DIECI ALBERI, UN ANDROID E DUE NO
di Milena Milani
Albisola, Circolo degli Artisti dal 3 al 18 agosto 2013
50° dell’inaugurazione del Lungomare degli Artisti avvenuta il 10 agosto 1963
Vorrei scrivere dieci nomi di piante per identificare dieci personaggi che
ingentiliscono o drammatizzano la Passeggiata a Mare di Albisola che, da agosto
1963 in avanti, sino a agosto 2013, fa parlare del Paese dei Vasai nel mondo intero.
Odio le classifiche, ma è bene togliere di mezzo troppi equivoci. Io, in quanto donna,
non sono stata invitata. Pazienza, accetto (con lo spirito del 1963) lo spazio
ORENDA, che, con una erre sola, indica la Galerie parigina del figlio di Maria Papa,
moglie di Gualtieri di San Lazzaro, scultrice, amata da Arp, Capogrossi, Fontana,
Garelli, da me, Picasso eccetera.
Per questi artisti incomincio con ANDROID-FONTANA
CHE COSA VUOL DIRE ANDROID
Sto preparando un libro con questo titolo, testi e fotografie, che uscirà, spero, al più
presto. ANDROID si pronuncia in inglese quasi come si scrive, o qualcosa di simile.
Allo scultore spaziale Lucio Fontana piaceva dire di essere ANDROID, si era fatto
fotografare a Pozzo Garitta con due suoi vasi che mi aveva regalato (uno bianco e
uno nero, con buchi) e poi con un uovo enorme, tutto candido e tagliato, anch’esso
creato da lui, soltanto per me. Le tre sculture, per fortuna, erano state registrate alla
Fondazione Fontana di Corso Monforte 23, a Milano. La vita è sempre difficile,
arrivano anche i furti, l’ho provato sulla mia pelle. Comunque non ho niente per
difendermi, le ruberie di opere d’arte in attesa di essere vendute, magari all’estero, a
privati, o a musei, si insabbiano. Sono qualcosa di schifoso che ritorna con
prepotenza.
ANDROID-FONTANA è nel mirino di continuo perché si tratta di un grande artista.
Vorrei spiegare i tanti motivi che lo portano in primo piano.
Nel 1946 Fontana ritornò a Albisola Mare dall’Argentina, dove era nato a Rosario di
Santa Fè, nel 1899. In quel tempo aveva viaggiato più volte su e giù dall’Italia e
viceversa. Era già molto noto nelle due località perché lavorava per i FRATELLI
BORSANI, amatori d’arte, decoratori d’interni, dove il Maestro preparava i muri,
certe pareti, soffitti incavati e fregi che i Borsani volevano da lui. Il loro era un
sodalizio intelligente che aumenterà alla fine della Seconda guerra mondiale.
L’artigianato e l’arte avevano dei punti di contatto molto forti e Fontana era un vero
Maestro in quel campo. Lui non sapeva bene quanto eseguiva, lavorava e basta.
Aveva già inventato tagli e buchi, li faceva quasi inconsciamente, parlandone a
Brera, illustrando le sue versioni, che erano una parte di sé. Purtroppo di quel suo
lavoro di allora non c’è ancora un inventario completo ma noi ci auguriamo che vi si
giunga al più presto. Di quel tempo esiste l’entusiasmo di Teresita, la futura moglie
che era modista e gli dava da mangiare nei momenti difficili. Teresita, al ritorno di
Fontana, lo aspettava sul molo di Genova come quando lui era partito. Si sposeranno
soltanto quindici anni dopo. Teresita diventò gelosissima di Fontana. Posso
raccontare un episodio che, con una mia amica, gallerista di Rovereto, Mara
Pancheri, mi tocca da vicino. C’era una mostra singolare di Fontana al Guggenheim
di NewYork. Noi due facevamo parte di quel viaggio e la Rai ci scelse per l’intervista
a Fontana. Appena Teresita lo seppe diventò furiosa, accusandoci di manovre illecite
e di farci avanti, mentre lei da tempo lavorava per quel meeting. Per convincerla che
l’invito non era colpa nostra dovemmo impazzire e ritirarci. Tuttavia, da allora, ci fu
un’ombra tra di noi, che non sparì mai se non dopo decenni. “L’arte è la vita”
scriveva Fontana in una lettera al suo amico Luciano Baldessari. Questo era infatti il
suo programma che avrebbe continuato con vera passione. Con i Borsani (Osvaldo e
Fulgenzio) che diventarono i suoi datori più importanti nel lavoro di interni, voglio
parlare dei soggetti religiosi, soprattutto le Vie Crucis. Fontana sentiva molto questo
tema che lo incuriosiva. Una volta, scrivendo al ceramista Umberto Ghersi (che “gli
teneva in fresco le palle di argilla”) disse che un dito dei piedi di Gesù poteva essere
più o meno al suo posto, che a lui non importava se fosse giusto o no, gli interessava
quel dito anomalo, in più o in meno, perché Gesù può fare quanto vuole. La Madonna
e gli altri protagonisti religiosi venivano fuori dal suo ingegno come i piatti, i vasi, le
giare, le caraffe e così via. Inoltre l’artista faceva invitare dai Borsani, lo scultore
Fabbri e altri, sempre con la voglia di aiutare tutti, con disponibilità e tanto cuore.
Albisola e Milano, per Fontana, erano due punti fermi inamovibili, dove lui voleva
tracciare le tappe del suo immenso lavoro. Ora si era nel Dopoguerra, ma Fontana
aveva sempre lavorato anche nel periodo del Ventennio, infischiandosene del Duce e
di tutti i fascisti in circolazione. Al gruppo di Fontana interessavano i due Borsani,
non Mussolini o Petacci (era questo il cognome dell’amante del Duce, Claretta), che,
alla esecuzione del Dittatore, verrà messa in burletta da Vincenzino Talarico, uomo
di cultura, scrittore, attore, e teatrante, che era mio amico, e che io invitai a Albisola.
E lui venne. Fontana morì a Comabbio (Varese) nel 1968. Sulla sua tomba c’è una
Natura in bronzo, come quelle di Albisola sulla Passeggiata a Mare.
LA DOTTORESSA SANDRA BUSCAGLIA PARLA CON ME DI ANDROID
Ho letto un articolo sulla Domenica, del Sole 24 Ore, il quotidiano che preferisco.
Amo la sua carta rosa e mi sono fatta spiegare dalla dottoressa Sandra Buscaglia
come affrontare la potenza del momento creativo di Fontana. Buscaglia è un medico
giovane dell’Ospedale San Paolo, di Savona, che si trova nella zona Valloria. Ecco
qualche informazione sul gran Maestro dello Spazialismo. Buscaglia ha fiducia nella
scienza e mi ha parlato come questo eccezionale artista avrebbe lavorato. Mi ha detto:
“Le idropitture su tela di Fontana stanno facendo il giro dell’universo come i buchi.
Bisogna guardare le azioni altrui come se fossimo noi a compierle. Per esempio i
tagli: nel retro della tela sono nitidi, il gesto è sul davanti, la nostra corteccia motoria
cerebrale viene attivata, spinta, rielaborata”.
