DIECI ALBERI, UN ANDROID E DUE NO di Milena Milani Albisola, Circolo degli Artisti dal 3 al 18 agosto 2013 50° dell’inaugurazione del Lungomare degli Artisti avvenuta il 10 agosto 1963 Vorrei scrivere dieci nomi di piante per identificare dieci personaggi che ingentiliscono o drammatizzano la Passeggiata a Mare di Albisola che, da agosto 1963 in avanti, sino a agosto 2013, fa parlare del Paese dei Vasai nel mondo intero. Odio le classifiche, ma è bene togliere di mezzo troppi equivoci. Io, in quanto donna, non sono stata invitata. Pazienza, accetto (con lo spirito del 1963) lo spazio ORENDA, che, con una erre sola, indica la Galerie parigina del figlio di Maria Papa, moglie di Gualtieri di San Lazzaro, scultrice, amata da Arp, Capogrossi, Fontana, Garelli, da me, Picasso eccetera. Per questi artisti incomincio con ANDROID-FONTANA CHE COSA VUOL DIRE ANDROID Sto preparando un libro con questo titolo, testi e fotografie, che uscirà, spero, al più presto. ANDROID si pronuncia in inglese quasi come si scrive, o qualcosa di simile. Allo scultore spaziale Lucio Fontana piaceva dire di essere ANDROID, si era fatto fotografare a Pozzo Garitta con due suoi vasi che mi aveva regalato (uno bianco e uno nero, con buchi) e poi con un uovo enorme, tutto candido e tagliato, anch’esso creato da lui, soltanto per me. Le tre sculture, per fortuna, erano state registrate alla Fondazione Fontana di Corso Monforte 23, a Milano. La vita è sempre difficile, arrivano anche i furti, l’ho provato sulla mia pelle. Comunque non ho niente per difendermi, le ruberie di opere d’arte in attesa di essere vendute, magari all’estero, a privati, o a musei, si insabbiano. Sono qualcosa di schifoso che ritorna con prepotenza. ANDROID-FONTANA è nel mirino di continuo perché si tratta di un grande artista. Vorrei spiegare i tanti motivi che lo portano in primo piano. Nel 1946 Fontana ritornò a Albisola Mare dall’Argentina, dove era nato a Rosario di Santa Fè, nel 1899. In quel tempo aveva viaggiato più volte su e giù dall’Italia e viceversa. Era già molto noto nelle due località perché lavorava per i FRATELLI BORSANI, amatori d’arte, decoratori d’interni, dove il Maestro preparava i muri, certe pareti, soffitti incavati e fregi che i Borsani volevano da lui. Il loro era un sodalizio intelligente che aumenterà alla fine della Seconda guerra mondiale. L’artigianato e l’arte avevano dei punti di contatto molto forti e Fontana era un vero Maestro in quel campo. Lui non sapeva bene quanto eseguiva, lavorava e basta. Aveva già inventato tagli e buchi, li faceva quasi inconsciamente, parlandone a Brera, illustrando le sue versioni, che erano una parte di sé. Purtroppo di quel suo lavoro di allora non c’è ancora un inventario completo ma noi ci auguriamo che vi si giunga al più presto. Di quel tempo esiste l’entusiasmo di Teresita, la futura moglie che era modista e gli dava da mangiare nei momenti difficili. Teresita, al ritorno di Fontana, lo aspettava sul molo di Genova come quando lui era partito. Si sposeranno soltanto quindici anni dopo. Teresita diventò gelosissima di Fontana. Posso raccontare un episodio che, con una mia amica, gallerista di Rovereto, Mara Pancheri, mi tocca da vicino. C’era una mostra singolare di Fontana al Guggenheim di NewYork. Noi due facevamo parte di quel viaggio e la Rai ci scelse per l’intervista a Fontana. Appena Teresita lo seppe diventò furiosa, accusandoci di manovre illecite e di farci avanti, mentre lei da tempo lavorava per quel meeting. Per convincerla che l’invito non era colpa nostra dovemmo impazzire e ritirarci. Tuttavia, da allora, ci fu un’ombra tra di noi, che non sparì mai se non dopo decenni. “L’arte è la vita” scriveva Fontana in una lettera al suo amico Luciano Baldessari. Questo era infatti il suo programma che avrebbe continuato con vera passione. Con i Borsani (Osvaldo e Fulgenzio) che diventarono i suoi datori più importanti nel lavoro di interni, voglio parlare dei soggetti religiosi, soprattutto le Vie Crucis. Fontana sentiva molto questo tema che lo incuriosiva. Una volta, scrivendo al ceramista Umberto Ghersi (che “gli teneva in fresco le palle di argilla”) disse che un dito dei piedi di Gesù poteva essere più o meno al suo posto, che a lui non importava se fosse giusto o no, gli interessava quel dito anomalo, in più o in meno, perché Gesù può fare quanto vuole. La Madonna e gli altri protagonisti religiosi venivano fuori dal suo ingegno come i piatti, i vasi, le giare, le caraffe e così via. Inoltre l’artista faceva invitare dai Borsani, lo scultore Fabbri e altri, sempre con la voglia di aiutare tutti, con disponibilità e tanto cuore. Albisola e Milano, per Fontana, erano due punti fermi inamovibili, dove lui voleva tracciare le tappe del suo immenso lavoro. Ora si era nel Dopoguerra, ma Fontana aveva sempre lavorato anche nel periodo del Ventennio, infischiandosene del Duce e di tutti i fascisti in circolazione. Al gruppo di Fontana interessavano i due Borsani, non Mussolini o Petacci (era questo il cognome dell’amante del Duce, Claretta), che, alla esecuzione del Dittatore, verrà messa in burletta da Vincenzino Talarico, uomo di cultura, scrittore, attore, e teatrante, che era mio amico, e che io invitai a Albisola. E lui venne. Fontana morì a Comabbio (Varese) nel 1968. Sulla sua tomba c’è una Natura in bronzo, come quelle di Albisola sulla Passeggiata a Mare. LA DOTTORESSA SANDRA BUSCAGLIA PARLA CON ME DI ANDROID Ho letto un articolo sulla Domenica, del Sole 24 Ore, il quotidiano che preferisco. Amo la sua carta rosa e mi sono fatta spiegare dalla dottoressa Sandra Buscaglia come affrontare la potenza del momento creativo di Fontana. Buscaglia è un medico giovane dell’Ospedale San Paolo, di Savona, che si trova nella zona Valloria. Ecco qualche informazione sul gran Maestro dello Spazialismo. Buscaglia ha fiducia nella scienza e mi ha parlato come questo eccezionale artista avrebbe lavorato. Mi ha detto: “Le idropitture su tela di Fontana stanno facendo il giro dell’universo come i buchi. Bisogna guardare le azioni altrui come se fossimo noi a compierle. Per esempio i tagli: nel retro della tela sono nitidi, il gesto è sul davanti, la nostra corteccia motoria cerebrale viene attivata, spinta, rielaborata”. “È ANDROID, ALLORA ?”