Un’esperienza limite di Franco Aldrovandi Tutto è iniziato con un’avvisaglia di pericolo molto relativo riguardo mia moglie, di anni 52, diplomata, insegnante elementare: le fu diagnosticato un lipoma all’arto inferiore destro degenerato poi in liposarcoma nel corso di 14 anni, con 11 interventi d’asportazione chirurgica e successiva disarticolazione dell'arto. Mia moglie è deceduta nel gennaio del 1987. Solo dopo una decina di anni dal primo intervento, la gravità è relativamente apparsa dai referti istologici che inequivocabilmente definivano la degenerazione. Gli interventi chirurgici, sempre più vasti e frequenti nel tempo, nonostante le speranze di volta in volta espresse dai medici, erano sintomatici di una metastasi in atto. Infatti, nemmeno la disarticolazione dell’arto, proposta come ultima possibilità da alcuni eminenti oncologi e considerata un inutile sacrificio da altri, ha arrestato il processo di invasione. Descrivere cosa provano l’ammalato e i familiari è facilmente intuibile, considerata l’alternanza di speranze e brutali decisioni. Ciò che invece appare meno evidente è il cambiamento di rapporti tra i componenti del nucleo familiare: divengono sempre più intensi dal lato affettivo ma degenerano irreparabilmente dalla normalità poiché subentra un’automatica correzione nell’espressione dei sentimenti, del comportamento e del dialogare stesso dovuto alle diverse situazioni dei congiunti sani e dell’ammalato che cercano di interpretare ruoli inversi. Da una parte e dall’altra si mente per non ferire o si ferisce per non volere mentire, si recita un’assurda commedia fatta di riguardi eccessivi, di attenzioni particolari, inusitate, di gioie e disperazioni represse e s’ingenerano situazioni tali da richiedere una professionalità da attore talmente esperto da sapere esprimere in modo naturale emozioni e atteggiamenti non propri, riuscendo a coinvolgersi nell’interpretazione degli stessi. 1 Poi, il dolore fisico dell’ammalato e quello psichico dei parenti divengono praticamente l’unica occupazione quotidiana. Ci si svuota di ogni stimolo, non si riesce a programmare niente, si perde ogni interesse per tutto quello che accade a noi e attorno a noi. E’ in questo momento che ogni impegno abituale, come la pulizia della casa, il confezionamento dei pasti, l’assolvere i compiti del proprio lavoro e provvedere ad ogni necessità di routine, diviene talmente marginale da essere, nel migliore dei casi, trascurato. Ma ciò che più conta è che la sfera affettiva subisce profonde alterazioni. Non c’è più tempo per tenere in debito conto dei propri problemi, di quelli dei figli, del mantenere rapporti con parenti, amici e conoscenti. Tutto questo porta ad un radicale cambiamento anche a livello caratteriale e questa trasformazione rende instabili psichicamente, di umore estremamente variabile e, in ogni caso, crea fratture nei rapporti tra se stessi e gli altri, semplici amici o intimi familiari. Il demandare diviene l’unica soluzione di comodo e quindi tutto resta irrisolto: i dubbi sul modo di comportarsi e come risolvere tutti i problemi che si presentano sono talmente stressanti che, più che provvedere in merito, si finisce per assecondare e subire ogni situazione. Il non volere reagire non suscita nemmeno il rimorso della coscienza o il senso di colpa. In questo stato d’animo, per chi non ha fede e assurdamente ritiene di avere ottenuto quanto ha con le sue sole capacità, non è facile chiedere aiuto. Com’è possibile supporre che qualcuno ci venga incontro se la nostra riservatezza, la discrezione, l’orgoglio e la mancanza di fiducia anche per le persone più vicine, ci allontanano sempre più da tutto e da tutti e ci rendono decisamente asociali? La solidarietà umana viene ingiustamente negata e ci si rinchiude in se stessi impedendo, anche a coloro che spontaneamente si rendono disponibili, ogni interessamento che viene travisato in una sgradevole intromissione. E, in fondo, con chi si possono discutere o dividere problemi relativi alla probabile perdita del lavoro, all’eutanasia o ai più intimi rapporti familiari, quando non si riconoscono più nemmeno i veri amici? 2 Esiste, per un estraneo, la reale possibilità di ferire ulteriormente chi è già in condizioni psichiche precarie e ritiene utile ricorrere esclusivamente a professionisti: forzare questi blocchi è arduo (non impossibile!) e l’aiuto, concreto o morale, deve essere molto calibrato. Ricordo con assoluta chiarezza i momenti di disperazione in cui, non volendo esternare i sentimenti e le sensazioni che provavo, trovavo sollievo scrivendo per me stesso tutto ciò che non potevo ma avrei dovuto e voluto dire a mia moglie, ai miei figli e agli amici. In quel periodo, infatti, dopo la drammatica decisione di accettare la disarticolazione dell’arto, c’è stato per tutti noi un momento felice. Si pensava di poterci separare definitivamente da qualcosa di irrecuperabile e che tale eliminazione avrebbe automaticamente comportato la fine delle incertezze e disillusioni trascorse. Purtroppo a distanza di qualche mese, dopo avere ultimata la rieducazione fisica per l’uso della protesi, ad un ennesimo controllo venivano evidenziati sospetti focolai polmonari ed una recidiva sul moncone dell’arto amputato. In seguito nuovi esami, nuove conferme, nuove proposte d’intervento. Appurato che questi sarebbero risultati fini a se stessi, si è ritenuto logico rifiutarli per evitare ulteriori e inutili sofferenze all’ammalata. In questi mesi tenevo una specie di agenda-diario sui sentimenti e le sensazioni che provavo: -“La grande nostra speranza, dopo la disperazione per la crudeltà del tuo sacrificio, si era trasformata in certezza. Eravamo come bambini gioiosi alle prese con un nuovo grande gioco: il gioco della vita, di una vita ben diversa da quella che conoscevamo. Il fervore d’intenti, le nuove situazioni, le intenzioni delle possibilità future ed i continui adattamenti ci avevano preso al punto di essere felici ed orgogliosi di dimostrare a noi stessi e agli altri che non ci sentivamo vinti ma dei vincitori. Poi, tra sofferenze sempre più evidenti, non riuscivi più a mascherare la devastazione e lo scempio che giorno dopo giorno questa subdola e bestiale malattia stava adoperando in te. E tutto è crollato quando, frastornati e intontiti dalla certezza di una ricaduta, ci siamo resi conto dell’inutilità di quest’ultima battaglia contro il male. Non abbiamo avuto il tempo per riflettere e organizzare una linea di condotta o almeno una parvenza di programma: esausti, ci siamo arresi. 