va beh, comunque, non è il momento di
pensare ai monsoni…
Mi siedo vicino a lei, sembra veramente un fiume in piena, un fiume di
lacrime, questa non la smette, le dico due parole stupide, scuote la testa,
cerco di alzarle il viso, niente, di toglierle le mani dalla faccia, si irrigidisce
mentre piange. Sembra una bambina, davvero.
‘Françoise, ti prego, Françoise…’ A un certo punto perdo la pazienza e
grido ‘Basta! Smettila di fare l’isterica che non è il caso, ragiona invece di
piangere, e guardami in faccia che sarebbe anche ora!’ Lei smette subito di
piangere, si alza, va in bagno, si lava la faccia, io mi siedo sul mio letto.
Attendo gli eventi. Se ne andrà? Rimarrà e parleremo? Starà zitta e si siederà
qui vicino? Ve beh, ipotesi, fra poco lo saprò…
La sento singhiozzare ancora in bagno, poi si chiude dentro a chiave e
poco dopo mi arriva alle orecchie il classico rumore del fiotto della pipì che
rimbalza nel water. Attendo finché si attenua. Adesso che ci penso non ricordo se ho rimesso a posto il bagno ieri sera dopo la doccia, altrimenti ci faccio
una figura da pirla. Va beh, poi chissenefrega!
Françoise esce dal bagno, mi guarda, ha una maglietta grigio chiaro, un
paio di jeans sdruciti, abbastanza sdruciti, un paio di scarpe da tennis bianche. Ha gli occhi rossi, è spettinata, insomma sembra che si sia appena
svegliata. In fondo è carina, l’ho sempre detto, è una ragazza carina, ma non
sono innamorato, è ufficiale, sto bene con lei ma l’amore no, non c’è, mi
spiace, io sono sempre impantanato con la Titti. Fino alle ginocchia, anche
più su, forse. Magari se non avessi avuto quella, ora questa qui mi andrebbe
bene. E mentre faccio questi discorsi del cazzo dentro di me, Françoise mi
VA BEH!
75
saluta, mi bacia, senza slinguazzare stavolta, e prende la strada della porta.
‘Se ti va di salutarmi prima di andartene, chiamami’ fa lei ‘altrimenti
buona fortuna, e ciao.’ Si volta ed esce senza nemmeno aspettare un mio
cenno, una mia risposta, una mia reazione. Niente. Ciao e apre la porta.
Ciao ed è già fuori. Che caratterino, la tipa.
Io resto lì come un fesso totale, seduto sul letto. Alla fine vado sotto il
lenzuolo e cerco di non pensarci. Forse andrò a salutarla, forse la chiamerò,
o forse no. Va beh, ci penserò.
76
Davide Continati
7° CAPITOLO
2 luglio
Sono in stazione per fare il biglietto di ritorno. Domani riparto per l’Italia,
torno a casa, nel mio monolocale, per la gioia di mia madre. Torno con
quasi due mesi di Parigi alle spalle e soprattutto pronto per l’esame di Antropologia culturale. Questa è la grande novità, sì, sì, faccio l’esame, sono pronto, ho studiato.
Ho passato un weekend tranquillo, sono stato in giro con Yoon, ieri sera
abbiamo cenato insieme in un ristorantino, lui finiva il turno alle undici, va
beh, tutto bene, certo che aspettare le 11 di sera è tanto per me. Avevo una
fame da lupo, uno stomaco lungo lungo lungo…
È il mio turno alla biglietteria, chiedo il biglietto per l’Italia, pago con gli
eurazzi rimasti. Stavolta viaggerò di giorno, con il TGV, niente cuccette del
cazzo o vagoni letto. Tutto bene, insomma, l’esperienza a Parigi sta finendo,
ma va tutto bene.
È l’ultima sera di permanenza a Parigi, vado in giro con Yoon (che ha la
serata libera o se l’è presa non lo so), ci divertiamo. Siamo in zona Pigalle,
dove imbonitori dei night club ti chiedono di entrare a vedere gli spettacoli
porno e tu devi dire continuamente ‘no, grazie’ oppure ‘sono appena uscito
dall’altro e di gnocca ne ho vista abbastanza per stasera’. Che poi basta
andarci con una ragazza, passeggiare lì davanti con la morosa, o anche la
sorella, o anche la prima che incontri, e non ti cagano nemmeno.
Forse un girettino lì dentro me lo farei, lo ammetto, ma ammetto anche di
non avere il coraggio di dirlo a Yoon. Alla fine optiamo per uno strano posto
con orchestra e strani giocolieri. Niente di che. Brindiamo e alla fine realizzo
che Yoon è la persona con la quale ho legato di più qui a Parigi. Françoise
esclusa, ovviamente.
3 luglio
Nel momento in cui metto piede sul TGV mi viene molta ansia, molta
emozione, non so, un magone allo stomaco, che risale l’esofago, mi prende
VA BEH!
77
anche la gola, boh! Va beh, insomma, la mia avventura parigina, bella o
brutta, strana o non strana, è finita, sta finendo, ritorno in Italia, torno al
monolocale, a fare esami.
Mi accomodo nella mia poltroncina prenotata. Arriverò a casa mia stasera, avrò baci e abbracci da tutti, dalla mamma, dal babbo, da Gigetto, dormirò nel mio vecchio letto, poi deciderò quando tornare in città, il 13 si
avvicina, l’esame di Antropologia culturale è lì e lo farò. Sicuro. Certo. Garantito.
Telefono ad Alex mentre il treno muove fuori dalla stazione, ma il suo
cellulare è spento. Sarà al lavoro, probabilmente, anzi sicuramente. Lo chiamerò più tardi.
Di Françoise non ho più saputo niente e forse è meglio così, per me, per
lei, per tutti. Sì, è un discorso del cazzo, lo ammetto, ma è davvero meglio
per tutti. Lei mi piace, ma non ne sono innamorato, penso ancora e sempre
alla Titti, brutta stronza. La realtà è questa. Non potevo mica restare a Parigi
in eterno. Per lei, poi, men che meno. Però lei mi piace, è una brava ragazza, anche se chiacchiera tanto. Davvero, spero che la vita abbia tante belle
cose per lei.
Tra qualche ora rientrerò in Italia. Bello.
5 luglio
La cosa peggiore che ho ritrovato qui in Italia, a casa mia, è il caldo,
davvero infernale, appiccicaticcio, afoso. In poche parole, insopportabile. Il
fatto è che io ero abituato alle dolci serate parigine, a quel sole caldo, ma
non afoso, a quella temperatura godibile. Mi sembro un poeta. Titolo della
poesia: temperature parigine. Va beh, lasciamo perdere.
Sono a casa dai miei e ci resterò qualche giorno, poi forse lunedì tornerò
nel mio monolocale in città. Forse, anzi, sicuramente ci tornerò e poi mi
preparerò definitivamente per l’esame di Antropologia. Che, per inciso, vorrei dare già domattina. Sono pronto, sono preparato, sono in grado di farlo.
Sicuro. Garantito. Ieri sera sono uscito con i miei amici, sono contento, li ho
rivisti volentieri, mi hanno festeggiato come se avessi, che ne so, finito la
naja.
Effettivamente Alex si è tagliato quel ridicolo pizzetto zabaione, si è anche
accorciato i capelli, insomma sembra più… come dire, pulito, no, è una
parola grossa, diciamo limpido. Insomma, non mi viene un termine, è meno
pittoresco, via.
Il Grillo è sempre il più strano, mi racconta di nuovi tampinamenti, lui, il
re della discoteca. Pare che stiano per aprirne una in città. Sa tutto per filo e
78
Davide Continati
per segno. È entusiasmante, quando il Grillo racconta qualcosa ti rende
partecipe del tutto, anche se in realtà non te ne frega un cazzo di quello che
ti racconta. E a me del fatto che stanno per aprire un’altra discoteca non me
ne frega proprio un cazzo.
Gionni è sempre più pelato. Forse in due mesi e passa ha perso ancora
qualche peluzzo, non so, forse sono io che ho questa impressione. Gionni è
sempre tranquillo, ha sempre la testa sulle spalle, mai una cosa fuori posto,
è un grande.
Alex, poi, mi ha fatto raccontare di Françoise, prima restando sul vago, e
io ho risposto in maniera, diciamo, convincente, poi cercando di entrare nei
particolari e allora sono stato io a restare sul vago. A un certo punto sono
stato lì lì per raccontare della scopata con l’amica nel letto vicino, ma mi
sono vergognato come un porco e ho lasciato perdere. Almeno per stavolta.
Magari qualche sera mi scapperà detto.
Abbiamo festeggiato, abbiamo sbevacchiato, ma nessuno era ubriaco
alla fine, è raro che qualcuno si ubriachi, magari qualcuno è brillo, non di
più.
Oggi studierò, poi credo di andare in piscina. È da tempo che non faccio
una bella nuotata. Potrebbe essermi utile.
7 luglio
Sabato italiano con gli amici: birreria, discoteca, pub, macchina, chilometri, tampinamenti, risate, cazzate, insulti, due di picche (quadri, cuori e fiori),
birra, cocarhum, benzinaio, sonno, mal di testa, alba, letto, mal di testa.
In estate, magari, si va nelle discoteche all’aperto ed è diverso, l’atmosfera voglio dire, è molto diversa. Fatto sta che siamo in strada per il mare,
dove andremo in discoteca. Tampinamenti, risate, cazzate, birra, eccetera…
Il Grillo sistema la macchina nell’enorme parcheggio. È abbastanza presto e onestamente non ho molta voglia di entrare là dentro. Ma sono qui,
dopo mesi, con i miei amici, e non posso nemmeno perdermi questa serata.
Entriamo e devo dire che non è che mi dispiaccia questo estivo, ma c’è di
meglio. È aperta anche la parte al chiuso, con due piste, per fortuna c’è l’aria
condizionata, altrimenti ballando ti scioglieresti come burro. Fuori ci sono
tanti piccoli gazebo bianchi con tavolini e panchine, e in mezzo sta la pista,
dove già precoci ragazzine sculettano in pista. Va beh, non sono un pedofilo,
ma vedere quei culetti di 18/19 anni che ondeggiano davanti a me, non mi
fa propriamente schifo. E l’Alex, che è peggio di me, lo sottolinea ad alta
voce.
Il bello di queste uscite tutti insieme è che ognuno dice quello che pensa,
VA BEH!
79
magari anche qualche uscita scurrile, ma simpatica, ma divertente, ma ridicola. E quindi ci si diverte più così che tampinare una stronza che al quinto
secondo ti sorride, al trentesimo ammutolisce e al primo minuto ti scarica.
Restiamo fino alle tre, fin quando il Gionni termina di provarci con una
biondina dal culo grosso. Mezz’ora di tampinamento inutile. Va beh che lui
è abituato, ma io non ce la farei mai. A me non piace il tampinamento in
discoteca, non lo reggo. Lui invece è il re e, di ritorno in macchina, ci racconta vita, morte e miracoli di questa Teresa (non so se è il suo vero nome, lui le
ha creduto), della quale ritiene di conoscere quasi tutto, misura di reggiseno
e marca di mutandine con pizzo compresa.
Rientro in camera mia che sono quasi le cinque e Gigetto, sveglio, mi
chiede quante ne ho tampinate. ‘Zero’ faccio io. ‘Ottimo, fa lui, meglio così.’
E si volta dall’altra parte. Cosa volesse dirmi non l’ho capito. Buonanotte,
anzi buongiorno, fuori sta già facendo chiaro.
9 luglio
Rimetto piede nel mio monolocale dopo oltre due mesi. A parte la puzza
di chiuso, che elimino subito spalancando le finestre, è ancora tutto intonso.
C’è ordine ed è una bella notizia, un po’ perché stamattina ho le palle girate,
un po’ perché non ho la minima voglia di mettermi lì a fare delle fottute
pulizie.
Va beh, ho vissuto due mesi senza combinare granché, è vero, ma forse
proprio quello mi ha fatto andare in paranoia e mi ha fatto disabituare a
certe faccende di casa.
Fa un caldo allucinante, dalla finestra entra più calura che altro, ma l’aria
dovrò pure cambiarla! Accendo un ventilatore che mi ha gentilmente fornito
mamma. ‘Così’ mi ha detto ‘intanto che studi ti rinfreschi.’ ‘Le idee’ ho
aggiunto io. Però la mamma aveva ragione, lo ammetto, il ventilatore mi è
proprio utile.
Tra poco dovrò scendere a fare la spesa, altrimenti mi nutrirò di aria.
Quella del ventilatore. Anche se per oggi mi sono portato il pranzo da casa.
E non è poco.
10 luglio
Studiare d’estate, in pieno luglio o agosto, è un peso insopportabile. Per
fortuna mi sono portato avanti a Parigi e la materia ormai la conosco bene,
o giù di lì. Mancano solo tre giorni all’esame, e onestamente me ne frega
poco. Comunque sto ripassando, con i libri aperti sul letto, il ventilatore
acceso, in mutande, con una canottiera bucherellata, finestra chiusa. Man-
80
Davide Continati
gio ogni mezz’ora cazzatine varie, compresi i miei amati cannoncini alla
crema che, cazzarola, mi mancavano. Puttana Eva se mi mancavano! E così
ieri sera ne ho comprato un vassoio. Ora è già a metà.
Sto ripassando il capitolo sui PVS, quando trilla il Nokia. Ho cambiato
suoneria ultimamente e me ne ero quasi dimenticato, anche perché ultimamente, cazzo, non mi chiama quasi nessuno. Insomma ‘Mission Impossibile’
(original soundtrack) sibila nel mio monolocale. È l’Anto, lo vedo sul display.
Ho un attimo di titubanza, non so se rispondere, e se rispondo cosa dico?
Questa mi ha già fregato una volta, e poi io non so mai dirle di no…, va beh,
insomma, rispondo dopo che la musica del film sta trillando per la terza
volta, e non è poco, perché è lunghissima!
Rispondo. Ciao come stai, sto bene e tu, insomma, il solito dialogo tra
due che non si vedono da un po’. Le dico di Parigi, le dico, dell’esame, le
dico della Titti.
‘Avevo ragione allora’ fa lei. Mi sembra quasi di vederla sorridere, quel
sorriso quasi beffardo, ma di un fascino spaventoso. L’Anto è una ragazza
particolare, non riuscirò mai a dirle di no, anche l’altra volta, mi ha fregato
ma non sono riuscito a dire di no. E sarebbe stato meglio. Garantito. Sicuro.
‘Vieni a cena da Pablo’s’ fa lei ‘dai che chiacchieriamo, devo dirti due cosette
anche sull’esame che farai, così vai là più sicuro.’
L’esca, questa è l’esca, me lo sento. Ma d’altronde di quell’esame io ho
bisogno, devo farlo, devo superarlo. Sì, sono abbastanza tranquillo, però…
Continuo a pensare e non rispondo subito, così che l’Anto… ‘Oh’ mi fa ‘ma
dormi o stai ascoltandomi?’ ‘No, non dormo, Anto, ok, vengo da Pablo’s,
verso le 8 e mezza, va bene?’ Aggiudicato.
Pablo’s d’estate cambia temperatura. Come se fosse un iguana, o un
camaleonte, che cazzo ne so, che cambia colore, Pablo’s cambia tutto. C’è
un’aria condizionata che fa spavento, ci sarà meno 2. Sto pappandomi un
gelatone a conclusione di una bella cena. Anto è qui davanti a me, è simpatica, non c’è che dire, non posso dire di non esserne ancora innamorato
come quando eravamo matricoline, come dice lei. Oggi sfoggia una camicetta azzurro intenso e una gonna che le stanno da Dio. Lei non ha molto
seno, ha sempre detto di odiare le tettone, come me d’altronde. Però quel
poco che ha lo mostra. Lei ci sa fare, da sempre. Il bello è che ora è lei che
mi corre dietro, che mi vuol scopare quando lo desidera. Allora non mi
cagava più di tanto.
Parliamo di tante cose, sì, anche dell’esame, per carità; insomma a sentire lei se non lo passo sono un coglione con la C maiuscola. Ma sono certo di
passarlo, le dico. Mi racconta di un tizio che la tampina giorno e notte. Non
per dire, ma anche la notte. Fa la guardia giurata e quindi a volte la chiama
VA BEH!
81
alle 2 o alle 3 e mezza, in piena notte che magari lei ha lasciato acceso il
cellulare. Va beh, ci sta di tampinare una così, per carità, ma alle 3 e mezza
di notte! Io non ci riuscirei, io la tampinavo a orari umani, anzi universitari,
magari durante l’ora di sociologia o di economia politica.
‘Usciamo a fare due passi’ mi fa mentre controllo l’ora. Sono le dieci e un
quarto. Praticamente, è il tramonto di una giornata di neanche metà luglio.
Sì, fa già scuro, ma da pochi minuti. Camminiamo almeno per mezz’ora
sotto i portici, c’è molta gente in giro, stasera si sta bene, c’è abbastanza
fresco, almeno si respira, si cammina volentieri. Anto è in grande serata,
scherza su ogni cosa, mi sento bene, sono sereno, ho voglia di fare l’esame,
va beh, forse questo è il momento di lasciar perdere, forse è il momento di
tampinare sul serio l’Anto, che ne so… Sono confuso, come spesso mi capita.
Raggiungiamo la sua macchina, in silenzio percorriamo i lunghi viali alberati che portano nel suo appartamento, almeno se è ancora quello, chi se lo
scorda? Una volta mi ci portò, ma c’erano ospiti, non mi divertii granché. So
già che fra poco invece mi divertirò, ci divertiremo, è chiaro, il gioco lo
comanda lei, sono succube di questa ragazza, perché ne sono affascinato. O
forse solo cotto come una pera.
L’appartamentino è sempre quello, magari più ordinato, coi due lettini, il
suo e quello di sua cugina Roby, e tutto quello che serve. Tipo il mio monolocale,
insomma, c’è tutto, ma poi in realtà non c’è nulla di quello che ti serve
davvero. O forse mi serve solo l’Anto, svuotare i coglioni e basta. Da quando la Titti mi ha lasciato, certi discorsi albergano squallidi in me, me ne
rendo conto, anche se per l’Anto provo di più di una semplice voglia di
farmela. E lei? Va beh, nemmeno una parola, nemmeno il tempo di buttarci
sul suo letto che è già nuda, splendida, meravigliosa creatura che ho sempre
desiderato. Stronza, magari, va beh, lo ammetto, però meravigliosa. E per
la seconda volta in pochi mesi, mi tocca fare quello che volevo fare anni fa e
che allora non mi riuscì nemmeno per sbaglio. Stavolta però è diverso, stavolta ci sono caduto consapevole e penso proprio a questo mentre entro in
lei, mentre spingo, mentre lei geme, mentre mi svuoto in maniera esponenziale
come penso di non avere mai fatto. E stavolta senza spettatori non paganti.
13 luglio
Va beh, ripeto, non sono superstizioso, però l’esame di venerdì 13…
Entro nell’aula un quarto d’ora prima dell’esame e ci sono già almeno venti
studenti. Ignoro quanti saremo, ma onestamente me ne strafrego. Sono il
quindicesimo della lista. Non male, considerando che ci saranno, così dico-
82
Davide Continati
no, almeno due assistenti.
Alle nove e venticinque va sotto il primo, la mattina scorre veloce, in
pratica alle dieci e mezza tocca a me e capito dall’assistente, la più giovane,
avrà sì e no trent’anni. Ma come cazzo si fa a essere già assistenti a trent’anni? Va beh, sarà brava, sarà la pupilla del prof, ma trent’anni! Io forse nemmeno sarò laureato…
Fatto sta che è molto gentile, fatto sta che sono in forma, fatto sta che le
cose le so abbastanza bene, insomma per farla breve dopo dieci minuti mi
propone un ventotto clamoroso e gradito. Preso. Firmo, la saluto, le do la
mano, riprendo il libretto, mi alzo dalla sedia del condannato e vado via.
Che bello, facile come bere un bicchier d’acqua. L’Anto aveva ragione.
Telefono a lei prima di tutto, è contenta anche lei, mi invita per stasera da lei.
E che, non ci vado? Telefono a casa, festa grande. Soprattutto per mia
madre. Va beh, che novità.
15 luglio
Dico: si può, due giorni dopo aver fatto un esame e aver preso ventotto
evitare di andare al mare la domenica successiva? No. E infatti è quello che
spiego a mia madre alle otto e venti mentre mi preparo il corredo per il
mare. Sono tornato a casa ieri mattina, dopo essere stato a casa dell’Anto
venerdì sera. Niente sesso stavolta, lei aveva qualche problema fisiologico,
altrimenti avrei fatto fuoco e fiamme. Ma oggi con i soliti noti, l’Alex, il Gionni,
il Grillo, ci sarà anche lei. Ma ci raggiungerà là, è più comodo arrivarci dalla
città e porterà anche Roby, la cugina che non vedo da una vita.
Alex passa alle otto e mezza in punto. Si canta in macchina, si stona, si va
felici verso la meta, verso gli ingorghi domenicali estivi, verso le spiagge
carnai di metà luglio, verso i bagni salati nella pipì del bambino vicino. Ma
chissenefrega, cazzo! Va beh, ci saranno anche quelle cose lì, ma a una
domenica al mare dopo un ventotto all’Università, io non ci rinuncio, no,
no, non ci rinuncio. Per niente. Garantito. Sicuro.
Al bagno Nettuno c’è sempre Lisa, la figlia dei gestori, che fa impazzire
tutti con quel bikini succinto e quel sedere tondo. Secondo me la tariffa
dell’ombrellone, delle sedie a sdraio, dei lettini, comprende anche quella
visione.
Anto e Roby arrivano tardi, verso le undici e mezza, hanno trovato traffico, ma eccole belle e fresche. Roby è cambiata, ora porta gli occhiali, mi
sembra un po’ sciupata. O forse me la ricordavo male io. O troppo bene.
Anto mi tampina come un’ossessa, è incredibile, mi sta appiccicata come
un francobollo, non so perché ma mi punta come un pistolero al tiro a
VA BEH!
83
segno. Porta un bikini abbondante, e d’altronde con le sue cose è già tanto
che sia venuta. Me lo dice mentre passeggiamo io e lei in attesa che gli altri
arrivino sotto l’ombrellone con i panini del pranzo.
È chiaro, l’Anto vuole mettersi con me, ormai non ci sono più dubbi,
sfumature, incomprensioni. E io sono nella stessa situazione creatasi con
Françoise. L’Anto mi piace ancora di più, le voglio bene, ci sto bene, ma
non sono sicuro, o forse ho sempre nel fondo del cuore e dell’anima, lei, la
Titti, con il suo caschetto, con le sue tettine, con il suo sorriso. Ora come ora
non so che pesci pigliare. Va beh, pensiamo a goderci questa domenica al
mare!
17 luglio
Mi sveglio sudato e appiccicaticcio, la finestra è ancora aperta ed entra
una piacevolissima brezza. Guardo lo Swatch, sono le nove e mezza. Per
fortuna la finestra del monolocale guarda a ovest, per cui la mattina il sole
non batte e si riesce a respirare. Va beh, poi però arriva la sera e il sole ci
muore lì e allora diventa un forno. Davvero un forno.
Mi alzo asciugandomi la fronte. Penso che farò una doccia alla svelta, nel
loculo, sono troppo sudato. Odio fare la doccia appena sveglio. Mi spossa,
mi rende imbronciato. Però, cazzo, meglio spossato e imbronciato che puzzolente.
Esco dal loculo in mutande e mi preparo la colazione. Caffelatte e due
cannoncini alla crema, di quelli da leccarsi i baffi. Oggi non ho programmi,
non ho mete. Comprerò i libri per l’esame di settembre. Mi porto avanti.
Ormai programmo le cose come non avevo fatto mai. Almeno all’Università. Domani uscirò con Anto, lei continua a tampinarmi, devo decidermi. Sì
o no. Prendere o mollare. Mollare una gran gnocca…
19 luglio
Ho detto no. Ve beh, ho detto no a un rapporto da morosi. Almeno per
ora. L’Anto ha capito, per ora continueremo a vederci, poi si vedrà. È stato
questo l’esito del conclave nel quale ci siamo chiusi ieri sera nel suo
appartamentino. Ventilatori a palla, due per l’esattezza, camicetta Nike, bermuda Lotto, pedule senza marca, io; canottierina blu con scritte bianche,
pantaloncini da ciclista e ciabatte bianche, lei. Questo il panorama della
situazione. Panorama che è rimasto tale anche dopo che lei mi ha baciato,
sulla bocca, per tanti minuti. Un bacio lunghissimo.
Anto è cambiata da questa primavera, allora era più sfuggente, più rigida,
magari più volgare, più concreta. Ora è più romantica, più tranquilla, più
84
Davide Continati
alla mano, più semplice. O forse sono io che prima la vedevo su un piedistallo, poi l’ho vista più agganciabile, meno mitica, più… umana. Va beh, umana, insomma, sì, più umana, non mi viene altro.
Le ho detto che non voglio attaccarmi a lei come un fidanzato, non mi
sento pronto, la Titti è sempre dietro le mie spalle, cazzo (no, questo non l’ho
detto, l’ho solo pensato, va beh, a volte meglio pensarle solo alcune cose…),
non riesco ancora a superarla. Però ti voglio bene, Anto, sei sempre stata il
mio mito, lo sai. E giù sviolinate.
Non se l’è presa, non so se perché ma se lo aspettava o forse non gliene
frega granché. Magari le piace di più così. Magari preferisce avere uno come
me che non le rompe le palle più di tanto. Magari meglio avere uno così e
usarlo quando serve. Insomma, alla fine la cosa è andata bene a tutti e due.
Lei mi ha ribaciato, stavolta dieci/dodici secondi, non di più, e poi basta.
Oddio, basta… basta coccole. Siamo passati al sodo.
Morale, non aveva le mutandine sotto i pantaloncini da ciclista e così ho
passato una bella serata. Senza che lei sia la mia morosa. Vado a letto con
un’amica, bella, affascinante, che mi vuole bene, che è brava all’Università,
che non rompe le palle, che ha un bell’appartamento.
Abbiamo scopato per un bel po’. Ma non siamo fidanzati.
21 luglio
Mi è venuta voglia di montagna, però non so con chi andarci. Mi piacerebbe andare verso le Dolomiti, là dove si mangiano i canederli, dove lo
speck è favoloso, dove il sole tramonta dietro i monti, dove alla sera se non
hai un pullover batti i denti. Purtroppo, invece, ancora mare, ancora carne
arrostita, tante belle tette al vento, puzza di salsedine, puzza di petrolio, puzza di olio canforato, puzza di abbronzanti costosissimi protezione 3 o 4 o 5 o
checazzoneso.
Anto è distesa da almeno tre ore sul lettino vicino al mio. Non dico che sia
immobile da tre ore, no, va beh, sarebbe un’esagerazione, però da parecchio tempo si sta crogiolando al solleone.
Siamo soli stavolta, i tre amiconi ci raggiungeranno per l’ora di cena,
perché poi loro andranno nelle discoteche della riviera, a tampinare, a provarci con tutte quelle che li guarderanno bramose, va beh, così si illudono
loro.
Io e l’Anto dopo cena torneremo in città, lei verrà a dormire da me,
magari domattina faremo quelle belle colazioni abbondanti che riconciliano
con la vita, insomma un weekend con lei vale anche questo.
Oggi lei nemmeno ha pranzato, si è solo cibata di quelle insalate miste
VA BEH!
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che fanno qua, dietro al barettino della spiaggia, tanti Euro, tanta erba e
poca sostanza. Ma vuole dimagrire. Va beh, dimagrisci, fatti del male, le ho
detto, mentre spolveravo tre piadine una dietro l’altra. Stasera devo farla
mangiare, non può certo reggere così. Mi accorgo che ormai ragiono come
se fosse davvero la mia morosa, invece non lo è, è un’amica carissima,
specialissima, fantasticissima, mi viene anche buonissima, togliendo la u,
però…
Sto bene con lei, ma la Titti ancora non la posso dimenticare, almeno dal
punto di vista emotivo alberga dentro di me e fa la guardia al mio cuore
come un cerbero. Ma passerà, deve passare, allora forse l’Anto diventerà la
mia ragazza. Ufficialmente.
In questo momento si gira verso di me, mi sorride, è troppo bella. Ricambio il sorriso e la scruto dietro i miei occhialini da sole.
