CAPITOLO I
COLLEZIONARE GRAHAM
Indubbiamente il valore di una collezione, per il collezionista, più che nella sua
importanza sta nell’emozione della caccia
e nei luoghi singolari in cui talvolta la caccia conduce.
Graham Greene, prefazione a With All Faults di David Low
Nel 1951 Robert Bloch, non ancora autore di Psycho, pubblicò sulla rivista pulp “Famous Fantastic Mysteries” un racconto intitolato The Man
Who Collected Poe.* Il pastiche racconta, in un cupo stile alla Poe, di
un entusiasta cultore dell’autore di The Raven e di The Pit and the Pen dulum che, entrato in contatto con Launcelot Canning, confratello di
fanatismo, viene da lui invitato in una isolata villa nel Maryland.
La collezione di Canning è sbalorditiva: “Copie del ‘Philadelphia Saturday Courier’ risalenti al periodo di direzione di Poe, il ‘Graham’s
Magazine’, edizioni del ‘New York Sun’ e dello ‘Evening Mirror’ recanti rispettivamente The Balloon Heax e The Raven, e fascicoli del
‘Gentleman’s Magazine’. L’edizione Lee and Blanchard dei Tales of the
Grotesque and Arabesque, The Conchologist’s First Book, l’E u reka
Putnam, e infine il libretto in brossura, pubblicato nel 1843 e messo in
vendita a dodici centesimi e mezzo, intitolato The Prose Romance of
Edgar A. Poe : una quisquilia contenente due racconti, valutata dai
collezionisti odierni cinquantamila dollari.”**
Reso più ciarliero da una bottiglia di vino, Canning esibisce altri tesori: ignoti e inediti racconti dell’orro re come The Worm of Midnight
e The Crypt; e il manoscritto di The Narrative of A. Gordon Pym, che
tutti credevano incompiuto per la morte dell’autore. Molti altri scrittori si erano dedicati all’impresa di completarlo, ma la versione di Canning mostra l’inconfondibile grafia di Poe, ed è per di più accompagnata da un seguito, The Further Adventures of A. Gordon Pym.
* Nel testo sono mantenuti i titoli originali delle opere citate. Il lettore troverà a p. 227
i corrispondenti titoli, quando l’opera sia stata tradotta, delle edizioni italiane. (N.d.R.)
** Per i prezzi d’oggi, basta aggiungere uno zero, forse due.
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Una libbra di carta
A questo punto Canning rivela il suo segreto: è riuscito a richiamare lo scrittore dall’aldilà, e lo ha messo al lavoro nel suo scantinato a
produrre nuove creazioni. Ha, letteralmente, collezionato Poe.
C’è un germe di verità nell’idea di Bloch. Collezionare l’opera di
uno scrittore è un modo per possedere l’artista che si ammira, e ogni
passo nella acquisizione di un titolo porta più vicino all’autore. Prima una copia del libro, magari un tascabile, giusto per leggerlo. Poi,
una volta deciso che ti piace, un’edizione più durevole. Dopo questo, la prima edizione, seguita da una prima con l’autografo dell’aut o re. Quindi una copia delle bozze, che precede la prima stampa. Poi
ancora il manoscritto. Ma dopo questo? Bloch esagera quando ci mostre Canning che esulta per il “coronamento e l’essenza dei miei progetti, dei miei studi, del mio lavoro, della mia vita! Richiamare, con la
magia, l’autentico spirito di Edgar Poe dalla tomba – rivestito di carne e animato.” Ma trovarsi a faccia a faccia con lo scrittore, colloquiare con lui della sua opera: questa sicuramente è cosa fattibile.
Adesso vi racconto di me e Graham Greene...
Mi beccai il virus di Graham Greene nell’inverno del 1978, quando
abitavo nella zona nord di Londra. A quei tempo battevo ritualmente il mercato delle pulci settimanale allo Swiss Cottage che si materializzava tutti i sabato mattina su un triangolo di terreno ben calpestato alle spalle del complesso sportivo di Basil Spence, quello che
sembra un mattatoio.
Quel mattino qualcuno che non avevo mai visto aveva sistemato
un paio di banchetti su cavalletti e vendeva libri. Una giovane donna
dal colorito pallido e l’aspetto emaciato sedeva dietro i tavoli, infagottata ben bene contro il vento insistente e il freddo umido che, a rimanere fermi, ti intirizziva fino alle ginocchia.