. “Certamente sì, nel retro, il taglio è intenzionale, la linea sul bianco è decisa, le emozioni sono minori, non bisogna temerle, ma invece abbandonarci, come fosse una radice umana, di una pianta, per esempio di un albero, che crescerà all’improvviso”. “Hai provato ? Ci sei riuscita ?”. “Sto cercando di capire, quanto appare complicato e difficile. Mi accorgo che più mi avvicino a Fontana, tutto è immediato, solenne ma anche comprensibile”. “ Quindi puoi dire a tutti noi quello che senti”. “Proprio così. Qualcosa mi fa pensare, come leggere quel romanzo Suite française di Irène Némirovsky, uscito per il Corriere della Sera, di cui tu stessa mi hai già parlato”. ”Di che luogo era questa scrittrice?”. “Di Kiev, del 1903, ma è come se fosse una nostra contemporanea”. ”Quando ci fu la Rivoluzione di ottobre, in Russia, dove andò a finire ?”. ”Purtroppo ad Auschwitz in un Campo di Concentramento, dove morì”. ”Era ebrea?” ”Si, ma si era convertita al Cattolicesimo”. UNA ESISTENZA ANDROID Mi sono immersa nuovamente in pagine memorabili, poi ho comperato gli altri volumi della Némirovsky, i racconti trasfigurati della sua esistenza. ANDROID c’è anche qui, nelle parole che compongono la storia della sua famiglia, i personaggi vibranti che la circondano, i paesaggi solitari, i giardini, il profumo delle rose, le feste, le danze, la ricchezza, la solitudine”. Ho detto alla Buscaglia: ”Davvero pensi che possa definirsi ANDROID? Nel senso che ogni persona viva e lavori come fosse un robot, una macchina, quasi senz’anima?”. E lei:”Non proprio così. L’anima va scoperta, denudata, portata alla luce”. “Lucio Fontana, l’anima , la possedeva”. ”Come te ne sei accorta?”. ”Basta saper guardare le sue opere, scoprirle all’interno”. ”Quindi sezionarle”. ”Non proprio, per capire non si deve distruggere”: Abbiamo terminato l’incontro all’Ospedale San Paolo, con altri interrogativi ai quali rispondere e soprattutto a questi ultimi. Ho fissato a lungo tagli e buchi. Nella mia Fondazione si possono ammirare varie opere differenti di Fontana, aggrovigliate o semplici, incantevoli, sulle quali ci sarebbe tanto da dire, da studiare, come la mia poesia del giugno 1960 (Miei sogni arrivederci, Edizioni Images Padova, pag.178) che parla di pietre gialle sul nero, attaccate con il Vinavil. Eccola : Per un quadro di Lucio Fontana Nero nerissimo e giallo pietre gialle sul nero cinquanta per settanta è un quadro con buchi nel nero forellini e pietre gialle una se n’è andata ne attaccherò un’altra con il Vinavil così nero e giallo mi piace l’ho comperato perché anche i quadri come i sogni si comperano si pagano soldi biglietti uno sull’altro nero nerissimo e giallo è un quadro che amo che osservo nel nero e giallo ripeto nero e giallo notte giorno, giorno notte così siamo tutti. Il quadro sparì dalla mia abitazione di Milano, si volatilizzò dopo essere tornato indietro da una mostra personale di Fontana, in via Palestro sempre a Milano. Io ero a Cortina, avevo detto di riconsegnarlo (dopo l’esposizione) a casa mia, mettendo anche l’indirizzo della Galleria del Naviglio che si era occupata del trasporto (andata e ritorno). Per fortuna quest’opera (come tutte quelle di Fontana) è registrata alla Fondazione dell’artista, Corso Monforte, Milano, prima o poi verrà ritrovata, ne sono sicura. Era un regalo a me dell’artista veramente ANDROID. QUATTRO LETTERE INEDITE DI LUCIO FONTANA A UMBERTO GHERSI I1 ceramista Umberto Ghersi, anni fa, mi affidò le lettere che Lucio Fontana (lo scultore dai baffetti neri-grigi) gli aveva scritto nel periodo 1956-1961. Avevamo pensato insieme di pubblicarle in un piccolo libro, volevamo trovare uno sponsor, io avrei dovuto fare la prefazione. C'era però il problema della proprietà letteraria, e di Teresita, moglie e erede di Fontana. Io gliene avevo parlato a Milano ma lei aveva tagliato corto alla conversazione. Esistevano vecchie questioni con Ghersi, riguardanti alcune opere che Fontana aveva regalato al ceramista e che lei, Teresita, non intendeva inserire nel Catalogo generale, a cura di Enrico Crispolti. Ghersi era molto amareggiato per la situazione. Nella sua semplicità non riusciva a capire il modo di agire di Teresita, dato che lui si era sempre comportato bene con entrambi i coniugi. Inoltre Fontana per qualsiasi necessità, sia che si trattasse dello studio-abitazione a Pozzo Garitta, a Albisola, o delle sculture in corso, non faceva che spedirgli lettere o telegrammi perché lo considerava l'unico, nel Paese dei Vasai, in cui avere completa fiducia. Spesso, a ogni mio ritorno albisolese, andavo da Ghersi che, allora, aveva l'atelier con il forno in Via Respighi, nel retro del caseggiato dove risiedeva mia madre e, più tardi, ne ebbe un altro in Via Cilea, dove adesso c'è il corniciaio Tosoni. Da Ghersi mi recai anche a lavorare, decorai piatti e vasi a ingobbio, ascoltando i suoi consigli a proposito degli smalti che, sino a quel momento, non avevo adoperato. Eravamo amici e parlavamo spesso di Fontana, di quelle lettere che Ghersi aveva ricevuto, e che poi aveva ritrovato nel disordine delle sue carte. In esse si poteva capire quanto era stato intenso il loro rapporto e la loro collaborazione. L'ostilità di Teresita, per Ghersi, era incomprensibile. Lui mi chiedeva sempre se c'erano novità ma purtroppo non avvenivano cambiamenti. Così ci mettemmo l'animo in pace, tuttavia Ghersi mi fece promettere che, prima o poi, quelle lettere sarebbero apparse in qualche modo. Recentemente, nelle Edizioni Skira, è uscita la corrispondenza di Fontana dal 1919 al 1968. Si tratta di un volume dove è raccolto il materiale proveniente da famigliari, amici, artisti, critici, collezionisti ma non vi è traccia di quello dei suoi corrispondenti, perché Fontana non conservava la posta ricevuta. La corrispondenza con Tullio d'Albisola, dal 1936 al 1962, invece, era già stata pubblicata a cura di Danilo Presotto, per l'Editrice Liguria, Savona 1987. L'interesse nei confronti del Maestro è cresciuto ovunque, e anche la sua vita privata, quindi, è ritenuta importante ai fini di una maggiore conoscenza della sua arte da parte dei critici. Io ho deciso allora di consegnare quattro lettere autografe alla rivista «Resine», perché il 1999 è stato il centenario di Fontana, e