[email protected] 19.05.2015 10:44 [email protected] 19.05.2015 10:42 Julie Mayhew Inchiostro rosso Traduzione di Sara Reggiani [email protected] 19.05.2015 10:44 Titolo originale: Red Ink Copyright © Julie Mayhew 2013 Originally published in the English language as Red Ink by Hot Key Books Limited, London. The moral rights of the author have been asserted. Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale. www.giunti.it © 2015 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia Prima edizione: luglio 2015 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0 Anno 2019 2018 2017 2016 2015 [email protected] 19.05.2015 10:44 A Will e Ollie [email protected] 19.05.2015 10:44 [email protected] 19.05.2015 10:44 «La storia si ripete. Gli storici si ripetono l’un l’altro.» Philip Guedalla, 1920 (che cita Max Beerbohm, che a sua volta cita Quintiliano) [email protected] 19.05.2015 10:44 [email protected] 19.05.2015 10:44 Questa è la ricetta. Prendi due chili e mezzo di chicchi di grano. Tienili fra le mani. Senti quanto sono leggeri in confronto al peso che porti sul cuore. Lava bene con acqua e aggiungi le tue lacrime. Accendi un fiammifero, alimenta la fiducia, alza il gas. Guarda il grano ribollire e gorgogliare, il vapore innalzarsi come la speranza. Togli la pentola dal fuoco e versa il grano in un colino. Lascialo ad asciugare su un canovaccio per tutta la notte. Riposa. Sogna di un fiore morente, che spargendo i semi permette a un nuovo fiore di nascere. Al mattino, il giorno dei morti, versa il grano in un recipiente con noci, mandorle e prezzemolo. Aggiungi un messaggio di devozione, un desiderio per il futuro, la tua gratitudine verso Dio. Un pizzico di cannella, non di senso di colpa. Unisci qualche seme di sesamo, metti da parte il timore. Mescola e crea un mucchietto, un monumento all’amore. Tosta un po’ di farina e passala al setaccio. Copri con un velo di zucchero. Appiattisci. Infine, schiaccia la buccia di una melagrana e unisci i semi a ciò che resta della tua rabbia. Cospargi i semi d’amore, forma una croce. Maria non sognò di un fiore morente. La notte prima del funerale della madre non dormì affatto. Seppellì il volto in uno 9 [email protected] 19.05.2015 10:42 dei suoi cardigan, lasciandosi trasportare indietro nel tempo, in una fattoria dove i cespugli di cisto rendevano l’aria agrodolce. Ascoltò il respiro sommesso di Melon e invidiò la figlia, immune al dolore. Pensò al giorno che l’attendeva, il giorno in cui avrebbe restituito sua madre alla terra. Non era pronta per lasciarla andare. Zia Eleni aveva studiato tutte le fasi della cerimonia e suggerito come procedere. Le aveva anche messo in mano il libretto con la ricetta tradizionale del kollyva, il grano bollito. «Ma io non so cucinare» aveva detto Maria, scorrendo la ricetta. «Non posso.» «Troverai il modo dentro di te» aveva insistito Eleni. E lei l’aveva trovato. 10 [email protected] 19.05.2015 10:44 Prima parte [email protected] 19.05.2015 10:44 [email protected] 19.05.2015 10:44 17 giorni dopo «Tutto bene lì dentro?» Mi sono chiusa a chiave in bagno due ore fa. «Sì.» Una sillaba è tutto quello che otterrà da me, altrimenti penserà che siamo amici. «Sei molto silenziosa.» «Eh già.» Due sillabe. Dovrebbe ritenersi fortunato. Il mio nome è Melon Fouraki. Affrontiamo la questione subito e facciamola finita una volta per tutte. Alcuni ereditano dai genitori i gioielli o la collezione di dischi. Mia madre mi ha lasciato questo nome. È legato al suo passato: è cresciuta a Creta in una fattoria dove si coltivavano meloni. Avrei preferito ricevere in dote i suoi vecchi CD. Mi ha lasciato anche Paul. Vivere con lui è come portare vestiti di carta vetrata. Ho paura anche a muovermi. Mi guarda sempre, quasi da far male. Il bagno è l’unico posto dove posso rifugiarmi. Lo sento che si