La merce aveva l’aria di porsi a un livello di qualità leggermente superiore rispetto all’offerta standard del mercato, ma poiché in genere i migliori affari si facevano con quei venditori non professionisti
che, come gitanti a un picnic fuori stagione, stendevano sul terreno
umido la loro coperta e vi spargevano quanto avevano racimolato alle vendite di beneficenza e nei charity shop, mi diressi innanzitutto
da quelli. I libri sui tavolini potevano aspettare.
Quasi immediatamente ebbi un colpo di fortuna: una copia di The Lit tle Horse Bus, un libro per bambini di Greene. Gettato in un cestone di
animali di pezza all’ultimo stadio, fu mio per cinque pence. Era illustrato da Dorothy Craigie; non particolarmente bene illustrato, ma la Craigie, come venni a sapere in seguito, era stata amante di Greene: il qua-
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le, per questo motivo, dovette chiudere un occhio. Una volta finita la relazione, fece illustrare al più dotato Edward Ardizzone non solo questo
l i b roma anche le altre sue due storie per bambini.
Con in mano la mia scoperta, mi spostai ai tavolini sui cavalletti,
dove ora la donna era stata raggiunta da un tipo magrissimo con un
berretto nero e un’aria da borsaiolo di serie B.
P resi dal banco un libro che avevo già notato prima, una raccolta
di pezzi su autori edoardiani illustrata con i foschi ritratti fotografici
virati in seppia di E.O. Hoppé. Per cercare il denaro nelle tasche, deposi The Little Horse Bus sul tavolo. Gli occhi dell’uomo assunsero
quell’espressione sonnolenta che mi sarebbe diventata così familiare. Inclinò la testa come un uccello incuriosito.
“Permette?” Allungò una mano ossuta e tremante; tra due dita macchiate un mozzicone maciullato si consumava nell’aria umida del
mattino.
“L’ho appena preso,” dissi, accennando con la testa dietro di me.
“Laggiù.”
“Vuole venderlo?”
Non ebbi nemmeno bisogno di pensarci. “No davvero.”
Quello per me fu un momento di svolta. Un commerciante per lo
più incontra gente che vuole vendergli libri, quando la sua esigenza
più pressante è tro v a re chi glieli compri. Con due parole mi ero iscritto alla categoria degli acquirenti, e l’uomo dal berretto fu pronto ad
accorgersene.
Fece scorre re le dita lungo le file di libri disposti a dorso in su, ne
sfilò un paio e me li mise davanti. Uno era la prima edizione inglese di Our Man in Havana, il mio preferito tra i romanzi più recenti
di Greene. L’altro, un semplice cartonato marrone, non l’avevo mai
visto, anche se lo conoscevo bene come In Search of a Character:
Two African Journals, un articolo poco comune che riportava brani
del diario tenuto da Greene durante la sua permanenza in un lebbrosario del Congo al tempo in cui raccoglieva materiale per A
Burnt-Out Case. *
“Cinque sterline l’uno,” disse l’uomo dal berretto.
Abbassai lo sguardo sui tre libri. Ci voleva poca immaginazione per
vederli accanto alle mie copie degli ultimi romanzi di Greene. In un
istante, un’accumulazione divenne una collezione, e da quel momento la mia vita non sarebbe stata mai più la stessa.
* Anni dopo, Philippe Lechat, il direttore dell’ospedale a cui Greene aveva dedicato il romanzo, mi confidò che lui e Greene avevano riscritto parte del diario per salvare la faccia di un burocrate locale e proteggere i finanziamenti dell’ospedale.
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Una libbra di carta
Chiacchierando più tardi con l’uomo, mentre la sua amica, infilati i
libri invenduti in una serie di valigie malconce, si avviava barcollando alla vicina stazione del Metro, non avrei mai sospettato di trovarmi in presenza di una leggenda vivente.
Martin Stone è una di quelle persone che trovano nel commercio librario gli stessi spazi aperti e la stessa moralità incontaminata che all’inizio del XIX secolo spinsero i lupi solitari verso il West americano.