lui, dal suo Paradiso, non potrà che approvare il mio gesto. Ho anche stabilito che tutte le lettere a Ghersi, da- temi dal ceramista, dovranno essere catalogate dalla Fondazione Fontana, in Corso Monforte 23, a Milano. Ne parlerò al più presto alla presidente Nini Laurini. Voglio fare ogni cosa alla luce del sole, perché Fontana e Ghersi amavano la chiarezza. Fontana era un personaggio che diceva quello che pensava. Ghersi era come lui, entrambi si intendevano e si volevano bene. Fontana aveva scritto di Ghersi: «Maestro ceramista di rara sensibilità cromatica, mio collaboratore di importanti lavori...». E Tullio d'Albisola aveva affermato: «Umberto Ghersi, nel senso di gioviale è il capo équipe e appare (anche se non è più giovanissimo) tra le migliori firme a gran fuoco dei ceramisti albisolesi della seconda ondata». Attraverso le lettere di Fontana, scritte nel suo linguaggio tipico, scherzoso e spregiudicato, con errori di ortografia divertenti e qualche parolaccia, viene fuori la storia di due protagonisti inconfondibili, uniti anche nell'amore per Albisola. Fontana, in quegli anni, aveva molte preoccupazioni economiche, i committenti pagavano in ritardo, tuttavia nel Maestro dello Spazialismo l'entusiasmo per la scultura in ceramica era sempre al primo posto, anche tra le inevitabili delusioni. Da Milano a Albisola, un filo ideale legava due temperamenti, due caratteri complementari. Fontana formulava richieste, Ghersi risolveva con precisione e attenzione qualsiasi difficoltà. Era lui a preparare la buona terra, l'argilla dei futuri capolavori dell'amico lontano. Poi le mani del Maestro avrebbero nobilitato quella duttile creta, e le opere inventate dal suo genio sarebbero entrate nella storia dell'arte contemporanea internazionale. Albisola, venerdì 22 ottobre 1999 (da Resine n.83, Marco Sabatelli Editore) RICORDI SU LUCIO FONTANA E LO SPAZIALISMO Lucio Fontana rientrò dall'Argentina al termine della Seconda guerra mondiale. Viaggiava sulla nave e, a Genova, sul molo, c'era Teresita che lo aspettava. Era la sua fidanzata, lavorava da modista, lo amava teneramente e, per tutto il tempo del conflitto, rimasta sola, aveva sofferto in modo atroce. Nel piccolo paese di Albisola, terra di artisti e di vasai, a qualche chilometro da Savona, la città dove io sono nata, tutti erano al corrente di quel legame. Le invenzioni di Fontana, la magia delle sue mani che modellavano la creta, erano già conosciute nell'ambiente che gravitava intorno a Tullio Mazzotti, battezzato da Marinetti Tullio d’Albisola. All’inizio del Secondo Futurismo, Marinetti aveva visitato la Fabbrica Mazzotti, disegnata da Diulgheroff, dove pittori e scultori si cimentavano nel mondo del gran fuoco. Fontana, appena ritornato da Buenos Aires, si inserì nuovamente nel luogo amato, come se fosse partito da pochi giorni e non da così lungo tempo. Io lo conobbi da Tullio, il gran patriarca della ceramica, e subito scattò tra noi una immediata simpatia. Essa, negli anni successivi divenne profonda stima e amicizia. Parlai a Fontana del mio compagno il veneziano Carlo Cardazzo che, nella Serenissima, aveva la Galleria del Cavallino, e ora, a Milano, la Galleria del Naviglio, che avevamo aperto nell’ immediato dopoguerra. Fontana mi descrisse subito quello che sarebbe diventato lo Spazialismo. Come tutti sanno, egli, in Argentina, con un gruppo di allievi aveva redatto il «Manifiesto Blanco» nel quale c’erano già in embrione le future idee spaziali. ' L'entusiasmo di Fontana si trasmise a me, e io fui la sua prima appassionata sostenitrice. In Albisola, invece, i concetti dello Spazialismo non fecero effetto, o meglio, non guadagnarono proseliti al nuovo Movimento. I liguri, chiusi e sospettosi, non si sbilanciarono verso le inconsuete tendenze. Lo stesso Tullio, che aveva accettato il Futurismo restò fuori e ci considerava un po' matti. Carlo Cardazzo, in quegli anni, non veniva con me in vacanza dalle mie parti. Io gli avevo proibito di frequentare Albisola, per un pudore di fronte alla mia famiglia e agli amici. Nessuno conosceva la nostra reale situazione, io continuavo a essere iscritta fuori corso all'Università di Roma, anche se ormai vivevo tra Venezia e Milano. Non dobbiamo dimenticare che, allora non esisteva il divorzio, e Cardazzo, per sfortuna, era sposato. Fu soltanto a Albisola e poi alla Galleria del Naviglio che presentai Fontana al mio compagno. I due si intesero immediatamente, anche perché io da tempo, parlavo di quelle prospettive vitali, nelle quali potevano convergere le nostre energie giovani e dinamiche. Cardazzo percepì il valore e l'intensità di ciò che Fontana affermava, il mio fervore fece il resto. Posso dire, senza immodestia, che lo Spazialismo nacque e si incanalò nel percorso giusto, perché io ne fui l’infiammata madrina. Inoltre Cardazzo e io eravamo uniti in maniera totale, nella vita e nel lavoro, con gli identici obiettivi: la cultura prima di tutto. Senza timore delle opinioni contrarie, delle critiche e anche degli insulti. Come era già capitato per il Futurismo, quando i detrattori lanciavano contro Marinetti, contro Boccioni, Carrà, Severini e altri, la frutta marcia e i pomodori maturi, anche lo Spazialismo subì le stesse angherie, le identiche persecuzioni. Basta pensare a quanto scriveva sul Corriere della Sera, il critico d'arte Leonardo Borgese, che si firmava Polignoto. Il suo veleno, tuttavia, non contaminò lo Spazialismo. Perché l'impeto delle nostre idee era più forte, purissimo, e ognuno di noi ne era imbevuto. Emozioni, sensazioni e fatti. Mostre importanti, ambienti spaziali diventati storici, idee sempre più «oltre», al di là del nostro involucro. La terra fu il punto di partenza per l'infinito. Studiavamo e programmavamo i Manifesti dello Spazialismo, Fontana voleva anche parole astruse per impressionare il pubblico, Beniamino Joppolo, Giorgio Kaisserlian e io lo accontentavamo, eravamo i letterati, gli intellettuali del sodalizio. Intanto c'era fermento intorno, qualcuno inventava che retrodatavamo i Manifesti, i Nuclearisti si davano da fare per confondere le acque. Discussioni e polemiche non mancavano. Ma il nostro amico editore Giampiero Giani stampò il primo volume sullo Spazialismo, per rimettere le cose a posto. Ognuno