3 Quasi più che una ribellione o rassegnazione, ci ha preso uno strano torpore e da protagonisti siamo diventati abulici spettatori di questo gioco divenuto atroce. Il cambiamento di ruolo ci ha in un certo senso rilassati e la cosa ci stupiva per l’anacronismo al fervore di intenti precedente. Poi abbiamo capito che chi abbandona e passivamente attende gli eventi non ha più emozioni e che questa in fondo è una giusta legge naturale che consente di sopravvivere a chi ha perso ogni speranza e non crede più a niente. Era diventato offensivo e quasi insopportabile ascoltare i discorsi volutamente vuoti dei pochi intimi che ancora ci frequentavano e provavamo pena per loro e per noi stessi coinvolti nella recitazione di un’assurda commedia di circostanza. Ed infine ti abbiamo costretto ad intorbidire la ragione e la coscienza di quanto ci aspettava ed ai tuoi ragazzi è rimasta la straziante realtà quotidiana di ucciderti poco a poco e costringerti ad allontanarti sempre più da noi. Quante volte ti ho invidiato questo annullamento di sentimenti e quante volte avrei voluto parlarti di ciò che provavo. Ed ora che ti perdo e mi sto perdendo, non posso più dirti nulla prima che sia tutto finito”.-“Mi vergogno per potermi muovere attorno al tuo letto, per la stanchezza che mi fa addormentare accanto a te, per aver voglia di piangere quando ti guardo, per aver goduto ieri lo spettacolo della nevicata mentre tu dormivi ed io fumavo l’ennesima sigaretta, per riuscire a pensare al mio lavoro e programmare un futuro senza te. Ma soprattutto mi vergogno di non riuscire a nasconderti la mia rassegnata disperazione”.-“Stai con me, parliamo, fammi compagnia…ma come fare ora che sono solo un’occasionale presenza estranea al tuo mondo dove i soli amici sono il dolore, la paura e lo stupore per ciò che sta accadendo?”-“Aiutami, mi dici, a capire perché, e io, disperato, posso solo bruciarti la ragione con un farmaco e osservare impotente il tuo sguardo smarrito nel vuoto della ricerca di una verità incomprensibile.”- 4 -“Ora abbiamo la riprova quotidiana che il peggio di quanto può accaderci non è la morte ma il dover sopravvivere a se stessi e alla propria dignità.”-“Ci hanno ed abbiamo allontanato tutto e tutti. E non poteva essere altrimenti: ma cosa ci rimane se dobbiamo anche allontanarci tra noi e dai nostri figli?”-“Sogno sempre più spesso di continuare a volare alto sopra il tramonto per ritardare la fine del giorno e la tristezza del rientro dove mi aspettano solo i ricordi per lenire la solitudine che mi ruba sempre più il gusto della vita e mi sta portando, in un viaggio senza ritorno, all’indifferenza.”RONDINI, GABBIANI, COLOMBI Dopo una buona mezz’ora di lavoro i tubi di alluminio e la tela sono montati e quell’accozzaglia di cose strane ha preso forma: si distingue una macchina che assomiglia, in miniatura, a quelle che si vedono volare. Ed ora, dopo le verifiche di prammatica, si mette in moto e si riscalda il motore che pare parlottare sommesso con l’elica intenta a disegnare nell’aria cerchi trasparenti che accarezzano l’erba del prato. La macchina acquista una vita sua e si direbbe che con le vibrazioni delle strutture esprima l’impazienza di muoversi. A bordo! Le cinghie ben strette, i freni pigiati, il motore che urla la sua potenza al massimo regime e, dopo uno sguardo tutto attorno, la corsa sul prato con questo trabiccolo che diventa sempre più veloce e sempre più leggero e, come un grande uccello, si alza dolcemente e non ha più fremiti, non ha più scosse: sale quieto e sicuro verso l’azzurro del cielo, verso il proprio elemento. Si vola. E tutte le volte è come la prima volta…ci assale uno strano languore fatto di malinconia e di gioia, di coraggio e di paura, di commozione e stupore per questo miracolo che ci coinvolge assieme alla macchina; si galleggia in un elemento che non si vede. Là sotto ci sono tutti i problemi quotidiani e noi qui, in questo nulla che ci circonda, a riempirci gli occhi di spazi che mutano continuamente e non ci concedono mai di rendersi abitudinari. 5 Si è soli; del prato sono rimaste solo poche gocce di rugiada e qualche filo di erba nelle strutture del carrello e le ruote si sono fermate e ci si muove con il soffio dell’elica che taglia, instancabile, invisibili fette di cielo. Ricordo quando bambino sono riuscito ad avvicinarmi sino a toccarla una di queste macchine; avevo la stessa emozione di curiosità, timidezza ed ammirazione che ho avuto per la mia prima donna e capisco quel ragazzino, che mi stava attorno quando armeggiavo laggiù nel prato, con gli occhi pieni di voglie e timori per questa cosa che avrebbe poi visto prendere il volo come per un incantesimo. Sono sopra il grande fiume che un tempo è stato la mia palestra di giochi e che ora posso vedere da altre prospettive che uniscono boschi, spiagge, acque profonde e secche affioranti in un unico grande caleidoscopio di colori che entra dentro quasi a ferire lo stupore. Durante un volo ho intravisto nell’aria estiva davanti a me due punti sospesi che avvicinandomi ho definito. Era una coppia di poiane che veleggiavano in cerchio in una corrente ascensionale. Ho seguito il loro balletto aereo a distanza nel timore di disturbarle ed ancora oggi mi chiedo perché non ho spento il motore e non ho cercato di unirmi a loro in questo fantastico gioco aereo così diverso da quell’altro gioco terreno che ogni volta intravedo sulle strade domenicali colme di scatoline di lamiera colorata che si rincorrono ed incrociano affannosamente imitando le processioni delle formiche. E mi riempio di orgoglio e mi sento un eletto se penso a chi è prigioniero delle scatoline nel caldo e nella puzza dei gas di scarico e legato alle regole del traffico mentre io posso scegliere di andare a destra o sinistra, salire o scendere in questo puro elemento che mi accarezza ed avvolge sino a inebriarmi. Non si può descrivere cosa ti lascia dentro la vista di una spiaggia che scorre sotto di te in volo radente e improvvisamente sparisce sprofondando nelle acque increspate che sembrano i brividi del fiume. E nuovamente una spiaggia, e al di là un bosco di pioppi verde argento che ti si avventa contro e ti costringe a risollevarti. E, dopo averlo sfiorato, di nuovo giù su un dorato campo di grano punteggiato di rossi papaveri ed ancora più avanti il verde scuro dei prati di trifoglio con le gialle ferite lasciate dalle falciatrici. Ed ebbro di colori rituffarsi, con una decisa richiamata, nell’azzurro intenso del cielo sino a quando non rivedi sotto di te questa infinita scacchiera di colori che poco prima avevi sfiorato. Rondini, gabbiani, colombi, non vi invidio più; voi volate per vivere, io vivo per volare. 