25 luglio
Il cazzeggio è un arte. Ne sono convintissimo e io sono il Michelangelo del
cazzeggio, il Raffaello del non fare nulla e far credere agli altri che ho fatto. O
forse sono solo un povero studentello che cerca di prendere una Laurea per
fare contenti i genitori, una Laurea della quale gliene frega meno di niente,
che studia quando gli pare, che comunque sa superare gli esami, che cazzeggia
volentieri insomma.
Va beh, certo, la Laurea la prenderò, ormai lo hanno capito tutti, magari
a trent’anni senza nemmeno tanti festeggiamenti. Dico questo perché oggi è
stato un cazzeggiare continuo, dalla sveglia alla colazione, al giretto in centro
a vedere le scollature delle gnocche in versione estiva, al pranzo comprato
dal salumiere sotto i portici e consumato sul letto, al riposino (ero stanco…)
verso le due del pomeriggio, all’ora di nuoto in piscina da solo, alla cena
preparata in due minuti due con tonno e fagioli in scatola bianchi di Spagna
con prezzemolo e aglio, ché tanto stasera non devo infilare la lingua in bocca
a nessuna.
E ora, a mezzanotte e mezza, sono tuttora sdraiato sul letto, finestra aperta perché almeno entri un po’ di fresco, in attesa che mi pigli il sonno. Domani sarà un altro giorno. Forse un altro giorno di cazzeggiamento.
28 luglio
Stamattina l’Anto era furibonda. Mi ha chiamato verso mezzogiorno, mentre
ero in giro con Gigetto a fare shopping in un centro commerciale vicino a
casa mia. ‘Sono incazzata’ mi fa ‘mi hanno rigato la macchina, stanotte,
quei bastardi.’ Non posso che capire la sua rabbia, è ovvio.
86
Davide Continati
In città questi stronzi girano impuniti. Anche al Gionni una volta hanno
fatto un segno sulla sua vecchia Panda. Ora, dico, tra tante belle macchine
che ci sono in giro, cosa cacchio andate a rigare una Panda. Ma rigate una
BMW, che ne so, una Mercedes, ma una Panda, no dai… C’è molta più
soddisfazione così, piuttosto che rigare un vecchio catorcio, perché poi la
Panda del Gionni, oltre che vecchia, è un emerito rottame.
Dopo qualche minuto di sfogo, l’Anto giunge a miti consigli. La vedrò
stasera, andremo da un sua amica per una festa di compleanno. Spero
almeno che sia all’aperto altrimenti ci sciogliamo. Fa un caldo terrificante.
Lo dico a Gigetto mentre acquistiamo un paio di bermuda a testa.
29 luglio
Mi sa che oggi dormirò fino a tardi. Sono le quattro e un quarto quando
infilo la chiave nella toppa di casa mia e rientro per coricarmi vicino a Gigetto.
La festa di compleanno di tale Claudia è durata un’eternità. Va beh, lo
ammetto, le feste di compleanno mi hanno sempre fatto venire il latte alle
ginocchia. Lo ammetto, è così. Sarò fatto male io, sarò un po’ strano io, ma
in quelle occasioni il latte mi è sempre sgorgato a fiotti dalle rotule. Non che
ieri sera non mi sia divertito, questo no, ammetto che non è stata una serata
malvagia. E poi avere al mio fianco la signora Antonella, ragazzi, ammettiamolo, è un bell’andare, camicetta scollata con mezze tette, diciamo tettine
va’, fuori, pantaloni aderenti che mostrano un sedere niente male.
Eppure l’Anto non è la mia ragazza, eppure mi piace, stiamo bene insieme, non stiamo insieme ufficialmente, ma lo siamo di fatto. Ma quando ci
chiedono se stiamo insieme diciamo di no. Siamo forse immaturi? Siamo
forse furbi? Siamo forse schiavi solo del sesso che facciamo spesso? Siamo
forse solo amiconi? Non ho mai creduto all’amicizia tra uomo e donna, va
beh, dai, lo sappiamo, uno dei due avrà sempre qualcosa di diverso cui
pensare. Però con l’Anto alla fine siamo amici. Ora mi vengono tanti dubbi.
Forse siamo fidanzati in pectore (ora cito anche latinismi), o forse sono io
che con il fantasma della Titti inculcato nel mio subconscio non riesco ancora a dire sto con un’altra, per quanto bella, per quanto splendida, per quanto intelligente, per quanto sensuale, come l’Anto.
Questo compleanno della Claudia, che io nemmeno avevo mai sentito
nominare, ha seguito la solita routine: si giunge a casa del festeggiato con il
regalo profumatamente pagato (da me e dall’Anto una trousse firmata pagata fior di Eurazzi, ma tant’è…), si bacia la festeggiata e le si fanno gli
auguri, si cerca di capire se gli altri invitati sono di tuo gradimento o se c’è
quello che ti rovina la serata, ci si siede a tavola mangiando come dei dispe-
VA BEH!
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rati fino al momento della torta, applauso con fetta di torta grande e ri-bacio
alla festeggiata, poi o si gioca con i giochini da tavolo, o si va in giro, o si resta
a parlare per delle ore di pettegolezzi o del più e del meno o di ovvietà.
Tutto normale anche stavolta. Almeno, però, il villone di tale Claudia
valeva il prezzo della trousse, cioè del biglietto, con un fresco giardino sul
retro dove era stato anche sistemato un gazebo. Comunque, dopo siamo
andati in un posto in collina dove si balla sui tavoli, dove alla fine hai il
sudore che ti cola ovunque. Ho ballato anch’io, anche se non mi piace. Ma
l’Anto mi ha convinto. Alle tre e mezza l’ho riportata a casa, era un po’
sfatta, ero un po’ sfatto, poi ho piegato verso casa, così poi domani mangerò
i manicaretti della mamma. E ogni tanto i manicaretti della mamma ci vogliono.
31 luglio
Mare anche oggi. Mare anche al martedì, che poi d’estate i giorni sono
tutti uguali, tutti dello stesso tipo. Ieri ho anche studiato e mi sento meglio,
sono più in pace con me stesso. L’Anto mi ha convinto ad andare al mare
ieri sera, io non volevo onestamente, ma poi mi ha convinto. Va sempre a
finire così. Non riesco a domarla questa ragazza, quasi comanda lei. E meno
male che non è la mia fidanzata.
Al Nettuno tira una bella arietta questo pomeriggio, i ragazzini fanno partite a beach volley da farmi venire la voglia di buttarmici dentro. Alla fine
invece ci buttiamo in acqua, io e l’Anto, e facciamo un bagno terrificante,
lungo e terrificante… Comincio ad amare questa ragazza, forse davvero
dovrei diventare il suo ragazzo. All’Università, cazzo, l’ho sempre sognata,
l’ho tampinata a vuoto per ore e ore di lezione, adesso mi è venuta lei a
cercare, e non voglio mettermi insieme perché la Titti sovrasta i miei pensieri.
Il viaggio di ritorno dal mare è piacevole, parliamo e scherziamo, abbiamo anche fatto una bella mangiata. Puzziamo di mare marcio, non so come
dire, lei è in ciabatte, io guido tranquillo e forse felice. Forse questa è davvero la felicità? Va beh, non voglio pensarci, non devo pensarci, devo solo
continuare a vivere così, forse con l’Anto ho ritrovato la voglia di divertirmi.
Nel mio loculo c’è un caldo pazzesco, quando rientriamo verso le undici.
Anto spalanca le finestre, ci affacciamo nel cortiletto dietro casa. ‘Sei rosso
come un’aragosta’ fa lei. ‘Per forza’ faccio io ‘mi vuoi rovinare, tu e il tuo
sole maledetto.’
Mi cosparge di crema doposole o come cazzo si chiama e comincia a
sbaciucchiarmi sulla schiena. So già come finirà questo doposole. So già che
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Davide Continati
finirà a letto, rossi come le aragoste, io e l’Anto. E d’altronde non facciamo
nulla di male se ci vogliamo bene senza essere fidanzati. Glielo dico, lei ride,
anzi sghignazza proprio per un bel po’. Le do una pacca sulla spalla, lei ride
ancora, l’atterro sul letto, ci baciamo, diventa tutto forsennato, il bacio, il
frugarsi, lo spogliarsi, il penetrarsi. Bellissimo, mi sento bene. Il campanile
della chiesa vicina suona dodici rintocchi, mentre noi ci accoppiamo come
delle aragoste. Rosse. Ma poi, le aragoste si accoppieranno così? Non credo
e me ne frego.
Suona il Nokia, mentre ancora i nostri corpi ne fanno uno solo. ‘Non
rispondere’ sussurra l’Anto. ‘E chi ci pensa’ rispondo io. Lei sorride.
Restiamo vicini sul mio letto per mezz’ora senza fiatare, ormai è una consuetudine, zitti a guardare il soffitto, ogni tanto abbracciandoci. Mi passano
tanti pensieri nella mente che non so nemmeno contarli.
Il telefono! Mi sono dimenticato della telefonata. Scendo dal letto, guardo
il display, era Alex, avrà avuto qualche cazzata da dirmi perché non sapeva
cosa fare. Lo richiamerò domattina, ora voglio sentire ancora il corpo caldo
dell’Anto. Forse non ho avuto abbastanza caldo oggi? Ore di sole, ore di
macchina, questo monolocale che sembra un microonde, il corpo a corpo
con l’Anto, ancora lei adesso. Tra un po’ diventerò rossissimo.
Risuona il Nokia. ‘Basta, spegnilo’ fa l’Anto. È ancora Alex, stavolta ovviamente non posso non rispondere. ‘Dove sei?’ fa lui con una voce per
niente rassicurante. ‘In città, perché?’ faccio io. ‘La Titti è all’ospedale’ mi fa.
‘Cosa?’. ‘È all’ospedale, mi ripete, ha avuto un incidente un’ora fa, è al
pronto soccorso, mi sa che non è una cosa da poco. L’ha saputo il Gionni.’
Rimango di pietra, non riesco quasi a proferire parola, ringrazio Alex e mi
accingo a vestirmi per raggiungere l’ospedale. L’Anto verrà con me.
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VA BEH!
8° CAPITOLO
1 agosto
È mezzanotte e tre quarti quando varco il pronto soccorso dell’ospedale e
cerco notizie della Titti. Vedo sua madre che piange seduta davanti a una
porta, poi ci sono altri due ragazzi che non conosco. Mi avvicino, lei mi vede
e mi abbraccia come se avesse visto la Madonna. Non mi aveva mai abbracciato nemmeno quando ero il ragazzo di sua figlia!
‘Come sta?’ le chiedo. ‘Non lo so, mi fa lei, era senza conoscenza quando
l’hanno portata qui.’ Cerco di capire cosa è successo, come si è svolto l’incidente. ‘Valeria era in moto con Luca sui viali della circonvallazione, non so
forse erano andati a cena fuori, mi racconta la mamma, e a un certo punto
una macchina da una via laterale è sbucata all’improvviso e li ha centrati.
Avevano il casco, ma sono rimasti a terra tutti e due. Due passanti hanno
chiamato subito l’ambulanza, per fortuna, e li hanno portati qui.’
Riprende a piangere, si siede sulla panca. Io resto muto, poi mi siedo
anch’io. Anto è rimasta fuori dal pronto soccorso, non se l’è sentita di entrare, appena saprò qualcosa di più uscirò ad avvertirla.
Attendiamo ansiosi fuori dalla porta, gli altri due ragazzi si avvicinano
poco dopo e mi chiedono se sono un amico di Luca. Spiego chi sono. Loro
sì, sono amici di Luca e conoscono anche la Titti.
I minuti scorrono lentissimi, terrificanti. Ho addosso una tensione che non
mi ricordo di avere mai provato. Non so perché, ma solo sentire quel nome,
al telefono con Alex, mi ha fatto andare in fibrillazione. Sono bloccato, ho lo
stomaco che si rivolta, ho quasi la nausea. E pensare che fino a un’ora fa
stavo scopando con un’altra e mi sentivo così felice.
È ormai l’una e venti quando un medico del pronto soccorso si avvicina
alla mamma della Titti. ‘È stabile’ dice ‘ma ha perso conoscenza, ora la
stiamo trasferendo in terapia intensiva.’ La mamma della Titti scoppia a
piangere. È grave, inutile nasconderselo. Mi lascio cadere di peso su una
sedia lì vicino.
Il medico sembra discretamente fiducioso, aggiunge che il danno potrebbe anche non essere così irrecuperabile. I due amici di Luca chiedono di lui.
90
Davide Continati
‘Sta bene, dice il medico, è decisamente sotto choc, ma a parte una frattura
al braccio, non ha niente di serio.’
Ora, io dico. Non voglio dire che si meritava di più lui, va beh, questo no,
ma porca puttana, ma perché proprio la Titti? Solo la Titti? Sospiro e mi
sfrego la faccia con le due mani. La Titti è ancora dentro di me, inutile
nasconderselo, non sarei corso qui subito, non sentirei questa rabbia che ho
dentro, non sarei così agitato, scosso, sbattuto, insomma non me ne fregherebbe niente se lei non significasse ancora qualcosa per me.
La mamma della Titti chiede di vedere la figlia. Le promettono che domattina la potrà vedere. Non ho il coraggio di fare la stessa domanda. Ma
prima o poi dovrò farlo anch’io. Esco per avvertire l’Anto. Chissà come sarà
in pensiero anche lei.
2 agosto
Pedalo a tutta birra verso la cima della collina, ho la maglietta imperlata di
sudore, anche se sono solo le otto e un quarto di mattina. Ma l’estate è
caldissima e i quindici, venti, venticinque chilometri che ho già nelle gambe
si fanno sentire. Pedalo per sfogare la tensione. La Titti è in coma, ha un
ematoma al cervello, cazzo, al cervello. I medici la tengono in coma
farmacologico, d’accordo, ma è in coma, cazzo!
Ieri non ho potuto vederla, solo sua madre ha avuto il permesso di avvicinarla; non ho voluto sapere altro. Oggi tornerò all’ospedale per capire
come vanno le cose. Intanto pedalo a tutta birra verso la cima. Arrivo su, poi
prendo una strada laterale sterrata e mi getto a capofitto verso un bellissimo
boschetto. Dopo poco riprendo la salita. Ho le gambe dure, i muscoli pieni
di acido lattico, mi pare che si dica così, la testa che a volte sembra scoppiarmi, ma non mollo, insisto, voglio essere stanco ancora di più, voglio insistere
su questi pedali. Pedalo a tutta birra verso la cima della collina, dentro al
bosco.
3 agosto
Non ci sono novità, la mia giornata gira attorno all’ospedale, ma non ci
sono novità. I medici restano fiduciosi, ma la Titti è ancora in coma, seppure
indotto, come dicono loro. C’è qualche miglioramento, forse, me lo sento,
ma non me l’hanno detto. Lo spero davvero. Luca sta meglio, ha un braccio
ingessato, ma fra un paio di giorni tornerà a casa. Provo sentimenti contrastanti verso di lui, ma li tengo per me.
Oggi sono stato un po’ in giro con l’Anto, lei cerca di starmi vicina, mi
chiede di non pensarci, ma è difficile, mi bacia, mi coccola, è bravissima,
VA BEH!
91
davvero, sembra quasi un’altra persona da quella che mi ero immaginata
anni fa quando la tampinavo in Facoltà. È davvero innamorata di me, ne
sono certo, e forse meriterebbe anche più attenzione da parte mia. Anche in
un momento come questo.
5 agosto
Gioia, gioia, gioia, è uscita dal coma! Mi ha telefonato la mamma della
Titti per dirmelo, stamattina alle nove, mentre già mi giravo e rigiravo nel
mio letto del monolocale caldo come un forno a microonde.
Appena spento il telefonino, ho esultato come Marco Tardelli quando
infilò ad Harald Schumacher il 2-0 nella finale dei Mondiali del 1982. Ho
fatto un verso terrificante, qualcuno nel condominio si sarà anche spaventato, ma che cazzo me ne frega. Va beh, riceverò qualche parolaccia, ma la
Titti si è risvegliata e sta meglio e tutto questo vale un verso e una esultanza
alla Tardelli.
Mi vesto in tutta fretta. Andrò di corsa all’ospedale. Prima mi concedo un
caffellatte con un bel cannoncino alla crema. Sono giorni che non faccio
colazione perché non mi va. Ma oggi mi va. Metto su la moca e la lattiera.
Quando arrivo nel reparto terapia intensiva trovo la mamma della Titti e
un’altra signora, che scopro essere la zia della Titti. Cazzo, non me l’ha mai
presentata. Mi spiegano che la Titti si è risvegliata, che l’ematoma sta
riassorbendosi, insomma la terapia ha funzionato, grazie al cielo, grazie a
Dio e a tutti i Santi dell’universo.
Chiedo di vederla, me lo proibiscono, ma mi promettono che fra qualche
giorno lo potrò fare. Ora solo la mamma la può vedere, un paio di volte al
giorno. Lascio l’ospedale felice come una Pasqua. Oggi mi sento decisamente rilassato, no, rilassato no, però molto più sicuro di me stesso e molto
più felice. Devo avvertire l’Anto e devo scusarmi se l’ho un po’ trascurata in
questi giorni di stress. Se lo merita.
6 agosto
Onestamente mi chiedo se è normale che ami una ragazza che mi ha
lasciato qualche mese fa e che poi in realtà ne frequento un’altra che non è
la mia ragazza però la scopo e ci sto bene insieme. Boh! Sono io che sono
strano o è il mondo che gira così? Difficile dirlo, io faccio fatica a trovare delle
risposte. Io amo la Titti e quello che le è successo mi ha ulteriormente convinto. Però lei mi ha lasciato e questo, obiettivamente, non è un particolare
da trascurare.
Morale della favola: meglio che la dimentichi, tanto non c’è nulla da fare,
92
Davide Continati
lo stavo già facendo, o almeno ci provavo, ma porca troia, questa va a fare
un incidente, mi va in coma, come si fa a non provare più niente per una
così? Che dubbi atroci. Mi mangio un cannoncino alla crema e faccio colazione. Spero un giorno di questi di poterla vedere, anche se magari sarebbe
meglio di no.
Raggiungo l’Anto verso le nove di una serata calda e appiccicaticcia. Mi
chiede della Titti. ‘Non so nulla di nuovo’ le dico. ‘Mi chiamerà sua madre
quando potrò vederla.’ ‘È meglio che non vai’ mi fa lei. ‘Sei gelosa?’ faccio
io. ‘Per niente, fa lei, quella ti ha mollato e non ti riprende più. È meglio se
non vai perché ti fai del male. Meglio prendere un solo pugno nello stomaco
alla volta, credimi.’
Resto muto, credo che l’Anto abbia ragione, però devo andare all’ospedale, devo vederla. Non voglio che la serata prenda questo tono, rovinerei
tutto. E infatti ce ne andiamo a mangiare un gelato e a cazzeggiare in centro.
7 agosto
È la seconda doccia che faccio oggi e non è tanto il fatto di fare la doccia
in sé che mi rompe l’anima, quanto che farla qui nel loculo diventa una
sofferenza immane. Va beh, ci sono abituato, è vero, non lo nego. Quante
docce avrò fatto là dentro nella mia vita universitaria? Faccio un conto mentale approssimativo, ma non riesco a venirne a capo. E d’altronde mica
faccio matematica o economia, faccio sociologia! Alla fine arrivo a circa
quattrocentocinquanta docce, forse per difetto. Guardo per aria, disteso sul
mio letto sopra il lenzuolo, le mani dietro la nuca, walkman acceso con gli
auricolari nelle orecchie. Accanto a me, novità dell’ultima ora, un libro aperto con le pagine rivolte verso il lenzuolo. E non è un libro qualunque. Come
direbbe il Trap, non leggo un libro qualunque per fare del qualunquismo.
Rido tra me e me. Va beh, è una cazzata, lo so, ma a volte rido più per delle
cazzate che per delle cose che fanno ridere veramente.
No, il libro è universitario è il manuale, udite udite lor signori, di psicologia
sociale, una materia che solo a sentirla nominare mi muove stomaco, cistifellea,
piloro e intestino crasso. Cosa c’entri la psicologia sociale con la vita è tutto
da scoprire. E infatti sto cercando di scoprirlo leggendo la prime pagine in
pieno agosto, da solo, in città, reduce da due docce, senza nessuna voglia.
Che Kurt Lewin venisse a far parte della mia vita è francamente una
sorpresa, o forse un incubo. Fatto sta che è entrato nella mia vita e non è
poco. Che poi anche se stava fuori dalle palle era anche meglio, anzi mi
avrebbe fatto piacere. So che potrei fare l’esame a settembre, non so ancora
la data, ora la Facoltà è chiusa per ferie, se ne riparla dopo Ferragosto.
VA BEH!
93
Sono sempre in attesa di avere notizie della Titti, sono sempre in attesa di
potere andare a trovarla. Purtroppo notizie nuove non ne ho. Stasera chiamerò sua madre.
9 agosto
La Titti sta meglio, comincia anche a dire qualcosa, si sta riprendendo
bene, sono strafelice. Ancora nessuno può entrare a vederla tranne sua
madre e questo mi fa venire una rabbia pazzesca. Comincio a credere che
lei non voglia vedermi e che l’Anto, alla fine, abbia perfettamente ragione.
L’altra sera sua madre era felice di sentirmi, di darmi notizie. Ma forse la Titti
non vuole davvero vedermi. Comincio a entrare nella solita paranoia.
Attraverso la piazzetta alberata che porta alla casa dell’Anto. Oggi c’è
poco traffico in città, ormai stiamo per entrare nella settimana più deserta
dell’anno, c’è poco da fare. Anto è in casa con sua madre, non ho mai
capito cosa facciano i suoi genitori, fatto sta che sua madre mi saluta con un
sorriso a cinquantasette denti, però sembra sincero e non forzato. Anto mi
offre un gelato, lo divoro in pochi minuti, mentre mi spiega che ormai è
sicura di poter fare l’ultimo esame a settembre e quindi di potersi dedicare
alla tesi da ottobre. Sono contento, anche perché lei se lo merita davvero.
‘Ci prendiamo una vacanza di qualche giorno?’ mi fa lei ‘è Ferragosto,
mica staremo qua a poltrire o a studiare, eh?’ Mi sorride, quel suo sorriso
davvero micidiale che mi fece andare in crisi da ‘matricolina’.
‘Ho speso milioni di Euro a Parigi ‘faccio io ‘sono a secco, al verde, cara
la mia Anto. E comunque un paio di giorni al mare li facciamo, tranquilla,
magari già domenica!’
‘Senti’ fa lei ‘a me non va che aspetti a casa il momento in cui ti chiamano
per andare all’ospedale a vedere finalmente la Titti. Certo sono contenta
che si stia riprendendo, ma non mi va che continui a pensare esclusivamente a questo.’
Forse ha ragione l’Anto, anzi sono davvero convinto che ha ragione,
però è più forte di me, è molto più forte di me. Ho voglia di vederla, di
vederla stare bene, di vedere ancora quel sorriso che mi manca tanto. Questo incidente, bene o male, forse più male che bene, mi ha riportato indietro
di qualche mese e purtroppo mi ha fatto capire quanto sia ancora importante la Titti nella mia vita, anche se mi ha lasciato, anche se ha fatto la stronza,
anche se è una stronza.
Dico tutto questo all’Anto. Mi dà dell’illuso a vita. Forse è vero. Le dico
anche questo. Le dico che però con lei sto bene, che forse potrei anche
considerarla davvero la mia ragazza. L’Anto sorride, poi va in cucina, sciac-
94
Davide Continati
qua un bicchiere e ci versa della Coca Cola. ‘Ne vuoi?’ mi fa. ‘Volentieri’
faccio io. Poco dopo usciamo nel marasma vuoto della città agostana.
11 agosto
Compleanno del Gionni. Per cui, visto il caldo, visto che l’Anto, per ripicca, passerà il weekend in casa, mandandomi clamorosamente in bianco in
tutti i sensi – va beh, le passerà -, visto che la Titti migliora di giorno in giorno
e che forse la prossima settimana la vedrò, visto che la serata calda di metà
agosto invoglia a cercare cose fresche da fare, visto che non so che cazzo
fare senza menarmela inutilmente per tutto questo benedetto sabato, visto
tutto ciò, accetto la proposta del Gionni di una nottata on the road, otto ore
vissute a casaccio in giro per la provincia.
Otto ore, è bene dirlo ai nostri venticinque lettori (cito Manzoni perché
questo è un bel prendersi per il culo), che iniziano felici alle ore ventidue di
questo sabato e devono concludersi inesorabilmente e in maniera definitiva
alle sei di domattina.
Preparazione: rasatura pressoché perfetta che non mettevo in pratica da
anni. Preparazione atto secondo: doccia inesorabile nel loculo, con nuovo
doccia schiuma inaugurato per l’occasione. Preparazione atto terzo: sistemazione del cespuglio di capelli in maniera gellica, cioè usando abbondantemente il tubetto di gel fregato al povero fratello Gigetto. Per inciso, io non
uso mai il gel, non mi piace, sì forse non sto neanche male con una bella
passata di questa gelatina, ma in generale non mi va granché. Stasera però
vale tutto e il contrario di tutto e allora, viva il gel! Preparazione, atto quarto:
scelta senza riserve del look, parola ormai usata, abusata, scartata, riesumata
e checazzoneso, ma a me piace ancora. Preparazione atto quinto: vestizione
con jeans azzurro chiaro firmatissimo, polo firmatissima, calze di cotone non
firmatissime, scarpe marroncino chiaro (regalo della mamma qualche mese
fa non so per quale motivo) che fanno pendant con… con che cosa? Boh!
Va beh, fanno pendant. Punto.
L’appuntamento è per le dieci precise da Pablo’s. Stavolta sono venuti
loro in città e da qui partiamo. A fare cosa, io, il festeggiato Gionni, Alex e
Grillo, non lo so. Ma il bello è proprio questo. Esco di casa verso le nove e
mezza, mi dirigo verso Pablo’s. Sicuro, va beh, è scontato, di divertirmi.
12 agosto
Sono le sei e un quarto del mattino. Infilo la chiave nella toppa della porta
del mio monolocale del cazzo. Ho sonno, non lo nascondo, adesso mi sta
scendendo una forma di catalessi, sbadiglio mentre entro in casa, mi tolgo la
VA BEH!
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polo, poi i jeans, poi le calze, resto con gli slip di Armani. Mi fiondo sul letto,
mi infilo la maglietta bianca, sono pronto per dormire, oggi mi alzerò tardissimo. Il sole ha già fatto capolino in questa domenica che precede il Ferragosto. Spengo il Nokia, per evitare telefonate che rompono.
È stata una notte bellissima, ci siamo davvero divertiti, sì, tanto, va beh,
questi amici sono super, l’ho sempre pensato. Davvero. Anche quando ero
con la Titti lo pensavo e mi mancavano un po’. Anche ora che frequento
l’Anto. Già, l’Anto, forse un po’ mi è mancata lei stasera, stanotte, stamattina. Ripenso alle otto ore mentre mi addormento.
Ore ventidue: spedizione Pablo’s, si mangia pizza coca cola si sparano
cazzate tipo ‘Qual è la prima parola che dice un vulcano appena nato?’
‘Magma!’, si mangia si ride si parla di donne si parla di calcio si parla di sesso
si guarda la fauna del locale si fanno dei rutti sottovoce si paga tutti per il
Gionni si esce.
Ore ventitrè: spedizione portici. Si passeggia si notano i culi delle ragazze
si parla ad alta voce si guardano i barboni si osservano i commensali dei
tavolini dei bar del centro si puntano le mezze tette che escono dalle scollature agostane delle giovani rimaste in città.
Ore ventiquattro: spedizione sala giochi. Abbiamo la nostra età, ma la
sala giochi è la sala giochi, quella in centro, quella che il sabato notte sta
aperta fino all’una. Ed eccoci, noi quattro, a giocarci la serata a bigliardino,
a calcio balilla insomma, io e Alex contro il Grillo e il festeggiato. E poi i
video giochi, va beh, quelli sono stati una delle più grandi invenzioni del
millennio scorso.
Ore una: spedizione Matrix. Il Matrix è un discopub all’aperto, va solo
d’estate, c’è un grande spazio per ballare, per tampinare, per bere, per divertirsi, per chiacchierare. Beviamo, brindiamo, guardiamo altri culi, usciamo.
