L’UOMO CHE VISSE DUE OPERE Il già citato conte Gustav-Ernest Stackelberg, estone, nato nel 1766 e morto nel 1850, ebbe la bizzarra avventura di essere testimone oculare di due diversi fatti di cronaca che furono poi al centro di due diverse opere di Verdi, come ha spiegato Alberto Mattioli sulle pagine della “Stampa” del 20 ottobre 2007. Stackelberg era presente a Stoccolma, il 16 marzo 1792, alla festa in maschera durante la quale Joacob Johan Anckarström uccise il re di Svezia Gustavo III. Ed era anche al numero 11 di boulevard de la Madeleine a Parigi, il 5 febbraio 1847, quando la tisi uccise Alphonsine Rose Plessis, alias Marguerite Gautier, alias Violetta Valéry, della quale era stato amante. Stackelberg ha avuto dunque l’inconsapevole ventura, nella sua lunga e privilegiata vita, di vedere realmente i finali di Un ballo in maschera e Traviata. Il paradosso è che il conte non compare in nessuna delle due opere che in qualche modo ha vissuto. Un’ulteriore curiosità: il barone Christoph von Stackelberg, probabilmente parente del nostro conte, fu il secondo e fedifrago marito di Josephine von Brunswick, che a sua volta fu quasi certamente “l’immortale amata” della celebre lettera di Beethoven. testi di Paolo Cairoli A TEATRO PER STARE BENE Stagione 2010/2011 martedì 7 dicembre - ore 20.45 Crossover venerdì 17 dicembre - ore 20.45 Musica LE SIGNORINE DI WILKO MARTHA ARGERICH & FRIENDS dal romanzo di Jaroslaw Iwaszkiewicz adattamento e regia di Alvis Hermanis con Sergio Romano, Laura Marinoni, Patrizia Punzo, Irene Petris, Fabrizia Sacchi, Alice Torriani, Carlotta Viscovo Martha Argerich pianoforte Gabriele Baldocci pianoforte Daniel Rivera pianoforte Barbara Luccini soprano una produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Unione Europea nell’ambito del progetto Prospero, Teatro Stabile di Napoli, - Nuova Scena Arena del Sole Teatro Stabile di Bologna lunedì 13 dicembre - dalle 9.00 alle 12.00 Teatro per la scuola OraDiMusica Presentazione agli studenti del concerto della Russian National Orchestra a cura di Roberto Calabretto, musicologo, Università di Udine lunedì 13 dicembre - ore 20.45 Musica Russian National Orchestra Mikhail Pletnev direttore Gidon Kremer violino Dvořak Danze slave op. 46 n. 4, n. 2, n. 8 Čajkovskij Concerto in re maggiore op. 35 per violino e orchestra Čajkovskij Sinfonia n. 5 op. 64 musiche di Mozart, Rachmaninov, Liszt, Offenbach, Lopez Buchardo, Ravel, Bacalov, Bolcom, Milhaud martedì 21 dicembre - ore 20.45 Musica MISA CRIOLLA Y NAVIDAD Orquesta Juvenil de la Universidad Nacional de Tucuman Coro Costanzo Porta Emir Saul direttore Antonio Greco maestro del coro musiche di Alcorta, Esnaol, Alberti, Gianneo, Ramirez, Piazzolla, Aguierre © Studio Patrizia Novajra ph: F. Parenzan stampa: Grafiche Filacorda terribili umiliazioni cui è stata sottoposta. Rilegge la lettera nella quale Giorgio Germont le annuncia di aver finalmente svelato il suo sacrificio ad Alfredo, il quale sta tornando da lei. Ma “è tardi”. È tempo solo più per l’ “Addio del passato”, e anche l’arrivo di Alfredo nulla può contro la morte. L’ultimo duetto “Parigi, o cara, noi lasceremo” è una pia illusione, perché Violetta non riesce neppure a vestirsi per uscire. Non le resta che constatare, rivolta ad Alfredo, “Ma se tornando non m’hai salvato, a niuno in terra salvarmi è dato”. Arriva anche Germont padre, a verificare gli effetti di ciò che ha compiuto. Violetta consegna un’immagine dei “passati giorni” ad Alfredo e gli raccomanda, qualora incontrasse una “pudica vergine”, di sposarsi. L’ossessione del riconoscimento sociale torna anche sul letto di morte. Violetta è stata una donna libera, è salita fin dove mai si sarebbe aspettata di salire, e ora paga il prezzo della sua libertà. Ne è consapevole. Così come è consapevole del fatto che un uomo come Alfredo vivrà tradizionalmente, nella tranquillità borghese che a lei era preclusa. Nel finale Verdi riesce a rendere ancora più alta la statura della sua eroina: l’organico si riduce a otto violini e due viole, e si staglia in pianissimo la melodia dell’amore “che è palpito dell’universo”. La morte, proprio come l’amore nel primo atto, per Violetta giunge come qualcosa di “strano”. Perché per lei la