6 E quando scendo sul prato e la mia macchina termina dolcemente la sua corsa con le ruote sull’erba e spengo il motore devo sforzarmi per essere di nuovo me stesso con tutti gli affanni e le preoccupazioni che vengono a riprendermi. Ma per un poco ancora mi sento felice e leggero; le sensazioni appena provate formano una barriera che mi aiuta a ritardare la trasformazione. Mi tolgo il casco e a Giuliana che mi viene incontro chiedendomi apprensiva perché ho questa strana espressione e gli occhi così lucidi dico, per pudore, che il vento penetrato sotto la visiera difettosa me li ha irritati. Ritengo molto importante soffermarmi ora su necessità che appaiono forse meno evidenti ma che per i parenti sono particolarmente gravose e impegnative. E’ noto che la burocrazia nel nostro Paese costringe chiunque abbia necessità di svolgere una semplice domanda a disporre di molto tempo e molto spirito di sopportazione. Gli uffici con orari impossibili per chi ha un lavoro, la disinformazione e alle volte la mancata disposizione degli addetti rappresentano una specie di calvario che non sempre si è in grado di percorrere. Io personalmente ho avuto modo di capire che i vari Enti come Inam, Enpas, Inail…e molti altri ancora possono essere di vero aiuto se si ha la fortuna di imbattersi nella persona giusta. Altrimenti si è costretti a rinunciare per sfinimento o per mancanza di tempo. Non so a quanti è noto che parecchi Centri Specializzati Privati, quasi inaccessibili per gli alti costi dei ricoveri e degli esami diagnostici particolari, servono normalmente gli Ospedali Pubblici e che, con adeguate procedure, sono accessibili a tutti senza nessun onere a carico. Ho vissuto esperienze clamorose di ingenti spese sostenute e che in seguito sono risultate evitabili e totalmente a carico del Servizio Nazionale o di Dottori non in grado di fornire dati e chiarifiche per indirizzare i parenti dell’ammalato nello svolgimento di quanto necessario di volta in volta. E non è venalità cercare di limitare le spese: non tutti possono essere in grado di sostenerle e, in ogni caso, non è umanamente possibile fare un distinzione tra chi può pagare e chi no. Non soffermiamoci poi sulle difficoltà di ottenere, per le prestazioni, regolari fatture: senza queste ricevute non vengono quasi mai praticati rimborsi e non si possono nemmeno operare detrazioni sulle denuncie dei redditi. 7 Inoltre le strutture tecniche ospedaliere spesso sono antiquate o non in grado di fornire dei risultati veritieri: la TAC fatta all’Ospedale di Mantova a mia moglie ha dato l’esito esattamente opposto, e purtroppo veritiero, a quello avuto presso un altro ospedale. Più di qualunque altro, l’ammalato ricoverato in qualsiasi struttura pubblica, privata o, possibilmente, a domicilio ha diritto di trovarsi in un ambiente adeguato alle proprie esigenze ma soprattutto dove la dignità umana non viene violentata più di quanto necessario. OLTRE AL DOLORE In quel periodo uscì un farmaco, l’interluchina 2, che fece grande scalpore, sembrava dovesse fare miracoli e vincere il tumore. Ho fatto di tutto per averlo: si trovava solo in una clinica di Modena dove veniva prodotto artigianalmente da un ricercatore che ne disponeva di poche gocce al giorno. Mi disse: ”non insista. Abbiamo dei bambini, persone di 15 anni che hanno bisogno come sua moglie. Noi cerchiamo di salvare un bambino o un caso dove le possibilità sono più alte che non per sua moglie”. Il dolore fisico, negli ultimi mesi, veniva definito ‘quasi insopportabile’. I medici la narcotizzavano ed anch’io avevo l’autorizzazione a farlo. Quando mia moglie si è sentita molto male ed ha capito che stava morendo, io non c’ero, ero fuori Bologna. Quando sono rientrato, mia moglie, poche ore prima di morire, con un filo di voce mi disse: “credevo di non fare in tempo a vederti”. Poi, quando ha perso conoscenza, soffrendo tremendamente, con l’autorizzazione del medico, ho fatto l’iniezione finale, ho praticato l’eutanasia: un antidolorifico a dosi talmente alte che nelle sue condizioni significava farla crollare. Ero cosciente di questo, il mio medico mi aveva dato questa fialetta come ultima possibilità. E’ un farmaco non in vendita, non può essere tenuto in casa. Poche ore dopo mia moglie sarebbe morta ugualmente: ho la conferma del medico, non viene certo da me. I miei figli lo sapevano. Ho avuto una grande fortuna: l’aiuto dei miei tre ragazzi in un modo che non avrei mai pensato potessero fare. 8 Oltre al dolore, che ancora c’è, mi è rimasta una grande amarezza: le cliniche private e l’ambiente degli ospedali non sono posti che meritano un morente. No, non lo meritano davvero. 