di noi, nel Movimento, fu soltanto se stesso. Fontana, sin dall'inizio degli incontri, delle manifestazioni, dei dibattiti, aveva stabilito che lo Spazialismo fosse all'insegna della libertà. Così tutti si esprimevano come meglio credevano. Gli scrittori come gli scultori, i pittori come i filosofi, i musicisti, gli architetti, i poeti. Gli schemi costituiti non facevano per noi. L'adesione allo Spazialismo ci apriva nuove visioni dello spazio, dell'universo, del Cosmo, anche della spiritualità. Se condo me, lo Spazialismo fu un punto fermo dopo una guerra, dopo il massacro collettivo. I giovani avevano bisogno di speranze e lo Spazialismo fu un vessillo per tutti. Tutti volevamo un'arte nuova, senza confini. Oggi i critici studiano i nostri testi, vogliono verificarli. Penso che le intuizioni di Lucio Fontana, e di noi che firmammo i Manifesti, si siano rivelate autentiche. Il globo terrestre è inserito nelle meraviglie del Creato, tra costellazioni e galassie, pianeti e satelliti. La scienza e la tecnica aiutano gli artisti a esplorare le plaghe ancora sconosciute, anche quelle dell'anima, come voleva Fontana. Gli artisti rifiutano l'arte tradizionale. Lo Spazialismo ha gettato un seme che è diventato frutto. (dal Catalogo «Arte a Milano 1946-1959. Il Movimento Spaziale» a cura di Martina Corgnati, Credito Valtellinese, Sondrio 1998) ( da Resine n. 83, Marco Sabatelli editore) IL SESSO È CRUDELTÁ, IL SESSO È RIVOLTA, DICE FONTANA Eccomi nella sua sala che è un affascinante labirinto, un gioco di riflessi, bianco su bianco, "ci vogliono gli occhiali da neve" dice la gente, Fontana ha vinto il premio di due milioni concesso dal Comune di Venezia per un pittore italiano, non era presente il giorno della premiazione, perché era ripartito per Milano, con la moglie Teresita che guida la 850, lui voleva stare tranquillo a casa senza troppe emozioni, Fontana è un grande artista, così ha piantato tutto e tutti, c'erano tanti battimani per lui, specialmente dei giovani, perché Fontana resta sempre giovane; gli avevo parlato nei giorni della "vernice", gli avevo chiesto di dirmi ancora una volta il perché di questo suo insistere ossessionante, ripetuto, in quel taglio brutale che squarcia la tela, la meravigliosa stretta fessura, la splendida perfettissima innocente figurazione del sesso di una fanciulla, di una vergine o di un angelo senza sesso? "Mia cara" ha risposto Fontana, "il sesso è crudeltà, il sesso è rivolta, ma anche umiltà, dolcezza, poesia: io voglio rendere tutto questo, voglio ribellarmi all'ipocrisia, ai benpensanti, alla stupidità umana; voglio buttarglielo in faccia alla gente questo grido, voglio che si riconoscano, che si scoprano in quel grido. Dai tempi dello Spazialismo, tu lo sai, dal 1946, quando ritornai in Italia dall'Argentina, continuo a dire quello che sento dentro di me, prima o poi mi capiranno, i giovani del resto mi hanno aperto le braccia, io sono uno di loro, ho la stessa ansia di ricerca, gli stessi intendimenti di rottura. Sono in continua evoluzione, e sempre in quello che faccio c'è lo stesso entusiasmo della mia giovinezza, dei miei primi anni di scultore, di pittore, di artista spaziale." (Milena Milani, da Italia Sexy - Immordino editore, Genova 1967) GIUSEPPE CAPOGROSSI ANCHE LUI ANDROID? IL RE DELLE FORCHETTE O DELLE FORMICHE DICE NO Di nascita romana (7 marzo 1900), aristocratico di antica nobiltà papalina (era conte), laureato in Giurisprudenza, viveva nella Capitale con una moglie bizzarra, biondissima, e due figlie, Beatrice e Olga. Io l’avevo conosciuto durante la guerra, in Via Margutta, dove entrambi abitavamo in quei palazzetti ottocenteschi, dov’erano i nostri atelier, molto freddi e poco funzionali. La famiglia Capogrossi era teatro continuo di liti furibonde (lei era sposata con Prampolini, anche lui pittore; era ungherese, si chiamava Costanza Mennyey), (mi avrebbe fatto più tardi un ritratto interessante e poetico, che è esposto a Savona nella mia Fondazione). Anche se il Dopoguerra era duro, la famiglia Capogrossi dava spesso ricevimenti dove anch’io partecipavo. Un giorno, sempre a Roma, presentai Capogrossi al mio compagno Carlo Cardazzo, che arrivava da Venezia. Era il tempo in cui l’artista, che era figurativo, dopo lo scoppio della Prima bomba atomica, stava inventando un altro universo in cui il segno era predominante. L’Italia e i suoi collezionisti non l’avrebbero accettato, mentre in Francia, rapidamente, Capogrossi sarebbe diventato una star. A Albisola, tuttavia, già aperta alle novità, Capogrossi sarebbe stato invitato a presentare il suo bozzetto per la Passeggiata degli Artisti. Quei marchi bianchi e neri, da inventore delle illusioni, esprimevano sentimenti altissimi, magici addirittura. Un giorno, al Testa, gli chiesi di spiegarmi, con parole semplici il significato della sua nuova pittura. ERO STANCO DEI PIERROT IN RIVA AL TEVERE. Mi disse: “Non sono un critico, ma un pittore. Ho accanto a me le forze straordinarie della natura, quelle primordiali che possono rinnovare totalmente l’esistenza. Adesso mi sento felice. Ero stanco dei Pierrot in riva al Tevere e dei collezionisti che desideravano il loro ritratto, magari in maschera. Lo so che attualmente i miei fan se ne vanno, ma penso che verrà il momento in cui i miei segni avranno un costo sempre più alto”. È avvenuto proprio così, Capogrossi di cui si è tenuta una grande mostra nel 2012-2013 al Guggenheim di Venezia, e un’altra a Savona in Pinacoteca, è salito in fretta nelle classifiche mondiali. Già oggi le sue quotazioni, anche in Italia, si elevano in modo insperato e di lui si parla ovunque. Le sue gigantesche o microscopiche formiche, ferme o vaganti (chiamate anche forchette), danno i brividi per la fantasia dell’artista ( io le ho volute per il mio libro Miei sogni arrivederci, giugno 1960, Edizioni Images di Padova, dicembre 1973). Ecco una poesia per Capogrossi del 1960 che amo molto. Mi piace metterla in questo testo. Capogrossi è un pittore di segni cabalistici ricerca oscure formule nei quadri abita al piano sottostante dalla finestra lo saluto ciao Capogrossi la pittura è un mito perché continua e insiste sulle tele? Gli do del lei come a un Maestro a volte gli telefono e i discorsi si svolgono tranquilli Mette