Non fanno per lui i formalismi che definiscono la nostra vita. Via via
cocainomane, spinellatore, alcolizzato, residente in un’enclave musulmana, latitante dalla giustizia internazionale e musicista rock professionista classificato dallo storico Brian Hinton come “uno dei due
grandi chitarristi dell’epoca”, tale da “far apparire Clapton scipito e
p rovinciale”, non ha mai posseduto una casa né ha mai preso la patente, odia i conti in banca, non scrive lettere e detesta il computer. Si
è sposato due volte – una volta con Ruth, la donna dietro il tavolo, con
cui avrebbe perfino generato una figlia – ma la vita di famiglia non faceva per lui. Il suo passato è cosparso di ex abbandonate, ma sempre
– in linea di massima – affezionate, molte delle quali conservano ancora oggi in cantina uno scatolone, o dieci scatoloni, di suoi libri.
Martin divenne, e lo è rimasto, mio mentore, maestro e amico, ma
mentre si allontanava tra la folla quel sabato all’ora di pranzo, in pace con il mondo, per raggiungere alla stazione del Metro Ruth che lo
aspettava sudata accanto alla sua Stonehenge di fibra laminata, per
me era soltanto un tipo singolare che sapeva un mucchio di cose sui
libri. Forse mi sarei imbattuto ancora in lui ma, come collezionista, mi
vedevo già pronto a procedere con le mie gambe.
Non potevo sbagliarmi di più.
Nel secondo volume della sua autobiografia, Ways of Escape, Graham
Greene ricorda la sua visita a una fumeria d’oppio di Saigon, nel 1955,
chiamata Chez Pola. Notando uno scaffale con dei libri accanto al lettino, ne prese uno e scoprì che l’autore era lui. “Fu strano,” riflette,
“tro v a re due dei miei romanzi in una fumerie – Le Ministère de la Peur
e Rocher de Brighton. Scrissi una dédicace su ciascuno dei due.”
Leggendo questo, molti collezionisti di Greene probabilmente avv e r t i rono, come me, un’accelerazione del battito cardiaco. Immagina
di tro v a re quei libri. Immagina di p o s s e d e r l i. Ma l’eccitazione non
durò. Dopotutto la cosa era accaduta venticinque anni prima. E i
grandi collezionisti di Greene dovevano aver già frugato da cima a
fondo Saigon, raccattato ogni e qualsiasi libro che lui si fosse lasciato dietro, trasferendolo in Florida o alle Bahamas, nei bunker clima-
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tizzati e sorvegliati a mano armata in cui erano custoditi i loro tesori.
Tutto ciò ammesso che la storia fosse autentica e non l’ennesima
favola creata da Greene a beneficio di quelli di noi che con tanta
lealtà e... va bene, fanatismo, raccogliamo i suoi libri.
Perché, si badi bene, quello tra noi e Greene era un fatto personale. Collezionista lui stesso da una vita, sapeva che cosa ci metteva in
fibrillazione. Non ancora ventenni, lui e suo fratello Hugh avevano
messo insieme una consistente biblioteca di polizieschi vittoriani, da
cui, negli anni Settanta, Hugh, ormai dire t t o re generale della BBC,
compilò un paio di antologie e trasse una serie di telefilm di successo intitolata Poliziotti in cilindro: I rivali di Sherlock Holmes.
Greene continuò a collezionare libri fino alla morte, avvenuta nel
1991, anche quando il suo mondo si era ridotto a un appartamento a
ridosso del lungomare di Antibes. Sgomberando la casa, il nipote ed
esecutore letterario Nick Dennys, egli stesso mercante di libri, trovò
rare prime edizioni di Henry James, un’importante collezione di Ezra Pound e quasi tutti i libri scritti da Evelyn Waugh, ognuno con una
lunga e affettuosa dedica autografa. Per non parlare dei numerosi libri meno significativi su cui Greene aveva riportato le proprie opinioni in puntigliose e spesso sarcastiche note al margine. La voce che
Nick intendesse vendere la collezione tramite la sua libreria di South
Kensington per un po’ ne accrebbe enormemente la popolarità, ma
alla fine fu il Boston College a papparsi tutt’intera la biblioteca.
È facile immaginarsi Greene che se la ride della nostra delusione
collettiva. Anche se capiva e tollerava noi collezionisti più di tanti altri scrittori, ciò non vuol dire che gli piacessimo, o che ci venisse molto incontro. Non lo avresti mai trovato dietro un tavolo da Harc h r a d ’ s
a Piccadilly, a impreziosire con quella sua firma secca e minuta centinaia di copie dell’ultimo libro appena uscito. Né rispondeva alle
p re g h i e re epistolari di firm a re questo o quel suo volume – sempre
ammesso che quelle petizioni lo raggiungessero, visto che all’epoca
la sua ubicazione era oscura.