“È ANDROID, ALLORA ?”.
“Certamente sì, nel retro, il taglio è intenzionale, la linea sul bianco è decisa, le
emozioni sono minori, non bisogna temerle, ma invece abbandonarci, come fosse una
radice umana, di una pianta, per esempio di un albero, che crescerà all’improvviso”.
“Hai provato ? Ci sei riuscita ?”.
“Sto cercando di capire, quanto appare complicato e difficile. Mi accorgo che più mi
avvicino a Fontana, tutto è immediato, solenne ma anche comprensibile”.
“ Quindi puoi dire a tutti noi quello che senti”.
“Proprio così. Qualcosa mi fa pensare, come leggere quel romanzo Suite française di
Irène Némirovsky, uscito per il Corriere della Sera, di cui tu stessa mi hai già
parlato”.
”Di che luogo era questa scrittrice?”.
“Di Kiev, del 1903, ma è come se fosse una nostra contemporanea”.
”Quando ci fu la Rivoluzione di ottobre, in Russia, dove andò a finire ?”.
”Purtroppo ad Auschwitz in un Campo di Concentramento, dove morì”.
”Era ebrea?”
”Si, ma si era convertita al Cattolicesimo”.
UNA ESISTENZA ANDROID
Mi sono immersa nuovamente in pagine memorabili, poi ho comperato gli altri
volumi della Némirovsky, i racconti trasfigurati della sua esistenza. ANDROID c’è
anche qui, nelle parole che compongono la storia della sua famiglia, i personaggi
vibranti che la circondano, i paesaggi solitari, i giardini, il profumo delle rose, le
feste, le danze, la ricchezza, la solitudine”. Ho detto alla Buscaglia:
”Davvero pensi che possa definirsi ANDROID? Nel senso che ogni persona viva e
lavori come fosse un robot, una macchina, quasi senz’anima?”.
E lei:”Non proprio così. L’anima va scoperta, denudata, portata alla luce”.
“Lucio Fontana, l’anima , la possedeva”.
”Come te ne sei accorta?”.
”Basta saper guardare le sue opere, scoprirle all’interno”.
”Quindi sezionarle”.
”Non proprio, per capire non si deve distruggere”:
Abbiamo terminato l’incontro all’Ospedale San Paolo, con altri interrogativi ai quali
rispondere e soprattutto a questi ultimi. Ho fissato a lungo tagli e buchi. Nella mia
Fondazione si possono ammirare varie opere differenti di Fontana, aggrovigliate o
semplici, incantevoli, sulle quali ci sarebbe tanto da dire, da studiare, come la mia
poesia del giugno 1960 (Miei sogni arrivederci, Edizioni Images Padova, pag.178)
che parla di pietre gialle sul nero, attaccate con il Vinavil. Eccola :
Per un quadro di Lucio Fontana
Nero nerissimo e giallo
pietre gialle sul nero
cinquanta per settanta
è un quadro
con buchi nel nero
forellini e pietre gialle
una se n’è andata
ne attaccherò un’altra
con il Vinavil
così nero e giallo mi piace
l’ho comperato perché anche i quadri
come i sogni si comperano
si pagano soldi
biglietti uno sull’altro
nero nerissimo e giallo
è un quadro che amo
che osservo nel nero e giallo
ripeto nero e giallo
notte giorno, giorno notte
così siamo tutti.
Il quadro sparì dalla mia abitazione di Milano, si volatilizzò dopo essere tornato
indietro da una mostra personale di Fontana, in via Palestro sempre a Milano. Io ero a
Cortina, avevo detto di riconsegnarlo (dopo l’esposizione) a casa mia, mettendo
anche l’indirizzo della Galleria del Naviglio che si era occupata del trasporto (andata
e ritorno). Per fortuna quest’opera (come tutte quelle di Fontana) è registrata alla
Fondazione dell’artista, Corso Monforte, Milano, prima o poi verrà ritrovata, ne sono
sicura. Era un regalo a me dell’artista veramente ANDROID.
QUATTRO LETTERE INEDITE DI LUCIO FONTANA A UMBERTO GHERSI
I1 ceramista Umberto Ghersi, anni fa, mi affidò le lettere che Lucio Fontana (lo
scultore dai baffetti neri-grigi) gli aveva scritto nel periodo 1956-1961.
Avevamo pensato insieme di pubblicarle in un piccolo libro, volevamo trovare uno
sponsor, io avrei dovuto fare la prefazione. C'era però il problema della proprietà
letteraria, e di Teresita, moglie e erede di Fontana. Io gliene avevo parlato a Milano
ma lei aveva tagliato corto alla conversazione. Esistevano vecchie questioni con
Ghersi, riguardanti alcune opere che Fontana aveva regalato al ceramista e che lei,
Teresita, non intendeva inserire nel Catalogo generale, a cura di Enrico Crispolti.
Ghersi era molto amareggiato per la situazione. Nella sua semplicità non riusciva a
capire il modo di agire di Teresita, dato che lui si era sempre comportato bene con
entrambi i coniugi. Inoltre Fontana per qualsiasi necessità, sia che si trattasse dello
studio-abitazione a Pozzo Garitta, a Albisola, o delle sculture in corso, non faceva
che spedirgli lettere o telegrammi perché lo considerava l'unico, nel Paese dei Vasai,
in cui avere completa fiducia. Spesso, a ogni mio ritorno albisolese, andavo da Ghersi
che, allora, aveva l'atelier con il forno in Via Respighi, nel retro del caseggiato dove
risiedeva mia madre e, più tardi, ne ebbe un altro in Via Cilea, dove adesso c'è il
corniciaio Tosoni. Da Ghersi mi recai anche a lavorare, decorai piatti e vasi a
ingobbio, ascoltando i suoi consigli a proposito degli smalti che, sino a quel
momento, non avevo adoperato. Eravamo amici e parlavamo spesso di Fontana, di
quelle lettere che Ghersi aveva ricevuto, e che poi aveva ritrovato nel disordine delle
sue carte. In esse si poteva capire quanto era stato intenso il loro rapporto e la loro
collaborazione. L'ostilità di Teresita, per Ghersi, era incomprensibile. Lui mi
chiedeva sempre se c'erano novità ma purtroppo non avvenivano cambiamenti. Così
ci mettemmo l'animo in pace, tuttavia Ghersi mi fece promettere che, prima o poi,
quelle lettere sarebbero apparse in qualche modo. Recentemente, nelle Edizioni Skira,
è uscita la corrispondenza di Fontana dal 1919 al 1968. Si tratta di un volume dove è
raccolto il materiale proveniente da famigliari, amici, artisti, critici, collezionisti ma
non vi è traccia di quello dei suoi corrispondenti, perché Fontana non conservava la
posta ricevuta. La corrispondenza con Tullio d'Albisola, dal 1936 al 1962, invece, era
già stata pubblicata a cura di Danilo Presotto, per l'Editrice Liguria, Savona 1987.