9 Chi sono ? di Roberta Battesini Da poco, da alcune intime amiche, mi faccio chiamare Calla. Sono volontaria dell’Associazione Maria Bianchi di Suzzara dal 1990. Essere vicino a chi soffre, a chi sa di avere poco tempo a disposizione è un’esperienza sconvolgente. E’ un percorso unico e irrepetibile che mi ha modificata piano piano e alla fine sono arrivata ad un punto di non ritorno e so con certezza che la mia vita può avere una sola direzione. “ Perché lo fai ? Qual è il comune denominatore che trovi in queste esperienze? “ mi chiedeva un’amica. Non lo sapevo. Strano, ma non lo sapevo. E da dieci anni ero volontaria ! Incredibile! Poi, un giorno di novembre dello scorso anno, mentre lavavo i piatti (le riflessioni migliori le ho fatte in cucina!), chiara come la luce del sole, la meravigliosa scoperta: l’amore. Poteva essere la cosa più scontata e invece ne avevo coscienza piena solo dopo 10 anni! So di vivere vicino agli ammalati terminali la più bella esperienza di vita che due persone possono fare: un’esperienza d’amore. Martedì 5 Maggio 1998 1° incontro Della signora Celestina so poco, quasi niente : è ricoverata in Chirurgia Donne al n° 25, ha 84 anni e da poco le è stato diagnosticato un tumore ovarico. Vive a Carpi, ma da quando la sua malattia si è aggravata si è avvicinata ad una delle figlie che vive a Suzzara (l’altra vive a Ferrara). La carenza d’informazioni mi provoca sempre ansia e tensione. Quando devo cominciare un’assistenza mi sento sempre incerta, insicura: vorrei conoscere già la persona. Invece dovrei pensare che io so già molto più di lei di quanto lei sappia di me. 10 Gli incontri programmati con la figlia sono due la settimana: il lunedì dalle 14 alle 16 e il mercoledì dalle 14 alle 17. Domenica 17 Maggio 1998 Per la seconda volta, quest’anno, sono andata a Firenze. Ho deciso, come la volta precedente, di non andare a teatro, ma di andare libera per la città: volevo essere trasparente e assorbente. Così giravo senza una meta precisa, guardando tutto con tranquillità e serenità. Qualcosa, lo sentivo, sarebbe successo. C’era un motivo, allora a me sconosciuto, per cui io mi trovavo a Firenze proprio quel giorno. Io sarei partita da Firenze più ricca. Così arrivo, nel primo pomeriggio, sul Ponte Vecchio. Sembra quasi deserto. Lo attraverso un po’ assente, guardando distrattamente le vetrine. A metà, sotto le arcate, quasi calamitata mi dirigo verso una figura. Non riesco subito a percepire bene cosa sia: se statua, o uomo, o angelo. E’ immobile. Io lo guardo spalancando gli occhi e resto come bloccata. Non un movimento, non un battito di ciglia: solo il suo vestito ampio, di seta blu, svolazza per la corrente d’aria che c’ è in quel punto. Io mi sento come sospesa: non respiro per non rompere l’incantesimo che ci circonda. Un bambino si avvicina ad un cappello posto lì, fra noi due, mette qualche soldo e …. per magia….l’angelo si muove: prima piano piano come se si svegliasse da un sonno profondo durato lunghi inverni; poi i suoi movimenti si fanno più sicuri e Pierrot sembra rivitalizzarsi sempre di più e si muove, e cammina, e corre …….e corre….fino a raggiungere un prato ricco di fiori colorati ed odorosi. Si china e ne coglie uno: è il più bello, il più profumato. Lo guarda contento, si riempie dei suoi colori e annusandolo ne coglie il profumo soave ed inebriante. Sorride col suo fiore meraviglioso tra le dita, ma sa già che non l’ha colto per tenerselo: lo deve donare. Lui l’ha solo trovato, ne ha ammirato la bellezza ma non potrà tenerlo: questo fiore è per qualcun altro. Si prepara a staccarsene. Il mimo guarda il fiore e guarda le persone che, nel frattempo, numerose, si sono avvicinate a lui. E io sono lì: ancora immobile e incantata. Lui guarda tutti e poi attraversa il breve spazio che ci separa e con riverenza gentile mi allunga il “ fiore della fantasia”. Non è realtà. 11 Vivo in un sogno. La mia mano, come ipnotizzata, accoglie quel fiore. Il mimo mi sorride, e lentamente si allontana ritornando al suo angolo. Immobile. La gente se ne va. Io sono ancora lì, davanti a lui. Aspetto, ma non si muove più. IL SOGNO SEMBRA FINITO. Ma qualcosa è successo. Guardo la mia mano destra: tre dita sono unite, serrate, quasi magnetizzate tra loro. La mano è paralizzata e io terrò per molte ore ancora quel fiore tra le dita. Lunedì 18 Maggio 1998 5° Incontro Mentre racconto alla Signora Celestina quello che mi è successo sul Ponte Vecchio a Firenze, le lacrime mi riempiono prima il cuore e poi gli occhi. Solo alla fine del racconto mi accorgo di avere nuovamente le dita della mano destra unite, come se avessi ancora il fiore del mimo. Sollevo lo sguardo a Celestina. Lei mi aveva ascoltata come rapita, in silenzio. “ Perché? Perché tra tante persone ha scelto me? Perché ha scelto proprio me? “ La guardo supplichevole: ho bisogno della sua risposta per capire. Lei dolce, serena, col viso rilassato e tranquillo mi risponde: “Tu non sei stata scelta: tu sei stata prescelta. “ Improvvisamente vengo contagiata dalla dolcezza delle sue parole: ora le lacrime non scendono più. Guardo il fiore che ancora tengo tra le dita e come fossi mossa da un’intuizione luminosa: “ Celestina, questo fiore della fantasia che il mimo mi ha donato, ora io lo dono a lei”. Così dicendo allungo la mano e lei prendendo il fiore mi risponde : “ ……E io te lo riporterò. “ Due giorni dopo, il 20 Maggio, Celestina muore e io ero con lei, con le figlie e i suoi nipoti. Quando mi accorsi che non dovevamo aspettare altri respiri mi sentii come liberata ed ero felice: provai la meravigliosa sensazione avuta dopo la nascita dei miei due figli: avevamo, insieme, partorito la morte di Celestina. 12 Stavo bene. Sapevo che una promessa l’avrebbe mantenuta: mi avrebbe reso il fiore che le avevo donato due giorni prima. Martedì 1° Agosto 2000 Sono passati più di due anni dalla morte della Signora Celestina. Ci sono state, dopo di lei, altre persone che io ho assistito. Esperienze importanti per me che mi hanno trasformata a poco a poco: scambi ricchi, intensi, profondi. Ho sperato sempre di poter riconoscere il fiore che Celestina aveva promesso di riportarmi. E ora io li ho riconosciuti. Martedì 5 Ottobre 1999 Ore 8, prima telefonata Mi telefona Marica anticipandomi una nuova richiesta di assistenza. Dopo appena cinque minuti squilla di nuovo il telefono. E’ il sig. Augusto di Roma che mi telefona e si presenta. A “ Ho avuto il suo numero di telefono da Marica” C “ Si, ci siamo appena sentite : aspettavo la sua chiamata!” A “ Ah si, che velocità ! “ dice il sig. Augusto piacevolmente sorpreso. “ E sa anche il perché chiamo?” C “ Marica mi ha fatto una sintesi veloce.” A “ Allora le faccio una minicronistoria. Mi chiamo Augusto B. (con la i finale come il plurale di B…..o) e sono di Roma. Vivo a Bardolino. Bardolino