normalità è la vita, vissuta con un’intensità e una libertà sconosciute a tutti quelli che le sono passati accanto. venerdì 31 dicembre - ore 18.00 Musica Concerto di Fine Anno Strauss Festival Orchester Wien Peter Guth direttore e violino solista Mara Mastalir soprano Daniel Serafin tenore 15 - 16 dicembre - ore 9.00 e 11.00 Prosa 15 dicembre - ore 17.00 per le famiglie Teatro per la scuola IL GRAN TEATRO DEL MONDO Percorso spettacolare: con il teatro di Shakespeare alla scoperta del Teatro di Udine ideazione, regia e drammaturgia di Mario Bianchi luci e suoni di Stefano Andreoli una produzione: Teatro Città Murata età consigliata: dagli 8 ai 13 anni Fondazione Teatro Nuovo Giovanni da Udine Via Trento, 4 - 33100 Udine Tel. 0432 248411 [email protected] - www.teatroudine.it Biglietteria on line: [email protected] www.teatroudine.it www.vivaticket.it Prevendite per gli spettacoli di dicembre dal 29 novembre traviata.indd 1-4 3-12-2010 11:17:22 sabato 4 dicembre 2010 - ore 20.00 Il “Verdi” a Udine Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste LA TRAVIATA melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave dal dramma La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio musica di Giuseppe Verdi Violetta Valery Alfredo Germont Giorgio Germont Flora Bervoix Gastone Barone Douphol Marchese D’Obigny Dottor Grenvil Annina Giuseppe Il Domestico di Flora Un Commissionario Mina Yamazaki Alessandro Liberatore Gianfranco Montresor Asude Karayavuz Iorio Zennaro Gianluca Margheri Alessandro Svab Manrico Signorini Lucia Premerl Alessandro De Angelis Giuliano Pelizon Ivo Federico maestro concertatore e direttore Andrea Battistoni regia di Stefano Trespidi maestro del coro Alessandro Zuppardo scene di Giuseppe De Filippi Venezia costumi ripresi da Filippo Guggia luci di Paolo Mazzon coreografia di Maria Luisa Rimonti assistente alla regia Roberto Bonora allestimento della Fondazione Arena di Verona Orchestra, Coro, Corpo di Ballo e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste traviata.indd 5-8 Risalendo dalla realtà letteraria a quella storica, alle spalle di Violetta Valéry, protagonista della Traviata di Verdi, e di Marguerite Gautier, protagonista della Signora delle camelie di Alexandre Dumas figlio, a cui Verdi si ispirò per la sua opera, c’è una donna realmente vissuta in Francia, nella prima metà dell’Ottocento. Si tratta di Alphonsine Rose Plessis, nata nel 1824 in un piccolo paese della Normandia da una famiglia umilissima, e presto trasferitasi a Parigi in cerca di fortuna. Spontaneamente dotata di fascino e bellezza, seppe con l’intelligenza costruirsi una cultura e un savoir faire che le aprirono le porte della migliore società del tempo. Cambiò il suo nome in Marie Duplessis, si fece ritrarre dai pittori più in voga, cominciò ad apparire alle feste più esclusive e ad accompagnarsi agli uomini più in vista. Divenne insomma una cortigiana, una cocotte, una “puttana” scriveva Verdi in una sua lettera, una escort diremmo oggi. Tra le sue relazioni la più discussa fu forse quella con Agénor Gramont, Duca di Guiche, che si incapricciò di lei al punto da volerla accanto a sé in ogni occasione ufficiale. La sua famiglia, per mettere a tacere i pettegolezzi, li obbligò a lasciare la città, infliggendo una dura umiliazione alla donna. Ma gli amanti celebri furono molti: da Franz Liszt al diplomatico Ernst Stackelberg, fino al conte Edouard de Perrégaux, con il quale fu sposata per un breve periodo. L’amante forse più importante fu indubbiamente Alexandre Dumas figlio, che la rese celebre raccontandone la vita nel suo romanzo La Dame aux camélias, scritto nel 1848, a un anno dalla morte della Duplessis, e subito travolto da un successo editoriale e scandalistico. Dal romanzo lo scrittore trasse poi la pièce teatrale che Verdi vide a Parigi nel 1852, rimanendone letteralmente folgorato. Questa la realtà che impregna sia La Dame aux camélias, nelle sue due versioni, che La traviata. Ed è proprio la vita vera presente nella vicenda ad affascinare Verdi, che con la sua opera raggiunge un livello di profondità nello scavo psicologico dei personaggi, e specialmente della protagonista, del tutto inedito per il teatro musicale del tempo. Certo il