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Julie Mayhew
Inchiostro rosso
Traduzione di
Sara Reggiani
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Titolo originale:
Red Ink
Copyright © Julie Mayhew 2013
Originally published in the English language as Red Ink
by Hot Key Books Limited, London.
The moral rights of the author have been asserted.
Questa è un’opera di fantasia.
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale.
www.giunti.it
© 2015 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: luglio 2015
Ristampa
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Anno
2019 2018 2017 2016 2015
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A Will e Ollie
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«La storia si ripete. Gli storici si ripetono l’un l’altro.»
Philip Guedalla, 1920
(che cita Max Beerbohm, che a sua volta cita Quintiliano)
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Questa è la ricetta.
Prendi due chili e mezzo di chicchi di grano. Tienili fra le
mani. Senti quanto sono leggeri in confronto al peso che porti
sul cuore. Lava bene con acqua e aggiungi le tue lacrime. Accendi un fiammifero, alimenta la fiducia, alza il gas. Guarda il grano
ribollire e gorgogliare, il vapore innalzarsi come la speranza.
Togli la pentola dal fuoco e versa il grano in un colino. Lascialo
ad asciugare su un canovaccio per tutta la notte. Riposa. Sogna
di un fiore morente, che spargendo i semi permette a un nuovo
fiore di nascere.
Al mattino, il giorno dei morti, versa il grano in un recipiente
con noci, mandorle e prezzemolo. Aggiungi un messaggio di
devozione, un desiderio per il futuro, la tua gratitudine verso
Dio. Un pizzico di cannella, non di senso di colpa. Unisci qualche seme di sesamo, metti da parte il timore. Mescola e crea un
mucchietto, un monumento all’amore. Tosta un po’ di farina e
passala al setaccio. Copri con un velo di zucchero. Appiattisci.
Infine, schiaccia la buccia di una melagrana e unisci i semi a
ciò che resta della tua rabbia. Cospargi i semi d’amore, forma
una croce.
Maria non sognò di un fiore morente. La notte prima del funerale della madre non dormì affatto. Seppellì il volto in uno
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dei suoi cardigan, lasciandosi trasportare indietro nel tempo,
in una fattoria dove i cespugli di cisto rendevano l’aria agrodolce. Ascoltò il respiro sommesso di Melon e invidiò la figlia,
immune al dolore. Pensò al giorno che l’attendeva, il giorno in
cui avrebbe restituito sua madre alla terra. Non era pronta per
lasciarla andare.
Zia Eleni aveva studiato tutte le fasi della cerimonia e suggerito come procedere. Le aveva anche messo in mano il libretto
con la ricetta tradizionale del kollyva, il grano bollito.
«Ma io non so cucinare» aveva detto Maria, scorrendo la
ricetta. «Non posso.»
«Troverai il modo dentro di te» aveva insistito Eleni.
E lei l’aveva trovato.
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Prima parte
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17 giorni dopo
«Tutto bene lì dentro?»
Mi sono chiusa a chiave in bagno due ore fa.
«Sì.» Una sillaba è tutto quello che otterrà da me, altrimenti
penserà che siamo amici.
«Sei molto silenziosa.»
«Eh già.» Due sillabe. Dovrebbe ritenersi fortunato.
Il mio nome è Melon Fouraki. Affrontiamo la questione subito e facciamola finita una volta per tutte. Alcuni ereditano
dai genitori i gioielli o la collezione di dischi. Mia madre mi ha
lasciato questo nome. È legato al suo passato: è cresciuta a Creta
in una fattoria dove si coltivavano meloni. Avrei preferito ricevere in dote i suoi vecchi CD. Mi ha lasciato anche Paul. Vivere
con lui è come portare vestiti di carta vetrata. Ho paura anche
a muovermi. Mi guarda sempre, quasi da far male.