L'interesse nei confronti del Maestro è cresciuto ovunque, e anche la sua vita privata,
quindi, è ritenuta importante ai fini di una maggiore conoscenza della sua arte da
parte dei critici. Io ho deciso allora di consegnare quattro lettere autografe alla rivista
«Resine», perché il 1999 è stato il centenario di Fontana, e lui, dal suo Paradiso, non
potrà che approvare il mio gesto. Ho anche stabilito che tutte le lettere a Ghersi, da-
temi dal ceramista, dovranno essere catalogate dalla Fondazione Fontana, in Corso
Monforte 23, a Milano. Ne parlerò al più presto alla presidente Nini Laurini. Voglio
fare ogni cosa alla luce del sole, perché Fontana e Ghersi amavano la chiarezza.
Fontana era un personaggio che diceva quello che pensava. Ghersi era come lui,
entrambi si intendevano e si volevano bene. Fontana aveva scritto di Ghersi:
«Maestro ceramista di rara sensibilità cromatica, mio collaboratore di importanti
lavori...». E Tullio d'Albisola aveva affermato: «Umberto Ghersi, nel senso di
gioviale è il capo équipe e appare (anche se non è più giovanissimo) tra le migliori
firme a gran fuoco dei ceramisti albisolesi della seconda ondata». Attraverso le lettere
di Fontana, scritte nel suo linguaggio tipico, scherzoso e spregiudicato, con errori di
ortografia divertenti e qualche parolaccia, viene fuori la storia di due protagonisti
inconfondibili, uniti anche nell'amore per Albisola. Fontana, in quegli anni, aveva
molte preoccupazioni economiche, i committenti pagavano in ritardo, tuttavia nel
Maestro dello Spazialismo l'entusiasmo per la scultura in ceramica era sempre al
primo posto, anche tra le inevitabili delusioni. Da Milano a Albisola, un filo ideale
legava due temperamenti, due caratteri complementari. Fontana formulava richieste,
Ghersi risolveva con precisione e attenzione qualsiasi difficoltà. Era lui a preparare la
buona terra, l'argilla dei futuri capolavori dell'amico lontano. Poi le mani del Maestro
avrebbero nobilitato quella duttile creta, e le opere inventate dal suo genio sarebbero
entrate nella storia dell'arte contemporanea internazionale.
Albisola, venerdì 22 ottobre 1999 (da Resine n.83, Marco Sabatelli Editore)
RICORDI SU LUCIO FONTANA E LO SPAZIALISMO
Lucio Fontana rientrò dall'Argentina al termine della Seconda guerra mondiale.
Viaggiava sulla nave e, a Genova, sul molo, c'era Teresita che lo aspettava. Era la sua
fidanzata, lavorava da modista, lo amava teneramente e, per tutto il tempo del
conflitto, rimasta sola, aveva sofferto in modo atroce. Nel piccolo paese di Albisola,
terra di artisti e di vasai, a qualche chilometro da Savona, la città dove io sono nata,
tutti erano al corrente di quel legame. Le invenzioni di Fontana, la magia delle sue
mani che modellavano la creta, erano già conosciute nell'ambiente che gravitava
intorno a Tullio Mazzotti, battezzato da Marinetti Tullio d’Albisola. All’inizio del
Secondo Futurismo, Marinetti aveva visitato la Fabbrica Mazzotti, disegnata da
Diulgheroff, dove pittori e scultori si cimentavano nel mondo del gran fuoco.
Fontana, appena ritornato da Buenos Aires, si inserì nuovamente nel luogo amato,
come se fosse partito da pochi giorni e non da così lungo tempo. Io lo conobbi da
Tullio, il gran patriarca della ceramica, e subito scattò tra noi una immediata
simpatia. Essa, negli anni successivi divenne profonda stima e amicizia. Parlai a
Fontana del mio compagno il veneziano Carlo Cardazzo che, nella Serenissima,
aveva la Galleria del Cavallino, e ora, a Milano, la Galleria del Naviglio, che
avevamo aperto nell’ immediato dopoguerra. Fontana mi descrisse subito quello che
sarebbe diventato lo Spazialismo. Come tutti sanno, egli, in Argentina, con un gruppo
di allievi aveva redatto il «Manifiesto Blanco» nel quale c’erano già in embrione le
future idee spaziali.
'
L'entusiasmo di Fontana si trasmise a me, e io fui la sua prima appassionata
sostenitrice. In Albisola, invece, i concetti dello Spazialismo non fecero effetto, o
meglio, non guadagnarono proseliti al nuovo Movimento. I liguri, chiusi e sospettosi,
non si sbilanciarono verso le inconsuete tendenze. Lo stesso Tullio, che aveva
accettato il Futurismo restò fuori e ci considerava un po' matti. Carlo Cardazzo, in
quegli anni, non veniva con me in vacanza dalle mie parti. Io gli avevo proibito di
frequentare Albisola, per un pudore di fronte alla mia famiglia e agli amici. Nessuno
conosceva la nostra reale situazione, io continuavo a essere iscritta fuori corso
all'Università di Roma, anche se ormai vivevo tra Venezia e Milano. Non dobbiamo
dimenticare che, allora non esisteva il divorzio, e Cardazzo, per sfortuna, era sposato.
Fu soltanto a Albisola e poi alla Galleria del Naviglio che presentai Fontana al mio
compagno. I due si intesero immediatamente, anche perché io da tempo, parlavo di
quelle prospettive vitali, nelle quali potevano convergere le nostre energie giovani e
dinamiche. Cardazzo percepì il valore e l'intensità di ciò che Fontana affermava, il
mio fervore fece il resto. Posso dire, senza immodestia, che lo Spazialismo nacque e
si incanalò nel percorso giusto, perché io ne fui l’infiammata madrina. Inoltre
Cardazzo e io eravamo uniti in maniera totale, nella vita e nel lavoro, con gli identici
obiettivi: la cultura prima di tutto. Senza timore delle opinioni contrarie, delle critiche
e anche degli insulti. Come era già capitato per il Futurismo, quando i detrattori
lanciavano contro Marinetti, contro Boccioni, Carrà, Severini e altri, la frutta marcia
e i pomodori maturi, anche lo Spazialismo subì le stesse angherie, le identiche
persecuzioni. Basta pensare a quanto scriveva sul Corriere della Sera, il critico d'arte
Leonardo Borgese, che si firmava Polignoto. Il suo veleno, tuttavia, non contaminò lo
Spazialismo. Perché l'impeto delle nostre idee era più forte, purissimo, e ognuno di
noi ne era imbevuto.
Emozioni, sensazioni e fatti. Mostre importanti, ambienti spaziali diventati storici,
idee sempre più «oltre», al di là del nostro involucro. La terra fu il punto di partenza
per l'infinito. Studiavamo e programmavamo i Manifesti dello Spazialismo, Fontana
voleva anche parole astruse per impressionare il pubblico, Beniamino Joppolo,
Giorgio Kaisserlian e io lo accontentavamo, eravamo i letterati, gli intellettuali del
sodalizio. Intanto c'era fermento intorno, qualcuno inventava che retrodatavamo i
Manifesti, i Nuclearisti si davano da fare per confondere le acque. Discussioni e
polemiche non mancavano. Ma il nostro amico editore Giampiero Giani stampò il
primo volume sullo Spazialismo, per rimettere le cose a posto.