Si sapeva che di tanto in tanto capitava a Londra. Divenne oggetto
di uno scherzo ricorrente – dietro il banco di Any Amount of Books
in Charing Cross Road qualcuno affiggeva la sua foto ritagliata da un
giornale e vi scriveva sotto: “Fate uno sconto a quest’uomo.” Ma chi,
scorgendolo mentre si aggirava per i suoi antichi territori di caccia di
St James’s e St Martin’s Lane, sarebbe stato così fortunato da avere
sotto mano uno dei suoi libri? O, avendolo, così coraggioso da affiancarlo e, schiaritasi la voce, mormorare con scarsa fiducia: “Ehm,
Mr Greene, mi chiedevo se...”
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Una libbra di carta
Circolavano leggende, certo. Di solito avevano per protagonista –
e questo bastava a renderle dubbie – un qualche timido ragazzino, o
un barbiere o un commesso che, tirato fuori il suo Penguin di The
Third Man, si guadagnava una lunga e dettagliata dedica. Purtroppo
queste storie erano abbastanza vicine al carattere di Greene per ris u l t a re credibili. Forse non faceva sedute di autografi ma firmava sì
libri per ogni sorta di persona, e in ogni sorta di luogo – quella fu merie di Saigon, per esempio – ma anche per amici, o per i figli di
amici, e occasionalmente per beneficenza. Non si poteva mai sape re... e questo, naturalmente, è il bello del gioco.
Cioè: se lo si può ancora chiamare gioco quando l’oggetto della caccia poteva valere sul mercato centinaia, e a volte migliaia, di sterline,
e impossessarsene comportava spedizioni notturne in squallidi angoli di Londra, puntate da capogiro alle aste, viaggi d’affari su e giù per
l’Inghilterra verso città mai viste, porte nervosamente bussate di sconosciuti che, con ogni probabilità, vi avre b b e rolasciati, un minuto dopo, umiliati e a mani vuote sulla loro soglia a cento miglia da casa.
Ma in momenti del genere poteva capitarti di alzare lo sguardo e, in
fondo a quella strada grigia, vedere una figura alta e curva scomparire dietro l’angolo, e magari perfino cogliere il mezzo sorriso su quel
viso segnato dalle rughe. Bastardo di un Gre e n e, pensavi, prima di riprendere quella caccia in cui lui era la preda più insidiosa di tutte.
Una volta domandai al regista Josef von Sternberg, creatore e nume
tutelare di Marlene Dietrich e autore di Shanghai Express e dell’An gelo azzurro, se avesse un hobby.
“Sì,” cigolò quella voce senza tono, che ancora conservava un vago sentore della Vienna di Mahler e di Freud. “La filatelia cinese.”
Non era la risposta che mi aspettavo. “Come mai proprio quella?”
“Volevo un soggetto che non potessi esaurire.”
Nessun collezionista poteva desiderare un soggetto più inesauribile di Graham Greene. Intanto, c’era la quantità pura e semplice della
sua produzione. In cinquant’anni di carriera letteraria, a partire dal
1924 – anno di pubblicazione del tradizionale Esile Volumetto di Ve rsi, nel suo caso intitolato Babbling April –, non ha mai prodotto meno di un nuovo libro all’anno.
A differenza di tanti scrittori, però, non si limitava agli editori regolari. Scrisse un’introduzione alle memorie di un signore della guerra
cambogiano che apparve solo in una ridottissima tiratura per una tipografia di Vientiane presto defunta, e un’altra per With All Faults, i
ricordi del mercante di libri londinese David Low pubblicati a Tehe-
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ran. Preparò la prefazione per un libro di cucina di presunte ricette
a f rodisiache raccolte a Capri da un suo vecchio compare, il ro m a nziere Norman Douglas. Dieci anni dopo, la ristoratrice australiana
Gail Bilson avrebbe scambiato con me un pranzo per quattro al suo
Berowa Waters Inn, allora il ristorante più esclusivo e dispendioso a
sud dell’equatore, con una prima edizione di Venus in the Kitchen.
Mentre noi mangiavamo collo d’oca farcito di carne e orecchie di
maiale con sauce ravigote, una comitiva di sei persone arrivate con
un idrovolante privato, senza prenotare, fu rispedita all’imbarcadero
– una scena da cui Greene avrebbe tratto un godimento maligno non
inferiore a quello che provammo noi.