Ore due: spedizione discoteca. D’estate la Cosmo è unica nel suo genere:
è al chiuso con l’aria condizionata, anche se l’arredamento estivo sostituisce
completamente quello invernale. Entriamo a prezzo ridottissimo, ci fanno
quasi un regalo, c’è poca gente, balliamo un po’, anzi ballano un po’, sudati
e appiccicaticci, mentre una bella morettina col caschetto e pantaloni
superaderenti verdini mi guarda insistentemente dal divanetto accanto. È
con un’amica. Non ho il coraggio di attaccare bottone, forse non ho nemmeno voglia, anche se me la farei volentieri, va beh, non qui dentro. La
riguardo, ci riguardiamo, è proprio carina. Usciamo mentre una sferzata di
aria fresca ci riporta alla macchina.
Ore tre: spedizione puttane. Lì, in periferia, ci sono 24 ore su 24, come un
distributore automatico. Non scoperei mai con una puttana, nemmeno gra-
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Davide Continati
tis. Ammetto che la carne che viene mostrata lì nei cavalcavia a volte è
stimolante, ma non voglio pensare a quello che c’è sotto, dentro, dietro,
davanti, nel buio. Il Gionni, il festeggiato, ha un buono-puttana che gli mettiamo a disposizione. Non scoperà, non lo farà nemmeno lui, si farà solo
masturbare, quello sì, accetta. Sceglie una biondina, forse russa, o almeno
con la faccia da russa, carina, va beh, lo ammetto. Spariscono in un viottolo
lì vicino, mentre noi ce la raccontiamo e ce la ridiamo seduti sul ciglio della
strada. Dopo cinque minuti d’orologio rieccoli. Tutto fatto. Già fatto?
Ore quattro: spedizione autostrada. Di notte l’autostrada è affascinante,
con quelle luci anonime ma che dentro hanno una vita, una storia, un qualcosa di non tuo. Ci immettiamo e viaggiamo felici, autoradio a palla, per
venti minuti, ci fermiamo a un autogrill, si va a pisciare contro una pianta
tutto quello che si è bevuto, poi ci si fa una cocacola alla spina e si esce. Al
prossimo casello si ritorna indietro. Con Max Pezzali, un mito, a farci da
guida.
Ore cinque: spedizione colazione. Si sta per concludere la nottata on the
road che facciamo una volta all’anno in occasione del compleanno di uno
dei quattro. Il brutto di questa nottata è che si spende una cifra esagerata.
Ma, va beh, ne vale la pena, queste notti valgono, come si dice, il prezzo del
biglietto. Salato. Non è per niente facile trovare un bar aperto alle cinque del
mattino di una domenica di agosto. I locali notturni hanno già chiuso, quelli
diurni prima delle sette difficilmente aprono. Alex indica il Mc in zona stazione, quello che fa orario continuato. Facciamo colazione lì, ricordando le
cose più belle della nottata, i culi più belli, le tette più degne, la sega del
Gionni, la morettina della Cosmo, la pisciata dell’autogrill, la colazione al Mc
alle cinque e mezza.
Alle sei precise, come da copione, siamo al punto di partenza, davanti a
Pablo’s. Si va a nanna, io sarò il primo ad andarci, loro dovranno tornare al
paese. Sono le sei e trentacinque quando sprofondo nel sonno del trionfatore.
14 agosto
Ho promesso all’Anto di andare qualche giorno con lei al mare. Io odio
andare al mare a Ferragosto, odio il casino delle spiagge, odio la puzza di
carne abbrustolita, odio la puzza di oli cinesi, odio la puzza dell’acqua in cui
ci pisciano dentro bambini e non bambini e dove tante industrie riversano
litri di schifezze tossiche.
Però devo andare con l’Anto, lei ha la mania dell’abbronzatura, l’ho anche trascurata in questi giorni, quindi non posso evitare tutto questo. Abbia-
VA BEH!
97
mo trovato per caso un alloggio presso un suo zio che gestisce una piccola
pensioncina, quella dove si fa tutto in famiglia, a partire dalla cucina, per
finire al lavaggio delle lenzuola.
Fatto sta che ci ha trovato una sistemazione dove di solito alloggiano i
camerieri e le cameriere, una stanza piccola, con due letti, il bagno esterno,
puzza di chiuso, un caldo terrificante, un’afa insopportabile sia che tu apra le
finestre, sia che tu le tenga chiuse. Ma per dieci eurazzi al giorno a cranio,
pensione completa, si può davvero accettare tutto. Certo, adesso, mi viene
quasi da pensare al mio albergo parigino che, d’accordo, era modesto, piccolo, ma molto meglio di questa ‘Pensione Rita’. Rita è la zia acquisita dell’Anto,
una donna magrissima, secca, di carnagione scura e non per l’abbronzatura, ma di una gentilezza squisita.
Va beh, insomma, sembrano le vacanze di una famiglia medio bassa
italiana, ma io di eurazzi non ne ho molti da spendere, visto che a Parigi mi
sono prosciugato e, a volte, anche i finanziamenti di papà sono insufficienti.
Dovrei trovarmi un lavoretto per recuperare un po’ di soldi, per rifarmi un
gruzzolo. Ci penserò appena potrò.
I fuochi artificiali a mezzanotte la vigilia del Ferragosto sono un classico
della nostra riviera e, pertanto, anche quest’anno non ci siamo fatti mancare
nulla, io e l’Anto. ‘Sono belli, ma preferivo quelli dell’anno scorso in Puglia’
mi fa lei. Li ha visti con il suo ex ragazzo. Me lo dice mentre siamo mano
nella mano sul lungomare e ci guardiamo in faccia prestando poca attenzione ai fuochi nel cielo. Stiamo insieme ormai, lo si è capito, alla fine ha vinto
lei, ha insistito, ha tenuto botta quando io non volevo, ci ha creduto, sto
cedendo. Non posso certo dire di essere scontento, forse sarò più tranquillo
anch’io e comunque non cambierà niente, perché, già prima di questa consapevolezza, ci comportavamo come due fidanzati. Più o meno. Va beh,
adesso posso dirlo a tutti. L’Anto non è più mia amica, è la mia ragazza.
Mangiamo un gelato nella megagelateria sul lungomare. È una sorta di
sentiero che ci porterà a dire che io sono il suo ragazzo e lei la mia ragazza.
Ci cucchiamo una coppa dell’Amore, un gigantesco mezzo chilo di gelato
con frutta varia. Buonissimo.
La bacio mentre attorno pullulano playboy, tipi rasati a zero, gruppi di
giovanissimi, ragazzine mezze nude, famiglie in vacanza, puttanone in
minigonna, camerieri che vanno a letto alle cinque del mattino, cuccatori
fallibili e infallibili, troione che passeggiano sul lungomare, fidanzatini mano
nella mano…
Torniamo nella nostra cameretta d’albergo, va beh, insomma, meglio
chiamarla alloggio perché camera d’albergo è un po’ troppo, quando sono
ormai le due e trequarti. Ci chiudiamo dentro come dei ladri, senza fare
98
Davide Continati
rumore, lì vicino i camerieri che domattina ci serviranno la colazione stanno
ronfando da un po’ e poveretti alle sei saranno già in piedi.
‘Certo’ dico all’Anto ‘fare il cameriere qui è un vero calcio nei coglioni. Ti
passa intorno un ben di Dio di divertimenti, discoteche, locali, mare e cheneso,
per non parlare di gnocca o di cazzo (a seconda dei gusti) e tu ti devi alzare
alle sei quando gli altri forse stanno andando a letto.’ Anto ride di gusto e,
già in mutande, mi trascina sul letto. Sghignazza. Mi bacia. Sghignazza. Mi
parla: non sono una cameriera. Sghignazza. Mi tocca. Sghignazza. Fa la
stupida. Sghignazza. Le dico qualcosa, ma non so cosa. Sghignazza. Mi
spoglio. Sghignazza. La penetro. Sghignazza. Scopiamo. Ansima. Eiaculo.
È la mia ragazza. Glielo dico. Mi bacia. Non sghignazza più.
18 agosto
Mi sveglio di soprassalto. Non mi succede mai. Va beh, ho un sonno
molto pesante e quindi per svegliarmi serve una cannonata. Ma mi sveglio
di soprassalto e mi siedo nel letto. Guardo l’orologio della mia vecchia stanza. Sono le sei e un quarto. Fa un caldo boia, forse per questo non riesco più
a dormire. Sono in un lago di sudore, devo aver sognato, anzi ho certamente sognato, ma non ricordo più cosa.
Mi alzo, vado in bagno al buio, per non svegliare Gigetto che dorme nel
letto accanto, placido e tranquillo. Piscio per lunghi secondi e torno nel mio
letto. Gigetto mi saluta e mi dà il buongiorno.
Finiamo per discutere di calcio mercato, di basket, di donne, dell’Anto
che lui non conosce ancora, dell’Ariosto che fra un mese lo riaccoglierà,
della mamma, del babbo, della nonna e via discorrendo. Sono le otto quando ci riaddormentiamo.
Tra qualche ora andrò a trovare la Titti all’ospedale. Ecco perché forse mi
sono svegliato di soprassalto.
Ho la pressione a mille quando varco il reparto di terapia intensiva dell’ospedale. Mi sembra che sia passato un secolo da quando sono corso qua
per vedere cos’era successo alla Titti. Chiedo in quale stanza si trova la mia
ex al primo infermiere che capita e arrivo davanti alla sua porta con un
batticuore tremendo. Va beh, se mi viene un infarto mi prenderanno in
tempo, spero!
La mamma della Titti è sorridente sulla porta, mi bacia, mi chiede come
sto. Quasi quasi è più espansiva adesso di quando ero il ragazzo di sua figlia.
Va beh, lasciamo perdere. Mi dice che potrò vederla solo per qualche minuto perché lei vuole così. Dico di sì con la testa, ma dentro ho un subbuglio
terribile. Non le parlo da quel giorno e non so nemmeno cosa le dirò e cosa
VA BEH!
99
mi dirà, mentre entro nella stanza illuminata dal sole del primo pomeriggio
agostano.
Titti è a letto, con le braccia infilzate da due flebo e un filo che le esce dal
pigiama; non so cosa sia, ma le sta proprio male. Lei mi guarda, mi saluta,
mi abbozza un sorriso, mi scruta dalla testa ai piedi, mentre io mi avvicino al
letto.
‘Possodarti un bacio’ faccio io. ‘Certo’ risponde lei. La bacio, mentre un
senso di nausea sale dal mio stomaco e tracima fino alla gola.
È magrissima. Le dico che ho sempre chiesto notizie di lei alla mamma. È
sciupata. Le chiedo dell’incidente, ma non si ricorda nulla. È spenta. Le
racconto dei miei esami all’Università. È pallidissima. Mi chiede di tener
duro e di insistere che mi laureerò presto. È scavata. Le chiedo quando
tornerà a casa. È opaca. Mi dice che a fine mese, se tutto procede, potrà
tornare a casa e che da un paio di giorni ha ripreso a camminare. È rigida.
Le chiedo di Luca e lei mi risponde che sta bene. È sintetica. Decido di
uscire, le prendo la mano senza alzarla per la flebo, gliela bacio, poi la bacio
sulla guancia. ‘Scappo’ le dico ‘ma vorrei venire a trovarti a casa.’ ‘Non so se
è la cosa migliore’ fa lei ‘vedrai che starò bene, te lo farò sapere.’ La saluto
mentre la nausea sta dirompendo nell’esofago.
Esco, saluto sua madre, scendo al piano di sotto, è urologia ma non me
ne frega un cazzo. Chiedo a un infermiere che sarà un quintale di peso dov’è
la toilette, me la indica, corro là dentro, mi chiudo dentro, mi inginocchio
sulla turca e il mio stomaco butta fuori tutta la colazione, tutto il pranzo e
forse anche la cena di ieri sera. Un disastro terribile.
Ora mi appoggio al muro, seduto a terra, ho le budella sfatte, un alito
terrificante, un umore pessimo, una voglia di piangere assurda. La Titti…
quella… Eppure la amo ancora, sempre, comunque, per sempre. Temo che
non la rivedrò mai più.
Mi rialzo a fatica dopo più di dieci minuti, piscio e lavo un po’ il water con
l’urina, mi sento svuotato, mi sento a pezzi; sospiro, mi do due schiaffoni,
esco dal bagno, vado verso casa. Mi butterò nello studio, oggi non ho molta
scelta per far passare questo angosciante pomeriggio d’estate.
19 agosto
Giaccio inerte vicino al barbecue di casa mia, del giardino di casa mia,
mentre il babbo cuoce una grigliata di carne strepitosa. Ho passato il sabato
sera a casa, in pieno agosto, da solo, a smanettare sul web, con la finestra
aperta, nella stanza mia e di Gigetto. Ho smanettato per almeno tre ore
buone, tanto che verso mezzanotte, quando Gigetto è entrato in camera per
100
Davide Continati
andare a letto, ho deciso di spegnere il PC perché avevo gli occhi che si
incrociavano. Allora sono andato a vedere i programmi notturni estivi, da
quelli sul mondiale di Formula 1 (nei quali ti dicono anche quante volte
Schumi va a pisciare e se la fa dentro l’orinale o al pitstop), alle vendite
televisive dove tutto è bello, grande e poco costoso, per finire alle hot line
con filmati presi da filmini porno, interrotti quando uno, dopo aver visto
qualche tetta e aver visto le mutadine scendere, comincia davvero a eccitarsi. Alle due e mezza sono crollato addormentato sul divano.
Oggi pomeriggio andrò in piscina col Gionni, mentre Alex e Grillo se ne
stanno a cazzeggiare al mare. Non mi va il mare, per niente. Piscina, oggi.
L’Anto è via con i suoi a trovare non so quale lontano parente.
21 agosto
Rieccomi sui libri, concentrato, deciso, convinto. Ho riaperto Kurt Lewin
e sto andando a tutta birra. Certo che quando mi ci metto non scherzo
mica… Divoro il manuale a velocità di crociera strepitosa, mi nutro di gelati,
coca cola, ghiaccioli, ma ormai il grande caldo sembra passato. Si suda
meno. Va beh, intendiamoci, si suda meno, ma si suda. Una doccia al giorno, minimo, è garantita.
In settimana tornerò in città. Ho voglia del mio monolocale, ho voglia di
vedere l’Anto, ho voglia di iscrivermi a questo esame, ho voglia di cercarmi
un lavoro. Domani tornerò in città. Intanto vediamo questo capitolo e poi ne
riparliamo. Anzi, stasera devo pure lavare la Punto. È un cesso a motore.
25 agosto
Sto preparandomi a tornare in città. Ho preferito fermarmi dai miei fino
ad oggi, a spupazzarmi per la casa, a bighellonare per la casa, a studiare,
questo sì, per la casa. Magari tornerò nel monolocale lunedì, vedremo. L’Anto
è venuta a trovarmi giovedì e anche stasera usciremo insieme.
Vado ai giardini prima di tornare al monolocale. Di solito ci si trovano
mamme con i bambini piccoli, o pensionati intenti a leggere il giornale, o
tossici che aspettano il momento buono per drogarsi. Insomma, per uno che
studia sociologia c’è da fare una tesina. Tesina o non tesina sono pronto con
il mio libro di Psicologia sociale e mi metto su una panchina all’ombra.
Poco dopo arriva una ragazza con un bambino e lo porta nel box dove ci
sono i giochi, comprese le mitiche altalene. La faccia di lei non mi è nuova,
ma non riesco a capire chi sia e dove l’ho già vista. Fatto sta che mi guarda
spesso e io, pur con gli occhiali da sole, non riesco a evitare a mia volta di
guardarla.
VA BEH!
101
È mora, piccolina, con un paio di pantaloni della tuta, ma non riesco a
ricordare dove l’ho vista. È carina, ha anche una bella camicetta bianca, ma
non riesco a ricordare dove l’ho vista. Me ne vado poco dopo. Girandomi
ho l’impressione che mi stia seguendo con lo sguardo.
27 agosto
Entro tronfio in Facoltà per iscrivermi e sono solo le otto e trequarti. Arrivo al banco del computer, mi iscrivo. Potevo farlo anche da casa, via Internet,
ma intanto voglio dare un’occhiata in giro. La Facoltà è ancora spopolata,
solo pochi studenti si aggirano tra le bacheche leggendo date di esami e
notizie più o meno utili.
La grande notizia è che sarò il primo a essere interrogato. Non mi era mai
successo e in un certo senso mi dà soddisfazione. Va beh, non conta un
cazzo, diciamocelo, ma solo la soddisfazione di finire, bene o male, l’incubo
dell’esame in pochi minuti, mi dà un grande sollievo. E poi diciamocelo, il
primo a essere interrogato non va quasi mai fuori senza voto… Dunque, per
la legge dei grandi numeri, un voto dovrei prenderlo.
Anche l’Anto avrà l’esame a settembre, l’ultimo, e lei sta tirando la carretta
già da tempo, estate o non estate, moroso o non moroso.
Esco ancora più tronfio dalla Facoltà dopo aver subito l’attacco di un
bottone da parte di un tipo basso e brutto, ben vestito e pettinato, brufoloso
e con gli occhiali. Una matricola insomma, alla quale do notizie utili.
Mi godo una passeggiata sotto i portici. La città sta riprendendo vita,
l’estate sta finendo, finite le ferie, i negozi stanno tutti riaprendo. Passo davanti a una profumeria del centro e mi cade l’occhio all’interno. Noto una
faccia non nuova. Mi pare davvero la ragazza dei giardini, stavolta l’ho riconosciuta, ma non ricordo davvero dove l’avevo vista la prima volta.
Vado oltre, ma la curiosità continua a tormentarmi, per cui ripasso davanti alla profumeria ma, porca puttana troia, quella mi nota e mi lancia
un’occhiata di fuoco. Onestamente mi batte il cuore mentre tiro via con aria
indifferente verso il bar più vicino; non so perché, o forse sì, forse perché
quella ragazza mi piace, è estremamente carina. Ma non so dove cazzo l’ho
già vista!
Entro al Roxy (ma dico io, ma proprio Roxy dovevate chiamarlo?), ordino un’acqua tonica gelata e intanto mi reco in bagno per lavarmi la faccia.
L’antibagno è pulitissimo, mentre dietro, nel cesso degli uomini, c’è una
puzza di piscio da far spavento. Mi lavo la faccia e torno al bar, mi sbevazzo
l’acqua tonica e decido di fare l’uomo vero: andrò in profumeria, comprerò
qualcosa per l’Anto, pur di rivedere quella ragazza.
102
Davide Continati
Detto, fatto. Va beh, è passata mezz’ora prima di averne il coraggio. Ho
fatto il portico almeno dieci volte avanti e indietro prima di decidermi.
Apro la porta, ci sono due persone che stanno acquistando qualcosa e
due commesse le stanno servendo. Vacca boiazza, lei non c’è. Fingo interesse per un profumo francese che non ho mai sentito, dal nome impronunciabile,
quando alle spalle sento: ‘Desideri?’ Mi giro, è lei, porca puttanazza, è davanti a me, camicetta bianca con disegno fucsia e pantaloni superaderenti
verdini che fanno quasi capire le sue forme pubiche; ai piedi scarpe da
tennis bianche. Ma quei pantaloni sono come un elettroshock, mi fanno
tornare la memoria. Ecco, cazzo, dove l’ho vista, alla Cosmo nelle otto ore
della nottata on the road. Era lei che mi fissava dal divanetto, era lei che mi
mandava sguardi languidi, ora ne sono certo. Ed era lei sabato al giardino
con il bambino dell’altalena.
‘Stavo guardando questo profumo’ faccio io. (La guardo negli occhi) ‘È
da donna’ fa lei sorridendo. (La bacerei) ‘Lo so, ma pensavo alla mia ragazza.’ (La riguardo negli occhi) ‘Lo usa già?’ mi chiede. (La palperei) ‘Non so
se è questo’ rispondo. (Abbasso lo sguardo, non riesco a reggere il suo.)
Prende il profumo, se ne dà uno spruzzo sul polso sinistro, se lo strofina sul
collo e poi: ‘Prova a sentire…’ Annuso il suo collo, non certo il profumo, del
quale non menepuòfregàddemeno. ‘No sparo. ‘Non è questo. Devo chiederle come si chiama.’
Alla fine mi offre una confezione di sali da bagno per regalarli all’Anto.
Abbocco come un pescegatto e mi costa quasi quindici eurazzi. Ma almeno
le ho annusato il collo.
La saluto ed esco. Non so cosa dire, cosa pensare, cosa fare. Sono sotto
i portici con un regalo che non volevo prendere e una cotta per una ragazza
che non conosco. Sì ne sono cotto. A prima vista. Anzi a terza vista. E ora
cosa farò? Ci penso mentre infilo le chiavi nella toppa del monolocale. Getto
il regalo incartato sul letto e mi lavo la faccia nel lavandino small modello
Casa della Barbie.
È un bel regalo per l’Anto, ma cazzo, anche quindici eurazzi ora mi facevano comodo. Guardo lo scontrino della profumeria. C’è scritto KIAMAMI
con un numero di cellulare e la firma: Carolina. Esterrefatto, confuso, ma
felice mi getto sul letto.
Ma forse tanto felice non dovrei essere. Sono assalito da un pacco di
dubbi e incertezze sulla paternità del mio cuore. Va beh, sono cotto di una
che manco conosco, però ho una gran gnocca, l’Anto, con la quale sto da
poco, e bene. Però amo la Titti, che mi ha scaricato come un ferro vecchio.
Mi rilavo la faccia. Poi decido di mettere su l’acqua per farmi due spaghetti.
VA BEH!
103
30 agosto
Da tre giorni dormo male. Poco e male. Poco, male e agitato. Poco,
male, agitato e senza sognare. Che poi non è che io sogno tanto spesso.
Anzi, forse sogno poco ma quando sogno, ci do dentro! Ma davvero! Una
volta sognai che Pessotto segnava la rete decisiva in un Juve-Inter, mentre io
stazionavo a bordo campo vicino alle panchine.
Ho in mente solo Carolina. Giorno e notte. Più giorno che notte. Ma
anche notte. Ho pensieri confusi, ho preso una cotta fulminante. Non ho il
coraggio di chiamarla, tanto meno ho il coraggio di passare davanti alla
profumeria. Non so niente di lei, né quanti anni ha, né cosa fa, un cazzo!
Va beh, non conta. Si fa per dire. Per esempio: l’età. Quanti anni avrà? A
me sembra molto giovane, ma perché lavora? Ha già diciotto anni? O magari ne ha ventitré come me e io li dimostro, anzi presto ne faccio ventiquattro, e lei magari ne dimostra diciotto. Perché ne dimostra diciotto.
Tutto il giorno così, paranoia dopo paranoia, non mi passa più. L’Anto
mi telefona, ma non ci vediamo, lei sta studiando, io racconto che sto studiando ed è vero: sto studiando il modo di uscire da questo pasticcio.
Dimenticala! Mi dico. Un minuto dopo: Chiamala! Un minuto dopo: Che
fai, sei pazzo? Un minuto dopo: Non ne approfitti? Alla fine si fa notte. E
dormo poco, male, agitato e senza sogni.
104
Davide Continati
9° CAPITOLO
2 settembre
Quando mi sveglio con il mal di testa, la giornata diventa subito negativa,
diventa subito un cesso, diventa subito un incubo. Non c’è aspirina che
tenga, Aulin che faccia effetto.
Non sono riuscito a studiare per niente, non mi va, mi fa male il capo, ma
stasera, cazzo, devo uscire con l’Anto. Andiamo a un concerto, andiamo a
vedere un gruppo tra i più noti della zona: i Kaleidos. Ora, a me dei Kaleidos
non me ne fotte un cazzo. Non so chi sono, dove abitano, quanti sono, che
canzoni fanno, non so dire nemmeno il titolo di un loro pezzo, non so se
sono bravi o scarsi, non so niente. Solo che uno di loro è un cugino dell’Anto.
Ecco.
Praticamente i Kaleidos suonano in un parco qua vicino in quelle feste
dove si mangia e si parla, si mangia e si ride, si mangia e si beve, eccetera. Io
spero che i Kaleidos siano bravi, cazzo, devono essere bravi, sennò chissà
che serata passerò, pur avendo l’Anto vicino a commentare l’ugola del cugino, che poi tra l’altro nemmeno so come si chiama e nemmeno l’ho chiesto
a lei. Va beh, insomma, non è che vado là tanto volentieri, comunque questo mi tocca. E se volessi altre emozioni, garantite per giunta, dovrei fare il
numero di un cellulare scritto a mano sul retro di uno scontrino di una profumeria. La sto pensando anche adesso mentre cerco in qualche modo di
alleviare il mio mal di testa. Mangiando.
La penso, quella ragazzotta, sono cotto, va beh, lo abbiamo capito, ma
reagisci, decidi di fare qualcosa, cerca di cancellarla oppure chiamala e basta! Il mio cervello sta fumando da giorni e non riesco a decidere cosa fare.
Tranne seguire l’Anto a vedere un concerto dei Kaleidos.
3 settembre
Devo acquistare un CD dei Kaleidos. Sono bravi. Peccato che il cantante
stoni un po’, che il chitarrista sia monco, il batterista zoppo e il bassista…
basso. L’ho detto all’Anto mentre stavamo tornando ieri sera dal concerto.
VA BEH!
105
Era uno scherzo ovviamente. Così come l’acquisto del CD. Per carità. Però
sono bravini. Però sono intonati. Però s’impegnano. Applauso d’incoraggiamento.
Sto studiando, alle tre e mezza della domenica pomeriggio. Sono a casa
mia, seduto a tavola, libro aperto davanti, matitonza corta corta, evidenziatori
rosa e giallo pronti all’uso, bicchierone di aranciata a fianco, righello lì vicino. Procedo bene, così come è andata bene la serata di ieri sera, anche se io
sto con l’Anto e penso alla Carolina, poi penso a quella ragazzotta e so che
ho l’Anto e le cose si incasinano e così mi butto sulla psicologia sociale.
Tra poco uscirò a pedalare in mountain bike; lì mi rinfresco le idee, mi
passano i dubbi, mi scarico la tensione. Finisco questa dannata pagina e
parto con la mia bicicletta.
6 settembre
Scoccano le otto e mezza della sera. Piove a dirotto, una pioggia che
spazzerà via l’ultima coda dell’estate. Mi affaccio alla finestra del mio
monolocale, guardo il cortile, vuoto, lucido di pioggia, dove si riflettono
confusamente le luci degli appartamenti intorno.
Ho mangiato poco stasera, una bistecchina sottile sottile che le facevi i
raggi a occhio ignudo e un po’ di insalata Non reggo più. Stavolta la chiamo.
Prendo lo scontrino della profumeria, lo giro, leggo il messaggio. Sarà la
trecentesima volta. Digito il numero sul mio Nokia e ora devo solo dare l’ok.
Mi trema un po’ la mano. Non so cosa sto facendo o, se lo so, sono proprio
tutto da visitare dal cervello alla punta del mignolo sinistro.
Mi siedo sul letto, pollice sull’ok ma ancora non ho premuto. Tra l’altro
non mi sono neanche preparato il discorsino. Cosa le dico? Stai bene? In
profumeria hai venduto qualche mascara in più? Vado subito al sodo? Improvviserò. Prima però devo cliccare su quel dannato ok, ma non ho il
coraggio, non ho fegato, mi pare di avere un macigno in testa. Non la vedo
da dieci giorni, mi pare un’eternità, eppure nemmeno la conosco. Clicco.
Risponde dopo tre squilli. Ha una vocina fantastica. Le dico chi sono e che
ho visto solo adesso sul retro dello scontrino il numero di telefono e l’ho
chiamata subito. È contenta, me lo dice compiaciuta ‘Un attimo che chiudo
la porta della mia stanza’ fa. Sento in effetti la porta chiudersi. Mi chiede
come mi chiamo e cosa faccio. Glielo dico. Mi chiede se ero io quello della
Cosmo alcuni giorni fa. Le dico che ero io. Mi chiede se sono sempre stato
cliente della profumeria. ‘Cliente?’ dico ‘non ci avevo mai messo piede.’
‘Che coincidenza’ fa lei e non capisco se lo dice con ironia o se è proprio
convinta. ‘Già’ faccio io e confermo la mia solita imbranatura in questi mo-
106
Davide Continati
menti. Praticamente ho chiamato io e conduce tutto lei. Pazzesco. Questa
qua è una tipa pazzesca. Vorrei chiederle quanti anni ha. Non ho il coraggio.