Ognuno di noi, nel Movimento, fu soltanto se stesso. Fontana, sin dall'inizio degli
incontri, delle manifestazioni, dei dibattiti, aveva stabilito che lo Spazialismo fosse
all'insegna della libertà. Così tutti si esprimevano come meglio credevano. Gli
scrittori come gli scultori, i pittori come i filosofi, i musicisti, gli architetti, i poeti.
Gli schemi costituiti non facevano per noi. L'adesione allo Spazialismo ci apriva
nuove visioni dello spazio, dell'universo, del Cosmo, anche della spiritualità. Se
condo me, lo Spazialismo fu un punto fermo dopo una guerra, dopo il massacro
collettivo. I giovani avevano bisogno di speranze e lo Spazialismo fu un vessillo per
tutti. Tutti volevamo un'arte nuova, senza confini. Oggi i critici studiano i nostri testi,
vogliono verificarli. Penso che le intuizioni di Lucio Fontana, e di noi che firmammo
i Manifesti, si siano rivelate autentiche. Il globo terrestre è inserito nelle meraviglie
del Creato, tra costellazioni e galassie, pianeti e satelliti. La scienza e la tecnica
aiutano gli artisti a esplorare le plaghe ancora sconosciute, anche quelle dell'anima,
come voleva Fontana. Gli artisti rifiutano l'arte tradizionale. Lo Spazialismo ha
gettato un seme che è diventato frutto.
(dal Catalogo «Arte a Milano 1946-1959. Il Movimento Spaziale»
a cura di Martina Corgnati, Credito Valtellinese, Sondrio 1998)
( da Resine n. 83, Marco Sabatelli editore)
IL SESSO È CRUDELTÁ, IL SESSO È RIVOLTA, DICE FONTANA
Eccomi nella sua sala che è un affascinante labirinto, un gioco di riflessi, bianco su
bianco, "ci vogliono gli occhiali da neve" dice la gente, Fontana ha vinto il premio di
due milioni concesso dal Comune di Venezia per un pittore italiano, non era presente
il giorno della premiazione, perché era ripartito per Milano, con la moglie Teresita
che guida la 850, lui voleva stare tranquillo a casa senza troppe emozioni, Fontana è
un grande artista, così ha piantato tutto e tutti, c'erano tanti battimani per lui,
specialmente dei giovani, perché Fontana resta sempre giovane; gli avevo parlato nei
giorni della "vernice", gli avevo chiesto di dirmi ancora una volta il perché di questo
suo insistere ossessionante, ripetuto, in quel taglio brutale che squarcia la tela, la
meravigliosa stretta fessura, la splendida perfettissima innocente figurazione del
sesso di una fanciulla, di una vergine o di un angelo senza sesso?
"Mia cara" ha risposto Fontana, "il sesso è crudeltà, il sesso è rivolta, ma anche
umiltà, dolcezza, poesia: io voglio rendere tutto questo, voglio ribellarmi all'ipocrisia, ai benpensanti, alla stupidità umana; voglio buttarglielo in faccia alla gente
questo grido, voglio che si riconoscano, che si scoprano in quel grido. Dai tempi dello
Spazialismo, tu lo sai, dal 1946, quando ritornai in Italia dall'Argentina, continuo a
dire quello che sento dentro di me, prima o poi mi capiranno, i giovani del resto mi
hanno aperto le braccia, io sono uno di loro, ho la stessa ansia di ricerca, gli stessi
intendimenti di rottura. Sono in continua evoluzione, e sempre in quello che faccio
c'è lo stesso entusiasmo della mia giovinezza, dei miei primi anni di scultore, di
pittore, di artista spaziale."
(Milena Milani, da Italia Sexy - Immordino editore, Genova 1967)
GIUSEPPE CAPOGROSSI ANCHE LUI ANDROID? IL RE DELLE FORCHETTE
O DELLE FORMICHE DICE NO
Di nascita romana (7 marzo 1900), aristocratico di antica nobiltà papalina (era conte),
laureato in Giurisprudenza, viveva nella Capitale con una moglie bizzarra,
biondissima, e due figlie, Beatrice e Olga. Io l’avevo conosciuto durante la guerra, in
Via Margutta, dove entrambi abitavamo in quei palazzetti ottocenteschi, dov’erano i
nostri atelier, molto freddi e poco funzionali. La famiglia Capogrossi era teatro
continuo di liti furibonde (lei era sposata con Prampolini, anche lui pittore; era
ungherese, si chiamava Costanza Mennyey), (mi avrebbe fatto più tardi un ritratto
interessante e poetico, che è esposto a Savona nella mia Fondazione). Anche se il
Dopoguerra era duro, la famiglia Capogrossi dava spesso ricevimenti dove anch’io
partecipavo. Un giorno, sempre a Roma, presentai Capogrossi al mio compagno
Carlo Cardazzo, che arrivava da Venezia. Era il tempo in cui l’artista, che era
figurativo, dopo lo scoppio della Prima bomba atomica, stava inventando un altro
universo in cui il segno era predominante. L’Italia e i suoi collezionisti non
l’avrebbero accettato, mentre in Francia, rapidamente, Capogrossi sarebbe diventato
una star. A Albisola, tuttavia, già aperta alle novità, Capogrossi sarebbe stato invitato
a presentare il suo bozzetto per la Passeggiata degli Artisti. Quei marchi bianchi e
neri, da inventore delle illusioni, esprimevano sentimenti altissimi, magici addirittura.
Un giorno, al Testa, gli chiesi di spiegarmi, con parole semplici il significato della
sua nuova pittura.
ERO STANCO DEI PIERROT IN RIVA AL TEVERE.
Mi disse: “Non sono un critico, ma un pittore. Ho accanto a me le forze straordinarie
della natura, quelle primordiali che possono rinnovare totalmente l’esistenza. Adesso
mi sento felice. Ero stanco dei Pierrot in riva al Tevere e dei collezionisti che
desideravano il loro ritratto, magari in maschera. Lo so che attualmente i miei fan se
ne vanno, ma penso che verrà il momento in cui i miei segni avranno un costo sempre
più alto”. È avvenuto proprio così, Capogrossi di cui si è tenuta una grande mostra
nel 2012-2013 al Guggenheim di Venezia, e un’altra a Savona in Pinacoteca, è salito
in fretta nelle classifiche mondiali. Già oggi le sue quotazioni, anche in Italia, si
elevano in modo insperato e di lui si parla ovunque. Le sue gigantesche o
microscopiche formiche, ferme o vaganti (chiamate anche forchette), danno i brividi
per la fantasia dell’artista ( io le ho volute per il mio libro Miei sogni arrivederci,
giugno 1960, Edizioni Images di Padova, dicembre 1973). Ecco una poesia per
Capogrossi del 1960 che amo molto. Mi piace metterla in questo testo.
Capogrossi è un pittore
di segni cabalistici
ricerca oscure formule nei quadri
abita al piano sottostante
dalla finestra lo saluto
ciao Capogrossi la pittura
è un mito perché continua
e insiste sulle tele? Gli
do del lei come a un Maestro
a volte gli telefono e i discorsi
si svolgono tranquilli
Mette nero su bianco
adopera i colori come io faccio
lo stesso con i libri
inutilmente demolisco l’arte
Capogrossi è un antico
un saggio pescatore
getta nel mare l’amo
e lo ritrae
tortuoso insiste e scava
da lui potrei imparare
solo che lo volessi.