Il bagno è l’unico posto dove posso rifugiarmi. Lo sento che
si aggira sul pianerottolo qui fuori, fingendo di non esserci. Lo
sento consumare le assi del pavimento. Tende l’orecchio, non
aspetta altro che il suono inconfondibile di una quindicenne
che cerca di tagliarsi le vene. E io non ho nessuna intenzione di
tagliarmi le vene. Paul è un assistente sociale, perciò è convinto
che tutti i ragazzi della mia età a un certo punto scappino di
casa, si mettano a dormire per strada, diventino dei delinquenti,
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vengano riportati sotto custodia con la forza e quindi provino a suicidarsi. Non riesce proprio a mettersi in testa che ho
raggiunto un mio equilibrio. Lavoravano insieme, Paul e mia
madre, solo che poi sono finiti a scopare. Lui direbbe che mia
madre era la sua “compagna”. Compagna. Che idiota. Secondo
lui erano fidanzati, povero illuso. La mamma si era messa con
lui solo perché pensava che i colleghi dei servizi sociali sarebbero usciti di testa sapendo che la greca se la faceva con il nero.
Non vivevano insieme all’epoca, niente di simile. Ora invece
Paul si è trasferito qui per badare a me. Ironia della sorte. Una
sorte tragica.
Mia madre è morta. Diciassette giorni fa. Paul crede che
io abbia bisogno di comprensione, cure, tempo, e di sentirmi
chiedere come sto ogni cinque minuti. Non è così. Solo perché
tua madre è morta, non vuol dire che all’improvviso sei un’altra
persona. Io sono quella di sempre.
Paul è ancora là fuori. Finché rimane lì non riuscirò a concentrarmi sul mio diario.
«Diventerai una prugna, se non esci da quella vasca.» Cerca
di sembrare tranquillo, di fare il simpatico, come se il fatto che
mi sia chiusa a chiave in bagno fosse la cosa più buffa del mondo
e non un grave rischio. Lui mi vede già svenuta nell’acqua rossa,
un rasoio sul bordo della vasca, gli occhi rovesciati. Non mi sto
nemmeno facendo il bagno, ho aperto il rubinetto perché Paul
non cominci a chiedermi cosa sto facendo.
«Sì, esco» urlo. Tre sillabe. Stronzo.
Controllo di aver chiuso bene la porta, non si sa mai che
Paul si monti la testa e decida di fare il supereroe in missione
di salvataggio. È stata la mamma a riparare il gancio scorrevole
che chiude la porta, e infatti è traballante, alcune viti non sono
ficcate fino in fondo. Quando uno si appoggia, la porta si apre
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un po’, come quella di ingresso con la catenella. Se la mamma voleva sapere cosa facevo in bagno, ci si appoggiava con la
spalla e sbirciava dentro. Paul non lo farebbe mai, a meno che
non vada davvero nel panico. Per quanto ne sa, sono nuda e
lui è un assistente sociale di mezza età che si guarda bene dai
comportamenti equivoci.
Ero a casa di Pulcino quando è arrivata la polizia. Pulcino in
realtà si chiama Kathleen, però tutti la chiamano Pulcino perché
è piccola e magrolina, ma anche un sacco tenera. Nessuno la
chiama mai Kathleen, a parte gli adulti. Kathleen è un nome da
secchiona. La mamma si lamentava sempre che passavo troppo tempo a casa di Pulcino. Non le è mai andata a genio sua
madre, la signora Lacey. Diceva che se la tirava perché il suo
lavoro part-time consisteva nell’inventare nomi per i vari tipi di
vernice. Ad esempio Pistacchio da sogno, Tramonto di ciliegia,
Marrone merda, roba così. La mamma diceva che era un lavoro
“senza senso”, ma secondo me era una gran figata essere pagati
per fare una cosa così… senza senso. Comunque, ero a casa
di Pulcino quando la polizia è venuta a cercarmi, e mi chiedo
se la mamma l’abbia fatto apposta a farsi investire quella sera,
solo per dimostrarmi che passavo davvero troppo tempo in
compagnia della signora Lacey. Perché ne sarebbe stata capace.
Una volta eravamo a Creta dai nonni, un agosto così caldo che non si riusciva nemmeno a respirare senza sudare, e la
mamma mi ha fatto sedere con lei nella stanzetta dei bancomat
di una banca di Chania, solo perché c’era l’aria condizionata.