Così le chiedo se è tanto che lavora lì.
‘Io non lavoro lì’ mi fa ‘il negozio è dei miei.’ ‘Ah!’ faccio io. Le chiedo
cosa fa allora, se studia o cos’altro. Forse mi sto sciogliendo. Mi dice che ha
appena fatto la maturità in giugno e che vorrebbe iscriversi a giurisprudenza
ma non ha ancora deciso. Mi chiede se vado alla Cosmo sabato. Dico di no,
ma se vuole possiamo vederci. ‘Ok’ fa lei ‘quando vuoi.’ ‘Ho la ragazza’
faccio io ‘ricordatelo.’ Non so perché mi è uscito questo cesso di frase. ‘Lo
so’ fa lei ‘me l’hai detto in negozio, ricordi?’
Cazzo, non me lo ricordavo. ‘Va beh’ le dico ‘non importa, mi piacerebbe
parlarti lo stesso.’ ‘Volentieri’ fa lei. Ho il cuore che batte a mille, ogni sua
frase mi accarezza le orecchie. Sono stordito, sono cotto, sto sclerando, devo
vederla al più presto. ‘Domattina possiamo fare colazione insieme’ le dico.
‘Meglio di no’ fa lei ‘preferirei domani pomeriggio, magari sul tardi.’
Ci mettiamo d’accordo. Ci vedremo alle sei, domani pomeriggio, al parco dove la vidi con il bambino. La saluto. Mi accascio sul letto come un
sacco vuoto. Sono cotto.
7 settembre
Arrivo alle sei meno venti al parco e mi siedo su una panchina, teso come
una corda di violino. Poco fa mi ha chiamato l’Anto e mi ha chiesto di
andare da lei stasera. Ho detto che ho mal di testa e che non so se ci andrò
e che forse andrò a casa mia. Sto facendo un gioco sporco e non mi piace
affatto. Ma il richiamo di questa nuova avventura con una ragazzina tremendamente tirosa è più forte della mia coscienza.
Sei meno dieci: un barbone mi chiede l’elemosina. Come sempre rispondo no, ma questo mi attacca bottone. Non mi va di rispondere male e quindi
cerco di usare parole cortesi per staccarlo. Ce la faccio dopo avergli dato 1
euro. È la prima volta in vita mia che faccio l’elemosina. Non lo sopporto,
ma stavolta lo faccio per mandarlo via. Punto e basta.
Sono le sei e due minuti quando Carolina arriva (splendida creatura) e mi
si avvicina subito stampandomi un bacio sulla guancia destra. Sorride (splendida
creatura) mentre la squadro. Ha una camicetta bianca, un giubbottino jeans
corto e un paio di jeans attillati (splendida creatura). È truccata benissimo,
molto ma benissimo. A me il troppo trucco non piace, ma devo ammettere
che sta bene (splendida creatura). Mentre la squadro e mi lustro gli occhi, mi
va il cuore a mille e la pressione a 250 circa…
Andiamo in un bar della piazzetta e ci sediamo all’aperto: oggi la tempe-
VA BEH!
107
ratura è piacevole, non fa per niente freddo. Parliamo di lei, della sua profumeria, della scuola che ha finito, delle sue amiche, di tante cose Gli racconto
di me, dell’Università, dei miei esami, della Titti, del fatto che abito in città da
solo, di mio fratello che fa l’Ariosto. Mi chiede della mia ragazza. Le parlo
dell’Anto e della nostra strana storia. Non fa una piega. Le chiedo se una
ragazza bella come lei non abbia un ragazzo. Sorride. ‘È così’ fa lei.
La cotta mi assale fino alle tempie a ogni sua parola. Ha un viso semplice,
dolcissimo, ha dei capelli mori né lunghi né corti che le incorniciano il viso,
ha una pelle liscia e vellutata ed è vestita casual ma in maniera estremamente provocante. Mi sento in gabbia, mi sento quasi male quando le tempie
accumulano una serie di tossine d’amore. Mi piaci tanto, Carolina, ma non
ho il coraggio di dirtelo, almeno per ora. Penso a tutto questo mentre lei
guarda l’orologio e dice che deve andare a casa perché è ora di cena. Sono
le sette e mezza. Ci resto male. Ho l’acqua alla gola, mentre ci alziamo
esplodo e le dico che ho assolutamente bisogno di rivederla. Mi sorride.
‘Quando vuoi’ è la risposta ‘chiamami che ci rivediamo.’ Sospiro di sollievo.
Meno male. ‘Ti richiamo appena posso.’
Paghiamo al cameriere. La bacio mentre ci salutiamo, mi scappa un abbraccio. Sorride. Mi ribacia sulla guancia, vorrei bloccarla, ma capisco che
vuole andare. La saluto, mi saluta, si allontana di gran passo. Splendida
creatura.
9 settembre
Dopo tempo immemorabile, rivedo Lory e Claudio e siamo a cena, io e
l’Anto, con loro. Claudio mi ha chiamato ieri pomeriggio proponendomi un
pizza insieme e io, d’accordo con l’Anto, ho accettato.
La serata è tranquilla, mangiamo la pizza, ci raccontiamo i nostri fatti; loro
non conoscevano l’Anto per cui argomenti di discussione ci sono, eccome.
Per non parlare delle mie avventure in Francia, con l’Anto stessa, dell’incidente della Titti. Un solo argomento non viene trattato: la Carolina. Semplice, è un mio argomento, è solo nella mia testa, è una bomba a orologeria
che sta per esplodere, anzi sono sicuro che esploderà. E non so che danni
farà a me e attorno a me.
Dopo cena andiamo in una gelateria del centro. Le serate sono ancora
piacevoli e stare seduti fuori è ancora possibile. Una serata tranquilla, questa, e riesco a comportarmi come se nulla stesse succedendo dentro di me.
In realtà sono stracotto di una ventenne della quale so poco o niente e che
però mi attira come il rosso attira un toro.
Rientriamo nel mio monolocale verso mezzanotte e trequarti. L’Anto vuole
108
Davide Continati
dormire da me e certamente non mi posso opporre, anche perché non ne
avrei motivo. Dove porterà la notte è evidente, anche perché non scopiamo
da venti giorni e ora lei è anche la mia ragazza e la sto abbastanza trascurando, sia per le mie fantasie, sia perché lei sta studiando come una deficiente
per l’ultimo esame. Infatti, appena la luce si spegne il mio letto diventa un
campo di battaglia: pizzicotti, spinte, sculacciate, cuscinate… Alla fine eccomi
dentro a scopare con una ragazza bellissima. Ho difficoltà, però, e non mi è
mai successo. Non ho mai scopato contro voglia in vita mia. Non è che
stasera lo faccio contro voglia, no, però non è la stessa cosa e il mio cervello
evidentemente non manda impulsi giusti. Il rischio di una cilecca sta facendosi alto, e ho la netta impressione che l’Anto lo cominci a capire. Ricorro a
un metodo squallido e scorretto verso la mia ragazza. Provo a immaginare
che sotto di me ci sia Carolina. Mi servono pochi secondi per cambiare
l’esito delle mie prestazioni. Ma mi faccio schifo.
12 settembre
Domani l’Anto ha l’ultimo esame, poi correrà verso la tesi di laurea. Già
le cose cui devo pensare sono tantissime, se poi ci aggiungiamo questa, va
bene. Rifaccio i conti: ho una ragazza da seguire, da amare, diciamo, cioè
l’Anto. Va beh! Questa ragazza sta finendo l’Università e mi fa piacere seguirla nelle sue ultime peripezie universitarie. Va beh, e fa due. Sto studiando Psicologia sociale e ormai manca poco all’appello e sono indietro come
una squadra in zona retrocessione. Svegliati! Va beh, e fa tre. Ormai non
posso e non mi va più di vivere con gli Euro di mio padre e di mia madre per
cui devo cercarmi un lavoro, anche un part-time, cazzo, altrimenti sclero sul
serio. E fa quattro. E poi, porca vacca, c’è quell’impiccio della Carolina.
Impiccio, potrei togliermelo di mezzo, non chiamarla più, non passare più
davanti alla profumeria, non andare più al giardinetto, e che ne so, qualcosa
d’altro. Ma non ci riesco, la penso ogni minuto, sta diventando un’ossessione, o meglio la cotta, perché sono sicuro che di cotta si tratta, non è ancora
passata. Va beh, ricapitolo, mentre asciugo i piatti accumulati da tre giorni di
pranzi, cinque cose cui pensare, senza contare (e ripongo i piatti nella credenza) la gestione di questo monolocale del cazzo.
Non ho mai avuto due ragazze in contemporanea, credo che sia impossibile, sarei talmente maldestro che l’Anto mi cannerebbe subito, ne sono
certo. Garantito. Lo dico a voce alta mentre chiudo l’anta della credenza.
Garantito. Lo ripeto a voce alta. Però mi metto a telefonare a Carolina. Mi
sento un figlio di puttana.
VA BEH!
109
13 settembre
Anto è in Facoltà, ha l’esame, ma è slittata al pomeriggio. Carolina ha
tenuto spento quel cazzo di cellulare tutta la mattina, che così ho dovuto
passare sui libri di psico sociale. Nemmeno ieri l’avevo trovata, sempre spento,
ma dove si sarà cacciata?
Ho il dito che ormai fa il numero automaticamente senza bisogno di
guardare, ho lo stomaco che si rifiuta di ragionare e non accoglie nulla se
non la voce di quella ragazzotta. Niente, sono le due e mezza e non risponde. Dove sarà? A lezione? In profumeria, no di certo, almeno fino alle tre e
mezza. Decido di attendere e di andare in profumeria verso le quattro. Spero di trovarla, devo trovarla, devo parlarle, devo capire, devo vederla, cazzo,
devo vederla assolutamente al più presto.
Bighellono avanti e indietro per il monolocale con il telefonino in mano,
ogni tanto faccio il numero, sono agitato, teso, ho un groppo allo stomaco,
sono cotto della Carolina, in più l’Anto ha l’esame e per carità non voglio
che la caccino via. Faccio un ultimo tentativo prima di uscire e stavolta
suona! Risponde dopo due squilli. Sta bene, sembra felice di sentirmi, dico
due cazzate squallide ma ride, mi dice che oggi è libera sempre verso le sei.
‘Ho tempo solo ora’ ribatto ‘devo vederti subito.’ Mi dice di no, alle sei o
niente, per oggi. Finisco per rinunciare perché alle sei l’Anto sarà già di
ritorno e vorrà vedermi.
Mi faccio promettere di vederla domani, quando vuole. Carolina accetta.
Tiro un sospiro di sollievo e ci salutiamo. Vaffanculo alle due ragazze. Non
ce la farò mai!
14 settembre
Non ci riuscirò mai, davvero. Mi sembra di dover occuparmi solo di loro
per 24 ore al giorno, cercando di non fare gaffe con l’Anto e poi cercando di
tampinare a tutta randa Carolina che mi sta spaccando il cuore.
Invento all’Anto che devo andare a casa dai miei per prendere vestiti, per
fare lavare le mie camicie alla mamma. Lei è talmente contenta di avere
finito ieri gli esami che accetta di tutto. Le prometto che domani sera usciremo a cena e la sistemo. In realtà ovviamente non andrò a casa stasera,
tutt’altro. Prima di cena vedrò Carolina e cercherò di invitarla a cena. Poi si
vedrà.
Mi vesto come un lord… si fa per dire, va beh, insomma, indosso il paio
di jeans migliore che ho e una polo seminuova blu, tanto che sembro ancora
più magro di quello che in realtà sono. Mi vuoto mezza boccetta di Armani
sul collo tanto che forse sto nauseando. Ne ho messo troppo, ma oramai…
110
Davide Continati
Arrivo al solito giardino e già Carolina mi aspetta con un sorriso strepitoso. La bacio sulla guancia e la abbraccio mentre ci avviamo verso il solito
bar e il solito tavolino. Dico le solite cazzate, lei mostra i soliti denti e si
dimostra davvero simpatica e luminosa.
La invito a cena, ma non può. Questi no cominciano a insospettirmi, così
le chiedo almeno di venire a trovarmi nel mio monolocale. Sorride. Le dico
che ho preso una sbandata terrificante per lei. Ride. Le dico che sono pazzo
di lei. Ora sghignazza. Mi dice che quando le dicono queste cose a lei viene
da ridere e vuole ridere. Non capisco se mi sta prendendo per il culo o se è
proprio così di natura. La invito nel mio monolocale, subito. Accetta.
Corriamo a perdifiato sotto i portici del centro. Dal giardino al mio
monolocale c’è pochissima strada e corriamo ridendo, la prendo per mano
e la trascino nell’ingresso del mio condominio. Saliamo le scale a di corsa ed
eccoci da me. Ansimo alla grande e anche lei sembra proprio senza fiato.
Apro la porta e appena dentro appoggio le mie labbra piene d’amore sulle
sue.
Carolina non fa una piega, si lascia baciare, ma sembra di legno, a malapena mi asseconda, tanto che mi sembra di violentarla. La guardo negli
occhi staccandomi dalle sue labbra, lei abbozza un sorriso. Chiedo che cos’ha,
non mi risponde. ‘Sei diventata muta?’ Niente, e sorride. La trascino sul letto
e le salto addosso come un orso, la voglio spogliare, le tolgo la camicetta, poi
il reggiseno, poi le abbasso i jeans attillatissimi azzurri, le tolgo il paio di slip
ricamati, la osservo nuda. Le è sparito il sorriso, mi fissa negli occhi, tanto
che sono più in imbarazzo io di lei che mi mostra le sue piccole tettine, il suo
pube, la sua nudità totale.
Mi tolgo dal letto, la lascio lì, non posso fare niente se lei non ne ha voglia,
mi accorgo di avere bruciato le tappe, forse sono uno stronzo totale e me lo
chiedo mentre mi siedo su una sedia.
Carolina si alza piano dal letto, mi si siede, ancora nuda, sulle ginocchia,
mi bacia sulla guancia e mi abbraccia. Si sente che è un po’ sudata, ma il suo
odore non mi dà per niente fastidio, anzi, sembra quasi eccitarmi e me ne
accorgo e ne provo vergogna.
‘Voglio fare l’amore’ mi sussurra. Deglutisco. ‘Sei sicura?’ faccio io. ‘Sì’ mi
dice con un filo di voce. Deglutisco. ‘Ma prima… va beh, sembravi bloccata’
faccio io. ‘Lo so, scusami’ fa lei ‘ma mi vergognavo a farmi vedere così’.
Deglutisco. La bacio su una spalla, lei mi guarda e sorride quasi divertita. Ci
buttiamo sul letto, ci baciamo per qualche minuto intensamente, mi sembra
di scoppiare, mi sta venendo un mal di testa esagerato. Ora ho quello che
volevo, sto per averla, ma come sempre provo una sensazione particolare,
stavolta sembra di impossessarmi di qualcosa che non mi appartiene. Sco-
VA BEH!
111
piamo. Con difficoltà, sembriamo due bambini. Non ho mai avuto tante
difficoltà ad avere un rapporto sessuale con qualcuna. Verso le otto, Carolina
è già in viaggio verso casa.
15 settembre
Devo accelerare, devo insistere a studiare questo testo, l’ultimo, di psicologia sociale, anche perché il tempo stringe e ormai manca una settimana
all’esame. Oggi mi sono dedicato quasi esclusivamente a questo, anche se
ora comincio ad avere mal di testa e gli occhi che mi si incrociano.
Ogni tanto divago, qui nel mio monolocale: mi sono docciato nel loculo
per rinfrescarmi le idee; poi penso all’Anto che stasera verrà a trovarmi e
non so con che faccia tosta la affronterò dopo averla clamorosamente cornificata
con una ragazzina; poi penso a quella tremenda ragazzina e alla cotta micidiale che pervade ancora i miei neuroni; poi penso che quel cazzo di esame
ora, con tutti questi pensieri che mi affollano il cervello, non ci voleva; poi mi
faccio un tè caldo al limone e mi sbafo cinque, dico cinque, cannoncini alla
crema pasticcera; poi telefono a casa per sapere come vanno le cose lì e
scopro che mio padre ha pure l’influenza; poi chiamo Alex per sapere cosa
cazzo fanno domani sera e naturalmente non hanno ancora deciso nulla;
poi esco dieci minuti a godermi il tardo pomeriggio della città prima che
l’autunno dolciastro prenda il sopravvento sull’estate; poi ripenso a ieri pomeriggio e a cosa ho combinato e mi prende un’ansia terribile; poi decido
che è ora di rimettermi a studiare fino all’ora di cena.
L’Anto arriva verso le nove, con una nuova pettinatura: ha i capelli più
corti e più ricci, insomma ha fatto una sorta di permanente, insomma, va
beh, credo che si dica così ma non ne sono certo. Comunque sta bene,
comunque è molto carina e il suo sorriso micidiale mi fa ripensare a ieri sera
e al fatto che l’ho cornificata. Se allora, quando eravamo matricoline, avessi
pensato che un giorno avrei cornificato la ragazza che sognavo di avere,
avrei riso per delle ore. Ma la vita è proprio strana.
Ha voglia di un gelatone, l’Anto, e l’accontento subito, portandola nella
gelateria migliore della città; ha voglia di passeggiare l’Anto e la porto a
passeggiare per il centro; ha voglia di ridere l’Anto (io meno) e ridiamo di
ogni cosa che ci succede, anche se dentro di me alberga un senso di rimorso
che fa paura.
La guardo spesso stasera, bella com’è, ma faccio fatica a incrociare il suo
sguardo, a fissarla negli occhi. Non so se se ne sia accorta, so solo che le
donne hanno un sesto senso e non vorrei che il suo fosse ancora più sesto
delle altre.Fatto sta che la serata passa bene, senza problemi, senza discus-
112
Davide Continati
sioni, senza ma, e la finiamo con un bel bacio lungo lungo davanti alla porta
della sua casa. Torno a casa verso l’una di un venerdì notte strano.
18 settembre
Ho passato un weekend di merda, bloccato da questo esame che non ho
voglia di fare e da tante rotture di palle. Sabato sera ho ascoltato i miei
vecchi cari amici e ho raggiunto l’apice della schifezza in un locale appena
aperto dove c’era di tutto tranne che della bella gente. Anche l’Anto non si è
divertita e poi mi ha fatto la fatidica domanda: ‘Cos’hai, c’è qualcosa che
non va?’ Già qualcosa che non va, volevo dirle, ho scopato con un’altra di
cui sono cotto, tutto lì, cosa vuoi che sia Anto, tranquilla, perché poi sto bene
con te, eccetera eccetera. Latte alle ginocchia.
Le ho risposto che quel locale mi dava sui nervi, che ero stanco di studiare
e che avevo le palle piene di quei libri e in pratica lei ha capito che avevo
bisogno di distrarmi, ma alla fine invece di distrarci siamo finiti a parlare sulla
Punto, fino alle due e mezza, davanti a casa sua, mentre gli altri amici andavano, bello, a ballare alla Cosmo.
Ieri, invece, libri a tutto spiano, capitoli a tutta randa, palle stratosferiche a
girare, a casa mia. Tra l’altro mio padre ha un febbrone da cavallo, e Gigetto
rompe col suo cazzo di Liceo Ariosto. Davvero non sopporto niente e nessuno e non è da me.
Chiamo Carolina, non ne posso più, la sopportazione diventa sollievo
quando lei mi risponde con la sua vocina e mi dice di essere già in negozio,
deve aiutare sua madre almeno fino all’ora di cena. Le dico che sto studiando, ma che ho bisogno di staccare, di vederla, di baciarla, che ho voglia di
stare con lei, insomma vomito una serie di complimenti e di bisogni da farla
traballare. Risultato: ride. A ogni complimento questa ride. Va beh, immagino che io sarò anche un buono a nulla a farteli, ma cazzarola, possibile che
ti venga solo da ridere? Sei stupenda, e ride. Sei bellissima, e ride. Sei fantastica, e ride. Sei morbida, e ride. Sei simpatica, e ride.
Non vuole vedermi oggi, magari domani verso le sei. Ma, io dico, ma
possibile sempre a questi orari da bambini. Alle sei? Va beh, una volta capisco, due volte anche, ma santiddio, ma sempre alle sei del pomeriggio? E
alla sera, carina, non ti viene mai voglia di uscire? No. Accetto come un
bambino, pur di vederla, andrei con lei anche alle sei del mattino. Ma reggere questa situazione sta diventando impossibile.
La saluto e mi preparo la cena: ravioli al radicchio burro e salvia, bistecchina
trasparente con insalata russa. Va beh.
VA BEH!
113
19 settembre
Esame: meno tre. Sono le sei in punto quando Carolina arriva da me,
tutta trafelata. Ha corso perché era in ritardo e non voleva arrivare neanche
un minuto dopo. La bacio sulla guancia, lei sorride e ricambia. Ha un paio
di jeans attillati scoloriti, una camicetta bianca e un giubbottino jeans che si
toglie subito, mostrando quelle tettine strepitose.
Mi chiede come va, parliamo, non ho più tempo da perdere con l’esame,
le spiego la situazione, le dico che sto studiando come un matto e che però
penso solo a lei e sto malissimo, anche perché ho un’altra. Mi aspetto che
rida e invece resta seria, mi guarda negli occhi, la guardo negli occhi, le
guardo le guanciotte morbide e chiare e mi sento quasi male perché è davvero carina, non è bellissima, l’Anto è molto più bella, ma lei è carinissima e
poi è così… così… va beh, adesso non mi viene niente.
‘Non voglio avere una storia’ fa lei ‘almeno per ora, ti conosco poco, mi
piaci tanto, ma non voglio, adesso. Fai quello che credi, magari ci frequentiamo un po’, vediamo, non so. Adesso sto bene con te, ma vorrei conoscerti meglio anche se mi piaci.’ Insomma ne dice tante così che non riesco
nemmeno a contarle tutte, però è onesta e me lo dice in faccia e fa bene.
Accuso il colpo, d’altronde non so dire neanch’io che tipo di storia sia questa, ammesso che sappia distinguere la storia con lei da quella con l’Anto.
So solo che ti voglio bene e che mi piaci tantissimo, che penso solo a te,
che vorrei averti spesso qui… Gliene sbrodolo tante. E stavolta ride buttandosi di peso sul mio letto. Le salto addosso, ma mi manda via subito. ‘Non
è il caso’ fa lei tornata seria. ‘Ora devo andare, magari ci risentiamo.’ Mi
bacia. ‘Pensaci.’ Mi ribacia tenendo le mie guance tra le sue mani morbide.
Le bacio le mani, la bacio in bocca, ricambia. ‘Non ci capisco niente’ faccio
io. Si prepara a uscire. ‘Mi raccomando l’esame’ fa lei ‘fammi sapere che poi
magari ci vediamo.’
Esce e resto seduto solo sul mio letto rigido come uno stoccafisso.
22 settembre
Arrivo al Caffè degli studenti alle otto in punto e c’è pochissima gente.
Qualcuno fa colazione, qualcun altro legge la rosea, io mi accomodo nel
tavolino più imboscato del locale, quello vicino al calorifero. L’Anto arriverà
tra poco e intanto ripasso mentalmente le cose principali di questo fottuto
esame di psicologia sociale.
Ordino un latte macchiato e una brioche con cioccolata. Mi tratto bene
stamattina, almeno andrò là con la pancia pienissima e chissà cosa succederà.
114
Davide Continati
L’Anto arriva sorridente e trafelata alle otto e venti e subito si spupazza un
bel caffè macchiato di quelli che piacciono a lei. Mi dice che ho una faccia da
funerale che fa paura e che invece dovrei essere felice di tirarmi via un altro
pensiero.
Mi chiede se accetterò qualunque voto. La mia risposta è drammaticamente sintetica: sì.
Parlottiamo fino alle nove meno un quarto e ci avviamo verso l’ingresso
della Facoltà con la pancia piena e la testa incasinata (io), la testa rilassata e
i capelli ricci e arruffati più del solito (lei).
Il profe arriva verso le nove e quindici, quarto d’ora accademico preciso,
fa l’appello e io sono il primo a proferire il magico “Presente”, mentre l’Anto,
come d’accordo, esce dall’aula per non assistere alla mia esecuzione, cioè,
alla mia interrogazione. Eccomi capitare dall’unico assistente e questo già mi
angoscia perché ha una faccia da pesce lesso da far paura, ma sarà il maggiore esperto di psicologia sociale e di Kurt Lewin che l’Università ricordi.
Vado sotto con un muso lungo così. Questo pesce lesso di assistente però
sembra malleabile, non fa domande molto approfondite e insomma, va
beh, me la cavicchio in qualche modo, portando via un 24 mezzo regalato.
A malapena meritavo 21, forse 22, ma che cazzo me ne frega, la mia carriera universitaria avanza a grandi, si fa per dire, falcate.
Esco dall’aula dopo aver firmato il libretto felice come una Pasqua e
bacio l’Anto con una passione che non ricordo di avere mai avuto da tanti
giorni. Sono felice, davvero, e telefono subito alla mamma per comunicarle
la notizia, presa, come era logico che fosse, come un successo clamoroso. È
come se avessi vinto il Festival di Sanremo, o il Gran Premio d’Italia a Monza.
Per lei è così. Mi promette una mangiata di lasagne da far paura, siamo
invitati, io e l’Anto domenica a pranzo.
Lo dico alla mia ragazza, sorride ed è felice. Come me. Almeno per un
po’. Quando lei si allontana un attimo per andare a salutare un’amica che
non vedeva da tempo, mi riprende l’ansia. Ho bisogno di comunicare con la
persona che ora conta più di tutto, Carolina. Ma dovrò aspettare ancora.
Penso magari di mandarle un SMS, ma poi scarto l’idea perché comunque l’Anto potrebbe vedermi e non mi va di continuare a dire balle e stronzate
ogni giorno alla sua… salute. Controllo il portafoglio e le sue scarse finanze
in Euro e decido che la prima cosa che farò da lunedì, dopo aver festeggiato
questo 24 regalato dal pesce lesso è cercarmi un lavoretto, magari part-time,
magari una cazzata, che mi permetta di incassare qualche squallido soldo.
Garantito, devo farlo.
L’Anto mi raggiunge sorridente, mentre la Facoltà è ormai pienissima e
sono già le dieci e mezza. Le dico che da lunedì cercherò lavoro e lei non fa
VA BEH!
115
una piega, ma non capisco se approva o disapprova. La guardo, è una
maschera. Ho capito, mi fa. Entriamo ancora al Caffè degli Studenti e stavolta mi sparo un succo di frutta da far paura, all’albicocca, anzi vado sull’Ace,
anche se talvolta ho paura che il cameriere mi serva della candeggina.
Paga l’Anto, mentre sfoglio la rosea senza leggere un articolo che sia uno.
Decidiamo di mangiare insieme, ma non ho voglia di preparare nel mio
monolocale, per cui le possibilità sono due: o la mensa universitaria, nella
quale non metto piede da almeno un anno, o Pablo’s. La decisione, va beh,
è logico, è scontatissima. Ci avviamo felici (più lei che io) quando in Facoltà
è ormai una bolgia tra studenti che fanno esami, matricole, gente che va in
biblioteca, vari personaggi che bivaccano lì dentro. Ma a me alla fine
nonmenefotteuncazzo di questo casino: devo avvertire Carolina, alla svelta,
devo farle sapere il tutto, devo parlarle, subito. Non so come, però.
24 settembre
Sono sfatto dalla tensione; non riesco a comunicare con lei. Mi giro e mi
rigiro nel mio letto, mentre Gigetto quasi russa. Ormai è mattina, le otto di
una bella mattina domenicale di fine settembre, con un bel caldino da dormire ancora col lenzuolo e basta.
Carolina sembra volatilizzata. Venerdì le ho telefonato tante volte dal
pomeriggio in poi, ma il suo cellulare era drammaticamente spento. Ieri
idem con patate, spento, muto. E io, va beh, drammaticamente disperato e
rassegnato. Alla fine via con l’SMS che recitava più o meno: ho preso 24 e
sono strafelice, ma sono stratriste perché non riesco a trovarti. Kiamami.