Milena Milani, Miei sogni arrivederci, pag 177 Edizioni Images, Padova 1973
Sempre a Albisola, ritorno a Capogrossi e a quei segni miracolosi come una
invocazione, una preghiera. Mi disse l’artista: “ Avevo in mente quei moduli da
molto, sin da quando nello studio di Via Margutta le formiche venivano fuori da
piccoli buchi anche se tutto era stato restaurato. Poi, dopo la Bomba atomica, non ho
più resistito. È avvenuta, dentro di me, quella specie di rivoluzione che mi ha portato
all’arte attuale. Piaccia o non piaccia, io non posso farne a meno, è una necessità che
verrà capita e apprezzata, ne sono sicuro”.
“ANDROID MI SPAVENTA”, AFFERMA CAPOGROSSI
“Non voglio essere né datato né classificato. Ho sofferto a venire fuori dagli schemi,
inoltre ho firmato il Manifesto dello Spazialismo di Fontana in cui credo, ma
ANDROID mi spaventa. Se vuoi, lo faccio per te ma preferirei di no, adoro la
libertà”. Capogrossi è stato chiaro e io desidero rispettare il suo pensiero, così vado
avanti senza ANDROID. Inoltre Capogrossi, come Fontana, ha inventato qualcosa
che immediatamente si riconosce. Il suo pannello sulla Passeggiata degli Artisti è
molto ammirato. Il suo segno parla al cuore e al cervello, è unico come sono uniche
le Nature di Fontana, stavolta in bronzo, davvero singolari e seducenti. Che fortuna
ho avuto di stare accanto a simili artisti, il cui nome è noto nel mondo intero.
A NEW YORK, DA CASTELLI
Alla mostra di Capogrossi, tenuta a New York da Castelli, qualche volta leggo le
opinioni contrastanti del gallerista italo-americano che non fa davvero una gran
figura. Se fosse vivo gliene direi quattro, ma non posso discutere il suo pensiero.
Anche Cardazzo non c’è più a ribattere le parole di un voltagabbana. Arrabbiarsi non
serve, ma per la personale di Capogrossi, in quegli anni non c’era niente da fare,
Castelli non lavorò affatto per questa esposizione e, del resto, i musei americani e i
collezionisti non erano ancora pronti a un tale rinnovamento pittorico. Capogrossi
tuttavia ebbe soddisfazioni da una giovane studentessa americana, andata da lui da
Boston a Roma per intervistarlo e poi a New York durante la mostra. Successe
l’imprevisto, la ragazza, che era fidanzata, si innamorò di lui. E Capogrossi di lei ma
Costanza, che attendeva, con le due figlie, la regolarizzazione del loro legame, fece
un tale baccano che ancora oggi viene ricordato. Tra i due pseudoconiugi si giunse a
un compromesso, finché le due figlie ebbero la loro soddisfazione. Il pittore rinsavì e
infatti, appena giunse il divorzio anche da noi, Costanza lasciò Prampolini e poi
sposò Capogrossi. Lui, però, per lunghi anni, ebbe il rimpianto per quell’amore finito
malamente. Certamente gli artisti hanno una vita sentimentale molto complicata. Per
fortuna per il conte Capogrossi Guarna (questo era il suo cognome intero) tutto si
risolvette in un intreccio sempre più fitto di segni, di speranze, di forchette-formiche
che venivano avanti come un esercito. Capogrossi, quasi prigioniero, si buttò a
capofitto nel lavoro. A Albisola fece anche ceramiche, bellissimi piatti a rilievo da
Tullio d’Albisola, una serie numerata che è splendida anche dopo tanto tempo. La
morte di Cardazzo avvenuta tre mesi più tardi del vernissage della Passeggiata, portò
molto scompiglio tra gli artisti e gli amici. Tullio d’Albisola pubblicò da Scheiwiller
un ricordo del Doge veneziano (così lo chiama), ma le vacanze e il lavoro non furono
più gli stessi. Capogrossi morì nel 1972 a Roma.
WIFREDO LAM FERMENTO DI IDEE
E adesso ecco un maestro come LAM , incrocio di razze, fermento di idee, di
superbia e gentilezza, sempre alla caccia di se stesso. A Albisola aveva la sua corte e
il suo Caffè, incontrava le donne e la moglie Lou, morta di recente, e i suoi bambini.
Arrivava la sua fotografa personale, Hadelita, e poi la bella Irene Dominguez, la
tuttofare che dipingeva, nuotava, stava al sole, si curava delle provviste, suonava la
chitarra, cantava, portava il vino rosso nei fiaschi, la frutta, il salame, il formaggio
alla ligure, e mille altre cose. Con Lam si andava in Africa e in Perù, come in
Uruguay. Era un pittore intelligente, preparato, fantasioso. Voglio dire che anche in
ceramica inventava tecniche e forme, e sempre parlava della sua amicizia con
Picasso, il genio che venerava, o del Comunismo, il Partito che li univa nella Cultura,
soprattutto negli incontri qua e là, per il globo terrestre. Che pomeriggi al Cantinone,
in quella stradetta con l’archivolto nel centro di Albisola Mare, via Repetto 1, tra il
venditore di scarpe, il restauratore di mobili antichi, il fornaio specializzato con la
focaccia e le fette di grano tenero, quelle senza sale e quelle molto condite, tipo pizza
Margherita, pomodori, acciughe, olive nere, peso leggero, mozzarella. Qualche volta
tutta la tribù del celebre Lam ordinava gli spaghetti al dente, anzi i bucatini, vuoti
all’interno, davvero gustosi al palato. Gli ammiratori stavano prima a rispettosa
distanza, altri osavano chiedere autografi e magari disegni con dedica. Allora Lam
dipingeva il sole di Albisola, le Madonnette che stanno negli angoli delle Cappellette
scolorite.
ASGER JORN UNA DIVINITÁ GRECA
Come un fulmine giungeva Jorn, una divinità greca, lucido d’acqua, di crema oleosa,
bello e giovane, modellato alla perfezione. Veniva dal mio terreno di Grana, i mille
metri che ero riuscita a comperare con lo sconto, lire 2,90 al metro quadro, e dove gli
avevo permesso di installare una tenda per accamparsi in quell’estate rovente, con
figli e moglie (che tuttavia anche lui cambiava). Furono giorni e notti molto speciali,
tra pianura, mare e colline, l’autostrada nuova che gli operai costruivano con estrema
lentezza, espropriando terreni coltivati, abitazioni vecchie o recenti, muri che
delimitavano le piccole frazioni di proprietà privata. Così la Liguria (in particolare
Albisola) veniva sezionata in centimetri quadrati. Passarono mesi e anni, Jorn adesso
riusciva a vendere, si comperò anche un bene rovinoso che alla sua morte andò al
Comune di Albisola per farne un Museo (ma dopo tanti anni le sue volontà non hanno
ancora ottenuto quanto lui desiderava).