nero su bianco adopera i colori come io faccio lo stesso con i libri inutilmente demolisco l’arte Capogrossi è un antico un saggio pescatore getta nel mare l’amo e lo ritrae tortuoso insiste e scava da lui potrei imparare solo che lo volessi. Milena Milani, Miei sogni arrivederci, pag 177 Edizioni Images, Padova 1973 Sempre a Albisola, ritorno a Capogrossi e a quei segni miracolosi come una invocazione, una preghiera. Mi disse l’artista: “ Avevo in mente quei moduli da molto, sin da quando nello studio di Via Margutta le formiche venivano fuori da piccoli buchi anche se tutto era stato restaurato. Poi, dopo la Bomba atomica, non ho più resistito. È avvenuta, dentro di me, quella specie di rivoluzione che mi ha portato all’arte attuale. Piaccia o non piaccia, io non posso farne a meno, è una necessità che verrà capita e apprezzata, ne sono sicuro”. “ANDROID MI SPAVENTA”, AFFERMA CAPOGROSSI “Non voglio essere né datato né classificato. Ho sofferto a venire fuori dagli schemi, inoltre ho firmato il Manifesto dello Spazialismo di Fontana in cui credo, ma ANDROID mi spaventa. Se vuoi, lo faccio per te ma preferirei di no, adoro la libertà”. Capogrossi è stato chiaro e io desidero rispettare il suo pensiero, così vado avanti senza ANDROID. Inoltre Capogrossi, come Fontana, ha inventato qualcosa che immediatamente si riconosce. Il suo pannello sulla Passeggiata degli Artisti è molto ammirato. Il suo segno parla al cuore e al cervello, è unico come sono uniche le Nature di Fontana, stavolta in bronzo, davvero singolari e seducenti. Che fortuna ho avuto di stare accanto a simili artisti, il cui nome è noto nel mondo intero. A NEW YORK, DA CASTELLI Alla mostra di Capogrossi, tenuta a New York da Castelli, qualche volta leggo le opinioni contrastanti del gallerista italo-americano che non fa davvero una gran figura. Se fosse vivo gliene direi quattro, ma non posso discutere il suo pensiero. Anche Cardazzo non c’è più a ribattere le parole di un voltagabbana. Arrabbiarsi non serve, ma per la personale di Capogrossi, in quegli anni non c’era niente da fare, Castelli non lavorò affatto per questa esposizione e, del resto, i musei americani e i collezionisti non erano ancora pronti a un tale rinnovamento pittorico. Capogrossi tuttavia ebbe soddisfazioni da una giovane studentessa americana, andata da lui da Boston a Roma per intervistarlo e poi a New York durante la mostra. Successe l’imprevisto, la ragazza, che era fidanzata, si innamorò di lui. E Capogrossi di lei ma Costanza, che attendeva, con le due figlie, la regolarizzazione del loro legame, fece un tale baccano che ancora oggi viene ricordato. Tra i due pseudoconiugi si giunse a un compromesso, finché le due figlie ebbero la loro soddisfazione. Il pittore rinsavì e infatti, appena giunse il divorzio anche da noi, Costanza lasciò Prampolini e poi sposò Capogrossi. Lui, però, per lunghi anni, ebbe il rimpianto per quell’amore finito malamente. Certamente gli artisti hanno una vita sentimentale molto complicata. Per fortuna per il conte Capogrossi Guarna (questo era il suo cognome intero) tutto si risolvette in un intreccio sempre più fitto di segni, di speranze, di forchette-formiche che venivano avanti come un esercito. Capogrossi, quasi prigioniero, si buttò a capofitto nel lavoro. A Albisola fece anche ceramiche, bellissimi piatti a rilievo da Tullio d’Albisola, una serie numerata che è splendida anche dopo tanto tempo. La morte di Cardazzo avvenuta tre mesi più tardi del vernissage della Passeggiata, portò molto scompiglio tra gli artisti e gli amici. Tullio d’Albisola pubblicò da Scheiwiller un ricordo del Doge veneziano (così lo chiama), ma le vacanze e il lavoro non furono più gli stessi. Capogrossi morì nel 1972 a Roma. WIFREDO LAM FERMENTO DI IDEE E adesso ecco un maestro come LAM , incrocio di razze, fermento di idee, di superbia e gentilezza, sempre alla caccia di se stesso. A Albisola aveva la sua corte e il suo Caffè, incontrava le donne e la moglie Lou, morta di recente, e i suoi bambini. Arrivava la sua fotografa personale, Hadelita, e poi la bella Irene Dominguez, la tuttofare che dipingeva, nuotava, stava al sole, si curava delle provviste, suonava la chitarra, cantava, portava il vino rosso nei fiaschi, la frutta, il salame, il formaggio alla ligure, e mille altre cose. Con Lam si andava in Africa e in Perù, come in Uruguay. Era un pittore intelligente, preparato, fantasioso. Voglio dire che anche in ceramica inventava tecniche e forme, e sempre parlava della sua amicizia con Picasso, il genio che venerava, o del Comunismo, il Partito che li univa nella Cultura, soprattutto negli incontri qua e là, per il globo terrestre. Che pomeriggi al Cantinone, in quella stradetta con l’archivolto nel centro di Albisola Mare, via Repetto 1, tra il venditore di scarpe, il restauratore di mobili antichi, il fornaio specializzato con la focaccia e le fette di grano tenero, quelle senza sale e quelle molto condite, tipo pizza Margherita, pomodori, acciughe, olive nere, peso leggero, mozzarella. Qualche volta tutta la tribù del celebre Lam ordinava gli spaghetti al dente, anzi i bucatini, vuoti all’interno, davvero gustosi al palato. Gli ammiratori stavano prima a rispettosa distanza, altri osavano chiedere autografi e magari disegni con dedica. Allora Lam dipingeva il sole di Albisola, le Madonnette che stanno negli angoli delle Cappellette scolorite. ASGER JORN UNA DIVINITÁ GRECA Come un fulmine giungeva Jorn, una divinità greca, lucido d’acqua, di crema oleosa, bello e giovane, modellato alla perfezione. Veniva dal mio terreno di Grana, i mille metri che ero riuscita a comperare con lo sconto, lire 2,90 al metro quadro, e dove gli avevo permesso di installare una tenda per accamparsi in quell’estate rovente, con figli e moglie (che tuttavia anche lui cambiava). Furono giorni e notti molto speciali, tra pianura, mare e colline, l’autostrada nuova che gli operai costruivano con estrema lentezza, espropriando terreni coltivati, abitazioni vecchie o recenti, muri che delimitavano le piccole frazioni di proprietà privata. Così la Liguria (in particolare Albisola) veniva sezionata in centimetri quadrati. Passarono mesi e anni, Jorn adesso riusciva a vendere, si comperò anche un bene rovinoso che alla