A me sembrava un messaggio bello e chiaro, cazzarola, ma questa nemmeno mi ha risposto e ora sono le otto e dieci di domenica e non ho nessuna
risposta. Nessun SMS, nessun messaggio, nessuno squillo. Ma dove sei? Mi
stai smollando? Mi stai scaricando? Così? Va beh, non pretendo che mi
spieghi per filo e per segno tutto, no, questo no, già mi hai detto come la
pensavi su di noi, ma porca puttana, almeno dammi un segnale. Uno solo.
Un mezzo segnale, magari. Insomma, dove sei Carolina?
‘Chiamala’ fa Gigetto dal suo letto girandosi. ‘Scusa?’ faccio io. ‘Chiamala, sta Carolina’ mi dice il fratellone. ‘Ma come fai a sapere certe cose tu?’ gli
dico sedendomi nel letto. ‘Se le dici ad alta voce, presto le saprà tutto il
quartiere’ risponde lui sorridendo. Sta a vedere che parlavo a voce alta e
non me ne accorgevo. Incredibile. Gli chiedo cosa dicevo e mi ripete esattamente quello che pensavo, va beh, cioè, quello che pensavo di pensare e
invece dicevo. Pazzesco. Questa ragazzotta mi fa degli scherzi micidiali.
‘Stai zitto, per favore’ dico a Gigetto. ‘Forse se stai zitto tu è meglio’ ribat-
116
Davide Continati
te. E come posso dargli torto? ‘Sarò come una cerniera chiusa’ continua lui
e io gli prometto un regalo se davvero non dirà niente a nessuno. Accetta,
ma vuole sapere chi è questa tizia. Glielo spiego senza entrare in particolari,
ovviamente. Ride. Scuote la testa. Mi chiede cos’ha l’Anto che non va. ‘Niente’
faccio io. ‘Ha tutto, è bella, brava, mi capisce, mi coccola, niente, non ha
niente che non va.’ ‘Sei pazzo’ fa lui ‘avessi io una gnocca così per le mani,
altro che Carolina…’ Gli tiro una cuscinata addosso. Fingo il soffocamento,
ride. Sta cambiando Gigetto. Altro che Trivial Pursuit o gare varie di cultura.
Guarda anche le gnocche dei fratelli!
Sono felice che lui sappia tutto. Potrò sfogarmi sulla situazione che mi
sono creato e non è poco. Decido di raccontargli anche i particolari. Man
mano che avanzo nel racconto la sua bocca si spalanca sempre di più. ‘Cosa
pensi di fare?’ mi fa. ‘Sono nella merda totale’ rispondo. ‘Tieni l’Anto’ fa lui
‘io farei così.’ Non rispondo niente, mentre lui si gira dall’altra parte. O lo
ascolto o lo ascolto, non ho tante alternative altrimenti sclero sul serio. Però
sono molto combattuto. Ma restare con l’Anto sembra proprio la cosa migliore e più facile. Oggi intanto verrà qui a pranzo a mangiare le mitiche
lasagne di mia madre.
Decido di alzarmi, malgrado non siano ancora le nove. Un sibilo solca la
nostra camera, è un SMS. Lo leggo, è di Carolina: Scusami, ma avevo la
batteria scarica. Bravo per l’esame! Se vuoi ci vediamo oggi pomeriggio al
giardino. Ciao.
Mi cedono le ginocchia e i menischi. Altro che tenere l’Anto. Quando
questa pigia sull’acceleratore io vado fuori strada. Ecco un altro esempio.
Cazzo, oggi non posso, devo stare con la mia attuale ragazza, va beh, diciamo ufficiale ragazza. Rispondo: sono a casa dei miei e torno in città domani.
Vediamoci domani pomeriggio. Fammi sapere qualcosa. Ciao. La risposta
non si fa attendere, mentre Gigetto mi spara un: ‘Lasciami dormire almeno
la domenica mattina!’ Risposta della Carolina: alle sei e un quarto ai giardini, non mancare. Gigetto ri-spara: ‘Mollala quella, credimi.’
Sono in confusione totale.
26 settembre
Ieri sera l’ho vista, abbiamo passeggiato sotto i portici per almeno mezz’ora, stavo bene con lei, l’ho baciata, ma ancora una volta è parsa sfuggente, enigmatica, insicura forse, bloccata a volte, incerta sul da farsi. Figuriamoci quanto sono incerto io.
Le ho detto che le voglio tanto bene, che sono fuori di testa, insomma
quelle frasi che senti nei film e ti viene il latte alle ginocchia, poi invece
VA BEH!
117
quando le dici tu pensi: cazzo, è vero, si dicono proprio, le voglio dire come
Tom Cruise o come Tom Hanks o come Raul Bova. Morale: mi ha ripetuto
le solite cose, che non se la sente di avere una storia e bla bla bla bla bla bla
bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla. ‘Ho capito’ le ho
detto ‘ma per me sarà durissima da accettare.’ ‘Ti capisco’ fa lei ‘lo sarà
anche per me, ma davvero non posso, scusami.’
Ci risiamo, a volte mi pare di ascoltare un vecchio 45 giri, di quelli con le
canzoni per bambini che mia madre metteva sul giradischi per me. Solo che
invece di Heidi, Capitan Harlock, Candy Candy o qualche altro successone
di Cristina D’Avena, stavolta va in onda il Festival del cuore malato, del
cuore infranto. E purtroppo ci sono delle repliche. Mi sembra di avere di
fronte la Titti. Poi penso che anch’io ho recitato: a Parigi con Françoise e un
po’ mi passa la malinconia. Ma poco davvero.
Oggi mi sto dedicando alla ricerca di uno straccio di lavoro. Ho fatto
razzia nei bar di quei giornalini di annunci economici, ma per ora non ho
trovato niente di interessante. Ma non mi perdo d’animo, anche perché, a
dire il vero, non li ho sfogliati con molta cura. Lo farò stasera nel monolocale
insieme all’Anto.
28 settembre
Accompagno l’Anto dal professore con cui discuterà la tesi, attendo fuori
seduto sull’unica sedia non spaccata della saletta. Di fronte a me c’è la sedia
incisa, quella scarabocchiata col pennarello alla mia sinistra, quella senza un
appoggiagomiti alla mia destra.
La prossima settimana avrò un colloquio di lavoro, forse due. Non è stato
difficile trovare qualcosa e infatti con l’aiuto dell’Anto è stato tutto più semplice. Due ore a spulciare i dieci giornalini trafugati qua e là. Un lavoraccio.
Perché poi è un lavoraccio anche trovare un lavoro.
Una ditta di surgelati mi ha subito fissato un colloquio con il responsabile
del personale. Anche se andare a vendere surgelati con un camioncino non
mi garba granché. Va beh, meglio di niente, ma allora preferivo il mio lavoro
al negozio di dischi… Comunque lunedì sarò là e sentirò. Può darsi che esca
qualcos’altro, ma per ora aspetto fiducioso.
L’Anto esce dallo studio del professore molto soddisfatta, le sue proposte
le sono piaciute, la tesi avanzerà. Sono felice per lei. Passeremo un bel weekend.
Almeno lo spero.
118
Davide Continati
10° CAPITOLO
2 ottobre
La ditta di surgelati che mi ha chiamato per un colloquio si trova in periferia, o almeno ha la sede lì. Non c’è un camioncino neanche a pagarlo oro
quando entro nel parcheggio antistante una costruzione rossa. Mi faccio
annunciare e mi accorgo che sono in anticipo di dieci minuti, ma il tipo che
mi deve fare il colloquio evidentemente non ha un cazzo da fare perché mi
riceve praticamente subito.
Mi parla della sua ditta per dieci minuti buoni, di tante cose inutili che mi
entrano dall’orecchio sinistro e, superata la cabeza, escono drammaticamente dal padiglione auricolare destro. A un certo punto si degna anche di
descrivermi il lavoro (che poi già immaginavo), ma mi gela quando mi spiffera il fisso mensile. Drammatico. Mi chiede un parere sulla proposta, lo
guardo un po’ stralunato, gli dico che con quella cifra ci mangiano almeno
tre famiglie tranquillamente. Sorrido e lui si mette a sghignazzare, mostrando dei denti gialli di nicotina. E infatti subito mi chiede se mi dà fastidio il
fumo e si accende una paglia. Fuma, mi ripete che ci sono alte provvigioni
eccetera, insomma cerca di convincermi e gli devo dare anche un buon voto
per il suo ruolo di imbonitore, ma con me non attacca. Soldi pochi, ore
tante, provvigioni non so. A malincuore rinuncio, dico a malincuore perché,
va beh! era comunque una buona occasione di lavoro.
Gli dico che ho una proposta migliore in ballo e lo ringrazio di avermi
chiamato. Sembra dispiaciuto del mio no e mi chiedo se è così disperato che
non trova nessuno e se gli piaccio così tanto. O forse avevo la faccia da pollo
adatta. Ma non mi ha spennato. Gli do la mano prima di uscire. Arrivederci,
anzi addio.
3 ottobre
Non vedo e non sento Carolina da quasi una settimana e devo davvero
dire che la cosa comincia, per fortuna, a non pesarmi. Non era una cosa
fattibile, d’altronde, e me n’ero accorto tranquillamente. Però quella ragazza
VA BEH!
119
mi piaceva e mi piace da morire. Forse comincio a essere vaccinato a certe
parole che mi sono state dette più volte. Va beh, pazienza. Però che rabbia!
Apro il libro di Sociologia dell’educazione quando sono le undici e un
quarto e ancora non ho combinato niente stamattina, se non prepararmi
delle cotolette alla milanese che cuocerò stasera con l’Anto che verrà a cena
da me.
Questa materia mi ha sempre affascinato, la paragonerei, dunque… va
beh, diciamo proprio alla cotoletta alla milanese. Per me è un piatto buonissimo, affascinante, come Sociologia dell’educazione. Con la differenza che
la cotoletta la mangio da sempre, da quando emettevo dei vagiti, mentre a
questa lezione non ho mai partecipato e a malapena so il nome della professoressa. Viva l’Università!
5 ottobre
Faccio un po’ di conti e mi accorgo che sabato prossimo sarà il compleanno di Gigetto e fra due settimane anch’io supererò il traguardo del compleanno. Che poi, per inciso, il fratellino per i sedici anni farà una festina a casa
nostra e ha invitato anche me e l’Anto. Ora, va bene, per carità, ci sarò,
spero solo di non capitare nella festina tipo medie, quella di Elio nella canzone ‘Tapparella’ perché altrimenti mi vergognerei come un cane. Però devo
andarci, chiaro come il sole, dovrò essere là, tra studenti del mio vecchio
liceo che non conosco e ragazzine vestite da modelle, truccatissime. Anzi,
ora che ci penso devo pure pensare a cosa regalare a Gigetto. Lui è sportivo,
ma è anche un ragazzo talmente serio che una cosa banale non può andare
bene. Alla fine decido di non pensarci adesso. Ho altre cose da fare. Per
esempio, tagliare del finocchio e metterlo a cuocere nella padella. In questi
giorni mi sto dando alla cucina. Sarà mica che era meglio se facevo la scuola
alberghiera?
Mentre penso a tutto ciò, squilla il Nokia, mi asciugo le mani umidicce e
vado a recuperarlo, sul letto dove l’ho negligentemente buttato. È Françoise…
Deglutisco e ripasso il mio francese scolastico in tre secondi, poi faccio una
delle mie stronzate. Spengo il cellulare.
Non me la sento, scusami, Radio France Fatale, scusami davvero, non
voglio parlarti, è meglio di no. Lo dico ad alta voce, quasi per autoconvincermi.
Sospiro e spadello il finocchio, ancora crudo, nella padellina.
7 ottobre
L’Anto scende dalle scale di casa sua che sono le tre e mezza mentre
piove a dirotto, una di quelle giornate autunnali da far paura. Ma andiamo
120
Davide Continati
lo stesso al Centro Commerciale perché lei deve fare acquisti e io comprare
il regalo per Gigetto. Che poi ogni tanto le morose bisogna pure portarle al
Centro Commerciale a fare shopping. Sono felici così, le porti in Paradiso,
comprano, ti chiedono un parere e tu: ‘Sì, bello, non avrei trovato di meglio.’ Oppure ti cucchi tutte le vetrine del centro e non ti passa più.
Alla fine lei si compra una bella gonna (io non avrei trovato di meglio, ma
sul serio) e io opto per un maglione per Gigetto; insomma, sono stato proprio sul classico alla fine, nessuna fantasia, nessuna cosa strana, anche se ho
visto uno splendido orologio a cucù che quasi quasi glielo avrei comprato.
Sono pazzo!
Il cioccolato in tazza che prendiamo al bar, luogo di venerazione di tutti i
clienti del Centro in una giornata uggiosa, diventa un mito. Caldo, anzi
bollente, cremoso ma non troppo perché se no sembra budino, il cioccolato
fa diventare la giornata uggiosa meno umida, meno brutta, meno triste.
Euro spesi bene, altroché gonne, maglioni…
Restiamo fuori a cena. La serata è umida, ma non fredda, ha smesso di
piovere, siamo contenti, abbraccio l’Anto appena usciti dalla pizzeria. Siamo
in periferia, forse per questo i camerieri sono più umani e chiacchieroni, non
rompipalle o altezzosi come quelli del centro storico, Pablo’s escluso.
A forza di camminare raggiungiamo il livello di stop e allora per celebrare
il sabato più sabato italiano della storia, ci sembra logico affittare una bella
cassetta e andarcela a vedere a casa di lei, cioè dell’Anto. Geniale, non c’è
che dire, un sabato geniale.
8 ottobre
A volte mi viene voglia di andare a Messa, quando meno me l’aspetto, mi
stupisco da solo. Sì, oggi ci vado, e infatti alle undici in punto sono in chiesa,
nella chiesetta del mio quartiere, che poi è bella.
Esco felice, mi sento quasi beatificato, quasi avessi fatto pace con me
stesso e con Gesù Cristo. Santifico la domenica comprando anche le paste,
cioè i mitici pasticcini alla crema che ora troneggiano sulla tavola del mio
monolocale del cazzo. Pranzo da solo questa domenica, mi capita poche
volte, ma succede. Gli spaghetti saranno cotti tra poco e li aspetta un bel
pesto alla genovese. Ne divorerò una bella porzioncina. E poi quei cannoncini!!!
Li scolo, appoggio lo scolapasta nel lavandino, verso il contenuto del
vasetto di pesto nell’etto e venti di spaghetti, anzi vermicelli, e inizio a mescolare fischiettando. Che profumo splendido e invitante! Certo, il pesto della
mamma è un’altra cosa, ma anche questo mi fa godere come un bambino.
Verso gli spaghi, anzi i vermicelli, nel piatto e mi appresto a gustarli. La
VA BEH!
121
forchetta gira felice nel primo vortice spaghettifero e penso a cosa farò oggi
con l’Anto. Domenica qua e là, in città, un weekend normale da concludersi
normale. Buoni!
Suona il campanello e resto attonito. Ma chi sarà all’una e dieci di domenica? Forse l’Anto? Sarà Walter che torna affranto da un’altra storia finita
male? La mamma che viene a fare le pulizie?
Mi alzo masticando la seconda forchettata e, appena aperta la porta,
rischio di soffocarmi per la sorpresa che mi si presenta davanti e comincio a
tossire maledettamente. Lei mi chiede se sto male. Respiro. Mi chiede se
può fare qualcosa per me. Respiro profondamente. Mi batte la mano sulla
schiena. Deglutisco. Mi guarda. Mi siedo sul letto e favello: ‘Che ci fai qui?’
Françoise sorride felicissima e risponde che è in gita in Italia con due amiche
che ha lasciato sole per venire a trovarmi.
Onestamente non mi ricordavo di averle lasciato il mio indirizzo, ma evidentemente è così, a meno che non sia diventata meglio del mitico Ellery
Queen. E, conoscendola, lo escludo. Le offro gli spaghetti rimasti e li dividiamo. O meglio, se li sbafa quasi tutti lei e sembra affamatissima e infatti mi
dice che è da ieri sera che non mangia perché ha finito gli Euro e deve
tornare stasera a Parigi in treno con le amiche.
Mi sta scappando un: ‘Meno male!’ ma poi lo penso solo e le chiedo se ha
ancora fame e per tutta risposta (Oui!) apre il frigo e comincia a rovistare in
quel poco che contiene, cioè formaggio e i mitici cannoncini alla crema che
rischiano di fare la fine più macabra che la storia ricordi.
Mi dice che le sono mancato tanto, mentre si strofina il tovagliolo di carta
sulla bocca, poi dice qualcosa che non capisco e sghignazza e mostra le
gengive, come ai bei tempi (penso io). Ritorno indietro di qualche mese con
la memoria e subito mi viene da chiederle della sua amichetta, della quale
non ricordo più il nome, che fu presente alla nostra scopata nell’appartamento parigino. ‘Mai più vista’ fa lei, quasi che, alla fine, quel brutto episodio si fosse trasformato in un vantaggio per lei. Anzi, forse l’ha fatto apposta.
E d’altronde a pensare male non si sbaglia mai.
Le racconto due/tre cose nuove della mia vita da studentello e le dico
anche dell’Anto, anzi proprio sottolineo il nome Anto come se non esistesse
altro nella vita. Per tutta risposta si sbafa un paio di cannoncini alla crema.
Mi sembra di essere diventato la mensa universitaria o addirittura la mensa
dei poveri della Caritas. Mah!
Mi chiede se usciamo a fare un giro più tardi, perché poi lei dovrà tornare
a Parigi con il treno della sera. ‘Ma lasci da sole le tue amiche in una città
così?’ le chiedo. Dalle sue gengive esce un oui che mi spiazza clamorosamente e pertanto insisto nel dire che ho una ragazza e non posso permetter-
122
Davide Continati
mi di andare in giro con un’altra così, anche perché ci sono i pettegoli in giro,
non me la sento, e bla bla bla. In realtà, visto quello che è successo con
Carolina, mi dovrebbe crescere il naso come Pinocchio, mentre dico queste
cose.
Alla fine scendiamo al bar sotto casa, quello in cui non vado mai, ma
proprio mai, dove ci sono sempre il vecchietto che si scola un bianchino e il
gruppo di pensionati ultra sessantenni che si accaniscono in una briscola,
tutti a commentare e a spettegolare su chi entra ed esce dal bar. Beviamo un
caffè, deca per lei, ed è evidente che la sua faccia non conosciuta e la parlata
francese insospettiscono e incuriosiscono i presenti.
Mi salvano le due amiche di Françoise che la chiamano sul cellulare, e la
mia vecchia amica Radio France Fatale decide di raggiungerle in centro. Ci
abbracciamo sulla porta del bar, mi sbaciucchia sulle guance, mi sculaccia
affettuosamente sul sedere. Ci guardiamo per qualche secondo negli occhi,
poi se ne va. Credo che stavolta non la rivedrò mai più.
12 ottobre
Mi infilo velocemente i jeans perché mi accorgo che sono in ritardissimo.
Fra mezz’ora mi aspettano per un colloquio all’ipermercato in periferia. Voglio
andarci perché comunque un lavoro, un cazzo di lavoro, devo trovarlo,
devo fare qualche Euro alla svelta, perché le scorte sono davvero finite e la
mancia del babbo, della nonna, della mamma, di chicazzoneso, non voglio
più averla per un po’.
L’Anto è impegnata a scrivere la tesi, più tardi la chiamerò per dire com’è
andata. Che poi, tra l’altro, voglio anche andare alle agenzie di lavoro interinale,
perché magari qualche lavoretto, magari temporaneo, magari stupido, magari squallido, c’è.
All’iper arrivo appena in tempo. Ci riservano una saletta d’attesa. Siamo
almeno in quindici. Anzi in sedici. Perché poi conto tutti.? Non so davvero
quanti ne prenderanno, l’inserzione che l’Anto mi ha passato era generica:
CERCHIAMO COMMESSI BELLA PRESENZA PER SETTORE ELETTRODOMESTICI E TELFONIA IN UN GRANDE CENTRO COMMERCIALE. Seguiva recapito telefonico eccetera. Detto fatto, in due giorni mi
hanno chiamato.
La presenza femminile è maggiore, dieci contro otto, otto ragazzi, metà
disoccupati, magari hanno finito la scuola superiore da poco, metà studenti
sfigati come me che vogliono mantenersi agli studi e avere qualche eurazzo
da spendere con la morosa.
Passa più di mezz’ora e ancora non mi hanno chiamato e già in nove
VA BEH!
123
hanno varcato quella porta. Si sta dentro, a dir tanto, sei minuti d’orologio,
anzi ora provo a fare il conteggio, cronometro alla mano, con la biondina
che sta entrando. Esce dopo cinque primi e trentanove secondi. Va beh,
l’avevo detto, non più di sei minuti. Considerando che è bionda e carina (e
ha pure due belle tette) le avranno fatto uno sconto di ventun secondi.
È il mio turno, da buon tredicesimo. Sono in tre seduti dietro una scalcinata
scrivania, due uomini e una donna, occhiali da professoressa di lettere incazzata
e acida. Ma non importa. Mi siedo, porgo la mano, me la dà solo il signore
al centro. Va beh, non importa. In venti secondi mi dice che hanno bisogno
di due persone giovani, che abbiano esperienza nel settore telefonia o elettrodomestici. ‘Lei ne ha?’ mi chiede. ‘No’ faccio io. ‘Non importa.’ Mi chiede
cosa faccio. Glielo dico. Quasi quasi stanno per mandarmi via e saremo, più
o meno, al primo minuto e venti secondi di colloquio. Che se ne fanno di
uno studente di Scienze Politiche che vende telefoni o elettrodomestici? Nulla,
credo. A meno che non diano in regalo ripetizioni di sociologia o di statistica,
o alleghino al frigorifero le dispense del corso di sociologia dell’educazione.
Va beh, non importa.
Mi chiedono se ho esperienze di lavoro. Glielo dico. Parlo della Ricordi e
mi ascoltano incantati come se fossi un membro della Treccani. Forse sono
il primo, stamattina, che sa mettere insieme una frase con soggetto, verbo,
magari anche congiuntivo, e complemento oggetto. Ma forse è una mia
impressione. E intanto supero i tre minuti lì dentro. Cos’abbiano capito di
me finora è un mistero. E non ho nemmeno due tette da sfruttare come
pass. Va beh, non importa.
Mi chiedono se sarei motivato a fare questo lavoro. Altroché, faccio io, e
spiego loro che devo mantenermi negli studi dal punto di vista finanziario.
La cosa sembra non interessarli, anzi, per tutta risposta ribattono che questo
lavoro sarebbe ‘un serio ostacolo a una rapida conclusione dei suoi importanti studi sociologici’. Capisco che sono caduto in un tranello bello e buono
e i sei minuti stanno per scadere. ‘Meglio una Laurea in ritardo che un asino
in orario’ dico così per dire, quasi sorridendo e anzi la finta prof acida, che
finora è stata in religioso silenzio si apre in un sorriso scarno, che mette in
mostra una probabile dentiera. Non importa.
‘Le faremo sapere’ concludono. ‘Entro domani sera, convocheremo le
due persone prescelte e lunedì potranno iniziare. La ringraziamo.’ ‘Vi ringrazio anch’io’ faccio ‘ci vediamo presto allora.’ Vado sul pesante, la prof ora
ride. Va beh, ho capito che una sarà la biondina e l’altra cheneso, ma non
io. Esco di lì dopo sei minuti e venticinque secondi, record ufficiale della
giornata. High score!
124
Davide Continati
13 ottobre
Ormai mi sono buttato sulla ricerca di un lavoro e anche l’Anto mi sta
spingendo perché vede che ho bisogno di fare qualcosa che mi motivi, al di
là dello studio. Ieri sera comunque mi sono pappato trentacinque pagine del
manuale di sociologia dell’educazione. Mi piace, questa materia, non c’è
niente da fare, anche se non so perché. Magari poi ci farò una tesi. Magari…
Mi sparo un super caffè da Pablo’s prima di dirigermi nella agenzia di
lavoro interinale più vicina a casa mia. Ho chiesto un appuntamento stamattina e mi hanno subito concesso un colloquio.
Entro e mi sembra un ambiente davvero bello, pulito, sano, dove si respira forse anche del rampantismo, ma mi piace. Quasi quasi chiedo di fare il
selezionatore da loro. Va beh, lasciamo perdere. Mi accolgono in un ufficio
piccolo ma carino e Simona, la selezionatrice, mi dà la mano e passa a
compilare la mia scheda che entrerà nella banca dati. Questa Simona è
carina, ha i capelli lunghi, castani, ha le mani piccole, ma ben proporzionate,
e poi si esprime bene, quantunque stia sicuramente recitando una sorta di
poesia che è costretta a ripetere a tutti. In pratica dopo cinque minuti questa
qua sa vita morte (mi tocco) e miracoli del sottoscritto, cosa ho fatto a scuola, a casa, dove vivo, come, dove e quando…, cosa voglio fare, quali sono
i miei obiettivi… Manca solo che mi chieda se vado di corpo regolarmente o
se a volte sono un po’ imbarazzato. No, no, vorrei dirle, sono un orologio
svizzero, lo scriva nella sua cartelletta, mi raccomando, perché chi mi vorrà
assumere lo deve sapere.
Simona mi ringrazia e mi dice che non c’è nulla, per ora, che rientri nei
miei parametri. Ettepareva! Però mi fa sapere che ci sono vari annunci nella
bacheca esposta nell’ufficio e che se c’è qualcosa che mi interessa posso
dirglielo tranquillamente.
Vado alla bacheca e leggo i cinque annunci. Uno è per cuochi (che me ne
faccio? mah), uno è per fresatori (e nemmeno so cosa vuol dire), uno è per
operai in una vetreria con turni notturni (Dio te ne deliberi), uno è per autisti
(ben sette giorni), uno è per fare volantinaggio. Decido di chiedere informazioni su quest’ultimo anche perché dura sette giorni e posso comunque racimolare qualcosa in attesa di meglio.
Simona mi spiega che si devono distribuire migliaia di volantini per promuovere degli sconti in un ipermercato e che la ditta cerca due persone che
si scorrazzino per mezza città, a piedi o in bici, per distribuirli. Da lunedì a
sabato della prossima settimana. Paga: duecento Euro, praticamente un
cazzo, ma quasi quasi decido di accettare. Anzi accetto.
Simona mi elenca un paio di documenti necessari per il contratto. Lunedì
VA BEH!
125
alle nove dovrò essere lì. Alle dieci sarò in giro a fare volantinaggio. Va beh,
la vita è proprio strana.
14 ottobre
Piove che Dio la manda da stamattina. Sono quasi pronto per la festa di
mio fratello Gigetto che oggi fa sedici anni. Senza tenere conto della cubatura
della casa dei miei, ha invitato mezzo paese e mezzo Ariosto. Si prevedono,
dice la prevendita, almeno trenta persone, insomma casa mia gremita al
limite della capienza.
L’Anto è pronta già da un po’ quando arrivo sorridente a casa sua. Ha
una bella camicia rossa e un paio di jeans blu scuri molto aderenti. Sta bene,
niente da dire, e sta ancora meglio quando si mette su un giubbottino che
non le ho mai visto. Sua madre mi dice di fare gli auguri a mio fratello e le
assicuro che li farò.
Non so cosa aspettarmi da questa festa. Quest’anno Gigetto ha chiamato
troppa gente, secondo me. Credo che io e l’Anto saremo i più vecchi per cui,
magari, dopo un po’ ci isoleremo, è logico, è inevitabile, e d’altronde non
può che essere così. Lo dico all’Anto che sembra fregarsene. ‘Vedremo’ fa.
15 ottobre
Prendere sonno è una faticaccia improba, malgrado siano le tre e mezza
di notte e il silenzio sia caduto sul mio monolocale da almeno mezz’ora. Mi
giro e mi rigiro, ma la visione di Carolina, a casa mia, alla festa di mio
fratello, splendida creatura che ho dovuto far finta di non conoscere… è
stato davvero troppo.
E poi… ha appena diciotto anni e altro che Università… altro che tutto il
resto, fa la seconda Liceo all’Ariosto, è giovanissima, è incredibilmente più
giovane, è stata bugiardissima, ha retto il gioco, mi ha fatto sbiellare, mi ha
mandato in crisi, nel pallone più totale.
Quando è entrata nella stanza dove mio fratello aveva organizzato il party
(mi piace questa parola da George Clooney. Non so il perché ma party mi
ricorda George Clooney, va beh, chiusa parentesi), giacchettina blu su camicetta fucsia e pantaloni aderenti (nemmeno adesso ne ricordo il colore),
mi è andato di traverso la fettina di limone dell’aperitivo che stavo gustando.