ROBERTO CRIPPA E LA SUA ARTE FATALE
In quel periodo di fulgori compariva Roberto Crippa in una macchina scoperta,
rombante, una Ferrari rossa quasi a pezzi, poi con una Lamborghini idem e, di giorno,
quasi sul naso dei bagnanti, su un motoscafo Riva che radeva gli scogli e chi
prendeva il sole. Un fuggi fuggi generale lo lasciava padrone indisturbato e lui
ridendo aveva già cambiato imbarcazione, ora pilotava un altro motoscafo ancora più
potente o si faceva trainare facendo sci nautico. Io ci provai varie volte, volevo
diventare una campionessa in quello sport che mi piaceva moltissimo. Crippa, tra i
giovani artisti, era il più vivo e vitale, e tra gli Spaziali brillava di luce propria, tra i
cerchi concentrici della sua arte fatale. Come si pota una vite d’uva, un giorno cadde
a Bresso, morì poco dopo, più o meno nello stesso posto dov’era avvenuta la
precedente disgrazia che gli aveva ridotto le gambe. Soffrii per questa perdita, con
Nini, la sua seconda moglie, bionda e molto bella, che lo amava in modo totale e il
loro bambino ancora piccolo, con il quale spesso facevo il bagno. Quanto è
complicata la vita che ci toglie la gioia all’improvviso. Caro Roberto Crippa ho un
pensiero soltanto per te e per la tua morte, quando mi prendevi in giro perché facendo
sci nautico, perdevo la parte inferiore del costume a due pezzi e non volevo più uscire
dal mare, sotto lo sguardo di Carlo Cardazzo che ci osservava con il binocolo dalla
terrazza della casa di San Benedetto ai Pesci Vivi, sotto la Pensione che ci forniva gli
spaghetti alle tre del mattino per la festa dell’Invasione dei Turchi, che ogni estate ,
dopo Ferragosto, davamo per gli amici che venivano da noi.
E ADESSO ECCO FRANCO GARELLI
medico otorinolaringoiatra, specialista del naso e della gola, che voleva operarmi ai
turbinati storti (respiravo male). Era già allora uno scultore rinomato, la cui fama è
maggiore attualmente, di quando era vivo. Il suo lavoro alla Passeggiata degli Artisti,
rispecchia l’impegno di quel pomeriggio estivo quando andammo prima allo studio di
Cézanne, poi alla sua tomba di fronte alla Montagna Santa Victoria. L’atelier era
aperto e abbandonato, rimasto alla mercè degli amatori d’arte. Anche noi fummo
indotti al furto di pennelli, colori in barattoli, tavolozza eccetera. C’era un grosso
gatto bianco, a pelo lungo, si aggirava lì intorno, io lo presi in braccio, lui si strinse a
me. L’avevo già visto accucciato sulla pietra tombale. Anche la Nanni, che stava con
Garelli, fece lo stesso, un contadino ci disse che era quello dell’artista, già molto
vecchio, che ogni giorno si sdraiava lì sopra. Ho una fotografia che scattò Garelli e
che mesi dopo mi spedì da Torino dove abitava e dove aveva fatto sviluppare
l’immagine. Il mosaico di Garelli, impronta di se stesso, idee oscure di verde e di
mare, che trascoloravano sotto luci fredde, con gli apparecchi del suo mestiere oltre
che di quelli dell’artista, mi restano nella memoria e ogni volta che ritorno a Albisola
passo a vederli. Così vado indietro nel tempo. E rimprovero lo Stato francese di
dimenticare il controllo della tomba e dell’atelier di un importante rinnovatore
artistico, tralasciando di mettere ordine storico e affettivo, su ciò che resta di lui.”Che
vergogna” penso,”anche loro come noi, in questo disinteresse di ricordi più vivi della
natura intorno, nella campagna curata che Cézanne ha scoperto per tutti quanti”.
A CONTRASTO CON GARELLI, MI VIENE IN MENTE LA FIGURA DI
ANTONIO SIRI
Sposo della marchesa Gentile di cui era amministratore della Villa e factotum del
terreno intorno, dei pozzi, dell’uliveto, dei campi di grano, di segala, della legnaia,
del giardino bordato da siepi di anemoni tagliate benissimo, degli ampi saloni
settecenteschi, con le violette vezzose sotto la luna, proprio quella di SIRI,
impenetrabile. In realtà quei simboli, autoritratti dello scultore, avevano gli stessi
ardori, mistificati, nascosti, perché Siri si era innamorato di lei, e lei di lui, ma non se
lo dicevano, lo dissimulavano, a tutti (e anche a loro stessi). Una notte di estate la
luna piena di Siri risplendeva turgida nel firmamento e lui scese nel frutteto e nel
giardino, per mitigare quella forza che lo possedeva. Anche la marchesa non ce la
fece più, si corsero incontro, come due assetati di passione, giovani ancora, con la
vita e con tutta l’anima che fiammeggiavano. Fu un abbraccio in cui si riconobbero,
uno fatto per l’altro. Fu qualcosa di sfrenato che li portò entrambi al matrimonio,
subitaneo, rapidissimo, dissacrante, senz’altra via d’uscita, oltre le regole, oltre le
convenzioni. Che meraviglia i due maturi sposi come fanciulli al primo affetto nel
mondo ostile, di cui loro non accettavano le regole e i pettegolezzi. POI CARLO
CARDAZZO DISSE A SIRI DI PORTARGLI LE SUE LUNE IN CERAMICA,
PER FARE LA SUA PERSONALE, AL NAVIGLIO, un grande momento brillante,
una vittoria artistica nell’universo dell’arte, nei suoi meandri segreti. Siri tenne una
bellissima esposizione di lune, modellate con tanta bravura, tutte poesia e vigore,
dove aleggiava il suo volto, che assomigliava a Gesù nell’uliveto, nell’Orto del
Getsemani, prima della cattura che lo avrebbe portato alla morte.
Sono arrivata a un altro momento della storia contemporanea di Albisola del Vangelo
di Cristo:quello di
ANTONIO SABATELLI: ODI E FURORI (1922-2002)
Un mio vecchio amico (1922-2002),di cui ho scritto nel mio romanzo Soltanto
amore, parlando della spiaggia di Albisola, in un inverno freddo e splendente, dove il
protagonista si masturba in modo innocente, davanti alla terrazza dei Bagni Colombo
in riva al mare, e poi trascina altrove il personaggio (quello femminile) alla sua casa
in Via Pittalodola, sulle alte colline. Entrambi sono affascinati da loro stessi: si
amano soltanto guardandosi. La pittura di Sabatelli è molto strana, carica di
avvertimenti. È una rivolta verso la società attuale, anche dal punto di vista collettivo.
L’artista e M.M. si comprendono e si detestano. Nelle frasi del libro è lo stesso,
identiche idiosincrasie, le avversioni, gli odi e i furori, le ripugnanze. Comunque i
critici hanno detto che è un romanzo singolare, molto vero. Io sono contenta di avere
affrontato questo tema.