aggira sul pianerottolo qui fuori, fingendo di non esserci. Lo sento consumare le assi del pavimento. Tende l’orecchio, non aspetta altro che il suono inconfondibile di una quindicenne che cerca di tagliarsi le vene. E io non ho nessuna intenzione di tagliarmi le vene. Paul è un assistente sociale, perciò è convinto che tutti i ragazzi della mia età a un certo punto scappino di casa, si mettano a dormire per strada, diventino dei delinquenti, 13 [email protected] 19.05.2015 10:44 vengano riportati sotto custodia con la forza e quindi provino a suicidarsi. Non riesce proprio a mettersi in testa che ho raggiunto un mio equilibrio. Lavoravano insieme, Paul e mia madre, solo che poi sono finiti a scopare. Lui direbbe che mia madre era la sua “compagna”. Compagna. Che idiota. Secondo lui erano fidanzati, povero illuso. La mamma si era messa con lui solo perché pensava che i colleghi dei servizi sociali sarebbero usciti di testa sapendo che la greca se la faceva con il nero. Non vivevano insieme all’epoca, niente di simile. Ora invece Paul si è trasferito qui per badare a me. Ironia della sorte. Una sorte tragica. Mia madre è morta. Diciassette giorni fa. Paul crede che io abbia bisogno di comprensione, cure, tempo, e di sentirmi chiedere come sto ogni cinque minuti. Non è così. Solo perché tua madre è morta, non vuol dire che all’improvviso sei un’altra persona. Io sono quella di sempre. Paul è ancora là fuori. Finché rimane lì non riuscirò a concentrarmi sul mio diario. «Diventerai una prugna, se non esci da quella vasca.» Cerca di sembrare tranquillo, di fare il simpatico, come se il fatto che mi sia chiusa a chiave in bagno fosse la cosa più buffa del mondo e non un grave rischio. Lui mi vede già svenuta nell’acqua rossa, un rasoio sul bordo della vasca, gli occhi rovesciati. Non mi sto nemmeno facendo il bagno, ho aperto il rubinetto perché Paul non cominci a chiedermi cosa sto facendo. «Sì, esco» urlo. Tre sillabe. Stronzo. Controllo di aver chiuso bene la porta, non si sa mai che Paul si monti la testa e decida di fare il supereroe in missione di salvataggio. È stata la mamma a riparare il gancio scorrevole che chiude la porta, e infatti è traballante, alcune viti non sono ficcate fino in fondo. Quando uno si appoggia, la porta si apre 14 [email protected] 19.05.2015 10:44 un po’, come quella di ingresso con la catenella. Se la mamma voleva sapere cosa facevo in bagno, ci si appoggiava con la spalla e sbirciava dentro. Paul non lo farebbe mai, a meno che non vada davvero nel panico. Per quanto ne sa, sono nuda e lui è un assistente sociale di mezza età che si guarda bene dai comportamenti equivoci. Ero a casa di Pulcino quando è arrivata la polizia. Pulcino in realtà si chiama Kathleen, però tutti la chiamano Pulcino perché è piccola e magrolina, ma anche un sacco tenera. Nessuno la chiama mai Kathleen, a parte gli adulti. Kathleen è un nome da secchiona. La mamma si lamentava sempre che passavo troppo tempo a casa di Pulcino. Non le è mai andata a genio sua madre, la signora Lacey. Diceva che se la tirava perché il suo lavoro part-time consisteva nell’inventare nomi per i vari tipi di vernice. Ad esempio Pistacchio da sogno, Tramonto di ciliegia, Marrone merda, roba così. La mamma diceva che era un lavoro “senza senso”, ma secondo me era una gran figata essere pagati per fare una cosa così… senza senso. Comunque, ero a casa di Pulcino quando la polizia è venuta a cercarmi, e mi chiedo se la mamma l’abbia fatto apposta a farsi investire quella sera, solo per dimostrarmi che passavo davvero troppo tempo in compagnia della signora Lacey. Perché ne sarebbe stata capace. Una volta eravamo a Creta dai nonni, un agosto così caldo che non si riusciva nemmeno a respirare senza sudare, e la mamma mi ha fatto sedere con lei nella stanzetta dei bancomat di una banca di