Nemmeno riuscivo più a parlare col Gionni, invitato anche lui a questo
cazzo di festa. Fatto sta che la mia serata si è consumata con un groppo allo
stomaco, parlando con lei pochi minuti per non far insospettire l’Anto (e
anche mio fratello che non sapeva che fosse lei, figuriamoci…). L’ho rimproverata, lei ha stretto le spalle, se ne fregava di tutto e di tutti, e di me in
126
Davide Continati
particolare. Un’avventuretta, carissimo, questo il succo del discorso, e stai
anche zitto perché la tua ragazza è qui vicino a me.
Nei fumetti dicono GRRRRRR!! Ecco stavolta avrei detto volentieri così,
ad alta voce, l’avrei presa a sberle, l’avrei insultata in otto lingue, dall’inglese
al tedesco, al giapponese, passando per quella lingua che non ho mai capito
che è l’Esperanto. Ma mi volete dire cosa cazzo è l’Esperanto? Ma chi l’ha
inventata e perché l’ha inventata? Chi l’ha parlata e soprattutto chi la conosce? Sto divagando con il pensiero mentre mi rigiro nel letto del mio monolocale.
Una brutta festa, il magone allo stomaco me lo porto a spasso, la rabbia
mi cova nei pertugi dell’intestino e della milza, la sensazione di essere stato
preso in giro da una ragazzina di seconda Liceo, IO, studente in Scienze
Politiche nell’indirizzo politico-sociale, mi invade cervello e pareti liquide.
Tento una lettura sociologica del fatto, ma mi rendo conto che più che un
sociologo mi sento un benemerito imbecille, ingenuo peraltro. E così decido
di non leggere sociologicamente la cosa. Va beh! Tento di dormire, mentre
mi accorgo che sono ormai le quattro del mattino.
L’unica decisione che mi sento di prendere è quella di tenere tutto per
me, senza nemmeno dirlo a mio fratello. A meno che non lo utilizzi per
vendicarmi. Magari lui ha la possibilità di farlo. Deciderò domani. O dormendo, magari.
16 ottobre
Sono le nove in punto quando varco la porta dell’agenzia interinale che
oggi mi assumerà per ben sei giorni a volantinare. Il volantinaggio è un’arte.
C’è chi sostiene che l’arte di volantinare consiste nel soddisfare un centinaio
di case e nel rovesciare in un paio di bidoni delle immondizie l’ammasso di
volantini rimasti. Ma siccome io sono tutto d’un pezzo, mi propongo di consegnarli tutti, nel settore a me riservato.
Compilo quello che c’è da compilare, consegno i documenti che servono
e mi fanno una piccola ramanzina. Tutto ok, comunque, posso iniziare anche subito. Mi dicono che tra poco arriverà anche un altro ragazzo che dovrà
fare il mio stesso lavoro.
L’ipermercato ha deciso di focalizzare la distribuzione in periferia. A me
danno quella nord, a lui quella sud, per tre giorni. Poi da giovedì a sabato
avrò quella est e lui quella ovest. Mi dicono dove recarmi a ritirare i volantini.
È esattamente l’ipermercato dove feci il colloquio pochi giorni fa. Dentro di
me sorrido, magari ritroverò il trio delle meraviglie che mi fece il colloquio.
Lo spero.
Arrivo là che sono quasi le undici e mi mandano da un ragazzo incravattato
VA BEH!
127
che mi spiega quello che c’è scritto sul depliant e onestamente non me ne
frega niente. Mi mostra l’ammasso di volantini da consegnare. Sbianco. Me
ne consegna un po’, mi augura buon lavoro e mi ricorda la zona in cui
andare. Parto all’avventura con lo zaino in spalla. Prima distribuisco, prima
finisco, è il motto.
Parto felice e contento verso la zona nord. Sono già stanco.
Mi stravacco sul letto del mio monolocale quando sento la campana della
chiesa suonare le sette di sera. È stata una faticaccia brutta, una rottura di
palle bella e buona. Ho consegnato migliaia di volantini qua e là, dove
c’erano campanelli, ingressi, porte, portoni, appartamenti, entrate. Ho le
mani appiccicaticce di stampa, uno schifo totale.
Telefono all’Anto, parliamo un quarto d’ora di tesi, di volantinaggio, di
stronzate varie, del mio compleanno fra tre giorni, di cosa fare, di come
passare la serata, di cosa c’è in tv, del tempo di domani. Alla fine della
telefonata sono più stanco di prima, decido di fare un riposino prima di
prepararmi la cena: cannelloni di magro al forno. E intanto decido che per
questa settimana non aprirò un libro di sociologia dell’educazione.
19 ottobre
Fa freddino stamattina e metto i piedi giù dal letto alle sette e tre quarti e
già penso ai volantini che dovrò distribuire oggi in altra zona della città.
Questo lavoro è estenuante, il tuo zaino sembra sempre pieno: tu ne consegni, che ne so, cinquecento, e ne hai ancora altrettanti da consegnare in
mezz’ora. Sembra che Gesù abbia inventato anche la moltiplicazione dei
volantini oltre che dei pani e dei pesci. Va beh, alziamoci, che oggi è pure il
mio compleanno e stasera, stanco e felice, uscirò a cena con l’Anto.
Mi doccio felice nel loculo, contentissimo di compiere ventiquattro anni e
di non avere ancora combinato granché in questa vita se non sputtanare
soldi qua e là per una Laurea, farsi lasciare dalla Titti, scopare qua e là
qualche stronzetta, magari francese.
Canto sotto la doccia, mentre mi prendo una botta nel gomito destro che
mi fa imprecare. Questo bagno è incredibilmente scomodo.
Mi asciugo in fretta. Voglio andare a lavorare prima possibile e finire
prima possibile. Magari oggi mi farò prestare uno scooter, per girare più alla
svelta. Chissà che non riesca a godermi qualche ora in più stasera.
Accendo il Nokia vestendomi ed è una raffica di SMS.
La mamma: Auguri bello, il regalo è qui che ti aspetta. Un bacio. Mamma
e papà. Direi classico. Poi Grillo: Ora che diventi più vecchio te lo tirerai di
meno. Auguri Direi da lui, senz’altro da maniaco. Poi l’Anto: Ventiquattro
128
Davide Continati
volte auguri, amore, e stasera te li voglio fare alla mia maniera: live! Un
bacio, Anto. Va beh, direi proprio auguri da morosa. Poi Gigetto: Auguri
vecchio fratellone! Direi ovvio. Poi Alex: Stavo dimenticandomi, caro vecchio mio, che oggi prendevi la strada della terza età. Divertiti… Buon compleanno. Direi che Alex è sempre molto diretto. Poi il Gionni: Compi gli anni
oggi? Non ricordo bene. Se sì auguri, se no, auguri lo stesso. Direi che il
Gionni è un po’ giù di giri.
Incredibile ma vero, poi Carolina! Buon compleanno, ma non è che fai
una festa come quella di tuo fratello? Così almeno ti vedrei. Un bacio. C.
Resto per un attimo perplesso. Non riesco a capire questa tipa. È incredibile come cambi parere da un minuto all’altro. È un tormento, e proprio
adesso che stavo dimenticandomela, volente o nolente, rispunta dal nulla.
Le rispondo: Nessuna festa, ma vorrei vederti anch’io. Ciao e grazie x gli
auguri. Deglutisco e controllo che non ci siano altri SMS, poi mi reco al
lavoro, infelice.
Non mi è mai piaciuto scopare in macchina. Sì, l’ho fatto, anche con la
Titti, sono cose che si fanno, ma scopare in macchina è scomodo. Intanto la
mia Punto blu è stretta, non è ampia, e dunque si fa fatica a trovare un po’
di spazio per stare tranquilli. Poi c’è quel maledetto freno a mano tirato che
spesso spunta di qua o di là, a destra o a sinistra, e dà veramente fastidio.
Il bello è che col bel monolocale che ho (!) stasera, giorno del mio compleanno, io e l’Anto siamo finiti a scopare in macchina, sulla Punto. È vero
ci sono i momenti in cui non riesci più a trattenerti, non riesci ad arrivare a
casa, però forse il mio letto sarebbe stato decisamente più comodo. Pazienza. Dopo cena un diversivo magari ci voleva. Va beh!
21 ottobre
Oggi termino il mio lavoraccio con questi cazzo di volantini. La zona da
coprire è molto meno ampia, tra l’altro c’è il sole che scalda un po’ questo
brutto ottobre e la giornata è meno noiosa del previsto. Lunedì dovrò ripresentarmi in agenzia per incassare gli Euro e riportare lo zaino e tutto quanto.
Dopo un’ora comincio a sudare un po’ troppo. Mi sono messo un maglione troppo pesante pensando che ci fosse freddo e invece fa quasi caldo.
Alle dieci e mezza mi aggiro in una zona residenziale periferica. Il sole batte
caldo, la strada è deserta e vengo attratto da un insolito monumento. È
grigio, ha un paio di maniglie nere, le rotelle, possiede un suo bello spazio,
insomma ci sta proprio bene lì, fa parte del paesaggio. È giusto rifornirlo di
volantini anche lui. Scarico i volantini rimasti, qualche centinaia, nel bidone
dell’immondizia. Sorrido, esulto, mi esalto. Felice e contento.
VA BEH!
129
22 ottobre
Ho litigato con l’Anto, di brutto. Davvero di brutto ed è la prima volta,
tanto che mi faceva quasi impressione. Ha scoperto l’SMS di Carolina. Sono
stato un ingenuo, troppo ingenuo. È arrivato un messaggino da Alex mentre
ero nel loculo a pisciare e le ho detto di vedere chi era. Dopo aver letto il
messaggio del mio amico, evidentemente si è accorta di quello di Carolina.
Mi ha chiesto chi era, cosa voleva, insomma mi ha fatto una mezza scenata
e io rispondevo a monosillabi, o non sapevo che rispondere, cosa fare, cosa
dire, che palle raccontare perché poi in questi casi si raccontano solo delle
palle tremende. E infatti le ho detto che è una che mi sta tampinando, che
però non mi interessa. E lei mi ha chiesto perché le ho dato il mio numero di
cellulare. E io le ho detto che gliel’ha dato mio fratello perché fa il Liceo (e
questa non è una balla). E lei mi ha detto che farei meglio a lasciar perdere
le lolite (ha detto proprio così). E io le ho risposto che infatti le lolite non
fanno per me. E lei mi ha detto che questa storia puzza e di lasciarla perdere
prima che prenda lei l’iniziativa telefonandole. E io le ho detto che non
doveva permettersi di farlo perché non ne aveva il potere e di non annotarsi
il numero di cellulare di Carolina come stava facendo. E lei mi ha chiesto
quando l’ho conosciuta. E io le ho detto a casa mia per la festa di mio
fratello. E lei si è messa a ridere dicendo che non ci credeva.
Insomma, per farla breve, siamo poi passati alle parolacce e lei se n’è
andata sbattendo la porta.
Da alcuni giorni Anto non è più nel mio cuore. Da quando Carolina è
entrata di prepotenza nel mio cervello, il rapporto con la mia ragazza è
diventato freddo, formale, meno intenso. Sì, magari poi anche scopiamo,
ma che vuol dire? Carolina mi ha fuso, la cotta che ho preso mi ha devastato. Davvero. Sicuro. È così. Ora pago le conseguenze. Purtroppo, perché
l’Anto l’ho sempre sognata fin da quando eravamo matricoline. Forse era
destino, forse ora è solo una crisi, non so. Rifletto mentre mangio un cannoncino
alla crema pasticcera e mi scaldo il primo té caldo autunnale. Col limone,
ovviamente. Sono triste, sono rammaricato, sono sbandato.
25 ottobre
Mi fiondo nel negozio di profumeria qualche secondo dopo l’apertura.
Carolina non c’è, chiedo di lei, mi dicono che è a casa a studiare, ringrazio,
esco. Devo vederla subito, devo parlarle. La mia storia con l’Anto è in crisi
nera, forse irreversibile, ieri sera siamo stati tanto a parlarci al telefono ma,
malgrado le spiegazioni, non siamo riusciti a ricucire lo strappo. Alla fine, va
beh, lo ammetto, sto quasi utilizzando questa storia dell’SMS di Carolina per
130
Davide Continati
chiarire me stesso, per rendermi conto che con l’Anto non è più come prima, che sono quasi bloccato con lei, non so nemmeno come spiegarlo a me
stesso.
È quasi meglio che la cosa si interrompa se non deve funzionare. Forse
avevo ragione io quando non volevo che diventasse la mia ragazza. Per me
lei era un mito, una cosa irraggiungibile e quando l’ho raggiunta non è più
rimasta un mito, si è quasi umanizzata. Finché mi sono innamorato di una
diciottenne che si spaccia per ventenne, di una studentessa dell’Ariosto che
si spaccia per un’universitaria, di una che ci sta poi non ci sta poi ci sta, poi
forse.
Alla fine ho raccontato tutto all’Anto. Mi ha cortesemente mandato affanculo.
Giustamente, peraltro, va beh, l’avrei fatto anch’io. Cornificata e mazziata,
ecco cos’ho combinato. Le ho chiesto scusa, non se ne parla, ovviamente.
‘Capitolo chiuso, allora?’ faccio io. ‘Lasciami in pace’ fa lei. Fine della conversazione.
Devo dire che sono stato male stanotte, ho vomitato, come al solito quando mi prende un tremendo dolore, una tremenda ansia, un qualcosa che mi
tocca sul vivo.
Stamattina avevo due occhiaie da far paura, non ho fatto colazione, ho
girovagato per il centro come un automa, senza meta, senza obiettivo, senza
nessuno scopo se non quello di far passare il tempo e arrivare al pomeriggio
per vedere Carolina.
Mi avvio verso la casa di Carolina, so dove abita, suono il campanello
dell’appartamento, mi risponde lei, le dico che le devo parlare, subito, che
ne ho bisogno. Mi fa salire. Capisco che c’è sua madre in cucina che forse
vorrebbe ascoltare o sta ascoltando, le chiedo di uscire, di andare giù, magari al giardinetto solito anche se fa freddino oggi pomeriggio, c’è pure un
vento fastidioso. Lei dice di no, allora andiamo in un salottino e chiude la
porta.
Le dico tutto, che comunque non riesco a non pensarla, che per un po’
mi ero illuso di averla dimenticata, ora mi è tornata nel cuore, che la amo sul
serio, che ho rotto con l’Anto, eccetera eccetera, via con le solite sbrodolate…
Carolina mi guarda negli occhi e mi dice che non se la sente, che le
piaccio, che starebbe bene con me, ma non ora, no, deve studiare, eccetera
eccetera, via con le solite sbrodolate…
Uffa!!! Mi alzo in piedi, urlo che non può giocare così, un giorno sì e l’altro
no, un giorno ci sta e l’altro no, un giorno mi vuole e l’altro no! Basta! Grido
un po’ troppo e difatti sua madre fa capolino nel salottino. Carolina mi
presenta come un amico, le spiego che sono il fratello di Gigetto, ma lei dice
VA BEH!
131
di non conoscerlo, poi si ricorda della festa e sorride. Chiede se voglio qualcosa, poi dice a Carolina che deve andare in negozio ad aiutare la commessa. Esce.
Io e Carolina ci guardiamo per lunghi secondi, minuti, che ne so quanto
tempo passa, è un addio questo, me lo sento. Un addio tra due persone che
si amano, o almeno sembra, ma che non vogliono mettersi insieme. Questa
la mia lettura sociologica del cazzo. E quando io leggo sociologicamente le
cose, queste ultime vanno regolarmente a catafascio.
Esco da casa sua con un muso lungo così e mi dirigo verso Pablo’s.
28 ottobre
Questo è uno di quei sabati sera fatti apposta per punirsi, quelli che ti
piombano addosso quando sai che l’hai fatta grossa o magari te l’hanno
fatta grossa. Ti chiudi in te stesso, ti isoli, stai a casa tua per i cazzi tuoi, hai il
morale sotto i tacchi, sei sfinito da un groviglio di emozioni. Eccomi qua,
davanti alla tv a sentire delle barzellette stupide che non mi fanno ridere,
anzi mi fanno incazzare ancora di più, mi fa senso vedere persone ridere
quando io non ne ho voglia.
L’ho fatta grossa, ho cornificato lAnto, ma io sono un uomo (va beh,
facciamo ragazzo, diciamo giovane sociologicamente parlando) fondamentalmente sincero. Sì, va beh, le bugie le dico, ma chi non le dice? Però quelle
grosse non so dirle, non riesco a tenermele dentro. Che schifo. Però l’hanno
fatta grossa anche a me. Io Carolina la amo, o almeno in questo momento
è la persona che desidero di più, con la quale desidero stare, parlare, discutere, ridere, sorridere, chiacchierare, divertirsi, correre, spaziare, scopare,
perché no, ma lei sì mi vuol bene, sì mi ha detto un sacco di balle, sì però mi
vuol bene, ma poi alla fine non vuol mettersi con me. O con nessuno.
Respiro profondamente, mentre giro con il telecomando su un’emittente
privata che trasmette un botta e risposta politico, poi vado su un documentario sui Caraibi, poi mi cucco la solita televendita di numeri del Lotto, mi
assaporo le previsioni del tempo di un meteorologo ottantenne, mi addormento.
Mi sveglio di soprassalto quando sono le due e un quarto di notte, solo,
nel mio monolocale del cazzo, lasciato dall’Anto, rifiutato da Carolina. Sospiro. Ma io sono tutto di un pezzo e ce la farò. Mi autoconvinco mentre una
lacrima mi sgorga felice (beata lei) sulla mia guancia.
Torno a letto, ma credo che farò fatica a riaddormentarmi.
132
Davide Continati
11° CAPITOLO
1 novembre
La festa dei Santi mi pone sempre una serie di quesiti. Intanto, perché c’è
la festa di tutti i santi quando ogni santo ha il suo giorno preciso in cui è
festeggiato? Poi, io dico: ammesso che un Santo, poverino, non abbia un
suo giorno, è giusto ricordarlo oggi, ma allora quelli che hanno il loro giorno
vengono festeggiati due volte e non è giusto. No, cari miei, non è proprio
giusto. O ci sono Santi di serie A e Santi di serie B?
Non ho mai capito perché devo sempre andare al camposanto il giorno
dei Santi e non quello dei morti, che sarebbe poi domani, mica tra tre mesi.
Festeggiamoli domani questi defunti! No. Mia madre da sempre esige che il
giorno dei Santi vada con lei al camposanto. Io in quel posto non resterei
nemmeno un secondo, ma non per offesa a loro, poverini, no, no, c’è anche
mio zio Piero, quanto gli ho voluto bene! Però è un posto che mi dà tristezza,
mi dà ansia, mi dà mestizia. Figuriamoci adesso, visti i giorni che sto passando.
Arrivo sulla tomba dello zio Piero con un mazzo di fiori in mano, va beh,
non so nemmeno che fiori siano, forse orchidee, forse garofani, forse anemoni, forse gladioli, per me è arabo. Sono belli e li deposito sulla tomba,
mentre mia madre trova, come sempre, qualcuno con cui chiacchierare.
Non è rispettoso chiacchierare al camposanto, dà fastidio a me e credo che
anche lo zio Piero la pensi così.
Oggi chiamerò l’Anto, cercherò di tappare il buco, cercherò di farle capire
che mi sono reso conto dell’errore, che lei è sempre la numero 1, da quando
eravamo matricoline. Le dirò così. È una settimana che non la vedo, non la
sento, ma la penso. Ho fatto una stronzata con Carolina, lo so, ma ormai la
frittata è fatta e non c’è più nulla da fare. E se proprio non ci sarà davvero
nulla da fare, reciterò il definitivo De profundis al nostro amore.
Recito la preghiera con mia madre e mi avvio a lunghe falcate verso casa
e verso il cellulare. La chiamerò subito.
VA BEH!
133
2 novembre
Oggi è il giorno dei morti: sono morto. L’Anto mi ha rimandato affanculo
e non posso darle tutti i torti anche se credevo che fosse, come dire, più
flessibile. Invece niente, niente da fare. L’ho fatta troppo grossa, lei non
sopporta di essere presa in giro e malgrado tutto, non ne vuole più sapere.
Le ho fatto gli inboccaallupo per la tesi, presto lei la discuterà, questione di
qualche mese, davvero, e sarà fatta. Bravissima. Scusa, Anto, colpa mia.
Ma il mio è stato un autogol degno del miglior Niccolai o del miglior Tarantino.
Pedalo a tutta birra verso la vetta di questa collinetta, scollinerò felice (si fa
per dire) e giù a perdifiato in discesa. Ho le gambe dure, da circa un’ora e
mezza faccio il corridore professionista. Pazzesco. L’aria mi sferza gelida, ma
non mollo, fa un freddo cane, ho camicetta, felpa e giacca a vento imbottita
e ho quasi freddo nonostante sudi da morire, ho le gambe pesanti come
macigni, ma devo scaricare tutta la mia rabbia, il mio pathos, devo distruggere tante tossine. Devo risuscitare, oggi, giorno dei morti.
4 novembre
Sono le sei e un quarto di un piovoso pomeriggio di novembre quando
chiudo il libro di Sociologia dell’educazione. Mi butto sui libri nei momenti di
difficoltà e questo è francamente insopportabile. Anzi, doppiamente insopportabile perché: a) sei in un momento di difficoltà e già questo ti turba, b)
studi come un deficiente per dimenticare le difficoltà e perdi tempo prezioso
per… che ne so… divertirsi, o andare al cinema, o andare in giro con gli
amici, o… boh!
Ultimamente sto ragionando per punti, per compartimenti stagni e non
so se è un bene o un male. A volte mi chiedo se ragiono o sragiono. A volte
mi chiedo se sono normale a fare questi discorsi. Credo di no, o forse sì.
Il Nokia trilla come un dannato e rispondo con curiosità perché il numero
non lo conosco. Incredibile, è Françoise che mi attacca uno dei suoi proverbiali
bottoni in francese. Eppure ci siamo visti venti giorni fa, più o meno! Per
telefono capisco davvero poco, lei parla tanto, in fretta e non potendo vederla in faccia riesco a decifrare, diciamo, il 40% dei suoi discorsi. Non male,
d’accordo, ma a volte mi sembra di capire una cosa e dieci secondi dopo
l’esatto contrario.
Va beh, c’è sempre il metodo del darle sempre ragione, ma non lo uso
perché Radio France Fatale è pericolosissima, è capace di capitarmi qui da
un momento all’altro. Alla fine mi pare di capire che esce con un ragazzo
parigino, Pierre, o forse si chiama Perec di cognome, comunque ci esce
134
Davide Continati
insieme e sono contento per lei, e per me. Le racconto due tre cose, tipo
venti secondi, e ci salutiamo affettuosamente. Una telefonata frenetica e
convulsa. Come lei, d’altronde.
Vado a docciarmi nel loculo. Ma stasera torno al paese, uscirò con i tre
dell’Ave Maria: Gionni, Alex e Grillo.
7 novembre
Continua a piovere, è incredibile quanto stia piovendo in questi giorni.
Sembra una metafora stiracchiata ma la faccio: piove fuori e dentro di me.
Oggi sono in Facoltà per una specie di aggiornamento, una sorta di notiziario sul mio corso di studi. D’altronde anche da certe cose si vede quanto uno
studente tenga alla sua laurea. In pratica, io vengo qua dentro pochissimo e
non mi fa né caldo né freddo. Davvero.
Mi sistemo in sala lettura a studiare e guardo i miei colleghi studenti. Il
30% di loro studia seriamente, altri chiacchierano sottovoce, altri fanno la
spola tra le varie postazioni di lettura, altri certamente hanno gli occhi sui libri
e la mente che vaga verso altri pensieri.
Fra circa un mese avrò un altro esame, ma ormai mi sto assuefacendo
anche a questo, e d’altronde è anche positivo perché se a questo punto della
mia carriera universitaria dovessi ancora farmi delle paranoie per un esame
sarei da manicomio sicuro.
Sono nervoso in questi giorni, sono quasi intrattabile, ho un magone
enorme sullo stomaco e sembra che non riesca a superare la cosa. Forse è
ancora troppo fresca. Forse è ancora troppo recente. Forse è troppo grossa.
Verso le sedici vado a farmi un caffè al Caffè degli Studenti. È poco
frequentato a quest’ora, lo sarà di più verso le sei quando terminano le
lezioni e quelli che restano in città anche stasera vanno a coltivare le relazioni
qui dentro, magari cercando di attaccare bottoni, di essere simpatici, di essere divertenti, o magari, anzi sicuramente, di agganciare qualcuno o qualcuna.
Mi siedo in un tavolo appartato, sbevacchio velocemente il mio caffè
macchiato caldo, osservo tutti quelli che entrano. Oggi osservo tantissimo,
tutti, dal primo all’ultimo, e mi piace. Dovrei fare questo lavoro. Divertente,
mi piace davvero. Peccato che l’osservatore non esista. Sospiro mentre il
fantasma dell’Anto sembra seguirmi dovunque, dietro ogni angolo, in ogni
posto, in ogni dove. E sono sempre più nervoso. Adesso, da qualche giorno,
ho anche preso un vizio, o un tic, o chenneso. Mi strappo i peli del naso, uno
alla volta, drasticamente. Fa schifo, da fare e peggio da vedere, immagino,
me ne accorgo, fa anche male, tra l’altro, cerco di non farlo, ma è più forte
di me e lo faccio quasi in maniera meccanica. Devo parlarne con qualcuno,
VA BEH!
135
qualcuno che mi dia qualche buon consiglio.
Prendo la rosea, fregandola sotto il naso a una matricola e mi guardo la
Top 11 del campionato di serie A. Utile perlomeno a creare in me una
distrazione.
11 novembre
Ho fatto il pieno stasera. No, non della Punto, ma dello stomaco. Mia
madre ha cucinato un piatto di lasagne al pesto alla genovese che un morto
avrebbe cantato per la gioia i Carmina Burana senza conoscerli nemmeno.
Poi, tanto per gradire, ho spazzolato via una fetta enorme, praticamente
due, di Sacher torte, fatta in casa.
Stasera, anzi stanotte, sarà lunga e imprevedibile, visto che il Gionni ha in
programma una mega gita sulla riviera dove cercheremo di isolarci da tutto
e da tutti, senza avere mete. Una serata strana e divertente, ma diversa da
quella solita on the road. No, questa è una serata senza programmi e senza
orari, da pazzi, che poi alla fine parti con tante idee e tante aspettative e poi
di solito ti ritrovi con un pugno di mosche in mano.
Lo dico chiaramente: vorrei uscire con l’Anto stasera, adesso, parlarle,
cercare di chiarire tante cose, farle sapere quello che penso di lei, eccetera
eccetera. Non mi lamento della compagnia dei tre, il Grillo, il Gionni e l’Alex,
non posso lamentarmi, sarei stupido, sto bene con loro, mi divertirò, spero,
li conosco da una vita, anche ora mi stanno vicini, ma vorrei essere con
l’Anto o con Carolina, ma questo è un pensiero sottovoce.
12 novembre
Inizia a piovere quando entro nel mio monolocale del cazzo, saranno più
o meno le sei di mattina e gli occhi mi si stanno quasi per chiudere dalla
stanchezza. Non mi sono divertito, o forse sì, l’idea era giusta, buona, interessante, divertente appunto, ma forse ero io a non avere lo spirito giusto.
Bevo a collo un sorso di acqua frizzante, ma peggioro lo stato del mio
stomaco che sembra rivoltarsi come un calzino puzzolente. Ho già vomitato
stanotte, verso le tre e un quarto, quando il panino wurstel e senape preso
dai mitici chioschi della riviera un’ora prima, ha raggiunto drammaticamente il mio duodeno, o comecazzosichiama, massacrandomelo e ho rimesso il
tutto in mezzo a un’aiuola. Alle undici mi sentivo bene, non dico in forma,
no, questo no, sarebbe obiettivamente troppo, però ero tranquillo, sereno,
voglioso di divertirmi con i tre dell’Ave Maria. Poi la serata, da divertente, è
diventata abbastanza divertente, poi un po’ così, poi ci si è messo di mezzo
anche quel dannato panino wurstel e senape e ho sbracato totalmente.