sua morte andò al Comune di Albisola per farne un Museo (ma dopo tanti anni le sue volontà non hanno ancora ottenuto quanto lui desiderava). ROBERTO CRIPPA E LA SUA ARTE FATALE In quel periodo di fulgori compariva Roberto Crippa in una macchina scoperta, rombante, una Ferrari rossa quasi a pezzi, poi con una Lamborghini idem e, di giorno, quasi sul naso dei bagnanti, su un motoscafo Riva che radeva gli scogli e chi prendeva il sole. Un fuggi fuggi generale lo lasciava padrone indisturbato e lui ridendo aveva già cambiato imbarcazione, ora pilotava un altro motoscafo ancora più potente o si faceva trainare facendo sci nautico. Io ci provai varie volte, volevo diventare una campionessa in quello sport che mi piaceva moltissimo. Crippa, tra i giovani artisti, era il più vivo e vitale, e tra gli Spaziali brillava di luce propria, tra i cerchi concentrici della sua arte fatale. Come si pota una vite d’uva, un giorno cadde a Bresso, morì poco dopo, più o meno nello stesso posto dov’era avvenuta la precedente disgrazia che gli aveva ridotto le gambe. Soffrii per questa perdita, con Nini, la sua seconda moglie, bionda e molto bella, che lo amava in modo totale e il loro bambino ancora piccolo, con il quale spesso facevo il bagno. Quanto è complicata la vita che ci toglie la gioia all’improvviso. Caro Roberto Crippa ho un pensiero soltanto per te e per la tua morte, quando mi prendevi in giro perché facendo sci nautico, perdevo la parte inferiore del costume a due pezzi e non volevo più uscire dal mare, sotto lo sguardo di Carlo Cardazzo che ci osservava con il binocolo dalla terrazza della casa di San Benedetto ai Pesci Vivi, sotto la Pensione che ci forniva gli spaghetti alle tre del mattino per la festa dell’Invasione dei Turchi, che ogni estate , dopo Ferragosto, davamo per gli amici che venivano da noi. E ADESSO ECCO FRANCO GARELLI medico otorinolaringoiatra, specialista del naso e della gola, che voleva operarmi ai turbinati storti (respiravo male). Era già allora uno scultore rinomato, la cui fama è maggiore attualmente, di quando era vivo. Il suo lavoro alla Passeggiata degli Artisti, rispecchia l’impegno di quel pomeriggio estivo quando andammo prima allo studio di Cézanne, poi alla sua tomba di fronte alla Montagna Santa Victoria. L’atelier era aperto e abbandonato, rimasto alla mercè degli amatori d’arte. Anche noi fummo indotti al furto di pennelli, colori in barattoli, tavolozza eccetera. C’era un grosso gatto bianco, a pelo lungo, si aggirava lì intorno, io lo presi in braccio, lui si strinse a me. L’avevo già visto accucciato sulla pietra tombale. Anche la Nanni, che stava con Garelli, fece lo stesso, un contadino ci disse che era quello dell’artista, già molto vecchio, che ogni giorno si sdraiava lì sopra. Ho una fotografia che scattò Garelli e che mesi dopo mi spedì da Torino dove abitava e dove aveva fatto sviluppare l’immagine. Il mosaico di Garelli, impronta di se stesso, idee oscure di verde e di mare, che trascoloravano sotto luci fredde, con gli apparecchi del suo mestiere oltre che di quelli dell’artista, mi restano nella memoria e ogni volta che ritorno a Albisola passo a vederli. Così vado indietro nel tempo. E rimprovero lo Stato francese di dimenticare il controllo della tomba e dell’atelier di un importante rinnovatore artistico, tralasciando di mettere ordine storico e affettivo, su ciò che resta di lui.”Che vergogna” penso,”anche loro come noi, in questo disinteresse di ricordi più vivi della natura intorno, nella campagna curata che Cézanne ha scoperto per tutti quanti”. A CONTRASTO CON GARELLI, MI VIENE IN MENTE LA FIGURA DI ANTONIO SIRI Sposo della marchesa Gentile di cui era amministratore della Villa e factotum del terreno intorno, dei pozzi, dell’uliveto, dei campi di grano, di segala, della legnaia, del giardino bordato da siepi di anemoni tagliate benissimo, degli ampi saloni settecenteschi, con le violette vezzose sotto la luna, proprio quella di SIRI, impenetrabile. In realtà quei simboli, autoritratti dello scultore, avevano gli stessi ardori, mistificati, nascosti, perché Siri si era innamorato di lei, e lei di lui, ma non se lo dicevano, lo dissimulavano, a tutti (e anche a loro stessi). Una notte di estate la luna piena di Siri risplendeva turgida nel firmamento e lui scese nel frutteto e nel giardino, per mitigare quella forza che lo possedeva. Anche la marchesa non ce la fece più, si corsero incontro, come due assetati di passione, giovani ancora, con la vita e con tutta l’anima che fiammeggiavano. Fu un abbraccio in cui si riconobbero, uno fatto per l’altro. Fu qualcosa di sfrenato che li portò entrambi al matrimonio, subitaneo, rapidissimo, dissacrante, senz’altra via d’uscita, oltre le regole, oltre le convenzioni. Che meraviglia i due maturi sposi come fanciulli al primo affetto nel mondo ostile, di cui loro non accettavano le regole e i pettegolezzi. POI CARLO CARDAZZO DISSE A SIRI DI PORTARGLI LE SUE LUNE IN CERAMICA, PER FARE LA SUA PERSONALE, AL NAVIGLIO, un grande momento brillante, una vittoria artistica nell’universo dell’arte, nei suoi meandri segreti. Siri tenne una bellissima esposizione di lune, modellate con tanta bravura, tutte poesia e vigore, dove aleggiava il suo volto, che assomigliava a Gesù nell’uliveto, nell’Orto del Getsemani, prima della cattura che lo avrebbe portato alla morte. Sono arrivata a un altro momento della storia contemporanea di Albisola del Vangelo di Cristo:quello di ANTONIO SABATELLI: ODI E FURORI (1922-2002) Un mio vecchio amico (1922-2002),di cui ho scritto nel mio romanzo Soltanto amore, parlando della spiaggia di Albisola, in un inverno freddo e splendente, dove il protagonista si masturba in modo innocente, davanti alla terrazza dei Bagni Colombo in riva al mare, e poi trascina altrove il personaggio (quello femminile) alla sua casa in Via Pittalodola, sulle alte colline. Entrambi sono affascinati da loro stessi: si amano soltanto guardandosi. La pittura di Sabatelli è molto strana, carica di avvertimenti. È una rivolta verso la società attuale, anche dal punto di vista collettivo. L’artista e M.M. si comprendono e si detestano. Nelle frasi del libro è lo stesso, identiche idiosincrasie, le avversioni, gli odi e i furori, le ripugnanze. Comunque i critici hanno