PRESCRIPTA poesie mutuabili di Antonio Munno INDICE Bruco poeta e farfalla poesia Comoedia Desolate Figli snaturati La foglia La soluzione della luna Il vallo di Mazara Recalcitrante sull’altalena sorda Finiva maggio I topi La zavorra vuota Il granchio del grillo Caramelle Singulti di gioia contattami:<[email protected]> Bruco Poeta e Farfalla Poesia Bruco poeta Verde distesa sospesa nell’azzurro, il mondo è la larga foglia di un cavolo. Tutto il dì sulla foglia, la sera vien voglia di volare. La notte, a guardar le stelle, corron lacrime sulla sua pelle. E non è brina che scende ma desiderio che s’invola: - potessi tentare l’infinito e andarmene da questo cavolo di vita! - . La vita ha il colore della speranza e dell’azzurro infinito del cielo, la vita del bruco poeta. Un giorno della vita Pioggia di colori, una farfalla si poggia sulla foglia. -Benvenuto arcobaleno, sulla foglia della mia vita. – -Ti ringrazio, buon bruco, ma io sono solo una farfalla-Non è vero, tu puoi volare e celesti sono i colori delle tue ali-Il tuo canto è un volo, le tue parole hanno le ali-Lo dici per consolare un bruco sulla foglia!-Ora devo andare, ma tu non esser triste-Addio, bella farfalla, e grazie dei tuoi colori alla mia vita-Così spiovvero i colori ma non tornò il sereno. La notte Notte per pensare. Ombre lunghe nella mente, strascichi del dì, di una farfalla come una cometa che lascia la scìa nella notte. Poi una foglia che non basta, un po’ di tristezza che non guasta, e non resta che dormire. Il mattino dopo Piangi perchè non ci speravi, un bel mattino ti spuntano le ali. Se eri un bruco, ora sei una farfalla; se eri bruco poeta, ora sei farfalla poesìa. E ti trovi sulla foglia, la foglia del tuo pianto, la foglia del tuo canto. Paura di volare, la paura del poeta, ma ora sei una farfalla e il vento ti muove le ali. Via, come fossi nato ora, e per quello che vedrai, non ci sarà parola. Farfalla poesia Un fiore e poi un fiore, in volo sotto il sole, in un cielo che si può toccare, in un crescente trasalire. Poi verrà del tuo tempo effimero la sera e piano ti scemeranno le ali. Ti poserai sull’ultimo fiore, gli ruberai l’ultimo odore, poi sul viso con gli occhi chiusi, s’aprirà l’ultimo sorriso. COMOEDIA Come l’onda s’affatica alla sponda in uno spasimo senza progresso, tale è l’uomo che muove per lande senza occhi per l’Universo; da Oriente ad Occidente Settentrione a Meridione ignaro del moto ascendente unica àncora di Redenzione. Così, destin non è la sponda ma l’evaporar dall’onda non è l’errar per lande ma l’esalar dal mondo. Mongolfiera per le stelle: s’alza poesia; angeli aprono il cielo e, dall’alto, dispare la paura. Dolce oblìo e leggerezza diffusa dissipata identità alla circonfusa Luce, squarciato il velo della cecità mondana nuova vista aggiunge al veder umano. Trame sapienti ordite visibili invisibili sottili fili fili fili trasmettono, legano, vincolano, ganci, agganci, valenze, uomo a uomo, animali, vegetali, cose, Terra, Cielo, Universo, tutto si comunica del medesimo afflato d’AMORE. Desolate Sono stato svegliato dal ronzìo di un moscone. Sbatteva eroicamente dapprima contro il vetro della finestra e poi contro il vetro dello specchio. Mi ha fatto pensare alla condizione dell’uomo inquieto. Sbattere nei vetri della stanza della vita. Da qui, da questo ponte sulla vita, scruto e non mi bagno. Mercati di quartiere e teatri di strada: il fiume scorre. Gota alla ringhiera, marcisco tra desiderio di vivere e desiderio di capire. Ho agito due volte