Per molti anni, a Natale, gli intimi di Greene ricevettero un libretto
contenente un capitolo del suo prossimo romanzo, illustrato con i
delicati schizzi di Edward Ardizzone. Prodotti in tirature di duecento
esemplari al massimo, questi libretti contenevano sempre una dedica personale, e nessuno di essi fu mai messo in vendita. Poi c’erano
i puri e semplici misteri, come i libri di cui l’autentica prima edizione
non era stata pubblicata dall’editore britannico o americano, ma da
uno tedesco, francese, o perfino svedese. E, ovviamente, sempre sotto un diverso titolo.
Poiché a Parigi Greene aveva sia un pied-à-terre sia un’amante, non
stupì che alcune di queste rarità saltassero fuori dal suo editore francese, Robert Laffont, a sua volta tutt’altro che contrario a prendersi gioco dell’establishment letterario. Negli anni Sessanta istituì il Premio
L a ffont per la Letteratura, il cui primo vincitore fu il suo vecchio amico
G reene. Laffont fece pre p a r a re una torta gigantesca, stappò qualche
dozzina di bottiglie di Laurent-Perrier e brindò a Greene nel corso di
una conferenza stampa. Greene ritirò la medaglia, dopo di che Laff o n t
annullò il premio, che non vide mai una seconda edizione.
Né la partecipazione di Greene al gioco si limitava alla firma delle
copie. Detestava a tal punto Babbling April che dichiarò di averne
comprato tutte le copie comparse sul mercato e di averle bruciate. Se
vera, la cosa è straordinaria, poiché la tiratura era limitata – probabilmente non più di trecento esemplari – e le copie, quelle rare volte
che sono saltate fuori, si sono vendute per una fortuna.* La voce, vera o falsa che fosse, trasformò la ricerca del libretto da un fatto di acquisizione in un atto di preservazione.
L’idea di preservazione entrò perfino nella raccolta delle sue opere famose. Greene era passato dall’oscurità di The Man Within, It’s a
* Il prezzo corrente nel 2002 era di 3.250 sterline.
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Battlefield e Rumour at Nightfall al mondo dei best-seller con Stam boul Train, A Gun for Sale e The Confidential Agent. Di conseguenza, i suoi primi libri apparvero in tirature ridotte mentre le successive
ebbero quasi immediatamente seconde e successive riedizioni. Questo rese quasi altrettanto rare tutte le prime edizioni, sia delle opere
del primo tipo sia di quelle del secondo.
Ma il fatto che molti dei suoi romanzi fossero usciti durante la seconda guerra mondiale, in regime di razionamento della carta, li rese ancora più rari. Fragili oggetti su un materiale grigiastro un solo
gradino più su della carta da giornale, con sovraccoperte che ti si disfacevano in mano come se non fossero fatte neppure di carta ma di
una sorta di polvere compressa, quei libri che venivano pubblicati, e
che non furono in seguito distrutti nei magazzini rasi al suolo dalla
Luftwaffe, avevano una vita di scaffale misurabile in settimane. Peggio ancora (dal punto di vista del collezionista), molti finivano nelle
biblioteche circolanti come quella gestita, strano ma vero, dalla Boots
farmaceutica. La Boots rilegava tutti i libri, incollava le sue etichette a
forma di scudetto sul frontespizio e, tranne che in pochi casi, buttava via le sovraccoperte. I collezionisti seri si svegliavano di notte con
i sudori freddi alla sola idea di una cosa del genere.
Negli anni Sessanta, una copia di Brighton Rock senza sovraccoperta valeva circa 500 sterline, ma con la sovraccoperta arrivava anche
a 2000 – se mai si fosse riusciti a tro v a rne una.* Brighton Rock costituisce una punta, ma le prime edizioni di altri libri giovanili di Greene
non erano poi tanto più a buon mercato. E poi c’erano le copie firmate, o le edizioni in altre lingue, e i libri per cui Greene aveva scritto l’introduzione o collaborato con un saggio. Per non parlare di alcune edizioni limitate, numerate e firmate, o di quei libretti natalizi...
Ah sì, era proprio un gran divertimento.
* Oggi costa un po’ di più. L’ultima copia con sovraccoperta in condizioni perfette
è passata di mano a 50.000 sterline.
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