è bella, dolce, panoramica, ma purtroppo io ci vengo per poter fare la terapia presso l’Ospedale di Mantova perché per tre giorni la settimana sono a Roma per curare mia moglie che ha, dal ’96 un tumore ovarico…..dal 1° Aprile del ’96. Ha subito tre interventi per tre recidive e il lunedì, martedì e mercoledì lei fa le cure a Roma. Le dico che è morta anche mia madre di tumore al cervello e il paradosso…. non si può dire tragedia…..il paradosso vuole che anch’io abbia un tumore al pancreas da luglio di 13 quest’anno e che curo con la chemio qui a Mantova. Ci sono anche lesioni al fegato e sono diabetico da cancro. Prima ero in terapia a Roma da un mio amico professore, poi il mio caso è stato seguito dalla Dott.ssa Cavazzini di Mantova che si è mostrata ben felice di curarmi qui, a Mantova. Ora stanno trasferendo anche il protocollo di mia moglie a Mantova: la terapia la farà settimanalmente, ogni venerdì, alle ore otto. Sa, io seguo la terapia ufficiale, non approvo Di Bella….anche perché c’è una storia di guaritori Filippini che le racconterò. Quindi solo protocolli e terapia ufficiali ! Io faccio la terapia ogni 20 giorni. Cerco un aiuto a livello psicologico e relazionale per avere qualcuno, un anonimo, con cui parlare. Nell’Ospedale si è solo numeri! Non abbiamo figli e mia sorella, che ci sostiene ma vive a Roma dice che è difficile non spararsi in questa situazione. Sa, devo anche aiutare mia moglie e tutto è veramente difficile!” C “Ho capito. Per lei è importante avere vicino un volontario uomo o donna ?” A “No, no, non fa differenza . Forse, una volta!… ma ora… Ho 61 anni e ho lavorato per una compagnia aerea del Sud Africa; mia moglie ha 56 anni ed era hostess: siamo abituati alle persone, a vivere con gli altri, a stare in mezzo alla gente!“ C “Se è così, posso essere disponibile io e cercare subito di incontrarci!” A” Allora le posso dare il numero del mio cellulare…ma non ce l’ ho qui…devo andare in stanza ….sono in un telefono pubblico!” C “Io aspetto….” A “Non mi scappi… rimanga in linea…” Quando arriva al telefono è tutto trafelato e mi dà il numero del cellulare e anche il numero di telefono di Bardolino. Cerco di fissare subito un incontro, anche per il pomeriggio di oggi o domani perché poi Venerdì prossimo io non potrò esserci perché: C “Il caso vuole che io, Venerdì, Sabato e Domenica prossimi, sia proprio a Roma…” Il signor Augusto si anima tutto e mi chiede: dove a Roma... cosa andrò a vedere a Roma e così mi inonda di piacevoli informazioni che solo un romano de Roma può sapere. A “Lei dovrebbe andare alla Trattoria Lilli, Via Tordinona, 26, vicino a piazza Navona, e chiedere di Patrizia e Silvio: il cuoco. Sono amici miei, dica che la mando io e li informi che sono ammalato. E’ da tempo che non li vedo! Se vuole mangiare bene chieda la “ pasta 14 alla matriciana e vitello alla fornara! “.. Mamma mia… e io non li potrò neanche più vedere questi piatti!“ C “Sicuramente ci andrò“ A “Ma lei cosa andrà a vedere? Di che cosa si interessa ?” C “Non lo so , perché il programma lo farà un amico di mio marito e io ho intenzione di lasciarmi trasportare da Roma, senza meta !” A “Vada a vedere la facciata di San Pietro!” C “Ma l’ ho già vista!” A “Si, sì: è stato scoperto anche un colore celestino nuovo! E poi vada in piazza Barberini a visitare la Chiesa dei Cappuccini, all’inizio di Via Veneto. E’ ricca di scheletri (non si impressioni!), di scheletri lavorati: c’hanno fatto degli oggetti con gli scheletri!… E… le piace la pizza?“ C “ Moltissimo.” A “Allora: vicino a Piazza Navona c’è la pizzeria del “ Baffetto”, in Via del Governo Vecchio. Vedrà che c’è la fila, e se c’è la fila vuol dire che la pizza è buona….Ma quando ritorna?“ C “ Lunedì sarò già a Mantova!” A “E con chi ci va a Roma ?” C “Con mio marito.” A “Che fa di bello suo marito ?” C “E’ artigiano e col fratello ha una officina.” A “E lei signora, lavora ?” C “Si, lavoro a part-time in una azienda alimentare.” A “Ha figli?” C “Si, due.” A “Grandi?” C “Lorenzo si è laureato quest’anno !” A “In che ?” C “In Ingegneria Meccanica!” A “Signora, tanto di cappello!” C “Perché?” A “Io sono laureato in Economia e Commercio, ma davanti alla laurea in Ingegneria Meccanica io mi inchino!. Per me è il massimo: per averla bisogna lavorare duro, vero signora? Almeno 10 ore di studio al giorno!! E l’altro suo figlio che fa?” 15 C “Studia.” A “Dove? Cosa? “ C “A Parma e frequenta il terzo anno di Ingegneria Meccanica.” A “Pure.. pure lui.. mamma mia, madre di due ingegneri!“ dice quasi divertito il signor Augusto. Ci scambiamo ancora i numeri di telefono: A “Signora, dalle 14 alle 16, tutti i pomeriggi, i telefoni sono staccati perché la madre di mia moglie, anziana, deve riposare e anche noi ne approfittiamo. Allora ci possiamo risentire Lunedì, quando rientra a Mantova.” C “Se ha bisogno mi chiami anche prima: io sono fuori da Venerdì a Domenica compresi! Diversamente ci sentiamo Lunedì” A “Va bene. La saluto e mi saluti la “ Sacra famiglia “!“ Mercoledì 10 Novembre 1999 5° incontro a Bardolino Il sole c’è, anche se fa un po’ freddo. Ho pensato di partire per Bardolino verso le 14,30 per poter essere là verso le ore 16: non so se anche con la raccolta delle olive Vera ed Augusto andranno a fare il riposino. Comunque conto di andare là con calma anche per gustarmi il tragitto verso il lago di Garda. Non nascondo di essere un poco agitata anche perché non sono frequenti i miei spostamenti in auto e quindi anche il raggiungere una meta nuova è fonte di ansia per me. Però tutto viene superato al solo pensiero di poter incontrare Vera ed Augusto a casa loro, nel loro giardino così tante volte descritto. Prima di partire ricevo la telefonata di Lorenzo che rientra da Bologna e sarà alla stazione di Suzzara alle 17. Andrà suo nonno Orlando a prenderlo. Alle 14,15 parto. Il viaggio è abbastanza tranquillo anche se non riesco a rispettare il percorso programmato sulla carta : troppo traffico in città, rondò incomprensibili e segnalazioni distorte mi fanno molta confusione. Per fortuna di tanto in tanto compare l’indicazione: “ Lago di Garda” e io vado secondo le tabelle, senza preoccuparmi se i paesi sono diversi da quelli studiati sulla carta ( che comunque ho con me ! ). E’ da tanto tempo che non vado sul Lago di Garda e da sola, poi, non ci sono mai andata! 