Chania, solo perché c’era l’aria condizionata. Facevamo pena, appollaiate su quelle seggioline pieghevoli portate da casa, del tipo che quando ti ci siedi ti ritrovi le ginocchia in bocca. La gente del posto andava e veniva, ritirava i soldi, ci guardava strano e magari si chiedeva se non fossimo la moglie e la figlia matte del direttore della filiale e ci stessimo prenden15 [email protected] 19.05.2015 10:44 do personalmente cura dei suoi affari. La mamma se ne stava seduta a gambe distese, la testa appoggiata alla parete, come se prendesse il sole. Non la finiva più di sbuffare e lamentarsi del caldo, anche se dopo mezz’ora io ho cominciato quasi a sentire freddo. Avrei dato qualunque cosa perché arrivasse un impiegato inferocito a mandarci via, ma era domenica. Non c’era nessuno. Siamo rimaste lì per tre ore. La mamma a un certo punto si è addormentata e, visto che portava gli occhiali da sole, non mi ero resa conto che aveva gli occhi chiusi. Paul intanto non molla. «Sai com’è, non mi dispiacerebbe fare un bagno, quindi…» «Quindi?» «Quindi, per favore, non usare tutta l’acqua calda, Melon.» È ancora lì, dietro la porta, in attesa. Mi alzo dal pavimento, mi chino sulla vasca e tuffo una mano nell’acqua. Mi auguro che il rumore basti a dimostrargli che respiro ancora e ho tutte le vene intatte. Sento i passi di Paul sul pianerottolo. Qualche scricchiolio, una pausa. Sta pensando a qualcos’altro da dire, me lo sento. Invece niente. Le assi sotto la moquette scricchiolano di nuovo. Se n’è andato. Era ora. Mi siedo sul tappetino con la schiena appoggiata alla vasca. La superficie esterna è rivestita di moquette pelosa, color malva. Il lavandino è verde e c’è una scia di calcare che va dai rubinetti fino al buco dello scarico. Il bagno della signora Lacey è beige, un mosaico di piastrelle di arenaria. Adesso che Paul se n’è andato posso scrivere in pace. Sono venuta qui per questo. Perché non voglio che Paul veda cosa faccio. Penserebbe che è un “progresso”. Che sto “accettando la realtà”. Si convincerebbe che sono quasi pronta a dargli un bell’abbraccione. In sostanza vuole vedermi piangere. Io non voglio piangere. Non mi serve piangere. «Il colpo non ti era 16 [email protected] 19.05.2015 10:45 ancora arrivato» direbbe. E io farei una battuta del tipo: «A me no, ma alla mamma direi di sì, eh?». Ah ah ah. E lui farebbe una faccia commossa, della serie riesco a stento a non mettermi a frignare. Sono cattiva, lo so, ma voglio solo essere lasciata in pace. Se Paul non lo capisce, ne pagherà le conseguenze. Se soltanto la mamma avesse aspettato ancora un anno, avrei compiuto sedici anni e avrei potuto badare a me stessa. Sento il fondo di una padella sbattere contro la piastra, di sotto, in cucina. Paul è uno che quando cucina fa un gran baccano. Gli piace darsi delle arie. È tutta la sera che armeggia coi fornelli, tra un attacco di panico e l’altro di fronte alla porta del bagno. Non fa che cucinare per me. Pensa di riempire il vuoto lasciato dalla mamma, ma lei non ha mai cucinato granché. Roba surgelata, sughi già pronti, ingredienti a caso spalmati su un toast; è a questo che sono abituata. Stasera c’è la zuppa. Non ho proprio voglia di mangiare con Paul. Ogni pasto è una trappola. Mi domanda, con aria distratta: «Ti piace la zuppa?» (o il risotto o il ragù o quello che è), e io non posso rispondere di no, altrimenti non potrò più permettermi di mangiare quel piatto davanti a lui. Allora dico: «Sì», e lui mi fa «Bene, perché la mangerai stasera», ed ecco fatto, mi ha fregato. «Tra dieci minuti a tavola, Melon.» Mi fa sempre il conto alla rovescia. Una volta, in classe, abbiamo letto questo libro su come sarebbe il mondo dopo una guerra nucleare. Allora ho riflettuto su cosa farei se davvero mi rimanessero solo dieci minuti. Di sicuro non mangerei la zuppa. Mi