136
Davide Continati
Ho il chiodo fisso delle due ragazze cui voglio bene, lo ammetto, lo si
capisce, lo si è capito, lo capirebbe anche un deficiente. Vorrei uscire con
una di loro, vorrei avere Carolina tra le mie braccia, vorrei sentire il mitico
profumo dell’Anto e vorrei che dicesse che ha capito il mio sbaglio. Mi sento
un coglione invece, questa è la verità ed è tutta colpa mia.
Mi stendo sul mio letto ancora vestito. Poco dopo sento ancora l’urto del
vomito e mi precipito in bagno. Rimetto tutto, cioè niente perché ho solo
bevuto dell’acqua minerale gassata, il panino è spappolato in una aiuola.
Ho i nervi a pezzi, mi sento depresso, nemmeno la cura dei tre dell’Ave
Maria ha funzionato. Brutto segno.
14 novembre
Improvvisamente mi sono ricordato che a inizio dicembre dovrei sostenere l’esame di Sociologia dell’Educazione. Improvvisamente mi sono rimesso
a studiare come un deficiente. A me davvero lo studio sembra un modo per
esorcizzare le mie difficoltà, le mie insicurezze, le mie paranoie, le mie debolezze.
Ho pensato di andare da uno psicologo per capire cosa mi sta succedendo, poi ho lasciato perdere perché lo psicologo, anzi la psicologa ce l’ho in
casa ed è la mamma. Le ho spiattellato tutto, dall’inizio alla fine, un’ora e
mezza filata di racconto, di storia, di aneddoti, di tutto, davvero. Va beh, non
è che sono stato precisissimo su tutto, no, questo no, però sono stato sincero, però sono stato sicuro di me stesso, però gliel’ho fatta capire. Sul serio. E
poi le mamme sono sempre le mamme e capiscono sempre più degli altri.
Psicologi compresi.
Mi ha consigliato di distrarmi, di divertirmi, di studiare (va beh, questo era
logico), di non pensare al peggio, di alzare le spalle, di considerarle, quelle
due, acqua passata. Che prima o poi la ‘ragazza 3B’, come dice lei (bella,
buona e brava) la troverò… eccetera.
Ecco, forse l’unica cosa che mi è un po’ stata sulle balle è stata quest’ultima, però in generale parlare con la mamma mi ha fatto bene, lo sento, sto
un po’ meglio, anche se quest’anno me ne sono successe davvero tante.
I libri li sto divorando alla grande, li sto quasi sciupando, ma è un bene,
senza dubbio, è un bel segno. Tanto che sono convinto che questo esame lo
passerò alla grande. Anzi, devo anche ricordarmi di iscrivermi alla svelta.
16 novembre
Mi fiondo da Pablo’s verso le otto e tre quarti. Ho deciso di concedermi
una colazione super, stamattina. Mi spolvero via un cornetto al cioccolato da
VA BEH!
137
favola e ci bevo dietro un latte macchiato fenomenale.
Franz si ferma a fare due chiacchiere con me, è un po’ che non mi vede
e si era quasi preoccupato. Gli racconto una serie di palle esagerate, tipo che
sto uscendo con una che è giunta seconda al concorso di Miss Cile, che però
è meglio di Miss Cile, che mi ha invitato a Santiago per le feste di Natale, che
me la spasserò con lei e così via, tanto che Franz passa da espressioni divertite a sempre più serie, finché resta quasi a bocca aperta come un pirla.
Credo di essermi vendicato di tutte quelle porcate, perché di porcate si
trattava, che mi ha raccontato lui, come quella sua ex ragazza che nemmeno ricordo come si chiamava. Mi fa i complimenti e quasi quasi riesco a
scroccargli la colazione gratis, se non che, mentre sto per chiederglielo, entra
il suo principale che lo chiama al banco e per me giunge l’ora di sborsare i
primi Euro quotidiani.
Mi avvio fischiettando verso la zona universitaria, stamattina fa freddino
ma mi sento bene, sono euforico, vorrei fare l’esame subito, e invece vado
solo a iscrivermi per non essere troppo indietro nella lista.
La Titti è ferma sul portone della sua facoltà e la vedo a distanza di almeno cinquanta metri. Vorrei tornare indietro, non posso fare un’altra strada
perché non c’è, sono convinto che anche lei mi abbia già scorto e ora non
mi resta che passarle davanti. Ho il cuore a martello, non so se si dica così,
va beh, mica faccio medicina, ma rende l’idea, e avanzo verso di lei con
un’espressione indefinita. Vorrei vedermi nello specchio, in questo momento. Davvero. Sarei curiosissimo di vedermi.
Il ‘ciao’ che ci scambiamo è il più freddo che la storia dell’umanità ricordi
e d’altronde non so davvero se poteva essere qualcosa di diverso. Le mie
gambe d’improvviso si bloccano, sembrano diventate di sedano, di cemento armato, bloccate, immobili, terribilmente ferme.
La Titti abbozza un sorriso, diciamo così, e il mio ‘Come stai?’ esce senza
che il mio cervello abbia incaricato la bocca di farlo. È una sua iniziativa
personale dalla quale la mia bocca, pur obbedendo, si dissocia.
‘Sto bene’ fa lei ‘mi sono ripresa bene, ormai sono tornata quella di prima.’ Può anche darsi ma la sua magrezza è davvero incredibile, quasi assurda. Il suo bel visino è tutto ossa. E quella tristezza che mi accompagnò quando la vidi su quel letto d’ospedale riemerge tutta intera.
‘Aspetti Luca?’ faccio io, con la bocca che sta per mandare affanculo
anche il mio cervelletto. ‘No, aspetto una mia amica’ risponde la Titti. Vero
o no, a me non deve interessare, anzi mi chiedo perché davvero non sto
zitto. Comunque credo che non sia vero. Alla fine l’impulso del cervello
arriva alle gambe, e dopo un ciao, secondo solo al primo nell’ipotetica classifica dei saluti più freddi, mi avvio verso la Facoltà di Scienze Politiche.
138
Davide Continati
Quella splendida colazione che ho fatto poco fa è ormai solo un ricordo.
In Facoltà mi iscrivo senza problemi. Passeggio un po’ sotto il porticato,
cerco di farmi un’idea della fauna che sta brulicando lì sotto. Siamo in pieno
periodo di lezioni e si vede. A volte mi pare di conoscere un po’ tutti, a volte
mi pare di non avere mai visto in faccia nessuno, di sentirmi un estraneo lì
dentro, in quell’ambiente. Mi fermo vicino alla bacheca di sociologia e fingo
di consultare i fogli appiccicati. Una ragazza mi chiede se ho da accendere, le
dico gentilmente che non fumo, lei mi risponde che mi ha chiesto se ho da
accendere, non se fumo. Sorrido, ma la strozzerei. Ha almeno tre piercing
tra naso e bocca e immagino che ne avrà anche sulla lingua. Sono tentato di
chiederglielo, lei mi guarda e mi saluta, girando i tacchi.
Mi sposto nella maxi-bacheca degli annunci. Chi cerca appartamento, chi
si offre come baby-sitter, chi cerca il tal libro o il talaltro, chi vende il tal libro
o il talaltro, chi vende altre cose come palloni da basket o scrivanie o il
proprio vecchio personal computer scassato a 100 Euro, chi propone di
dare lezioni di Economia politica, uno degli esami più duri. Insomma di tutto
un po’.
Mi perdo in inutili pensieri e mi vola via mezza mattina. Ecco cosa mi ha
spesso fregato qua dentro: la distrazione. Tra le ragazzotte, le matricole, il via
vai, le bacheche, le notizie da reperire, le leggende metropolitane sull’Università, il chiacchiericcio, il caffè e l’aperitivo al Caffè degli studenti, le puttanate
con amici, conoscenti e studenti conosciuti a lezione, insomma, è un vero
bordello, un perditempo esagerato, una distrazione continua.
Mi avvio verso casa quando è passato mezzogiorno da un pezzo.
18 novembre
Con il Grillo, Gionni e Alex usciamo verso le dieci e mezza per andare a
ballare. Il Gionni ha il chiodo fisso di una che ‘stavolta ci sta’ e noi lo accompagniamo volentieri. Mi vesto in maniera estremamente semplice, con jeans
quasi sdruciti, camicia nera aderente e golf beige che poi toglierò senz’altro
là dentro.
Le serate in discoteca non riservano sorprese. Sono sempre scandite più
o meno dalle solite cose: il viaggio d’andata in cui favoleggi dei ganci terrificanti e delle scopate favolose; l’entrata in discoteca con la fila per il biglietto
e il buio pazzesco che ti avvolge come un buco nero che mangia qualunque
cosa; il vagare senza meta in attesa di una preda; la consumazione obbligatoria che va dalla birra a collo (che ho sempre odiato e che invece è la
preferita del Grillo) alla coca sgassata con limone e mezzo chilo di ghiaccio,
all’acqua tonica per chi guida, al superalcolico se sei fuori di melone; l’ag-
VA BEH!
139
gancio, solitario o in coppia, a qualche gallinella che sembra, ma solo sembra, che ti abbia guardato pavida e vogliosa allo stesso tempo; il due di
picche nel novanta/novantadue per cento dei casi; l’uscita tra le tre e tre e
mezza con la fila al guardaroba; il ritorno puzzolenti e rintronati dalla musica
a livelli improponibili, vietando categoricamente di accendere la radio; a
letto con il mal di testa.
Va beh, sono cose che conoscono tutti, quasi mai in discoteca si va per
ballare. Non le ho mai amate molto, le discoteche, ma sono sempre andato,
come stasera, per seguire gli amici. E loro sono appassionati di quello strano
mondo. Vorrei addirittura fare una tesi sulla discoteca, davvero, sarebbe
interessantissimo studiare questi qua. Mah!
Il Gionni è introvabile. Si è letteralmente imboscato con quella là. Io l’ho
vista un minuto e onestamente non mi sembrava male. Girovago con gli
altri due per un po’, ci sediamo, girovaghiamo, ci sediamo, girovaghiamo, ci
sediamo, beviamo, girovaghiamo. Alla fine non apro bocca e non conosco
nessun esponente del sesso femminile. Un record? No, una consuetudine,
forse. Il Gionni invece ha cuccato: in macchina è un fiume in piena, racconta
un po’ tutto di questa ragazza. Meglio per lui, ne sono contento.
Arrivo a casa verso le quattro e mezza. Accendo la tv, guardo qualche
pezzo di ‘Non è la Rai’, c’è Ambra incredibilmente bambina, ci sono altre
Lolite. Già le Lolite, come le chiamava l’Anto. Mangio uno yogurt agli agrumi, poi stramazzo sul mio lettino e dopo cinque minuti sprofondo nel sonno.
20 novembre
Continuo drasticamente a strapparmi i peli dal naso. Me ne accorgo solo
quando ormai il povero peluzzo, con tanto di bulbo, si appiccica al dito della
mia mano. Mi faccio uno schifo totale, ma non riesco a trovare il modo di
smettere. Penso anche di andare da un medico, ma qual è il medico dei peli
del naso? Alla fine decido di evitare ogni paranoia e di concentrarmi sui libri
che sto divorando in quantità industriale. L’esame è a portata di mano, sta
arrivando tra pochi giorni e devo essere strapronto.
Mi faccio degli spaghetti col pesto che forse nemmeno un vero genovese
sarebbe capace di fare. Mi esalto un po’ e mi spupazzo un piattone da un
etto e trenta. Troppi, forse, anche perché dopo mezz’ora e averci mangiato
dietro tre cannoncini alla crema (mitici) sono sul letto con un mal di stomaco
tremendo. Ho l’impressione, come dice mia madre che ieri mi ha nuovamente psicanalizzato, di aver superato un po’ il confine tra l’eccessivo nervosismo e la linea rossa dell’esaurimento mentale. Forse mi faccio troppe paranoie,
forse tutto quello che mi è successo quest’anno è un po’ troppo, sentimen-
140
Davide Continati
talmente parlando, e io non ci sono affatto abituato, cazzarola!
Accendo la tv, guardo i gol della serie B del giorno prima, poi mi cucco il
commento sul campionato di basket e quindi decido di tornare sui libri.
Gionni mi chiama verso le sei e mezza, quando sto per uscire a prendere
la classica che più classica non si può boccata d’aria. È trafelato e continua a
sparare notizie e aggiornamenti sul suo amore cuccato in disco. Questa ci
sta, in poche parole, e io mi devo sorbire questa quaresima di racconto. Va
beh, facciamolo perché è un amico e perché poi io ne ho sparate tante
ultimamente che anche loro hanno il sacrosanto diritto di farsi ascoltare da
me.
Dopo circa ventitré minuti primi di conversazione, Gionni molla la presa
e conclude che alla fine si stanno mettendo insieme. E allora dico, ci volevano ventitré minuti per dirmi tutto ciò? Esco e vado da Pablo’s e decido di
cenare lì.
22 novembre
Esco con Walter stasera. Mi ha chiamato nel pomeriggio e ogni tanto ci fa
piacere vederci e raccontarci tante cose. L’amicizia che mi lega a lui è diversa da quella con i tre dell’Ave Maria. Con lui vado a sprazzi, a momenti, a
periodi. Ci frequentiamo per giorni e giorni di fila, poi stiamo mesi senza
vederci o sentirci. Però siamo amici, però siamo amici sinceri.
Decidiamo di andare in un Irish Pub in periferia, uno di quei locali dove
si respira male e si beve molto, anzi moltissimo. Io non amo granché quei
posti lì, ma mi adeguo, va beh, è chiaro, anche e soprattutto per far piacere
a Walter.
Chiacchieriamo molto, di donne, di ex fidanzate, di gnocche nel locale, di
musica, di calcio, insomma una serie di cose ovvie ma logiche. Mi parla
anche di un video gioco nuovissimo e della sua nuova formidabile Playstation.
Usciamo da lì verso l’una, fa un freddo cane stanotte, ormai è quasi
tempo di giacche a vento. Walter sulla porta saluta tale Oriana, o Fabiana, o
Tatiana, non riesco a capire, fatto sta che questa gli attacca un bottone
clamoroso e alla fine capisco che c’è stato qualcosa tra loro, ma io non l’ho
mai saputo. Alla fine si salutano con un bacio che definirei casto, ma poi
Walter mi fa capire che se l’è portata a letto un po’ di tempo fa. Mi complimento con lui, anche perché obiettivamente non è che sia una ragazza che
fa schifo… Anzi… Si chiama Tatiana, è russa, ma è in Italia da una vita.
Infatti avevo notato uno strano accento.
La serata si chiude senza tante emozioni, forse invece avevo bisogno di
qualche bella emozione, di quelle scariche di adrenalina che ti entrano in
VA BEH!
141
circolo e ti fanno vivere giorni felici perché hai combustibile nel motore.
25 novembre
Sto benissimo. Mi sento bene. Non ho problemi. Ci vuole forza di volontà, ci vuole coraggio per affrontare le situazioni difficili. Sono nevrotico, sono
nervoso, sono bloccato, sono solo. Ma sto benissimo. Studio come un deficiente per delle ore; non l’avrei mai fatto fino a pochi mesi fa. Ora lo faccio.
Ma sono sempre io. Sto benissimo.
Prendo un budino al cioccolato nel supermercato vicino a casa. Fare la
spesa a volte mi rilassa, a volte mi scassa, nel senso che è una rottura di
coglioni enorme. Una delle cose per cui è bello vivere con i genitori è che vai
a fare la spesa solo quando la mamma o il babbo non hanno proprio tempo. Qui in città mi devo arrangiare, e mi arrangio, va beh, mi arrangio, ma
la spesa è una delle cose che mi sta più sulle balle. Come lavare i piatti.
Come pulire il cesso. Come docciarmi in quel loculo.
Lei avanza di fronte a me spingendo il carrello. È bionda, ha un bel
visino, altezza media, magra, ma fatta benino, poco seno come piace a me.
Prende un barattolo di sottoli, o sottaceti, o sottoqualcosa, e prosegue il suo
viaggetto tra gli scaffali infiniti del supermercato. Ha gli occhi azzurri, più si
avvicina a me, più ne so apprezzare il viso, il fisico, il portamento, i bei capelli
biondi, il modo di vestire. La incrocio, mi dà un’occhiata, la guardo, sembra
che un raggio laser azzurro mi trapassi le pupille, il cranio, l’anima. Vorrei
attaccare bottone ma non ci riesco, vorrei conoscerla, ma non ho il coraggio,
vorrei, vorrei, ma non ho lo spirito giusto, ma già mi sembra di volerle bene.
Mi supera, avanza tra gli scaffali, svolta col carrello. E io come un deficiente
mi fermo a guardarla, braccia sul manico del carrello, fin quando sparisce
dal mio sguardo. Prendo un sacchetto di funghi secchi.
27 novembre
Adesso mi sono messo a studiare anche la domenica, a casa mia tra
l’altro dove sono tornato ieri sera. In settimana avrò l’esame e ormai vado
avanti come un deficiente a studiare quasi fosse l’unico obiettivo della mia
vita.
Ieri sera il Gionni si è volatilizzato con la tipa, io mi sono volatilizzato a
casa, così Alex e il Grillo hanno fatto la figura di due cioccolatai alla Cosmo.
Va beh, succede. E comunque ho promesso loro che sabato prossimo dopo
l’esame faremo follie, sempre che le cose vadano bene. Anche perché con
quello che ho studiato e con l’umore e tutto il resto che mi ritrovo, ci manca
solo che mi caccino fuori all’esame.
142
Davide Continati
A tavola sono molto silenzioso, Gigetto mi chiede di Carolina e io di
rimando gli chiedo di Carolina, visto che poi la vede più lui di me. Nessuna
notizia importante, lui non la frequenta, non sa nulla, la vede a volte nell’intervallo, a volte all’uscita. Mi chiede se devo mandarle qualche messaggio.
Gli dico che non è il caso, e poi il suo cellulare ce l’ho ancora, mica l’ho
bruciato.
Mi parla dell’Ariosto, il fratellino, mi parla delle novità e delle puttanate e
delle puttanelle che lo frequentano. Qualcuno si fa qualche canna nei bagni,
qualcuno si struscia nei bagni delle ragazze, qualcun altro si fa masturbare
dalla morosa. Va beh, insomma le solite cose, alla fine.
Metto su ‘Hurban Hymns’ dei Verve, uno dei miei dischi preferiti e lo
sparo nell’etere a tutto volume. Gigetto sghignazza.
30 novembre
Domani ho l’esame di Sociologia dell’educazione. Non ho per niente
paura, sono certo di essere preparatissimo, ho studiato come un deficiente,
ho tutte le carte in regola per superarlo. Non me ne frega nulla di come sarà
la prof, del numero e dell’umore dei suoi assistenti, delle lagne delle studentesse. Domattina vado là e prendo un voto valido, qualunque esso sia. Garantito. Assicurato. Certo. Tranquillo.
Prendo la Punto blu e mi avvio in tangenziale in una lunga gita, da solo.
È ora di cena, c’è meno traffico, faccio almeno quaranta chilometri, telefonino spento perché nessuno mi rompa i coglioni e finestrino mezzo giù. L’aria
fredda di fine novembre mi sferza come la frusta un cavallo. Quando si dice
rinfrescarsi le idee…
143
VA BEH!
12° CAPITOLO
1 dicembre
Sono già una ventina gli studenti nell’aula 8 per l’esame di Sociologia
dell’Educazione, quando ne varco la porta. Quest’aula è carina, ha pochi
posti, è stretta, ma è carina, per quanto, va beh, è logico, possa essere carina
un’aula universitaria, di Scienze Politiche poi non parliamo.
Mi siedo in terza fila, mi pare di ricordare di essere intorno al venticinquesimo
posto della lista per cui temo che slitterò al pomeriggio. Fingo di ripassare, in
realtà faccio la radiografia a tutti i presenti e a quelli che entrano in aula alla
spicciolata. Siamo più o meno tutti fuori corso, dal momento che questo è
un appello dedicato a studenti in debito di esami. E io, va beh, insomma, sì,
lo sono, forse senza grandi debiti, ma il mio debituccio con l’Università ce
l’ho. Che poi sembra un po’ una presa per il culo definirmi o definirci in
debito con tutti quegli Euro di tasse che versiamo. Ma questo è un altro
discorso.
Vicino a me è seduta una ragazza mora, per niente bella, per niente
magra, nemmeno grassa, per carità, ma diciamo così, ben in carne. Mi attacca il bottone classico del pre-esame: mi chiede se ho frequentato. ‘Assolutamente’ rispondo. ‘Assolutamente sì o assolutamente no’ chiede lei. ‘Assolutamente no’ rispondo sorridendo. Mi chiede se non penso che il manuale sia troppo nozionistico. ‘Assolutamente no’ dico io e stavolta sorride lei. Mi
chiede se so se la prof è cattiva. ‘Non lo so’ la stronco io. Alla fine molla la
presa.
Alle nove e venti sono già sotto in due, c’è solo un assistente, maschio,
assieme alla sorridente prof. Come studenti invece, siamo in pochissimi maschi,
a dire tanto un 20%. Evidentemente dev’essere un esame molto… femminile.
A mezzogiorno siamo più o meno a una quindicina di interrogazioni e
non so se sarò in grado di andare sulla sedia del candidato entro la pausa
dell’una.
Faccio a Roberta, così si chiama la mia vicina di banco, un’altra delle
domande tipiche del pre-esame: ‘Che numero sei in lista?’ ’25 o 26' fa lei.
144
Davide Continati
Sorprendente, mi sembrava di avere anch’io uno di quei due numeri. Va
beh.
All’una precisa, la docente sospende il tutto e cita i nomi dei prossimi due
che ricominceranno alle due e quindici del pomeriggio: io e Roberta. Ottimo. Lei sorride, devo ricambiare per educazione. D’altronde questo è l’esame di sociologia dell’educazione o no?
Eccola, mi ha chiesto di andare a mangiare insieme qualcosa. Non ho
mai capito cos’è il qualcosa in queste espressioni. Cosa vuoi mangiare? Un
panino, una piada, un piatto di maccheroni, una porzione di lasagne?
Finiamo al Caffè degli Studenti zeppo di studenti appunto, va beh, è
logico vista l’ora e il nome, a divorare un panino caprese (lei) e una piada
prosciutto crudo e mozzarella (io), seguito da mezza fetta a testa di torta della
nonna coi pinoli e da un caffè.
Roberta non è antipatica, seppur un po’ noiosetta, parla sempre della
Facoltà e delle sue rogne, e degli esami che ha fatto, e degli esami che le
mancano, e dei professori, e della tesi che non sa come fare eccetera. Io
vado un po’ a monosillabi, più che altro un po’ di tensione per l’esame sta
permeando le mie budella piene di piada prosciutto crudo e mozzarella.
Alle due e venti precise siamo sotto, uno accanto all’altra, io dalla prof e
lei dall’assistente a discutere di questo benedetto esame. Capisco subito che
l’assistente è molto più morbido e che la prof è più cagna, anche perché
dopo un quarto d’ora scarso Roberta è già sistemata, mi pare con un bel 28,
e io sono ancora a sudarmi un voto decente con questa bastarda. Alla fine
mi spiattella un 25 che firmo convinto, anche se con tutto quello che ho
studiato potevo anche fare meglio. Pazienza, anche 25 va benissimo, va
beh, ci mancherebbe! Avrei voluto quell’assistente, però, cazzo!
Roberta è già uscita dall’aula, esco anch’io con il cellulare in mano perché
voglio subito far passare un pomeriggio felice alla mamma. Mentre parlo mi
accorgo che Roberta è lì nella sala e sembra proprio che mi aspetti. La
raggiungo sorridendo e le dico del 25, lei mi dice del 28 e usciamo nel cortile
della Facoltà chiacchierando delle bastardate della prof e dell’assistente che
lei definisce carino.
Ritorniamo al Caffè degli Studenti, lei si pappa un succo di frutta, io una
coca. Ho la bocca impastatissima, la tensione però mi si sta scaricando,
anche se i muscoli sono ancora tesissimi. Parliamo ancora qualche minuto
bevendo, lei mi dice che fra qualche giorno tornerà a casa, che qui in città
non ci vive bene, sta in un appartamento con altre tre amiche o conoscenti
o chenneso.
Ascolto quasi in silenzio mentre mi espone i suoi programmi anche per le
vacanze di Natale, poi la sparo grossa e nemmeno, quasi, mi accorgo di
VA BEH!
145
averla detta. ‘Vuoi scopare?’ le chiedo a bruciapelo e forse mentre pronuncio la desinenza del verbo mi sono già pentito. Lei non ci pensa nemmeno
un secondo. Tra la mia desinenza e la sua risposta passano più o meno, va
beh, non esagero, sette decimi di secondo. Usciamo dal Caffè senza dire
una parola, lei mi segue come un cagnolino, zitta. Saliamo al primo piano
della Facoltà, c’è il bagno dei docenti e in quanto tale non va usato dagli
studenti come noi. Ma noi non lo usiamo come bagno ma come alcova. La
differenza tra questo bagno e quelli degli studenti è abissale. Qui c’è profumo, là c’è puzza di piscio; qui c’è la carta igienica a posto, là è dovunque; qui
c’è il water, là c’è la turca; qui è tutto pulito, compreso i muri, là c’è sporco
compreso i muri dove sono scritte le porcate più grandi che l’Italia ricordi;
qui c’è il bidet addirittura, là non è nemmeno passato nell’anticamera del
cervello del suo ideatore; qui c’è il sapone vicino al lavandino, là c’è solo il
contenitore, ma che fine abbia fatto il sapone non lo sa nessuno.
Roberta fisicamente non mi piace, non so nemmeno perché le ho fatto
questa proposta, non so perché siamo qui nel bagno dei docenti a toglierci i
pantaloni, a scopare e nemmeno so chi è lei e lei nemmeno sa chi sono io,
a toglierci maglione, camicia e maglietta io, a togliersi maglia, canottierina e
reggiseno lei, a strapparle le mutande io, ad abbassarmi gli slip di Armani di
cui vado fiero io. Fatto sta che la penetro sul lavandino, scomodissimi, mani
contro il muro lei per reggersi, poverina, magari era meglio cercare un altro
posto, ma la voglia e tutto il resto andavano prese al volo e sbattute sul
lavandino, pulito per fortuna.
Non la guardo nemmeno in faccia, raggiungo l’orgasmo velocemente,
era troppo tempo che ero in astinenza e si vede, ma lei non fa una piega,
tranne tenersi avvinghiata alla mia schiena con le mani. Roberta apre bocca
per la prima volta dopo quel sì fulmineo e mi chiede di toccarla un po’, lo
faccio senza nessuna voglia, ma anche lei ha i suoi diritti, parlando volgarmente. Accontentata.
Ci rivestiamo velocemente, usciamo dal bagno e poi dall’antibagno uno
alla volta per non destare sospetti, ma non c’è nessuno in corridoio e d’altronde è un bagno molto imboscato e di lì passano in pochi. Scendiamo, la
saluto, mi chiede il numero di telefono, me ne invento uno a caso della
Wind, ci diamo la mano, mi chiede se voglio il suo, le dico che mi chiami lei.
È il mio addio in pratica. Ognuno va per la sua strada. Non la rivedrò mai
più.
3 dicembre
Ogni promessa è debito. Eccomi in baldoria con i soliti tre. La promessa
146
Davide Continati
di divertirci una volta passato l’esame deve essere rispettata. In realtà siamo
in quattro, da Pablo’s, perché il Gionni ha portato la famosa ragazza della
disco. Si chiama Claudia e in effetti non è male, avevo visto giusto quando
l’avevo adocchiata un attimo in discoteca.
Il problema di quando ci sono le morose o le amiche è che certe cose non
le puoi dire, o meglio, va beh, le puoi dire ma senza quella libertà di espressione, diciamo così, via, che caratterizza il rapporto di amicizia tra uomini. E
non parlo solo di qualche parolaccia, ma di tutto il contesto.
Dopo mezz’ora questa Claudia qui decide di andare a salutare, in un
tavolo non distante, una sua amica. Gionni, come un cagnolino, si alza e la
segue come se un filo trasparente lo trascinasse. La serie di commenti tra
me, Alex e il Grillo appena il nostro amicone sparisce dal nostro tavolo è, a
dir poco, divertente. Ce ne inventiamo di tutti i colori, ridiamo, diciamo
cazzate. Ecco lo spirito nostro torna regolarmente a galla e Dio sa quanto ne
ho bisogno in questo momento.