16 Il percorso é abbastanza tranquillo ed è piacevole: il tratto di “ gardesana ” quasi deserto. Luoghi come “ Gardaland “ o le piscine “ Caneva ” sono quasi impossibili da raggiungere in estate ed ora è tutto tranquillo e le aree gioco sono silenziose. Anche i campeggi sono silenziosi e tutto mi sembra veramente strano. La tranquillità però mi fa stare bene. Sono pronta anche a non trovare Vera ed Augusto ed è per questo che cerco, comunque, di godermi questa mezza giornata autunnale. Se non li troverò, mi fermerò in qualche posto tranquillo, qui al lago. Il sole comincia a scendere e una leggera foschia è calata sul lago quando mi fermo in un bar di Cisano. Chiedo un caffè e la guida telefonica di Verona. Mi siedo a tavolino e sfoglio decisa l’elenco alla ricerca di Bardolino e poi del cognome B…..i, per poi ricavarne l’indirizzo. Non nascondo che temevo di non trovare il loro nome sulla guida. E invece, eccolo: B…..i Augusto, V. Paerno, 25 Tel ………; controllo il numero: corrisponde a quello che ho io. “Bene – mi dico – non mi resta che cercare la via“ e così vado in centro a Bardolino. Parcheggio l’auto sulla strada principale, vicino ad una chiesetta chiusa. Scendo la strada ed entro in un negozio di “ottica” . Chiamo, ma non c’è nessuno all’interno. Quando esco trovo un uomo che mi viene incontro uscendo dal bar di fronte con un caffè in mano. “Desidera qualcosa ?“ mi chiede. “Sì : può dirmi dove si trova Via Paerno?“ L’uomo si gratta in testa e mi manifesta tutta la sua difficoltà: “ Non è facile andare là….é in alto… e la strada….la strada …. Senta: giri subito a sinistra, uscendo di qua, e poi….no…no… vada all’incrocio grande e poi giri a sinistra…. prosegua lungo la strada fino al bivio, dove c’è un capitello, lì giri a sinistra e poi subito a destra…. la strada è stretta e in salita…. lì , in fondo , troverà via Paerno…“ Mi fa ripetere gli appunti che mi ero scritta e poi mi saluta. Io risalgo in auto e seguo le non facili istruzioni fino a trovarmi lungo una stradina stretta, ripida, ma asfaltata. Ho bisogno di chiedere se mi trovavo nella direzione esatta e così entro in uno spiazzo con alcune case: un ragazzo mi conferma che devo proseguire fino in fondo e poi girare a sinistra. E infatti, dopo avere seguito le informazioni, mi ritrovo proprio davanti al cartello di via Paerno. Ora la ricerca si fa più ansiosa e il cuore comincia a tormentarmi. La strada si erpica ancora e comincio a guardare i numeri dispari che sono alla mia sinistra: 1 – 3 - 5 17 …..23 - e poi un grande passo carraio con un cancello spalancato con un cartello enorme: Proprietà Privata. Non vedo il numero e allora proseguo girando ancora a sinistra per via Paerno bassa. La strada diventa ora viottolo stretto e si inoltra in mezzo ai boschi. Trovo alcune case, ma ho l’impressione di essermi allontanata dalla meta. Ritorno indietro e ad un uomo che portava in giro un cane per i boschi chiedo dov’è il numero 25 di via Paerno. “Non sono del posto – mi risponde – io porto solo in giro il cane e non so aiutarla!” Ritorno davanti all’ultimo cancello e parcheggio l’auto in una piazzola poco distante, vicino ai bidoni delle spazzature. Sono decisa a lasciare l’auto e a proseguire la mia ricerca a piedi. Ritorno davanti al cancello e in un angolo, nascosto da arbusti verdi, trovo il numero 25 ! Entro con circospezione e mi incammino lungo il sentiero. C’è un grande silenzio intorno e il profumo di bosco che mi arriva alle narici sembra darmi vigore ed energia. Da molto tempo non entravo nei boschi e in autunno sono stupendi: profumi intensi di piante che non distinguo mi stordiscono un poco. Tutto intorno è bellissimo perché selvaggio, ma nello stesso tempo niente sembra essere lì per caso. Mi colpisce una vegetazione fitta di bambù e di piante grasse e poi, dopo aver camminato un bel po’, ecco gli ulivi. “Sono arrivata!“ mi dico. Ma nessuno è intorno alle piante e rimango delusa. Più avanti altri ulivi con le reti sotto. Li conto: sono circa una decina; proprio come mi aveva detto Vera. E c’è anche un uomo in giardino, con una carriola, che mi guarda da lontano. La casa è moderna e grandissima e tutto intorno un parco stupendo con tanti alberi curati e un prato rasato ancora verde. Vado al cancello e leggo i cartelli: Attenti al cane. Già, Vera mi ha detto di avere un coker. E c’è anche il cartello del sistema d’allarme. Però sul campanello non c’è il nome! Sono convinta di essere veramente a casa dei Signori B…..i, perché tante cose coincidono. Ma il parco attorno alla casa è davvero speciale: non conosco i nomi di tutte quelle piante, ma noto la cura con cui sono state piantate e la loro disposizione: tutto così armonioso e bello. Entro nel parco della villa, e cammino piano piano alla ricerca del giardiniere. Lo intravedo da lontano mentre con la carriola va verso la serra. Così, camminando molto lentamente e sempre pronta a dare una risposta a chi mi avesse fatto domande, vado sul retro della casa in cerca del giardiniere. Appena lo vedo uscire dalla serra chiedo subito: “Scusi, abitano qui i signori B…..i ?” 18 “No” mi risponde lui. Ho un sospiro di sollievo! Veramente mi ero immaginata, dalle descrizioni di Vera ed Augusto, un giardino e non un parco del genere intorno ad una villa gigantesca. Sapere che né Vera né Augusto abitavano quella casa così fredda e deserta mi faceva stare meglio. “Qui abita una signora tedesca!” e mi dice il nome che ora non ricordo. C “Anche la signora che sto cercando io ha la madre tedesca….che sia lei ?“ Il giardiniere mi risponde che forse la signora padrona mi potrà aiutare, ma nessuno apre l’enorme portone di casa che il giardiniere bussa ripetutamente. “Senta – mi dice – più avanti, lungo la via, ci sono altre quindici o venti case, abitate quasi tutte da tedeschi! Dovrà provare più avanti. Ma prenda l’auto, perché la via è lunga!“ “No, no – rispondo io decisa – preferisco andare a piedi“ ed esco dal parco salutando il giardiniere. “E’ stata una fortuna non aver conosciuto il cane!