col polpastrello dell’indice su di un mobile impolverato.Ho guardato controluce il binario ottenuto. Ho chiuso gli occhi e sono salito sul treno. Inverno. Nei vetri appannati si specchia la mia mente. Disegno un cerchio con l’indice e ritorna la consueta veduta. E’ la mia mente che non schiarisce. E fissi l’orizzonte desolato ma gli occhi non chiudi tuttavia; nemmeno quando è notte e vai a letto pensando di dormire. Ma proprio quando ti concedi un battito di ciglia come uno sbadiglio alla vita che non sai più se vale la candela, viene da dietro le spalle a sorprenderti: ti copre gli occhi con le palme della mano. La furia del mare, le urla del cielo: son svenuto! Marinaio nella tempesta, ho lottato finchè ho potuto. Sbattuto sul ponte, cento volte caduto, la corrente ha portato il mio corpo muto. Mi son svegliato sulla riva e sentivo ancora la tempesta. Avrei potuto morire a cercare la vita così lontano ma mai avrei saputo della vita senza la tempesta. Ora cammino lungo la riva e raccolgo conchiglie. Occidente di passi veloci e di poco tempo. Di distanze che si accorciano e di affanno che cresce; Occidente di solitudini in masse pulsanti, di tutti attori sprofondati ognuno nella propria parte di spettatore. Demmo le spalle alla scaturigine dimenticando d’esserne propaggine. Figli snaturati Tutto questo annaspare di gomiti tra gomiti, tutta questa inculata a trenino pista-circolare, tutto questo deserto spaventoso, trafitto da antenne giganti e popolato da scimmie col telefonino, tutto questo irrefrenabile delirio di onnipotenza sorretto da alibi di alibi d’impotenza; come mi sembrate lontani da qui, sospetto che non ci rivedremo mai più. Mi sembrò di entrare nel campo degli “zingari nel bosco”. Ad Avalon pioveva ma quell’arcobaleno di gente non sembrava curarsene: seguitarono scalzi nel fango. Ho smesso gli anfibi e le parole aspre, la serpe in seno, la sacrosanta guerra: scalzo, sento il rigoglío della terra, levo al cielo occhi mistici. C’è e si disvela in volo. Il tuo volo incosciente verso l’indefinito. Una consapevole necessità che dispiega le ali sul precipizio. La Foglia Autunno delle stagioni. Obbediente vento fatale. Cade la foglia. Occhi chiusi, mozzo il fiato. Stringe fra i denti l’ultimo raggio di sole. Malincuore! -Questa foglia non ha ancora pronte le valigie- rileva buono il fato, -devo, perciò, ordirle un’appendice-. Corre subito dal verbo marcire e gli chiede di aspettare. Poi cerca un uomo che conosca le lacrime e lo fa passare. E così, la foglia si ferma sulla spalla del passante. -Apri pure gli occhi, non sei ancora a terra!La foglia si rende conto e poi .. -Grazie, tu m’hai salvata!-Ecchilosà, foglia mia, eppoi, salvata da cosa?-Dalla morte!-Dalla morte? Mi investi di un potere che non ho. La morte si può solo incipriarla-E come?Il passante le declama un pezzo di Rimbaud: -Già l’autunno! Ma perchè rimpiangere un eterno sole, se siamo impegnati alla ricerca della chiarezza divina, lontano da chi muore sulle stagioni-Bella cipria, belle parole!-Lo so, prendere o lasciare!-Le prendo ma tu lasciami cadere!Gli ultimi decimetri li fece ad occhi aperti. Terra! La soluzione della Luna L’ingiustiziometro sulla terra ha fatto “BOOM”. Il rumore è più assordante del Big-Bang. La Via Lattea è a congresso. Ordine del giorno: la Terra è diventata un gran porcile. Il Sole è chiamato a conferire: “l’uomo è più porco dei porci!”