Decido di buttare sale sulla cosa e racconto della scopata con Roberta, nel
cesso dei docenti. Alex si diverte come un cretino e sghignazza, favoleggiando
sulle doti, per così dire, fisiche, della studentessa. Grillo chiede invece più
particolari sulla posizione tenuta al momento opportuno… Onestamente a
questa seconda domanda non so rispondere bene, anche perché non lo
ricordo perfettamente e in quel momento forse era la cosa che meno mi
importava. Racconto quello che posso raccontare, anche se ovviamente, va
beh, è logico, va beh, è chiaro, qualcosa di romanzato in queste cose ci sta
come il cacio sui maccheroni. In pratica qualche balla rende questi racconti
ancora più divertenti per chi ascolta e ancora più esaltanti per chi racconta.
Usciamo da Pablo’s, senza Gionni, rapito dall’amica di Claudia, verso
l’una. Ci aspetta una nottata a sorpresa. Intanto si va alla sala giochi in
periferia per farsi un bowling. Poi si vedrà.
6 dicembre
La società di lavoro temporaneo mi chiama verso le dieci stamattina,
mentre sto riordinando il monolocale, messo un po’ troppo sottosopra ultimamente. La stessa ragazza carina del volantinaggio, Simona, mi chiede se
ho disponibilità a lavorare fino alla vigilia di Natale. Rispondo che sono
interessato e che passerò subito in ufficio.
Dopo mezz’ora sono nel solito ufficio di qualche settimana prima e mi
aspetto di sentirmi dire che ci sono altre migliaia di volantini da cestinare,
cioè no, da consegnare. Rido dentro di me e mi chiedo se l’Iper si è lamentato o no.
VA BEH!
147
Comunque ecco il mio nuovo lavoro, da iniziare oggi pomeriggio alle
quindici per finire alla vigilia di Natale: fare pacchetti natalizi. In pratica io e
altri tre ragazzi siamo incaricati, in turni da due alla volta, di fare i pacchettini
nell’atrio centrale di un grande centro commerciale.
Chiedo come mai si inizia il sei di dicembre e la ragazza, mostrando un
sorriso compiaciuto alla mia domanda, mi risponde che un ragazzo che
aveva iniziato ha dato forfait improvvisamente dopo una settimana. Torno
a ridere sotto i baffi: sta a vedere che è andato subito in paranoia… Chiedo
la paga e, va beh, non è che mi aspettavo uno stipendio bassissimo, ma
quello che mi propongono è decisamente sorprendente, in senso positivo.
Accetto e chiedo gli orari: alternativamente dalle nove alle tre del pomeriggio e dalle tre alle nove della sera. Domeniche comprese e feste comprese,
ovviamente, fino al ventiquattro dicembre.
I soldi mi fanno terribilmente gola e, visto che non è certo un lavoro
bestiale anche se di una noia mortale, propendo per questo sacrificio. Firmo
il contratto, mi mettono in regola con i documenti, vengo assunto. Inizio tra
poche ore, praticamente subito. E via a imparare a fare i pacchetti!
8 dicembre
Passare un pomeriggio di festa dentro un corridoio enorme di un Iper a
fare pacchetti non è mai stato il sogno della mia vita. Non sto certo studiando sociologia per questo. Però questo lavoro è talmente strano che mi affascina. È talmente stupido che mi prende. È talmente idiota che quasi lo
faccio volentieri.
Sono in turno con Luisa, una ragazza dai capelli corti biondi, ben messa
e di poche parole. Anche perché, soprattutto al pomeriggio, soprattutto dalle
cinque alle otto, soprattutto quando il centro è pieno, non c’è quasi nemmeno il tempo di parlare.
Luisa mi ha insegnato a fare i pacchetti molto bene. I primi, veramente,
erano sghembi e strani, poi sono diventati accettabili, oggi mi paiono quasi
meglio dei suoi, ma non glielo dico ovviamente. Anche lei studia, anche lei
fa l’Università, fa psicologia, ma è ferma da alcuni mesi perché non riesce
più a studiare e allora ha deciso di guadagnare nel frattempo qualche soldo.
Mi chiede cosa farò con la Laurea in Scienze Politiche e non so rispondere
granché, alla fine ammette che però nemmeno lei, da psicologa, se si laureerà, saprà dove andare.
La pazienza con i clienti si fa sempre maggiore con l’andar dei minuti,
delle ore, dei turni. Ma il turno del pomeriggio della giornata di festa, è
davvero sfigatissimo e l’ammasso di gente che c’è qui dentro sembra quello
148
Davide Continati
da stadio. Il caldo presto si fa opprimente, tanto che alla fine mi sbevacchio
un litro e mezzo di acqua minerale.
Le nove arrivano come una liberazione, non tanto per la fatica del lavoro
in sé, quanto per la noia di dover ripetere sempre gli stessi gesti: prendere un
foglio di carta da regalo, eventualmente tagliarlo se sembra troppo grande,
provare se intona con il regalo del cliente, prendere un nastro per impacchettare il tutto, tagliarlo, provare se è della misura giusta, fare una parvenza
di pacchetto, usare lo scotch, sistemare il nastro, inserire il classico fiocco
natalizio, a scelta rosso o dorato, e consegnare il capolavoro al cliente. E
mentre ti compiaci per quel bel pacchetto con dentro la casa della Barbie,
arriva un altro cliente che deve impacchettare un phon. E si riparte: prendere un foglio di carta da regalo…
10 dicembre
Stacco al centro commerciale alle nove, timbro l’uscita e mi fiondo sulla
Punto blu per raggiungere il mio paese dove mi aspettano, lo spero, Alex e
Grillo. Arrivo a casa, faccio una doccia superveloce e mi vesto in frettissima.
Alex mi chiama sul Nokia per sapere a che punto sono e lo tranquillizzo. Sto
arrivando.
Alle undici siamo tutti e tre in partenza per la multisala. Cinema stasera,
ultima proiezione della mezzanotte e mezza, un film di quelli che definire
americanate è dire che sono tranquilli. Ma abbiamo bisogno di qualche
americanata. Prendiamo il biglietto con un’ora di anticipo e va già bene che
non ci sia l’esaurito. Che peraltro qui di esauriti ce ne sono già tre: io, il Grillo
e l’Alex.
Non parliamo quasi mai del Gionni ormai preso dalla morosa come lo
ero io di quelle tre che tutti ormai conoscono. Vorrei essere una telecamera,
in questo momento, vorrei vedere dove si trova la Titti, cosa sta facendo,
come si comporta, se è ancora più magra, se il suo sorriso mitico è ancora
tale o meno. La Titti è sempre nel mio cuore, nel suo profondo, nella mia
anima, copre ogni interstizio delle mie budella, non posso negarlo. Anche se
ora la vedo con occhi diversi, va beh, questo è evidente, è normale, è logico,
è umano.
Vorrei vedere cosa sta combinando l’Anto, con chi sta uscendo perché lei
problemi di partner non può averne, è troppo affascinante, cosa sta pensando. Ho amato l’Anto e penso ancora di amarla, di un amore diverso se
possibile, magari meno intenso come profondità, ma più intenso come
passionalità; non so se quello che sto pensando ha un senso, ma dentro di
me ce l’ha senz’altro.
VA BEH!
149
Vorrei vedere il sabato sera di una studentessa dell’Ariosto, una studentessa di seconda liceo classico che di nome fa Carolina: cosa fa, con chi va,
come si comporta. Amo anche lei, fisicamente in particolare, mi piace da
morire, ma so bene che la sua porta è tuttora sprangata da un chiavistello
enorme e da un lucchetto gigantesco.
Penso a tutto questo mentre Alex scherza ogni istante, radiografando
ogni ragazza che entra nell’enorme hall della multisala e fantasticando sulle
sue preferenze sessuali e intanto Grillo sghignazza alla sua maniera. Rido
anch’io, non lo nego, ma a volte il mio pensiero vaga altrove.
13 dicembre
Prendo il carrello ed entro nel supermercato per la mia solita spesa, oggi
ho anche il bigliettino con la lista, tutto ordinato. Strano, perché di solito
vado a memoria su quello che ho deciso di comprare. È pieno come sempre
e ci sono tutti i festoni natalizi. Che bello!
Sbadiglio prendendo un sacchetto di biscotti, nemmeno guardo se è il
pacchetto giusto. Stringo le spalle e vado avanti. Niente affettati oggi, faccio
senza, ma un po’ si sottoli me li voglio proprio gustare.
Eccola, carrello alla mano, avanza nello stesso corridoio dell’altra volta,
bionda, bellissima, occhi azzurrissimi, un raggio laser che mi trapassa appena volge lo sguardo verso di me. Porta un giubbottino jeans e una gonna
piuttosto leggera. Mi chiedo se non abbia freddo ad andare in giro in pieno
dicembre così conciata.
Decido di approcciarla, ma mi mancano le parole. Stavolta, dopo averla
incrociata, volto il carrello e la seguo. Apprezzo il suo bel taglio di capelli, il
volume della sua chioma, mi piacerebbe tastarne la consistenza. Sono sicuro che mi piacerebbe. Va beh, sicuro, cosa c’è di sicuro in questo momento,
in questo comparto di supermercato? Nulla.
Lei svolta, io svolto. Lei avanza, io avanzo. Intanto il supermercato irradia
musica orrenda. Ma cosa cazzo sarà? Non sembra proprio un clima natalizio. Va beh, continuo a inseguirla. Prende della conserva di pomodoro. La
imito. Ma quando mai lo finirò questo vaso di conserva? Mai più, ne ho già
in casa. Troppe stranezze oggi, comincio a preoccuparmi.
Mi ha notato, sono certo che mi ha notato, fissato, il raggio laser mi ha
trapassato, ne sono certo. È davvero una bella ragazza. Stavolta mi ha anche sorriso. Lei svolta, io svolto, finiamo in una specie di retrobottega che
forse è il magazzino della frutta e c’è una puzza di melone che sembra di
essere a luglio. Boh!
Mi prende e mi bacia. Una vampata di calore sale dalle caviglie e prose-
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Davide Continati
gue repentina verso la mia testa. Sto perdendola questa testa. Sto perdendo
i sensi, e questa continua imperterrita. Bacia bene tra l’altro, ma non sento il
sapore del suo bacio, sento solo un indistinto bagnaticcio. Non finisce più,
sto davvero per scoppiare dal caldo, mi sento la camicia imperlata di sudore
sotto la giacca a vento e il maglione. Sensazione tremenda. Sudo, sudo,
sudo…
Mi risveglio seduto nel letto del mio monolocale, al buio, da solo, sudato
come un cane, altro che bionda e raggio laser. Ecco perché quelle stranezze:
la lista della spesa ordinata, il suo modo di vestire, il melone a Santa Lucia,
nessun gusto delle sue labbra… Era tutto un sogno, cazzarola, un fottutissimo
e inutile sogno. Mi lascio cadere di peso sul cuscino e gli rifilo un pugno.
Non pretendevo certo che mi succedesse quello che ho sognato, no, forse
sarebbe troppo, neanche fossi Banderas! No, questo no, non lo pretendevo,
però cominciavo a prenderci gusto, però mi piaceva, però ci credevo, però
vorrei quasi rifare quel sogno e incontrare virtualmente la bionda con il
raggio laser azzurro.
Invece no: va beh, pazienza, era solo un sogno, un fottutissimo e inutile
sogno.
15 dicembre
Il turno del mattino al centro commerciale ha i suoi vantaggi e i suoi
svantaggi: al mattino in generale ti chiedono meno pacchetti da fare e quindi magari io e Luisa ci possiamo dare un po’ il cambio per farci un caffè al
bar o per andare a fare due passi dieci minuti per sgranchirci le gambe. E
questo è un bel vantaggio.
Il problema però è che il turno finisce alle tre del pomeriggio e quindi se
vuoi pranzare ti devi trovare un quarto d’ora libero per andare al bar o al
self-service e sputtanarti parte dei tuoi guadagni quotidiani. Altrimenti ti tieni
la tua bella fame e torni a casa verso le tre e mezza e ti devi preparare pure
da mangiare.
Di solito io alterno le cose; magari un giorno mangio qui e nel turno di
mattino successivo mangio a casa usando quelle splendide e gommose paste precotte. Oggi ho deciso di rimanere qui a pranzo e verso le due approfitto di un momento di calma per lasciare Luisa da sola al nostro mitico
tavolo dei pacchetti e mi reco a mangiare al self-service.
Con Luisa continuo a mantenere un bel rapporto anche se freddo. Lei è
molto riservata, parla poco, è molto intenta a non sbagliare nemmeno un
pacchetto e quando lavora non fiata e quando non lavora tende a farsi i
cazzi suoi. Per carità, va beh, non è che pretendo che spari ogni minuto delle
VA BEH!
151
cose serie o dei pettegolezzi, no, questo no. Però magari un pizzico in più di
apertura mentale non guasterebbe. O forse sono solo io che preferirei questo.
19 dicembre
Ho le dita delle mani quasi callose a forza di fare pacchetti, di staccare
scotch, di piegare carta da regalo. Manca meno di una settimana a Natale e
questo incarico del cazzo sta volgendo al termine. Oggi sono contento perché al sabato è meglio fare il turno del mattino, così si hanno il pomeriggio e
la serata liberi e domattina si può dormire tranquillamente prima di riattaccare
domani pomeriggio alle tre.
Esco dal centro commerciale alle tre e dieci e vado verso casa con la
Punto blu. Mi sento piuttosto stanco, credo che farò un pisolino oggi pomeriggio che poi stasera col Grillo e l’Alex ci inventeremo qualcosa per passare
insieme il sabato sera.
Arrivo al monolocale verso le tre e mezza, mi scaldo un piatto di linguine
allo scoglio surgelate e me le divoro in due minuti primi. Devo avere ancora
un po’ di scorta di cannoncini alla crema pasticcera in frigo e infatti eccoli lì.
Due sono più che sufficienti. Mi stravacco sul letto a mangiarli, poi mi piomba addosso una stanchezza e un sonno bestiali e alla fine crollo inesorabilmente.
Mi sveglia il trillo del Nokia verso le cinque e mezza. Cazzo, devo aver
dormito almeno un’ora e mezza. È Gionni, sembra un po’ giù di corda e
infatti mi racconta che con Claudia è già tutto finito. Va beh che oggi c’è un
‘ti mollo / ti riprendo /ti rimollo… eccetera’ che fa paura, ma Gionni ha
resistito ben poco con questa qua. Altro che i miei record. Glielo dico, gli
strappo un sorriso, o almeno così mi pare. Gli chiedo se c’è spazio per recuperare, mi risponde di no. Un no secco che mi spiazza e mi chiedo cosa sia
successo. Divago. Gli dico di aggregarsi a noi stasera, che così si distrae. Mi
risponde che forse andrà a dormire presto e basta.
È una balla, ne sono certo, sarà con noi stasera e dovremo consolarlo, io
per primo, visto in che condizioni di cuore mi trovo… Ci salutiamo e mi
sembra più rinfrancato o, anche questa, forse, è solo una mia supposizione
telefonica.
20 dicembre
Mi sveglio con il trillo della sveglia del Nokia a mezzogiorno preciso. Il mal
di testa mi prende inesorabile, mentre mi alzo e mi preparo a docciarmi nel
loculo. Progetto mentalmente le tre ore fino al lavoro: doccia, pranzo con
152
Davide Continati
aspirina finale per togliermi il mal di testa, riordino del monolocale, telefonata a casa perché altrimenti se non chiamo anche oggi mi diseredano, un po’
di tv, poi verso le due e quaranta mi avvierò con la Punto blu verso il centro
commerciale.
Entro in bagno e mi spoglio per docciarmi. L’acqua è caldissima, ma mi
serve qualcosa del genere per darmi tono e svegliarmi del tutto. È stata una
notte lunga, alle cinque eravamo ancora in giro a raccontarci paranoie e a
fare colazione: brioche e cappuccino bollente al Mc vicino alla stazione. Mi
insapono.
Gionni alla fine è venuto, era scosso, era agitato, era amareggiato. È
andato a letto scosso, agitato, amareggiato, ma anche sicuro di avere un
appoggio in più, anzi tre appoggi in più: noi. Prendo lo shampoo e me lo
stendo sui capelli.
Lo capisco bene, il Gionni, anche se la sua storia è durata un amen, lui è
molto tranquillo e soffre molto anche se a volte non lo dà a vedere e so che
anche pochi giorni di una storia andata male lo possono aver disturbato
grandemente. Esco dal loculo e prendo l’asciugamano.
In questi giorni sto riscoprendo quanto è importante avere questi amici.
Va beh, non è che prima non lo sapessi, ma per un po’ di tempo li avevo
trascurati per seguire quelle storie che mi stavano prendendo di brutto. Però
adesso do all’amicizia di quei tre un valore doppio, quasi insuperabile. Mi
infilo gli slip di Armani.
Improvvisamente mi rendo conto di tante cose che prima magari non
ritenevo così importanti. A proposito, devo acquistare i regali natalizi per i
miei e per Gigetto, oltre che per i tre mitici amici. Un grosso vantaggio ce l’ho
stavolta: il pacchetto regalo me lo farò io. Sorrido mentre metto sul gas
l’acqua per la pasta e mentre il mal di testa comincia da solo, quasi per
magia, a diminuire.
23 dicembre
Entro nel monolocale con borse, borsine, borsette, buste di plastica, un
po’ di tutto insomma. Eccoli i regali natalizi e, conti alla mano, mi sono
costati un bel po’ dello stipendio che incasserò domani per il lavoro di
impacchettamento al centro commerciale. Sono soddisfatto e soprattutto
sono contento perché domani sera, alla fine dell’ultimo turno, tornerò a casa
e mi fermerò là almeno fin dopo capodanno. Mi rendo conto che devo
anche organizzare un esame per febbraio e decido di andare domattina in
facoltà a vedere qualche data e in libreria a comprare gli appositi libri. Va
beh, il tempo per farle tutto ce l’ho e non è poco.
VA BEH!
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I regali sono pronti, per il babbo, per la mamma, per Gigetto, per Alex,
per Gionni, per Grillo, per la nonna che mi dà questo monolocale del cazzo
che adesso sto amando follemente. Manca il regalo per la mia ragazza. Lei
non c’è purtroppo, a tutt’oggi non c’è, desaparecida. Non si chiama più Titti,
non si chiama nemmeno Antonella, non si chiama Françoise, non si chiama
Carolina. Non si chiama. Punto e basta. Mi accorgo di essere diventato più
riflessivo da quando non ho più problemi sentimentali, anche se è ovvio che
vorrei avere qualcuna da coccolare, amare, abbracciare eccetera. Però sto
bene. Però sono tranquillo. Però sono più riflessivo. E non è poco.
Mi preparo la cena: mozzarella alla piastra e verdure grigliate comprate al
supermercato dove la bionda del carrello e del sogno oggi non c’era. Poi
credo che mi gusterò un po’ di tv. Trilla il Nokia, è Walter che mi vuol fare gli
auguri di Natale anticipati. Ricambio. Parliamo un po’, poi comincia a chiedermi cosa farò l’ultimo dell’anno e comincio a imbufalirmi. ‘È una cosa che
odio, lo sai’ gli dico ‘non insistere, ti prego.’ Ultimamente mi pare un po’
schizzato, il ragazzo. Mah, forse è una mia impressione, forse è davvero così.
25 dicembre
Sono le due e tre quarti quando alzo le chiappe dalla sedia a tavola dai
miei. Ho la pancia che mi scoppia, ho anche dovuto slacciarmi il bottone dei
pantaloni per dare più respiro alle mie budella e alla mia adipe. Il pranzo di
Natale è sempre un momento affascinante della vita. Sedersi attorno a un
tavolo e mangiare certe cose con quella certa atmosfera è qualcosa cui non
so rinunciare.
Quest’anno poi il Natale l’ho sentito particolarmente, un po’ perché a
forza di sentire musiche natalizie al centro commerciale, ogni giorno, mi
sono fatto un crescendo di attesa che non finiva più; un po’ perché ho voglia
di famiglia, ho voglia di stare un po’ a casa mia, dai miei, da Gigetto, parlare
un po’ con la mia cara nonna, godermi la pace e la tranquillità del mio letto
e della mia camera. Va beh, ammetto che anche il piatto di tortellini fatti in
casa dalla nonna vale il prezzo del biglietto, per così dire. È giusto attendere
con ansia il Natale per mangiarli, per gustare la mostarda, l’insalata russa,
l’arrosto ripieno, le arachidi e le noci strepitosamente buone, il budino al
cioccolato e all’amaretto della mamma da spalmare con grande perizia sul
pandoro…
Mi piace anche andare in chiesa alla messa di mezzanotte, la vigilia, anche se odio quelle signore ingioiellate e impellicciate dalla testa ai piedi che
stanno lì solo per farsi notare da tutti, o le morose super truccate mano nella
mano con il loro ragazzo. In chiesa. E non lo dico perché sono tornato single
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Davide Continati
da un po’. La penso proprio così. Questi eccessi non ci vorrebbero. Punto.
Punto e basta. Mi piace l’atmosfera della messa di mezzanotte, quella moltissimo, anche se detto da un cristiano di bassa lega come me non è molto
attendibile…
Mi butto a capofitto sul mio letto, dormirò almeno un paio d’ore, poi
andremo al cinema, io e Gigetto. Voglio fare un Natale drammaticamente
normale, tradizionale, classico e chi più ne ha più ne metta.
Avrei voluto fare gli auguri di Natale a qualcuna delle mie ex ragazze,
almeno con un SMS. Lo sentivo importante, ma poi ho deciso di rinunciarvi. Non ho avuto le palle per farlo, ho sofferto tanto che ora non voglio
rimettere in gioco nemmeno una briciola del nostro passato.
È un Natale tranquillo, mi sto liberando la testa e forse mai come ora,
dopo tante avventure e disavventure, emozioni e sorprese, felicità e litigi,
sofferenze e gioie, va beh, forse un po’ di tranquillità a casa mia è tutto ciò di
cui ho bisogno. Sprofondo nel sonno pomeridiano quando fuori inizia a
piovere.
27 dicembre
Sto letteralmente facendo la cura del sonno. Dormo sempre, se potessi
anche ventiquattro ore al giorno. Una cosa incredibile. Mi alzo tardi la mattina e sono rincoglionito, dormo dopo pranzo, quasi mi addormento ora,
alle nove e mezza di una piovosa serata invernale.
Tutto lo stress accumulato mi sta improvvisamente crollando sulle spalle.
Stress da morose, stress da esami universitari, stress da viaggi, stress da notti
quasi insonni, stress da lavori saltuari, da dischi venduti, da volantini consegnati e gettati nel bidone, stress da pacchetti natalizi, stress da rapporti famigliari,
stress da vivere in solitudine, stress da pensieri arzigogolati, stress da docce
nel loculo, stress da orari da rispettare, stress da baci da rubare, stress da
scopate in macchina o nel cesso dei docenti, stress da bionde con gli occhi
azzurri, stress da Parigi, stress da incidenti stradali, stress da autovelox, stress
da cappuccini al Mc, stress da spese al supermercato, stress da discoteche,
stress da sabati sera da inventare e da ultimo dell’anno da odiare, stress da
cellulare e da SMS, stress da cucinare, stress da colloqui di lavoro…
Penso a questo mentre fisso il soffitto della mia camera, disteso sul mio
letto, cuffia sulle orecchie, mani dietro la nuca, piedi con le ciabatte sulla
coperta, i libri del mio prossimo esame a inizio febbraio già pronti, ma ancora intonsi, sulla scrivania di Gigetto. Mai stato meglio di stasera. Va beh,
questa è vita.
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VA BEH!
EPILOGO
31 dicembre
Questa storia del volersi divertire a tutti i costi l’ultimo dell’anno, mi ha
veramente stancato. E dove vai, e con chi vai, e cosa fai, e perché non vieni
con noi, e perché non a ballare, e perché non a cena, e perché di qua e
perché di là… Ma lasciatemi in pace tutti! Avrò ben il diritto di scegliermi
dove andare, con chi andare, cosa fare, se vengo con voi, se vado a ballare,
se vado a cena o digiuno, se vado di qua, se vado di là… Uffa!
Stavolta non ho nemmeno il problema di accontentare la Titti, o l’Anto, o
Françoise, o Carolina, o magari la bionda raggio laser del supermercato, o
Roberta della sveltina nel bagno docenti. Ho un solo problema: andare al
paese, caricare il Grillo, il Gionni, l’Alex, belli, ben vestiti, caricati come molle, ingellati, non dico truccati, no, questo no, e va beh, non lo permetterei,
però ben messi, come mi piace dire.
Mi vesto bene, ho un bel paio di pantaloni, una bella camicia blu, decido
poi di optare per una bella giacca che non porto da tempi immemori, forse
dalla prima comunione, o dalla Cresima, boh, che ne so. Scherzo ovviamente.
Avvio la Punto blu dopo aver fatto gli auguri in anticipo ai miei e a Gigetto
e mi dirigo veloce e rilassato verso la meta. L’ultimo dell’anno io lo odio
sinceramente, ma sul serio, mi sta largamente sul cazzo, no, non perché
quest’anno non ho una ragazza, non ballerò con nessuna o forse con qualcuna
che troverò lì tanto per passare qualche minuto, o forse nemmeno ballerò
perché poi anche ballare mi sta sul cazzo.
Pensandoci, poi, mi stanno sul cazzo tante altre cose stasera e non è un
bello davvero finire così quest’anno già tanto tribolato e particolare. E poi
non faccio mai nessun bilancio dentro di me, anzi anche questo mi sta su,
fare i bilanci, intendo, per davvero.
Arrivo davanti al bar che sono le nove e mezza, la Cosmo sta per aprire i
battenti e noi, vecchi lupi di discoteca, ci riverseremo nel marasma di San
Silvestro, tra fumi, musica, sorrisi plastificati, balli sfrenati senza senso, puzza
di sudore, puzza di inutili e dannosi profumi maschili e femminili, finta neb-
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Davide Continati
bia da discoteca e tante facce sconosciute cui fai gli auguri e poi nemmeno
una volta te ne ricorderai nella vita. Va beh.
Fermo la Punto nel parcheggio davanti al bar, guardo dentro, è quasi
deserto. C’è solo qualche anziano commensale che consuma qualcosa senza disturbare, senza curarsi di cosa fare in questo trentun dicembre. Va beh,
non è che a me freghi qualcosa, ho ben altri problemi e lo penso sul serio
mentre metto a palla il riscaldamento della Punto facendo entrare un impetuoso vento caldo nell’abitacolo.
Sospiro, i tre sono in ritardo, va beh, che novità… A proposito di va beh,
dovrei proprio smetterla, di dirlo o pensarlo ogni due minuti primi, di ragionare per va beh, lo devo fare, ecco un proposito importante per l’anno
nuovo, altroché vincite milionarie di eurazzi o esami superati a Scienze Politiche. Cancellerò il va beh! Garantito!
Eccoli i tre, belli, ben vestiti, caricati come molle, ingellati, non dico truccati, no, questo no, non lo permetterei, però ben messi, come mi piace dire.
Arrivano e si avvicinano alla Punto. Tra meno di mezz’ora saremo dentro
nella bolgia, 30 eurazzi buttati nel cesso, ma nel prezzo c’è compresa la
colazione del primo gennaio. Mi viene da dire quella cosa là, ma soprassiedo.
‘Siete splendidi’ faccio io ridendo. ‘Attacca la Punto, Marco’ fa il Grillo
rivolgendosi a me con aria trasognata. Tra poco saremo a Bologna.
Fine
VA BEH!
157
Vorrei ringraziare e ricordare alla rinfusa: Chiara (sei sempre presente), i miei genitori (grazie!), la mia sorella-amica Picci, gli amici
del Liceo e delle cene (in particolare Walter per le sue “consulenze”
e la sua sempiterna amicizia), Diego the Boss, il mitico cane Frizzy,
Leda per quel che sappiamo, il pensionato pc Pentium133, Giuntu,
tutti coloro che hanno fatto da “cavie” per VA BEH!, mio nonno
Livio che ora sarebbe felice, mia nonna Lia che cucinava patatine
fritte “mostruose”, la Juventus F.C. e le sue vittorie, la U.S. Cino
Squizzy e i suoi fantascudetti, la gatta Fiore, il 307club, il Po e le sue
sfumature, Ostiglia e Bologna (e i loro portici).
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A Chiara (per il tuo supporto) Ai miei genitori (ve lo meritate) A mia