MARIO ROSSELLO AL BAR TESTA
Eccomi a un altro tassello della storia di questo piccolo paese: quando il giovane
pittore MARIO ROSSELLO tallonava lo scultore Agenore Fabbri, primo savonese
entrato in vivace accordo con il Futurismo, per mezzo del grande Ivos Pacetti,
toscano come lui. Tra questi artisti, Tullio d’Albisola aveva stretto le sue reti, anche
se poi, dopo qualche smilzo libretto di poesia per una donna, ma soprattutto a base di
bevute e di mangiate da Pescetto, ognuno se ne stava a casa sua. Per la verità, era
uscito anche il Libro di Latta, voluto da Nosenzo (di cui si è tanto parlato nella
Fabbrica di quest’ultimo, per merito della storica Silvia Bottaro), che aveva suscitato
le avances dello stesso Marinetti, di Bruno Munari e così via, (entrati gloriosamente
nella stessa Collana). Non così Rossello, il più giovane delle nuove generazioni, che
si stava muovendo nel mare limaccioso che aveva intorno. A ogni sorgere del sole o
delle nuvole, Rossello dimenticava la sua nascita savonese, per sistemarsi in prima
fila al tavolino del Testa, dove sarebbe giunto l’amico Fabbri, accanto a Carlo
Cardazzo, già mercante di Fontana ( conosciuto per mezzo mio ), di Capogrossi
(sempre incontrato per merito mio), e dello Spazialismo. Poi, finalmente, ecco
Cardazzo, un berrettino di tela bianca in testa, con la tesa larga, alzata sulla fronte, e i
suoi baffi biondi ispidi, notissimi, la pipa in mano, i giornali in una borsa gialla, di
nailon trasparente, tenuta come quella della spesa, una rosa per me sul gambo rigido,
magari anche un biglietto amoroso. C’ero anch’io con il mio compagno, se riuscivo a
comperare il pesce, la carne e la frutta, arrivata dalla casa dei miei genitori dove
avevo dormito in Via Venti Settembre, ora Quattro Novembre, di fronte al Palazzo
della Provincia. Avevo comperato anche i grissini all’acqua, per i miei genitori, e le
provviste per tutti. Ora facevo un salto al Testa, mentre gli altri si stavano muovendo:
Capogrossi con le sue forchette che veniva da Pescetto, quindi da Albisola Capo dove
alloggiava, magari Fontana con buchi e tagli poi: Siri, Sassu, Reggiani, a volte
Franceschini, il riottoso Sabatelli, Garelli (quando c’era), e magari San Lazzaro,(anni
dopo), Rafael Alberti, Quasimodo (che poi nel 1959 diventerà Premio Nobel per la
Poesia), Bonino, Luzzati, e via dicendo, un continuo movimento maschile. Le mogli
erano già in spiaggia con le figlie. Tullio d’Albisola di mattina non c’era, ci aspettava
fuori della sua Fabbrica creata da Diulgheroff. Io, di solito, andavo a salutarlo, era un
rito al quale non rinunciavo. Quasi nessuno prendeva bibite, caffè, gelati al Testa, ma
il proprietario Checchin e i camerieri non ci badavano. Tutti risparmiavano, denaro e
tempo.
MAURO REGGIANI CHIAMATO LO SMILZO
Era un taciturno che si chiudeva nel silenzio, con la bocca socchiusa, e una piega
vaga agli angoli come una ruga lievissima, gli occhi a fessura, il naso diritto e
fremente che denunciava una femminilità strana, quasi morbosa. Io lo fissavo e avrei
voluto assomigliargli, ma non vi riuscivo. Lui allora oltrepassava la mia invadenza,
alzando appena gli occhi al cielo, come a dire:”Lasciami perdere”, cosicché io
arrossivo. Di lui amavo l’indifferenza e lo stile. Era l’artista più interessante del
gruppo, a parte Cardazzo, dai suoi baffi a cespuglio, i capelli biondi schiariti, mai
fermi, che per quanto li bagnasse di acqua o di brillantina, gli ricadevano, le
sopracciglia folte sulle pupille azzurro-chiaro da bambino cresciuto in fretta, un bel
volto malinconico, liscio, con pelle appena dorata. Era il viso mediterraneo veneziano
di un Doge, da Palazzo Ducale, stranamente assomigliante a Proust pensoso, secondo
un ritratto di Franco Gentilini, chiuso in un suo universo segreto, inviolabile. Mauro
Reggiani avrebbe potuto essere fratello gemello di Cardazzo, anche lui interiore, con
un animo da poeta, da artista, da ricercatore di sistemi, di equinozi o di astri, di stelle.
Entrambi assetati di silenzio, di amori rarefatti dal tempo. Rivedo l’intreccio severo e
cronico delle stagioni che passano, sublimando i pensieri, le scoperte selvagge, i
sogni, le speranze, gli intrecci dell’arte, dell’amore, della poesia. Sono scomparsi così
come hanno vissuto, ancora giovani, pronti a dare di se stessi una visione perfetta,
perché le loro giornate erano piene di progetti da concludere, di cose da fare, da
realizzare, anche se moltissimo era già compiuto, in ogni istante della loro esistenza
terrena, dei loro impegni in campo artistico e culturale. Amico mio, che cosa dire di
più? Voglio spiegarti che ho amato la tua arte, che ho suggerito il tuo cognome agli
organizzatori dell’evento, ma Cardazzo era già molto ammalato, io ero disperata. Ti
chiedo perdono per la tua esclusione, ti voglio bene, cerco di riparare a questo
sbaglio, parlerò ancora di te, se di ANDROID potrò scrivere un vero volume su
Albisola, su Fontana, Capogrossi e i suoi protagonisti in cui tu sei ugualmente vivo.