. Sirio chiede l’oscuramento della Terra. La sua richiesta sembra trovare tutti d’accordo, quando arriva la Luna. “Sono venuta a prestarvi il mio “occhio nella notte” perché voi vediate più chiaro e non aggiungiate ingiustizia ad ingiustizia. Nel camino della notte arde la speranza. Legna per l’inverno, inverno lungo e freddo. Lungo quanto il dì del sopruso e freddo come l’egoismo e la solitudine che produce. Dissidenti, fiori di campo, sognatori e sbandati si scaldano a questo fuoco che essi stessi attizzano. Pensate che questi uomini meritino l’oscuramento? E in nome di quale giustizia?”. L’intervento appassionato della Luna lascia tutti a bocca aperta. “E qual è la tua proposta?” – le chiede Sirio. “Io propongo di spegnere il dì. Cosa possiamo là dove persino la morte ineluttabile ha fallito? Inventarci un nuovo inferno? Dare un bastone a un garzone perché non si scannino? Pensate che, chi ha bisogno di un padrone altro da se stesso, possa dirsi in vita? Che, chi non ha un metro nella mente, sappia dove si trovi? Che, chi non sa dove si trova, possa andare da qualche parte? Questi sono già morti, e non è puzza di porcile che emana il dì, ma di carogne. E’ per questo che io vi chiedo di oscurare il dì, prima che questo fetore si spanda nel firmamento.”. Al tramonto di un giorno qualsiasi, il Sole dava l’addio all’ultimo dì, affidando alla voce di Giuseppe Di Stefano le parole di “’O SOLE MIO”. Poco dopo sorgeva la Luna. Il Vallo di Mazara Le onde settentrionali del Mediterraneo sbattono sul filo spinato dell’Unione. L’Euro-Force, dislocata su tutto il perimetro meridionale veglia sul “Piatto Fumante” del Vecchio Continente. Gli occhi dei radar segnalano i movimenti degli affamati come Armate Brancaleone alle crociate. Su piccole imbarcazioni di fortuna, vengono intercettati e dirottati dai rimorchiatori in palafitte di accoglienza. -“Che non tocchino terra!”- si è raccomandato il Ministro dell’Interno. Fosse stato per i politici, interpreti del popolo-pensiero, si poteva far saltare le imbarcazioni con missili intelligenti che tenessero in conto la salvaguardia di flora e fauna marina, viste le continue proteste dei Verdi o “ Sole che ride”. Però il Papa ha sentenziato –“Lasciate che gli infedeli ritornino alle loro case!”– e così, tocca riaccompagnarli. Una sontuosa pasta e fagioli, una bottiglia d’acqua di due litri, e via, verso il ritorno. Salvatore, un giovane intraprendente di Mazara, ha usato incentivi Cee per rimodernare il suo peschereccio, adibendolo a mezzo di rimpatrio clandestini. Ci troviamo sul “Caronte Speed”, destinazione coste Maghrebine. Salvatore è al timone e parla con Dhafi, un “disperato allegro” che, se il tempo è bello, si avventura per la pasta e fagioli. - “Allora, com’è stata questa pasta e fagioli?”– - “Come al solito!”Così Salvatore intona una vecchia canzone e Dhafi si accora –“… like past e fasul…that’s amore ..that’s amore ..pirupirupin pirupirupin vita bella. Recalcitrante sull’altalena sorda Polvere, tutta polvere! Affanculo tutti i demoni e le stelle cadenti che mi hanno tenuto in vita. La speranza è un cuscino per la notte, meglio dormire scomodi o non dormire affatto. Polvere! Le parole scritte o solamente dette per imbrattare fogli o riempire il silenzio. La poesìa: ahhaha! Tu mi dici che è tutto scritto; io non so leggere nè lo voglio. Me ne sbatto delle stelle e del destino. Se credessi a loro, passerei tutto il mio tempo a dormire. Voglio che mi si lasci alla fors’anche illusione di spostar montagne e poi di morire per un raffreddore. Spremi il dì come un agrume e meno agra parrà la sera; spremi la notte di tutto il suo buio