compositore deve necessariamente retrodatare la vicenda, ambientandola nel Settecento, per evitare guai con la censura. Era già un traguardo riuscire a portare sulla scena una storia tanto evidentemente scabrosa: annullare l’effetto di identificazione degli spettatori nella società che gira vorticosamente intorno a Violetta fu sì una rinuncia, ma tutto sommato sopportabile. Specialmente perché la musica, continuamente basata sul ritmo della danza del momento, il valzer, contribuisce a definire il posizionamento cronologico molto più dell’ambientazione o dei costumi. In ogni caso solo la censura veneziana, particolarmente accondiscendente nei confronti di Verdi già con Ernani e Rigoletto, poteva accettare la prima della Traviata, che infatti andò in scena alla Fenice il 6 marzo 1853. Fu un insuccesso, forse non clamoroso come si è creduto per anni e come riporta Verdi nelle sue lettere, ma comunque un insuccesso. La responsabilità va probabilmente attribuita a una compagnia di canto non all’altezza della partitura, tant’è che solo quattordici mesi dopo, e sempre a Venezia, al Teatro di San Benedetto, l’opera, solo parzialmente modificata ma affidata ad altri interpreti, ottenne un successo clamoroso. E da allora è in assoluto uno dei titoli più amati e rappresentati di tutta la storia del melodramma. Certo Traviata era e resta un’opera cruda, scabrosa, con contenuti fortemente realistici, come il sesso e il denaro, costruita in modo da creare una straziante vicenda d’amore e morte, ma anche un forte atto d’accusa nei confronti della società. Quella società che costringe la protagonista non solo al “grave sagrifizio” di un “serio amore”, ma anche all’umiliazione, data dalle motivazioni di chi le impone un tal gesto, e alla morte in povertà e solitudine. Proprio nella musica di Verdi, oltre che nel libretto di Francesco Maria Piave, sono riposti gli elementi più violenti, che più duramente puntano il dito contro l’ipocrisia della società. Il Preludio si apre senza mediazioni con il tema della malattia e della morte; lo stesso che aprirà il terzo atto. Tutto ciò che accade in mezzo potrebbe essere un flash back, come proposto da Franco Zeffirelli nel suo celebre quanto discusso film. Segue il tema dell’amore, presentato in forma di valzer, che tornerà in foggia ben più drammatica nel secondo atto, nell’addio di Violetta all’ancora inconsapevole amato, sulle parole “Amami, Alfredo”. E poi subito una festa, in casa della protagonista, su una musica travolgente, brillantissima, che definisce lo sfondo frivolo e mondano di questa storia d’amore e di morte. Il giovane Alfredo Germont si è fatto introdurre dall’amico Gastone appositamente per conoscere la padrona di casa, di cui è innamorato. Violetta non prende sul serio le sue attenzioni e, per togliersi dall’impiccio, propone un brindisi, intonato da Alfredo sulle parole “Libiamo ne’ lieti calici”. Le danze proseguono nel salone attiguo e Violetta, colpita da un attacco di tosse, rimane sola con Alfredo, che le dichiara i suoi sentimenti. Lei ostenta un elegante cinismo: “Gli è vero! Si grande amor dimenticato avea”. Il distacco di lei perdura anche durante il cantabile di Alfredo “Un dì felice, eterea, mi balenaste innante”, che sfocia nel tema d’amore vero e proprio sulle parole “Di quell’amor ch’è palpito dell’universo intero”. Violetta risponde declinando l’approccio con la sua grazia effimera ma, una volta congedati tutti gli ospiti e rimasta sola, lascia spazio al profondo turbamento che le parole di Alfredo hanno prodotto sulla sua anima ancora mai accesa da un uomo, a differenza evidentemente del suo corpo. La scena che segue è un grande monologo della protagonista, che a tratti si lascia impadronire dalla melodia d’amore di Alfredo, a tratti tenta di scacciarla via da sé: “delirio vano è questo”. E alla domanda chiave “Che spero or più? Che far degg’io?” la risposta “Gioire! Di voluttà ne’ vortici, di voluttà perir!”, è quella di una donna libera e gaudente, ma anche profondamente consapevole del suo destino. Segue la celebre cabaletta “Sempre libera”, che chiude la scena. Il secondo atto si colloca temporalmente tre mesi dopo e spazialmente nella casa di campagna di lei, nei pressi di Parigi. Violetta