SASSU UNO STILE DI VITA
Aligi Sassu (17 luglio 1912-17 luglio 2000), milanese di origine sarda, innamorato di
Albisola, presidente del Villaggio degli Artisti, che dovevamo costruire in località
Grana (di cui ero vice presidente), i suoi uomini rossi volanti, i suoi ciclisti, che
adesso vedo dalla mia finestra, quando mi affaccio su Piazza del Popolo sopra il
Palazzo del Comune di Albisola Mare, è stato un punto di riferimento per tutti noi,
nel Secondo dopoguerra quando, con Fontana, ritornato dall’Argentina
incominciammo a parlare del Manifiesto Blanco, che il futuro Spazialista avrebbe
scritto con i suoi allievi. Sassu ci aiutò, ci invitò a Albisola come a Milano in Via
Bagutta, dove aveva lo studio. Ci fece conoscere i suoi amici architetti, i fratelli
Borsani già bene introdotti nelle abitazioni più note, che davano lavoro a tutti e
quindi denaro ai futuri creatori dell’arte. In quegli anni c’erano già Sinisgalli, Banfi,
Formaggio, Paci, Gillo Dorfles, Guido Ballo, i quali lavoravano con i Borsani che
diventarono un punto fermo in Via Montenapoleone, angolo Via Manzoni. Fu proprio
in quel periodo che Sassu mi volle come modella con un mio cappotto scozzese,
cucito da mia madre; e con un turbante grigio con fasce rosse. Cardazzo voleva
comperare per me quell’opera molto costosa, ma noi avevamo poco liquido. Così
dovette rinunciare ma l’estate successiva Sassu mi fece una stupenda piastra in
ceramica che mi rappresentava e che mi regalò (adesso è nella mia Fondazione di
Savona). In Sardegna, a Cagliari, andavo a pregare davanti a un suo bellissimo
lavoro, nella penombra di una Chiesa. Qui a Albisola ho assistito atterrita alla
distruzione di un suo polemico affresco sui muri esterni del suo atelier, da lui
progettato per la madre. Facendo cambi era riuscito a inventare un luogo dell’anima,
dove un prelato riceveva donne nude, forse assolvendole dai loro peccati. Per un
motivo o per l’altro quei lavori dovevano restare visibili e invece furono cancellati,
imbrattati, quindi scomparvero. Io soffrii con l’autore. Il Vescovo di Savona era
venuto personalmente a constatare quel disastro. Dovevano passare più di
cinquant’anni per riparlare di quell’episodio, ma intanto Sassu, con la sua nuova
moglie Helenita, se n’era andato in Spagna, a Mallorca, l’unico Paese dove con Mirò
a Barcellona si può camminare su una Passeggiata come la nostra a Albisola. Anche
la madre di Sassu si trasferì altrove, poi morì. I giorni,gli anni, si sono evoluti, tutto è
mutato. Sassu ci ha lasciato molto tristi per il suo vuoto, in un paesaggio che vide il
Futurismo e che accettò tanti cambiamenti, sino ai buchi e ai tagli di Fontana, alla
merda di artista di Piero Manzoni, alle forchette o formiche di Capogrossi, ai nudi blu
di Klein. Anche per Sassu avverrà lo stesso: un maestro che con le parole trasmette
scintille di sensazioni pure, di illusioni estreme, in cui l’anima fantasiosa, che piace ai
più piccoli fruitori, viene cambiata. Comunque adesso dopo oltre cinquant’anni la
favola si trasforma lievemente, ce n’è voluto di tempo.
EMANUELE LUZZATI GENOVESE DI NASCITA (1921-2007), EBREO,
FREQUENTATORE DEL PAESE DEI VASAI E DEL BOSTRICO DI ALFREDO
MECONI, APPASSIONATO DI TEATRO
Seguì, per tutta l’esistenza, l’arte con le sue famose favole che piacciono tanto anche
ai bambini. Fu quindi naturale che fosse invitato a partecipare alle opere da farsi sulla
Passeggiata degli Artisti, diventata un punto di cultura nel mondo contemporaneo.
Con Luzzati, ebbi un incontro a Cortina d’Ampezzo, prima sui campi da sci, dove
entrambi andavamo a piedi, poi per Corso Italia, dove lui aveva una mostra personale
alla Terrazza Cortina, al quinto piano, prima di ritornare in Liguria.Eravamo soli per
le strade vuote, con cose da dire, scambiando impressioni e fantasie. Al Bostrico, con
le sue serigrafie, i suoi disegni, Luzzati era di casa, ma, come me, era di poche parole.
La sua caratteristica più viva era che i suoi discorsi sembravano un dialogo. Creavano
un feeling con l’interlocutore che lui riempiva con racconti stranissimi, dove re e
regine avevano avventure meravigliose, da far girare la testa. Con Luzzati mi
divertivo molto; era affascinante, buono, educato, un vero gentleman. Nonostante gli
anni, continuava a essere un ragazzo, come andasse ancora a scuola. Erano strani i
simboli del potere monarchico, che lui eseguiva quasi fosse invasato. Sotto quel
copricapo del re, venivano fuori teste voluminose che gli piacevano come giocasse
con il Meccano, stabilendo un ordine preciso e inamovibile. Ogni centimetro
quadrato di pelle, tuttavia, non era liscio ma bitorzoluto, sciupato dal tempo, e dalla
cellulite. Aveva tante ossessioni che sperava di sistemare al più presto. Secondo me
era molto infelice.
TULLIO D’ALBISOLA (1899-1971) E LO SPAZIALISMO
Non volevo parlare di Tullio e lo Spazialismo, perché quando si accennava a questo
Movimento, lui faceva un gesto che non sopportavo, picchiando con l’indice destro la
sua o la mia fronte, quasi a dire:”Siete matti”. Ma Silvio Riolfo Marengo, al quale
(per la prima volta in vita mia) ho letto alcune pagine di ANDROID (che lui ha
apprezzato) mi ha fatto cambiare idea. Storicamente, il futurista Tullio d’Albisola
(così chiamato da Marinetti, durante il Secondo Futurismo) non dovrebbe essere
lontano da Fontana, (mi disse lo stesso Riolfo). Poi ho capito che non è così. Tullio
d’Albisola ascoltava sempre i Nucleari, i quali si rodevano il fegato perché avrebbero
voluto Tullio e noi, con Fontana, tra le loro righe. Io, con Baj, discutevo spesso, lui si
era vantato di essere capo dei Nucleari e addirittura (all’oscuro di tagli e buchi di
Fontana) pensava che bastasse affermare di averli fatti per primo, perché i
collezionisti ci credessero (vedi il mio testo sul catalogo generale di Martina
Corgnati, che parla della mostra di Guga Zunino e dello Spazialismo, al Credito
Valtellinese di Sondrio nel 1998). Comunque a Tullio d’Albisola non si può attribuire
niente. Io restai l’unica donna iscritta allo Spazialismo, con Carlo Cardazzo, Fontana,
Joppolo, Kaisserlian, e, più tardi, il collezionista editore Giampiero Giani che stampò
il nostro primo Catalogo generale nel suo paesino sul Lago d’Orta, dove andava in
vacanza. Lasciamo quindi Tullio con i suoi gesti sulla mia o sulla sua fronte, per
prenderci in giro. Fu un vero dolore per Fontana e per me, per Sassu e gli altri, che lo
seguirono a ruota in tutto e per tutto. Isolati come eravamo, trovammo la forza solo
nelle nostre idee.
Milena Milani Albisola 21 marzo 2013
INDICE
Che cosa vuol dire ANDROID
La dottoressa Sandra Buscaglia parla con me di ANDROID
Una esistenza ANDROID
Per un quadro di Lucio Fontana (poesia)
Quattro lettere di Lucio Fontana a Umberto Ghersi (daResine n.83)
Ricordi su Lucio Fontana e lo Spazialismo (da Resine n.83)
Il sesso è crudeltà, il sesso è rivolta, dice Fontana (da Italia Sexy)
Giuseppe Capogrossi anche lui ANDROID?
Ero stanco dei Pierrot in riva al Tevere
Capogrossi è un pittore (poesia)
ANDROID mi spaventa, afferma Capogrossi
A New York da Castelli
Wifredo Lam fermento di idee
Asger Jorn una divinità greca
Roberto Crippa e la sua arte fatale
E adesso ecco Franco Garelli
A contrasto con Garelli mi viene in mente la figura di Antonio Siri
Antonio Sabatelli: odi e furori
Mario Rossello al Bar Testa
Mauro Reggiani chiamato lo Smilzo
Sassu uno stile di vita
Emanuele Luzzati genovese di nascita, ebreo
Tullio d’Albisola e lo Spazialismo
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