e più dolce sarà l’aurora; spremi tutto il giorno e bevi ad ogni suo calice fino a che non ne sarai ebbro e disgustato. Andiamo, capitano, spieghiamo le vele e fuggiamo da questo porto, chè, morto per morto, preferisco affogare. Andiamo verso la tempesta a sognar torpidi talami di donne e di vino. Andiamo a scommetter col mare e a sfidare la sorte. Andiamo verso la vita che si corona della morte. Vedrò aprirsi il cielo come un sipario sul teatro della vita; vedrò il sorriso sull’ultima lacrima come su una perla; vedrò spezzarsi la catena immonda restituirmi all’etere; vedrò la fiamma blu spegnersi nel gran barbaglio. Avrei dovuto salire su treni affollati. Partire, tra schiamazzi, per mete devote all’inerzia. Confondere la mia voce con il coro. Mai tentare il volo? Passammo nei mercati senza vendere nè comprare, nelle valli fummo corsi d’acqua, disprezzammo le pianure e l’orizzonte uguale; ci affrettammo a passare ogni terra, come fossimo stati a piedi nudi su spiagge roventi, senza confonderci con chi si illude di restare, bevemmo alle nostre due bottiglie di vino novello e di acqua del Lete. Vennero le sirene a cantare e divani morbidi a sedurci, e li passammo. FINIVA MAGGIO -Nessuno ha il coraggio!piangeva la rosa la rosa più bella di spine velenose. -Appassirò senza una carezza!continuava con tristezza tra lacrime e singhiozzi pazza di dolore. Quando un angelo di un coro si fermò in volo a udir quelle parole mendicare amore. Commosso da quel pianto venne giù dal cielo e si presentò d’incanto a quella rosa. Mosse per carezzarla e lenirle il dolore quando una spina gli punse il cuore. -Mio Dio, morirai!si penò la rosa offrendo un petalo alla sua ferita. -Se la morte è il tuo profumodisse l’angelo innamorato -lascia che io odori e morirò beatoPrima che l’angelo morisse la rosa smise il pianto e, guardando in alto, pregò perché appassisse. I Topi Il treno senza freni dell’umanità si è schiantato. Tutto era stato scritto dalla stessa mano dell’uomo, fino all’ultima parola; così come, dati due punti, unica è la retta, non fu difficile leggere, nella direzione dell’umanità, la fine. Siamo al logico epilogo dell’ “homo faber fortunae adversae suae” : ora è il tempo dei topi. In una strada di periferìa si muove diffidente un tombino. L’aria è fosca; il sole, disarmato, sembra una lampada in una notte di nebbia. Dal tombino si affaccia circospetto un “soldato della rivoluzione” costretto alla rete fognaria. Qualcosa di inspiegabile lo riempie di stupore e, al tempo stesso, gli intima cautela. Così esce dal tombino ed entra in un silenzio riarso. L’odore della fine gli entra nelle narici, non restano che le “lamiere contorte” di quel folle treno. -Evviva, evviva la fine! La guerra è vinta senza colpo ferire!- la fine lo riempie di gioia, di gioia infinita. Più in là, in prossimità di una discarica, da un frigorifero adagiato sui rifiuti, esce sbadigliando un barbone. Una vita ai margini come una margherita sul ciglio della strada. -Ehi, ehi!- il soldato lo avvista e gli va incontro esultando. -E’ finito, è finito!-Chè ?-Compagno, è finito il mondo!-Io non ho sentito niente-E’ finita l’arroganza!-Non ci credo nemmeno se mi porti il necrologio-Devi crederci, sono tutti morti con le loro stesse mani; vieni, vieni a vedere!-. Il barbone lo segue, quando trovano il cadavere di un uomo che stringe al petto una borsa. -Cosa avrà in quella borsa?-Il libretto di risparmio!