e Alfredo sembrano essere una coppia “normale”. Certo Alfredo vive il sentimento in modo più infantile, o comunque più semplice: riflette sui suoi “bollenti spiriti”, placati dal “sorriso dell’amore”, e non esita a precipitarsi a Parigi in nome di un generico senso dell’onore, quando scopre che lei ha deciso di vendere ciò che possiede per poter stare con lui. Violetta è molto più matura, consapevole e pragmatica. Conosce la realtà e il mondo in cui vive. E lo dimostra nel lungo colloquio con Germont padre: si tratta di una prova terribile, che lei affronta con grande dignità e senso pratico. Perché sa esattamente quello che una donna come lei può o non può permettersi di fare. Al suo ingresso Giorgio Germont quasi la insulta, dandole dell’ammaliatrice. La risposta di lei lo rimette al suo posto: “Donna son io, signore, ed in mia casa; ch’io vi lascia assentite, più per voi che per me”. Il vecchio è costretto ad ammettere che i “modi” sono quelli di una donna se non di alta classe, certamente di alta qualità. Ma la battaglia proseguirà con armi molto più bieche, mascherate da valori morali. Sarà ovviamente tirato in ballo anche Dio, qui custode delle peggiori nefandezze. Violetta lotta: il suo passato non esiste più, intende liberarsi dei beni accumulati conducendo una vita che non è più la sua. Ma questo non interessa a un padre che ha come solo scopo difendere il matrimonio d’interesse dell’altra figlia, il cui futuro marito ha qualche problema ad avere come cognata una ex-prostituta. A nulla vale l’angoscia di lei, specchio di un sentimento autentico, probabilmente molto più di quello della figlia “pura siccome un angelo” che Germont va sbandierando ai quattro venti. A nulla vale la malattia che la sta uccidendo. Germont l’attacca: con il tempo a nulla varranno i suoi sentimenti per Alfredo, “poiché dal ciel non furono tai nodi benedetti”. E non può che essere Dio a ispirare “tai detti a un genitor”. Ma non è tanto davanti a Dio quanto davanti all’uomo che Violetta cede: per questa donna “misera”, “caduta” non c’è speranza di risorgere, e per quanto “benefico le indulga Iddio, l’uomo implacabile per lei sarà”. E sono la sua intelligenza e la sua volontà di affermazione sociale a farle sacrificare l’amore. Violetta viene evidentemente dal basso, ed è arrivata ai vertici della società parigina certo grazie alla sua avvenenza, ma anche con quell’intelligenza che le ha permesso di comprendere tutti i meccanismi e le regole su cui la società è basata. Sa di non avere scelta. Così come Germont non ha pietà, nemmeno della sua malattia. Violetta lo implora affinché suo figlio non maledica il suo ricordo, quando lei non ci sarà più, e lui ha il coraggio di minimizzare: “No, generosa, vivere, e lieta, voi dovrete”, ben sapendo che la tisi in quegli anni non lasciava scampo a nessuno. Germont si congeda, Violetta resta sola, scrive ad Alfredo che la sorprende: è turbata, cosa sta succedendo? In un crescendo spasmodico di eccitazione e ansia, Violetta gli dà l’addio con una richiesta d’amore, quel celebre “Amami, Alfredo”, autentico grido del cuore, cui solo il degno figlio di Giorgio Germont può rimanere sordo. Segue la ramanzina del padre “per bene” al figlio scapestrato, “Di Provenza il mar, il suol”: ma alla fine Germont dice “no, non udrai rimproveri”, perché forse la faccia è salva, e il matrimonio della figlia pure. Violetta, tornata in società e in compagnia di un nuovo amante, subisce ancora l’umiliazione estrema di essere “pagata” pubblicamente da Alfredo per il periodo passato con lei (il denaro torna ancora una volta al centro della scena, così come il sesso), durante una festa con zingarelle, “mattadori”, cortigiane e clienti, tutti pieni di compassione per le sorti della donna, che di lì a poco però sarà lasciata morire sola. Compare anche Germont padre che, nel finale d’atto, entra in scena per un’ulteriore ramanzina al figlio degenere: “Di sprezzo degno se stesso rende, chi pur nell’ira la donna offende”. Passando con grande nonchalance sul fatto di essere il responsabile di quella situazione, terribile tanto per Violetta quanto per suo figlio. Nel terzo atto Violetta muore, e non potrebbe essere altrimenti, data la malattia e le 3-12-2010 11:17:22