Facevamo pena, appollaiate su quelle seggioline pieghevoli portate da casa, del tipo che quando ti ci siedi ti ritrovi le ginocchia
in bocca. La gente del posto andava e veniva, ritirava i soldi, ci
guardava strano e magari si chiedeva se non fossimo la moglie
e la figlia matte del direttore della filiale e ci stessimo prenden15
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do personalmente cura dei suoi affari. La mamma se ne stava
seduta a gambe distese, la testa appoggiata alla parete, come se
prendesse il sole. Non la finiva più di sbuffare e lamentarsi del
caldo, anche se dopo mezz’ora io ho cominciato quasi a sentire
freddo. Avrei dato qualunque cosa perché arrivasse un impiegato inferocito a mandarci via, ma era domenica. Non c’era
nessuno. Siamo rimaste lì per tre ore. La mamma a un certo
punto si è addormentata e, visto che portava gli occhiali da sole,
non mi ero resa conto che aveva gli occhi chiusi.
Paul intanto non molla. «Sai com’è, non mi dispiacerebbe
fare un bagno, quindi…»
«Quindi?»
«Quindi, per favore, non usare tutta l’acqua calda, Melon.»
È ancora lì, dietro la porta, in attesa. Mi alzo dal pavimento,
mi chino sulla vasca e tuffo una mano nell’acqua. Mi auguro
che il rumore basti a dimostrargli che respiro ancora e ho tutte
le vene intatte. Sento i passi di Paul sul pianerottolo. Qualche
scricchiolio, una pausa. Sta pensando a qualcos’altro da dire,
me lo sento. Invece niente. Le assi sotto la moquette scricchiolano di nuovo. Se n’è andato. Era ora. Mi siedo sul tappetino
con la schiena appoggiata alla vasca. La superficie esterna è
rivestita di moquette pelosa, color malva. Il lavandino è verde
e c’è una scia di calcare che va dai rubinetti fino al buco dello
scarico. Il bagno della signora Lacey è beige, un mosaico di
piastrelle di arenaria.
Adesso che Paul se n’è andato posso scrivere in pace. Sono
venuta qui per questo. Perché non voglio che Paul veda cosa
faccio. Penserebbe che è un “progresso”. Che sto “accettando
la realtà”. Si convincerebbe che sono quasi pronta a dargli un
bell’abbraccione. In sostanza vuole vedermi piangere. Io non
voglio piangere. Non mi serve piangere. «Il colpo non ti era
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ancora arrivato» direbbe. E io farei una battuta del tipo: «A me
no, ma alla mamma direi di sì, eh?». Ah ah ah. E lui farebbe una
faccia commossa, della serie riesco a stento a non mettermi a frignare. Sono cattiva, lo so, ma voglio solo essere lasciata in pace.
Se Paul non lo capisce, ne pagherà le conseguenze. Se soltanto la
mamma avesse aspettato ancora un anno, avrei compiuto sedici
anni e avrei potuto badare a me stessa.
Sento il fondo di una padella sbattere contro la piastra, di
sotto, in cucina. Paul è uno che quando cucina fa un gran baccano. Gli piace darsi delle arie. È tutta la sera che armeggia coi
fornelli, tra un attacco di panico e l’altro di fronte alla porta del
bagno. Non fa che cucinare per me. Pensa di riempire il vuoto
lasciato dalla mamma, ma lei non ha mai cucinato granché.
Roba surgelata, sughi già pronti, ingredienti a caso spalmati
su un toast; è a questo che sono abituata. Stasera c’è la zuppa.
Non ho proprio voglia di mangiare con Paul. Ogni pasto è una
trappola. Mi domanda, con aria distratta: «Ti piace la zuppa?»
(o il risotto o il ragù o quello che è), e io non posso rispondere
di no, altrimenti non potrò più permettermi di mangiare quel
piatto davanti a lui. Allora dico: «Sì», e lui mi fa «Bene, perché
la mangerai stasera», ed ecco fatto, mi ha fregato.
«Tra dieci minuti a tavola, Melon.» Mi fa sempre il conto
alla rovescia. Una volta, in classe, abbiamo letto questo libro
su come sarebbe il mondo dopo una guerra nucleare. Allora
ho riflettuto su cosa farei se davvero mi rimanessero solo dieci
minuti. Di sicuro non mangerei la zuppa.