-Bravo stronzo, ‘stavolta non ti è servito a niente!Continuano nella loro curiosità, quando il barbone incappa in un filo spinato. -Maledizione, maledetti loro e la loro manìa di recintare!-Consolati, sono tutti morti-Recinteranno pure l’inferno, io li conosco-Sì, si spartiranno le fiamme!-. La zavorra vuota Lui non si era accorto di niente, preso com’era da quello che poi sarebbe stato l’ultimo lavoro. L’Angelo della Morte aspettò che desse le ultime pennellate e rimettesse a posto i colori. – Non c’è tempo per lavare i pennelli!- l’Angelo si svelò a Vincent con queste parole. Vincent lasciò ogni cosa e lo seguì senza fare domande. Appena fuori la porta era pronta una mongolfiera. - Sali e butta giù tutte le zavorre– disse l’Angelo. Vincent eseguì e la mongolfiera prese ad alzarsi. Su di ogni zavorra c’era scritto il nome che aveva dato a tutti i suoi quadri: I Girasoli, La Sedia, L’Autoritratto …. e poi il nome del fratello e, infine, trovò una zavorra vuota su cui si leggeva Applausi e Riconoscimenti. Vincent buttò l’occhio verso l’Angelo come a chiedere spiegazioni. L’angelo gli disse di affacciarsi e lui lo fece. Da li, il paese sembrava un formicaio e le persone correvano di un moto vano. - Lo vedi, non hanno tempo!- disse l’Angelo. Allora Vincent fece cadere l’ultima zavorra e si ritirò nella cesta. Il granchio del Grillo Il gatto e la volpe, Mangiafuoco, i Carabinieri, la balena: quanto sbattimento! Ora che Pinocchio dormiva abbracciato a Geppetto, Il Grillo Parlante pensò di essersi meritato una serata di libertà. Eccolo in una cantina che si scola una bottiglia e canta una canzone dei Litfiba: “a volte uno strappo è una necessità”. Sul tardi, quando è bello e fuori come un balcone fiorito e l’oste guarda nervosamente l’orologio, il Grillo Parlante pensa saggiamente di togliere l’incomodo. Avvolto nella sua aura luminosa, eppur sbanda. Ora incorna un canale, ora si perde nell’edera di un palazzo. Ad un certo punto del suo non sapere dov’è e dove sta andando, vede un nasone riflesso in uno specchio illuminato da una candela e pensa di essere arrivato. -Quale altra bugìa hai detto ‘stavolta?- esordisce apparendo nella stanza. -Chi sei?- si sente dire per tutta risposta. -Andiamo, Pinocchio, è inutile che cambi voce e fai finta di non conoscermi– insiste il Grillo. -Io davvero non ti conosco e poi non mi chiamo Pinocchio– reagisce la voce mezzo infastidita. -E chi sei?- s’incuriosisce il Grillo. -Io son Cyrano, poeta e primo spadaccinoIl Grillo si struscia gli occhi e poi … -E che ci fai a quest’ora davanti allo specchio?-Miro il mio tormento-Andiamo, su!Cosa saresti senza questo tuo nasone che tu chiami tormento?-Sarei stato felice!-Non saresti stato niente! Quanto avresti sfidato la morte fino a diventar primo spadaccino senza questo tuo nasone? E quanto avresti osato come uomo fino a diventar poeta senza questo tuo tormento?Cyrano tacque disarmato come giammai prima di allora e il Grillo cadde a terra, morto di sonno. CARAMELLE Sarebbe stata un’unica stanza se non ci fosse stato il manto a dividerla. I miei dormivano da una parte. Noi, i figli, dormivamo dall’altra nel mobile-letto. Mio padre si svegliava all’alba. Io lo vedevo inzuppare il pane nel latte. Più tardi veniva mia madre a svegliarci. La colazione e poi dovevo andare a prendere il giornale a don Lino. Prima, però, dovevo “farmi il capo”. Don Lino non era un prete, era un avvocato di destra abbonato a “Il Tempo”. L’edicolante staccava un pezzo aiutandosi con il righello e mi consegnava il giornale. Arrivavo a malapena al pugno di ferro, quanto bastava per sollevarlo e farlo battere sul portone. - Chi è?