“ pensavo io uscendo dal parco. La casa dopo non ha il nome del proprietario sulla cassetta delle lettere. Allora cerco di leggere l’indirizzo sulle buste infilate dentro la cassetta delle lettere. No, non sono loro. E così scendo lungo la strada e incontro case che sono del tutto deserte: non una imposta aperta, nessun rumore, niente nomi sulle cassette delle lettere. Così io non so se anche per i Signori B…..i sarà così: se non c’è il nome al cancello, sarà dura scovarli!. Passo le case ad una ad una senza risultato. E non c’è anima viva a cui chiedere. Le ombre, in alcuni tratti della stradina, sono ormai lunghe e sembra quasi buio. Ad un certo punto mi prende la paura e forse sarei anche tornata indietro se due cani non mi avessero seguita festosi per un buon tratto. Fra paura, ansia e testardaggine proseguo lungo la strada che non sembra avere una fine. Ma fortunatamente vedo un’auto rossa che fa manovre per uscire da un viottolo. Mi fermo davanti al passaggio, proprio sul mezzo: sono decisa a fermare l’auto per chiedere informazioni. Sono controluce e ora vedo solo l’ombra dell’auto che viene verso di me. Alzo il braccio per arrestarla e avvicinandomi, chiedo: “ Scusi,….sa…..” “Ma…..ma…. ma cosa fai qui ? Ma tutta matta sei……!!.” Era il signor Augusto! Non ci potevo credere! Lui, proprio lui. Ero terribilmente contenta e non riuscivo a controllare la gioia di averlo finalmente trovato! 19 Lui pure era incredulo di trovarsi me davanti e continuava a chiedermi: “ Ma come hai fatto ?… come hai fatto! … Dai, sali…. che ti porto a casa da Vera … Ma non è possibile!…Ma lo potevi dire: ti venivamo incontro. E la macchina?… Su, sali… sto andando al frantoio coi sacchi delle olive!“ “Accidenti, sono arrivata tardi: contavo di aiutarvi !” La nostra gioia è grande. Sono contenta di averli trovati e di aver fatto loro questa sorpresa, e lui è così meravigliato e non sa più cosa fare. Così comincia a suonare il campanello e a chiamare Vera (il nome sul loro campanello c’era!) e poi mi accompagna, attraversando velocemente il giardino di Vera, verso la casa. Io lo seguo a fatica e non ho nemmeno il tempo di guardarmi attorno: sento solo sprofondarmi nella tenera erba del prato mentre lui continua a chiamare Vera ad alta voce. Mi accompagna alla piccola scarpata che era stata per loro fonte di grande preoccupazione e alla quale avevano dedicato tutte le loro attenzioni. Me la mostra dall’alto. “Puoi scendere lungo il percorso fin giù. Sapessi quanto lavoro per impedire che questa scarpata crollasse!“ E mentre io scendo lui si allontana e va a chiamare di nuovo Vera senza ancora dirle che io ero venuta a trovarli. Quando alzo lo sguardo vedo Vera appoggiata, là in alto, alla staccionata e, meravigliata, mi saluta gioiosamente. Risalgo in fretta e ci salutiamo calorosamente. Siamo tutti eccitati, persino la cagnetta Bonnie: una bella cokerina dal pelo nero e lucido. Vengo presentata anche alla madre di Vera: una bella signora di 86 anni che parla il tedesco – la sua lingua – l’inglese e pochissime parole di italiano. Vera si cambia le scarpe, si infila un golf e dopo aver chiesto alla madre di preparare un caffè lungo, alla tedesca, noi usciamo. Mentre Augusto va, finalmente, al frantoio a portare i sacchi di olive, Vera mi fa vedere tutte le piante e i fiori che sono stati piantati e mi parla di come è stata salvaguardata la scarpata. “Sai, c’erano state abbondanti piogge e il terreno franava tutto! Allora abbiamo chiamato una ditta specializzata, di Bolzano, che per mezzo di un enorme “ragno” ha rafforzato tutta la scarpata inserendo dei tronchi di larice in orizzontale e in vari strati. Così ora la scarpata è sicura ed agibile“. Poi Vera ha pensato di mettere piante e cespugli perché le radici tenessero compatto il terreno. 20 “Vedessi a primavera i colori che ci sono… e le piante che qui nascono spontaneamente!“ E mi descrive con trasporto tutte le piante che ha messo lei e i colori dei fiori a primavera e in estate. Capisco il suo amore per quella sua scarpata: ogni pianta, ogni fiore, ogni sasso è stato scelto da lei e voluto da lei. Poi, con sua grande meraviglia, la natura porta semi nuovi, e nuovi e imprevedibili colori si aggiungono. Lei aspetta con trepidazione che quei semi sconosciuti diano fiori nuovi che ancora non conosce. E mi parla della sua attesa, nella primavera passata, davanti a due cespugli a lei sconosciuti: “…. e poi a primavera inoltrata: una bellissima macchia di fiori blu!“ Il suo è un amore infinito, incondizionato e si scusa con me perché lungo il sentiero ci sono alcune erbacce strappate, ma non portate nell’apposito contenitore dei rifiuti. Si scusa quasi io avessi trovato in disordine il suo ambiente! Rimaniamo lì, andando su e giù per circa venti minuti: ormai è sera e rientriamo in casa per bere il caffè lungo lungo, alla tedesca, accompagnato da deliziosi biscottini fatti dalla mamma di Vera. Chiedo a Vera di farmi vedere i lavoretti che sta preparando per il Natale. Così mi accompagna in un salottino da lavoro: sta facendo palle per l’albero di Natale e piccoli mazzetti di fiori utilizzando i semi delle piante o ghiande intrecciati con nastrini, perline, fili d’oro e d’argento. Tutto è così grazioso! Anche la casa è molto bella, arredata con molto gusto: è piacevole e tutto così femminile! Si sta bene, dentro. Ma ancora Augusto non è tornato! Poi Vera mi accompagna su al primo piano e mi mostra il resto della sua casa. Proprio allora arriva Augusto: è come un tornado! Va su , e poi va giù; e poi se ne va e quando ritorna accende la luce di una vetrinetta dicendomi: “Lì dentro ci sono tutti i viaggi di Vera! Le cose belle sono sue, quelle brutte sono mie!” Gli oggetti della vetrinetta sono tanti, raffinati e denotano la loro origine. Ma ad un certo punto vengo attirata da una foto: “Vera, sei tu questa?“ chiedo. “ Sì “ mi risponde sorridendo. “Sei bellissima!“. E’ una foto bellissima di Vera: ha i capelli biondi, lunghi fino alle spalle, pettinati all’insù. Indossa un abito originale, ma stupendo, color rosa confetto: giochi di stoffa a pieghine sulle spalle sembrano ali d’uccello o forse di angelo. Resto muta e incantata! 