tiro su la manica e infilo la mano nell’acqua per togliere il tappo. Ormai è diventata fredda. Apro quella calda così lo scaldabagno fa il rumore giusto. Sono una maga della finzione. A volte nell’acqua ci metto anche il bagnoschiuma della mamma, così c’è l’odore giusto. Mi fa subito pensare a quando 17 [email protected] 19.05.2015 10:45 si preparava per uscire. Una volta doveva andare con Paul alla festa natalizia dei servizi sociali (non esattamente la serata più pazza del mondo) e prima che uscisse abbiamo litigato. Non ci siamo rivolte la parola per una settimana. Anzi, io non ho rivolto la parola alla mamma per una settimana. Lei non era capace di tenere il muso. Io invece sono una professionista. Passo una mano bagnata fra i capelli per far credere che sono appena uscita dalla vasca. Non riesco ad abituarmi ai capelli corti. A volte allungo una mano per afferrarmi la coda ma poi mi ricordo che non c’è più. Forse tagliarmeli non è stata una buona idea. Ne avevo parlato parecchio, ma il taglio in sé fa schifo. I ciuffi davanti si arricciano quando c’è umidità nella stanza e mi viene come una specie di nuvoletta intorno alla faccia. A dire il vero mi succedeva anche quando li portavo lunghi. Non c’è niente da fare. Una volta Pulcino si è fatta la permanente. Ebbene sì, ha liberamente deciso di avere i capelli ricci, che a me è sembrata una follia. Io ho una bella testa riccia da greca. Ho il naso grosso, le cosce grosse, il sedere grosso, le tette grosse. Avere le tette grosse poi è il massimo se ti chiami Melon. La mamma diceva sempre che la greca era lei, ma quella che si era beccata il corpo da “vera greca” ero io. Un modo gentile per dirmi che sono cicciottella. Non sono grassa, questo lo so. Non sono come Freya Nightingale che si sente un elefante e va sempre in bagno a vomitare dopo pranzo. Io occupo semplicemente più spazio nel mondo. La mamma era magrissima, tranne che nei punti giusti. Tette vere che sembravano finte. Era una di quelle piccolette graziose che ti verrebbe voglia di metterti in tasca. Io te la sfondo, la tasca. Sembrerò greca, ma non mi ci sento. È come un bel vestito che non posso togliermi. La mamma mi portava ogni anno a Creta, ma il mio legame con quel posto era come spezzato, o 18 [email protected] 19.05.2015 10:45 forse non era mai esistito. Lei ha provato a riannodare il suo, ma senza successo. La famiglia non l’aveva mai perdonata, non per davvero, e lei non riusciva a farsene una ragione. Ora non c’è quasi più nessuno a cui fare visita. È per via della maledizione. I Fouraki muoiono giovani. Mio padre, però, vive ancora lì, mi ha detto la mamma. Io non l’ho mai conosciuto. Non è mai stato un padre in carne e ossa per me. È un nome e niente di più. Secondo la leggenda, si chiama Christos Drakakis. A volte me lo ripeto mentalmente, per provare come suona. Mio padre è Christos Drakakis, e io mi chiamo Melon Drakakis. Piacere. Altre volte penso che non mi sarei chiamata Melon, se Christos non se la fosse svignata. Avrebbe impedito a mia madre di fare la stupida e l’avrebbe convinta a darmi un nome normale, quello di una santa magari, come ogni ragazza greca che si rispetti. Mi chiamerei Sophia o Alexandra, o un altro nome tradizionale. «Cinque minuti, Melon.» Mancano cinque minuti al disastro nucleare: cosa faccio? Individuo l’epicentro e mi precipito. Non voglio sopravvivere se intorno avrò solo distruzione, deformità e malattie causate dalle radiazioni. Il tanfo di zuppa mi travolge appena metto piede fuori dal bagno. Gli odori della cucina seguono un percorso prestabilito in questa casa: salgono su per le scale, svoltano in un angolo del pianerottolo e poi avanti tutta fin dentro camera mia. Sarà che la corrente gira così. Nella camera della mamma c’è sempre un profumo di legno e vaniglia. Vado di sotto, scavalco Kojak, che