- domandava la moglie. Donna Frea non era della zona, era troppo ingenua ed aggraziata. –Vieni su!- diceva dopo aver udito la mia voce. Così salivo le scale incerate in una luce cupa ed artificiale. Il corridoio era una giungla di piante tristi. –Ma che bel giovanotto stai diventando!- diceva prendendosi il giornale. Fingevo di andarmene quando lei mi bloccava: -Aspetta, vengo subito!-. Tornava con un pugno di caramelle che io distribuivo nelle due tasche. Poi scendevo le scale, aprivo il portone e salutavo contento la luce del sole. Un tempo la mia vita era costretta tra i punti estremi ed opposti di un segmento. Un orizzonte concluso che produceva tristezza. SINGULTI DI GIOIA Mi recai a Modena intento a seguire delle lezioni magistrali in occasione del festival della filosofia.Quell’anno si parlava di Fortuna. L’attenzione era puntata sulla piazza centrale, sotto la Ghirlandina, dove, a richiamare tanta gente, me compreso, era l’annunciato intervento di Baumann, il filosofo della “Società liquida”. Il tempo era instabile, deboli rovesci si alternavano a schiarite. Baumann esordì agganciandosi all’incertezza del tempo per delineare una distinzione tra forze maggiori ed ambito di intervento umano. Alla fine della lezione pensai che Baumann campava di rendita, grazie al lampo che aveva avuto sulla “Società liquida”. Quindi mi spostai nella piazzetta attigua dove era allestito un tendone con sedie schierate.Presi posto in una tempesta di ormoni di vocianti scolaresche per assistere alla lezione del professore Giovanni Reale. Quell’omone basettoni ottocenteschi fu puntuale. Parlò di Platone e, in particolare, del mito di Er. Er, guerriero morto in battaglia, si ridestò dal sonno eterno e raccontò di quanto aveva visto nell’aldilà. Raccontò ciò che tutti sappiamo prima di abbeverarci nel Lete: immortalità dell’anima; responsabilità individuale nel proprio destino. -Ecco,- concluse l’ottocentesco professore, -la Fortuna non esiste!-. Sulle strade dell’infanzia del Cammino vestivo di presunzione di innocenza, vittima del sortilegio della vita, pulcino Calimero o Paperino, dicevo:-me misero, me tapino!-. Lavati gli abiti dell’innocenza con umile cenere ed acqua bollente, sfegata ogni macchia d’albagìa, riprendo il comando della vita mia, canto:- quel che sono, l’ho voluto io-. T’ho inseguita fino a stare su un albero, barattando le sveglie della civiltà con un gallo, libertà, mio vessillo, mio cavallo, l’ultima corsa a sprezzo della gravità, fendere il cielo direzione eternità. Vedrò aprirsi il cielo come un sipario sul teatro della vita, vedrò il sorriso sull’ultima lacrima come su una perla; vedrò spezzarsi la catena immonda restituirmi all’etere; vedrò la fiamma blu spegnersi nel gran barbaglio. Sarà una notte. Ci saranno stelle ma nessuna più bella di noi. Attraverseremo il guado senza voltarci. La sponda nuova avrà ghirlande nel salutarci. Ora sono Quel viaggiatore senza valigia, ora sono quegli occhi senza volto. Tra sterpi e sassi Tu puoi sfidare una montagna mirando alla cima più alta ma… se non conosci te stesso, chi avrai portato lassù? E, se non conosci te stesso, quando imbraccerai il timone della tua anima che ti scarrozza nei pensieri e nel mondo? E, soprattutto, se non conosci te stesso, quando intuirai di essere una entità spirituale e che, senza lo spirito, l’anima e il mondo sono vuoti? Ecco, quando conosci te stesso, tu ti riconosci come spirito, e non puoi più morire perché quella è la sua prerogativa.