Mi tiro su la manica e infilo la mano nell’acqua per togliere
il tappo. Ormai è diventata fredda. Apro quella calda così lo
scaldabagno fa il rumore giusto. Sono una maga della finzione. A volte nell’acqua ci metto anche il bagnoschiuma della
mamma, così c’è l’odore giusto. Mi fa subito pensare a quando
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si preparava per uscire. Una volta doveva andare con Paul alla
festa natalizia dei servizi sociali (non esattamente la serata più
pazza del mondo) e prima che uscisse abbiamo litigato. Non ci
siamo rivolte la parola per una settimana. Anzi, io non ho rivolto la parola alla mamma per una settimana. Lei non era capace
di tenere il muso. Io invece sono una professionista.
Passo una mano bagnata fra i capelli per far credere che sono
appena uscita dalla vasca. Non riesco ad abituarmi ai capelli
corti. A volte allungo una mano per afferrarmi la coda ma poi
mi ricordo che non c’è più. Forse tagliarmeli non è stata una
buona idea. Ne avevo parlato parecchio, ma il taglio in sé fa schifo. I ciuffi davanti si arricciano quando c’è umidità nella stanza
e mi viene come una specie di nuvoletta intorno alla faccia. A
dire il vero mi succedeva anche quando li portavo lunghi. Non
c’è niente da fare. Una volta Pulcino si è fatta la permanente.
Ebbene sì, ha liberamente deciso di avere i capelli ricci, che a me
è sembrata una follia. Io ho una bella testa riccia da greca. Ho
il naso grosso, le cosce grosse, il sedere grosso, le tette grosse.
Avere le tette grosse poi è il massimo se ti chiami Melon. La
mamma diceva sempre che la greca era lei, ma quella che si era
beccata il corpo da “vera greca” ero io. Un modo gentile per
dirmi che sono cicciottella. Non sono grassa, questo lo so. Non
sono come Freya Nightingale che si sente un elefante e va sempre in bagno a vomitare dopo pranzo. Io occupo semplicemente
più spazio nel mondo. La mamma era magrissima, tranne che
nei punti giusti. Tette vere che sembravano finte. Era una di
quelle piccolette graziose che ti verrebbe voglia di metterti in
tasca. Io te la sfondo, la tasca.
Sembrerò greca, ma non mi ci sento. È come un bel vestito
che non posso togliermi. La mamma mi portava ogni anno a
Creta, ma il mio legame con quel posto era come spezzato, o
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forse non era mai esistito. Lei ha provato a riannodare il suo, ma
senza successo. La famiglia non l’aveva mai perdonata, non per
davvero, e lei non riusciva a farsene una ragione. Ora non c’è
quasi più nessuno a cui fare visita. È per via della maledizione.
I Fouraki muoiono giovani.
Mio padre, però, vive ancora lì, mi ha detto la mamma. Io
non l’ho mai conosciuto. Non è mai stato un padre in carne e
ossa per me. È un nome e niente di più. Secondo la leggenda, si
chiama Christos Drakakis. A volte me lo ripeto mentalmente,
per provare come suona. Mio padre è Christos Drakakis, e io
mi chiamo Melon Drakakis. Piacere. Altre volte penso che non
mi sarei chiamata Melon, se Christos non se la fosse svignata.
Avrebbe impedito a mia madre di fare la stupida e l’avrebbe
convinta a darmi un nome normale, quello di una santa magari,
come ogni ragazza greca che si rispetti. Mi chiamerei Sophia o
Alexandra, o un altro nome tradizionale.
«Cinque minuti, Melon.»
Mancano cinque minuti al disastro nucleare: cosa faccio?
Individuo l’epicentro e mi precipito. Non voglio sopravvivere
se intorno avrò solo distruzione, deformità e malattie causate
dalle radiazioni.
Il tanfo di zuppa mi travolge appena metto piede fuori dal
bagno. Gli odori della cucina seguono un percorso prestabilito
in questa casa: salgono su per le scale, svoltano in un angolo del
pianerottolo e poi avanti tutta fin dentro camera mia. Sarà che
la corrente gira così. Nella camera della mamma c’è sempre un
profumo di legno e vaniglia.