detto che è un romanzo singolare, molto vero. Io sono contenta di avere affrontato questo tema. MARIO ROSSELLO AL BAR TESTA Eccomi a un altro tassello della storia di questo piccolo paese: quando il giovane pittore MARIO ROSSELLO tallonava lo scultore Agenore Fabbri, primo savonese entrato in vivace accordo con il Futurismo, per mezzo del grande Ivos Pacetti, toscano come lui. Tra questi artisti, Tullio d’Albisola aveva stretto le sue reti, anche se poi, dopo qualche smilzo libretto di poesia per una donna, ma soprattutto a base di bevute e di mangiate da Pescetto, ognuno se ne stava a casa sua. Per la verità, era uscito anche il Libro di Latta, voluto da Nosenzo (di cui si è tanto parlato nella Fabbrica di quest’ultimo, per merito della storica Silvia Bottaro), che aveva suscitato le avances dello stesso Marinetti, di Bruno Munari e così via, (entrati gloriosamente nella stessa Collana). Non così Rossello, il più giovane delle nuove generazioni, che si stava muovendo nel mare limaccioso che aveva intorno. A ogni sorgere del sole o delle nuvole, Rossello dimenticava la sua nascita savonese, per sistemarsi in prima fila al tavolino del Testa, dove sarebbe giunto l’amico Fabbri, accanto a Carlo Cardazzo, già mercante di Fontana ( conosciuto per mezzo mio ), di Capogrossi (sempre incontrato per merito mio), e dello Spazialismo. Poi, finalmente, ecco Cardazzo, un berrettino di tela bianca in testa, con la tesa larga, alzata sulla fronte, e i suoi baffi biondi ispidi, notissimi, la pipa in mano, i giornali in una borsa gialla, di nailon trasparente, tenuta come quella della spesa, una rosa per me sul gambo rigido, magari anche un biglietto amoroso. C’ero anch’io con il mio compagno, se riuscivo a comperare il pesce, la carne e la frutta, arrivata dalla casa dei miei genitori dove avevo dormito in Via Venti Settembre, ora Quattro Novembre, di fronte al Palazzo della Provincia. Avevo comperato anche i grissini all’acqua, per i miei genitori, e le provviste per tutti. Ora facevo un salto al Testa, mentre gli altri si stavano muovendo: Capogrossi con le sue forchette che veniva da Pescetto, quindi da Albisola Capo dove alloggiava, magari Fontana con buchi e tagli poi: Siri, Sassu, Reggiani, a volte Franceschini, il riottoso Sabatelli, Garelli (quando c’era), e magari San Lazzaro,(anni dopo), Rafael Alberti, Quasimodo (che poi nel 1959 diventerà Premio Nobel per la Poesia), Bonino, Luzzati, e via dicendo, un continuo movimento maschile. Le mogli erano già in spiaggia con le figlie. Tullio d’Albisola di mattina non c’era, ci aspettava fuori della sua Fabbrica creata da Diulgheroff. Io, di solito, andavo a salutarlo, era un rito al quale non rinunciavo. Quasi nessuno prendeva bibite, caffè, gelati al Testa, ma il proprietario Checchin e i camerieri non ci badavano. Tutti risparmiavano, denaro e tempo. MAURO REGGIANI CHIAMATO LO SMILZO Era un taciturno che si chiudeva nel silenzio, con la bocca socchiusa, e una piega vaga agli angoli come una ruga lievissima, gli occhi a fessura, il naso diritto e fremente che denunciava una femminilità strana, quasi morbosa. Io lo fissavo e avrei voluto assomigliargli, ma non vi riuscivo. Lui allora oltrepassava la mia invadenza, alzando appena gli occhi al cielo, come a dire:”Lasciami perdere”, cosicché io arrossivo. Di lui amavo l’indifferenza e lo stile. Era l’artista più interessante del gruppo, a parte Cardazzo, dai suoi baffi a cespuglio, i capelli biondi schiariti, mai fermi, che per quanto li bagnasse di acqua o di brillantina, gli ricadevano, le sopracciglia folte sulle pupille azzurro-chiaro da bambino cresciuto in fretta, un bel volto malinconico, liscio, con pelle appena dorata. Era il viso mediterraneo veneziano di un Doge, da Palazzo Ducale, stranamente assomigliante a Proust pensoso, secondo un ritratto di Franco Gentilini, chiuso in un suo universo segreto, inviolabile. Mauro Reggiani avrebbe potuto essere fratello gemello di Cardazzo, anche lui interiore, con un animo da poeta, da artista, da ricercatore di sistemi, di equinozi o di astri, di stelle. Entrambi assetati di silenzio, di amori rarefatti dal tempo. Rivedo l’intreccio severo e cronico delle stagioni che passano, sublimando i pensieri, le scoperte selvagge, i sogni, le speranze, gli intrecci dell’arte, dell’amore, della poesia. Sono scomparsi così come hanno vissuto, ancora giovani, pronti a dare di se stessi una visione perfetta, perché le loro giornate erano piene di progetti da concludere, di cose da fare, da realizzare, anche se moltissimo era già compiuto, in ogni istante della loro esistenza terrena, dei loro impegni in campo artistico e culturale. Amico mio, che cosa dire di più? Voglio spiegarti che ho amato la tua arte, che ho suggerito il tuo cognome agli organizzatori dell’evento, ma Cardazzo era già molto ammalato, io ero disperata. Ti chiedo perdono per la tua esclusione, ti voglio bene, cerco di riparare a questo sbaglio, parlerò ancora di te, se di ANDROID potrò scrivere un vero volume su Albisola, su Fontana, Capogrossi e i suoi protagonisti in cui tu sei ugualmente vivo. SASSU UNO STILE DI VITA Aligi Sassu (17 luglio 1912-17 luglio 2000), milanese di origine sarda, innamorato di Albisola, presidente del Villaggio degli Artisti, che dovevamo costruire in località Grana (di cui ero vice presidente), i suoi uomini rossi volanti, i suoi ciclisti, che adesso vedo dalla mia finestra, quando mi affaccio su Piazza del Popolo sopra il Palazzo del Comune di Albisola Mare, è stato un punto di riferimento per tutti noi, nel Secondo dopoguerra quando, con Fontana, ritornato dall’Argentina incominciammo a parlare del Manifiesto Blanco, che il futuro Spazialista avrebbe scritto con i suoi allievi. Sassu ci aiutò, ci invitò a Albisola come a Milano in Via Bagutta, dove aveva lo studio. Ci fece conoscere i suoi amici architetti, i fratelli Borsani già bene introdotti nelle abitazioni più note, che davano lavoro a tutti e quindi denaro ai futuri creatori dell’arte. In quegli anni c’erano già Sinisgalli, Banfi, Formaggio, Paci, Gillo Dorfles, Guido Ballo, i quali lavoravano con i Borsani che diventarono un punto fermo in Via Montenapoleone, angolo Via Manzoni. Fu proprio in quel periodo che Sassu mi volle come modella con un mio cappotto scozzese, cucito