adesso ha deciso di dormire sempre in mezzo alle scale. Non è più lo stesso da quando la mamma è scomparsa; è diventato muto. Un tempo mi avrebbe miagolato fra i piedi fino in cucina. Ora invece resta lì, una gros19 [email protected] 19.05.2015 10:45 sa palla grigia con un occhio sempre puntato verso l’ingresso, nel caso la mamma decidesse di tornare. Mi fermo per prenderlo in braccio, ma lui si spaventa a morte. Si contorce all’indietro e si libera subito. Non riesce a salire le scale molto in fretta, perché le unghie gli rimangono impigliate nella moquette. Non vuole le mie attenzioni. Va nella stanza della mamma. Kojak è proprio vecchio, ormai. Magari muore di crepacuore. In cucina, Paul ascolta Jazz FM e indossa il grembiule della mamma, quello a fiori viola. A Paul piace la musica da sala d’aspetto e non gliene sbatte nulla di sembrare una femmina. «Patate dolci e piselli» annuncia, distogliendo lo sguardo dai fornelli e squadrandomi da cima a fondo. Sta verificando che non abbia le vene del polso recise o sintomi di overdose. «Siediti.» Ha apparecchiato per due, uno di fronte all’altra. Scelgo una delle quattro sedie che non ha il piatto davanti. Non voglio mangiare con Paul e doverlo anche guardare in faccia. Arriva con una scodella piena. Non reagisce alla mia scelta del posto, si limita a farmi scivolare davanti una tovaglietta posandoci sopra il piatto. L’ odore è forte, speziato. Sopra c’è un grumo bianco che sembra cacca di uccello. Paul versa un po’ di zuppa anche per sé, aggiunge la cacca di uccello e poi viene a sedersi. C’è un cestino di pane spruzzato di mosche morte che in realtà sono pezzetti di olive. «Buona?» chiede. Paul è sempre in cerca di complimenti. «Non l’ho ancora assaggiata.» Allungo una mano per prendere il pane, poi ne stacco un pezzo alla volta e me lo ficco in bocca, masticando assorta per ritardare il più possibile l’assaggio. Se si aspetta che gli dica che è un bravo cuoco, sta fresco. 20 [email protected] 19.05.2015 10:45 «Sai, Melon, non dovresti chiuderti a chiave in bagno.» Abbasso lo sguardo sul vapore che sale dalla zuppa, osservo i contorni della cacca di uccello espandersi sulla superficie. «Uno non può avere i suoi spazi?» Prendo un altro pezzo di pane, strappo la crosta. «Che facevi lì dentro?» «Fatti gli affari tuoi.» Lui si zittisce, si porta alla bocca tre cucchiaiate piene, una dopo l’altra, come se non mangiasse da una settimana. Solo allora dice: «Uuuh, scotta». Imbecille. Immergo il cucchiaio nella zuppa. Non posso più rimandare. Sento il suo sguardo fisso su di me mentre soffio, poi lo metto in bocca. Non ne posso più di avere sempre i suoi occhi addosso. Attende un commento. Io continuo a mangiare. Lui annuisce, sorride. L’ ha preso come un complimento, e si sbaglia. Sono così arrabbiata che gli rovescerei tutto in testa. Ma ho anche una fame che non ci vedo. «Com’è andata la seduta giovedì? Non mi hai ancora raccontato niente.» È la quinta volta che me lo chiede. Sto tenendo il conto. «Utile?» «Più o meno.» «Avete parlato del litigio?» Questa è nuova. «Che litigio?» Il profumo del bagnoschiuma ancora nell’aria mi riporta alla sera della festa di Natale, quando io e la mamma abbiamo litigato. «Avete parlato della discussione che hai avuto con tua madre?» «Quale discussione?» Continuo a mangiare per fargli capire che non mi interessa cosa ne sa lui di quella sera. 21 [email protected] 19.05.2015 10:45 «Quella che avete avuto poco prima che morisse.» Mi si blocca la zuppa in gola. Divento di ghiaccio. «Ho pensato che potesse essere un problema per te e che parlarne con qualcuno ti avrebbe aiutata.» «Come lo sai?» dico. Non lo guardo. Mantengo un tono di voce tranquillo, così capisce che per me non è affatto un problema. «Parlavamo, sai» dice lui. «Io e tua madre.» 22 [email protected] 19.05.2015 10:45