Vado di sotto, scavalco Kojak, che adesso ha deciso di dormire sempre in mezzo alle scale. Non è più lo stesso da quando la
mamma è scomparsa; è diventato muto. Un tempo mi avrebbe
miagolato fra i piedi fino in cucina. Ora invece resta lì, una gros19
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sa palla grigia con un occhio sempre puntato verso l’ingresso,
nel caso la mamma decidesse di tornare.
Mi fermo per prenderlo in braccio, ma lui si spaventa a morte. Si contorce all’indietro e si libera subito. Non riesce a salire le
scale molto in fretta, perché le unghie gli rimangono impigliate
nella moquette. Non vuole le mie attenzioni. Va nella stanza
della mamma.
Kojak è proprio vecchio, ormai. Magari muore di crepacuore.
In cucina, Paul ascolta Jazz FM e indossa il grembiule della
mamma, quello a fiori viola. A Paul piace la musica da sala
d’aspetto e non gliene sbatte nulla di sembrare una femmina.
«Patate dolci e piselli» annuncia, distogliendo lo sguardo
dai fornelli e squadrandomi da cima a fondo. Sta verificando
che non abbia le vene del polso recise o sintomi di overdose.
«Siediti.»
Ha apparecchiato per due, uno di fronte all’altra. Scelgo una
delle quattro sedie che non ha il piatto davanti. Non voglio mangiare con Paul e doverlo anche guardare in faccia. Arriva con
una scodella piena. Non reagisce alla mia scelta del posto, si
limita a farmi scivolare davanti una tovaglietta posandoci sopra
il piatto. L’ odore è forte, speziato. Sopra c’è un grumo bianco
che sembra cacca di uccello. Paul versa un po’ di zuppa anche
per sé, aggiunge la cacca di uccello e poi viene a sedersi. C’è un
cestino di pane spruzzato di mosche morte che in realtà sono
pezzetti di olive.
«Buona?» chiede. Paul è sempre in cerca di complimenti.
«Non l’ho ancora assaggiata.»
Allungo una mano per prendere il pane, poi ne stacco un
pezzo alla volta e me lo ficco in bocca, masticando assorta per
ritardare il più possibile l’assaggio. Se si aspetta che gli dica che
è un bravo cuoco, sta fresco.
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«Sai, Melon, non dovresti chiuderti a chiave in bagno.»
Abbasso lo sguardo sul vapore che sale dalla zuppa, osservo
i contorni della cacca di uccello espandersi sulla superficie.
«Uno non può avere i suoi spazi?»
Prendo un altro pezzo di pane, strappo la crosta.
«Che facevi lì dentro?»
«Fatti gli affari tuoi.»
Lui si zittisce, si porta alla bocca tre cucchiaiate piene, una
dopo l’altra, come se non mangiasse da una settimana. Solo
allora dice: «Uuuh, scotta». Imbecille.
Immergo il cucchiaio nella zuppa. Non posso più rimandare.
Sento il suo sguardo fisso su di me mentre soffio, poi lo metto in
bocca. Non ne posso più di avere sempre i suoi occhi addosso.
Attende un commento. Io continuo a mangiare. Lui annuisce,
sorride. L’ ha preso come un complimento, e si sbaglia. Sono
così arrabbiata che gli rovescerei tutto in testa. Ma ho anche
una fame che non ci vedo.
«Com’è andata la seduta giovedì? Non mi hai ancora raccontato niente.»
È la quinta volta che me lo chiede. Sto tenendo il conto.
«Utile?»
«Più o meno.»
«Avete parlato del litigio?»
Questa è nuova.
«Che litigio?» Il profumo del bagnoschiuma ancora nell’aria
mi riporta alla sera della festa di Natale, quando io e la mamma
abbiamo litigato.
«Avete parlato della discussione che hai avuto con tua madre?»
«Quale discussione?» Continuo a mangiare per fargli capire
che non mi interessa cosa ne sa lui di quella sera.
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«Quella che avete avuto poco prima che morisse.»
Mi si blocca la zuppa in gola. Divento di ghiaccio.
«Ho pensato che potesse essere un problema per te e che
parlarne con qualcuno ti avrebbe aiutata.»
«Come lo sai?» dico. Non lo guardo. Mantengo un tono di
voce tranquillo, così capisce che per me non è affatto un problema.
«Parlavamo, sai» dice lui. «Io e tua madre.»
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