da mia madre; e con un turbante grigio con fasce rosse. Cardazzo voleva comperare per me quell’opera molto costosa, ma noi avevamo poco liquido. Così dovette rinunciare ma l’estate successiva Sassu mi fece una stupenda piastra in ceramica che mi rappresentava e che mi regalò (adesso è nella mia Fondazione di Savona). In Sardegna, a Cagliari, andavo a pregare davanti a un suo bellissimo lavoro, nella penombra di una Chiesa. Qui a Albisola ho assistito atterrita alla distruzione di un suo polemico affresco sui muri esterni del suo atelier, da lui progettato per la madre. Facendo cambi era riuscito a inventare un luogo dell’anima, dove un prelato riceveva donne nude, forse assolvendole dai loro peccati. Per un motivo o per l’altro quei lavori dovevano restare visibili e invece furono cancellati, imbrattati, quindi scomparvero. Io soffrii con l’autore. Il Vescovo di Savona era venuto personalmente a constatare quel disastro. Dovevano passare più di cinquant’anni per riparlare di quell’episodio, ma intanto Sassu, con la sua nuova moglie Helenita, se n’era andato in Spagna, a Mallorca, l’unico Paese dove con Mirò a Barcellona si può camminare su una Passeggiata come la nostra a Albisola. Anche la madre di Sassu si trasferì altrove, poi morì. I giorni,gli anni, si sono evoluti, tutto è mutato. Sassu ci ha lasciato molto tristi per il suo vuoto, in un paesaggio che vide il Futurismo e che accettò tanti cambiamenti, sino ai buchi e ai tagli di Fontana, alla merda di artista di Piero Manzoni, alle forchette o formiche di Capogrossi, ai nudi blu di Klein. Anche per Sassu avverrà lo stesso: un maestro che con le parole trasmette scintille di sensazioni pure, di illusioni estreme, in cui l’anima fantasiosa, che piace ai più piccoli fruitori, viene cambiata. Comunque adesso dopo oltre cinquant’anni la favola si trasforma lievemente, ce n’è voluto di tempo. EMANUELE LUZZATI GENOVESE DI NASCITA (1921-2007), EBREO, FREQUENTATORE DEL PAESE DEI VASAI E DEL BOSTRICO DI ALFREDO MECONI, APPASSIONATO DI TEATRO Seguì, per tutta l’esistenza, l’arte con le sue famose favole che piacciono tanto anche ai bambini. Fu quindi naturale che fosse invitato a partecipare alle opere da farsi sulla Passeggiata degli Artisti, diventata un punto di cultura nel mondo contemporaneo. Con Luzzati, ebbi un incontro a Cortina d’Ampezzo, prima sui campi da sci, dove entrambi andavamo a piedi, poi per Corso Italia, dove lui aveva una mostra personale alla Terrazza Cortina, al quinto piano, prima di ritornare in Liguria.Eravamo soli per le strade vuote, con cose da dire, scambiando impressioni e fantasie. Al Bostrico, con le sue serigrafie, i suoi disegni, Luzzati era di casa, ma, come me, era di poche parole. La sua caratteristica più viva era che i suoi discorsi sembravano un dialogo. Creavano un feeling con l’interlocutore che lui riempiva con racconti stranissimi, dove re e regine avevano avventure meravigliose, da far girare la testa. Con Luzzati mi divertivo molto; era affascinante, buono, educato, un vero gentleman. Nonostante gli anni, continuava a essere un ragazzo, come andasse ancora a scuola. Erano strani i simboli del potere monarchico, che lui eseguiva quasi fosse invasato. Sotto quel copricapo del re, venivano fuori teste voluminose che gli piacevano come giocasse con il Meccano, stabilendo un ordine preciso e inamovibile. Ogni centimetro quadrato di pelle, tuttavia, non era liscio ma bitorzoluto, sciupato dal tempo, e dalla cellulite. Aveva tante ossessioni che sperava di sistemare al più presto. Secondo me era molto infelice. TULLIO D’ALBISOLA (1899-1971) E LO SPAZIALISMO Non volevo parlare di Tullio e lo Spazialismo, perché quando si accennava a questo Movimento, lui faceva un gesto che non sopportavo, picchiando con l’indice destro la sua o la mia fronte, quasi a dire:”Siete matti”. Ma Silvio Riolfo Marengo, al quale (per la prima volta in vita mia) ho letto alcune pagine di ANDROID (che lui ha apprezzato) mi ha fatto cambiare idea. Storicamente, il futurista Tullio d’Albisola (così chiamato da Marinetti, durante il Secondo Futurismo) non dovrebbe essere lontano da Fontana, (mi disse lo stesso Riolfo). Poi ho capito che non è così. Tullio d’Albisola ascoltava sempre i Nucleari, i quali si rodevano il fegato perché avrebbero voluto Tullio e noi, con Fontana, tra le loro righe. Io, con Baj, discutevo spesso, lui si era vantato di essere capo dei Nucleari e addirittura (all’oscuro di tagli e buchi di Fontana) pensava che bastasse affermare di averli fatti per primo, perché i collezionisti ci credessero (vedi il mio testo sul catalogo generale di Martina Corgnati, che parla della mostra di Guga Zunino e dello Spazialismo, al Credito Valtellinese di Sondrio nel 1998). Comunque a Tullio d’Albisola non si può attribuire niente. Io restai l’unica donna iscritta allo Spazialismo, con Carlo Cardazzo, Fontana, Joppolo, Kaisserlian, e, più tardi, il collezionista editore Giampiero Giani che stampò il nostro primo Catalogo generale nel suo paesino sul Lago d’Orta, dove andava in vacanza. Lasciamo quindi Tullio con i suoi gesti sulla mia o sulla sua fronte, per prenderci in giro. Fu un vero dolore per Fontana e per me, per Sassu e gli altri, che lo seguirono a ruota in tutto e per tutto. Isolati come eravamo, trovammo la forza solo nelle nostre idee. Milena Milani Albisola 21 marzo 2013 INDICE Che cosa vuol dire ANDROID La dottoressa Sandra Buscaglia parla con me di ANDROID Una esistenza ANDROID Per un quadro di Lucio Fontana (poesia) Quattro lettere di Lucio Fontana a Umberto Ghersi (daResine n.83) Ricordi su Lucio Fontana e lo Spazialismo (da Resine n.83) Il sesso è crudeltà, il sesso è rivolta, dice Fontana (da Italia Sexy) Giuseppe Capogrossi anche lui ANDROID? Ero stanco dei Pierrot in riva al Tevere Capogrossi è un pittore (poesia) ANDROID mi spaventa, afferma Capogrossi A New York da Castelli Wifredo Lam fermento di idee Asger Jorn una divinità greca Roberto Crippa e la sua arte fatale E adesso ecco Franco Garelli A contrasto con Garelli mi viene in mente la figura di Antonio Siri Antonio Sabatelli: odi e furori Mario Rossello al Bar Testa Mauro Reggiani chiamato lo Smilzo Sassu uno stile di vita Emanuele Luzzati genovese di nascita, ebreo Tullio d’Albisola e lo Spazialismo