21 Allora Vera mi mostra il suo album di foto: sono le foto del suo matrimonio! E la foto che mi aveva colpita ritraeva lei nel giorno in cui si è sposata con Augusto. E così sfogliamo il suo album e lei è veramente radiosa. Sembra una modella: alta e slanciata e con quell’abito semplice, ma straordinario. “ Quando vi siete sposati? “ chiedo. “ Nel 1984 “ mi risponde Vera. Le foto sono molte e tutte molto belle, specialmente quelle dove c’è lei. Noto come Augusto sia cambiato: era più robusto di ora. Mentre guardo le foto, arriva Augusto che mi mostra il suo libretto universitario. “ Vuoi fargli vedere quanti capelli avevi da giovane?“ scherza Vera. “ No, voglio farle vedere il mio libretto tutto scritto a mano, ora ci sono i computer, ma allora … a mano… e poi, vedi… guarda… cinque anni iscritto senza dare esami. La vita che ho fatto per nasconderlo ai miei! E poi, guarda: quando ho cominciato a darne uno poi ho finito alla svelta…”. Purtroppo sono quasi le 18 ed io devo rientrare a casa. Saluto la mamma di Vera, poi Vera. Augusto mi riaccompagna alla macchina. Ormai è buio e lui mi consiglia di prendere l’autostrada ad Affi: mi accompagnerà lui, precedendomi con la sua auto, fino al casello autostradale per una scorciatoia. Durante il breve tragitto verso la mia auto ridiamo, parliamo: veramente siamo contenti. E’ stato un pomeriggio speciale e lo sappiamo tutti e tre, o forse tutti e cinque (Bonnie inclusa!). Per qualche giorno vivrò l’effetto alone di questo pomeriggio. Ritornata a casa ho l’impressione di aver vissuto in un sogno: il percorso verso Vera ed Augusto, il viottolo, la loro ricerca, la paura di non trovarli, e poi la gioia dell’incontro, la sorpresa e la meraviglia di trovarmi nel loro ambiente, a casa loro, fra le loro cose, nel giardino di Vera. Mi ricordo la prima telefonata di Augusto: “Qui tutto bello, panoramico, ma ….” E là tutto è bello e panoramico: è come vivere in Paradiso. Mantova sembra lontana e l’Ospedale un incubo lontano. Il reparto di oncologia e il day hospital: un Inferno….. 22 Sono convinta che è proprio il posto dove hanno deciso di vivere che dà a loro tante forze ed energie: è quasi impossibile pensare di essere ammalati in un posto così bello! No, per ora, la malattia, la sofferenza, l’ansia viene relegata a Mantova: Mantova parentesi infausta. Per fortuna poi si rientra a Bardolino. Lassù, in alto, in mezzo ai boschi, ancora, forse, ci si può nascondere. In un posto così bello, forse, ci si può difendere dalla malattia. E, forse, è proprio questa natura così amata che stimola, incentiva, ricrea e dà un senso forte alla giornata e permette di mettere in secondo piano la sofferenza. C’è un fiore da piantare, c’è un’erba da togliere, un sasso da sistemare, quella pianta da potare, il prato da falciare e poi…laggiù…. il lago da guardare…e il profumo dei boschi da annusare …e il rumore del Vaio, in fondo alla scarpata, dove fa cascatella, da ascoltare…e Bonnie…. su Bonnie vieni….vieni qua…dai….vieni qua…….. Venerdì 10 Dicembre 1999 8° incontro presso l’Ospedale di Mantova Il tempo che mi serve, una volta lasciato il lavoro, per arrivare a Mantova lo spendo tutto nel pensare al prossimo incontro. Cerco di rivedere gli incontri precedenti, di focalizzare meglio un atteggiamento, una frase per capire meglio la situazione. Mi sarà difficile farlo dopo, perché gli incontri con Augusto sono sempre imprevedibili e quindi diventano molto dinamici e creativi. Con lui mi sento in pieno mare, sospinta su e giù, avanti e indietro, è difficile tenere la rotta e rimanere come punto di riferimento. Spesse volte ha tentato pure di coinvolgermi o di provocarmi su problemi che io sento particolarmente (in questo momento sono presa anche da problemi relazionali in famiglia: Renato soprattutto, Lorenzo che sta per finire la sua esperienza all’Istituto Psichiatrico Roncati di Bologna e dovrà cominciare a cercarsi un lavoro). Non nascondo che Augusto mi ha tentata e in alcuni momenti sono stata sul punto di esporre i miei problemi. Per fortuna non è accaduto anche perché so che questo avrebbe aggravato il nostro rapporto appesantendolo di fardelli di cui Augusto deve fare a meno. Quindi non è facile il dribbling per tenere Augusto lontano pur mantenendo un rapporto di verità e sincerità. 23 Nel corridoio dell’attesa, seduta in fila, insieme a tanti altri, scorgo Vera. Subito mi dirigo verso di lei e cominciamo a parlottare fittamente. Poco dopo viene chiamata in una salettina a due letti e lei viene fatta accomodare su una sedia. Io resto fuori in attesa che esca l’infermiera. Ed ecco sbucare Augusto. Ci salutiamo, ma lui non è come sempre: lo vedo preoccupato e cerca Vera. “ E’ qui “ e gli mostro la stanza . Augusto entra e comincia la sua parte da intrattenitore. Di sfuggita però mi allunga un articolo di giornale e vuole che lo legga. Si tratta dell’articolo di Repubblica con la testimonianza di Indro Montanelli: rivendica il diritto di libertà di scelta: decidere di morire spetta al soggetto stesso e quindi appoggia l'eutanasia attiva. Avevo già letto quell’articolo e lo dico ad Augusto. “Ah si? Ma proprio questo? O hai letto la Gazzetta di Mantova?!” Lo assicuro che si trattava dell’articolo di Indro Montanelli su Repubblica. Allora lui mi dà, sempre con fare complice, un altro articolo: “Leggi anche questo: è interessante!” Ma non riesco a concentrarmi sulla lettura e rimango col pezzo di giornale in mano perché seguo le evoluzioni di Augusto. Le altre due pazienti e la nipote di una di queste sono catturate da Augusto e ridono divertite alle sue battute. Io me ne sto in disparte, vicino a Vera: entrambe guardiamo Augusto in silenzio. Alla fine Augusto si rivolge a Vera per dirle che, anche se piove, andremo a fare un giro in centro per sbrigare alcune commissioni. E poi, rivolto alle due pazienti e alla nipote: “….e già, perché io ho due donne: una che sta con me e una di Suzzara…ho anche quella di scorta!” Io e Vera ci guardiamo e sorridiamo, mentre le altre tre donne ironizzano. Salutiamo ed io ed Augusto usciamo. Appena fuori dalla stanza Augusto si trasforma: il suo viso si impietrisce e mi dice di non capire i risultati delle analisi della moglie. I marcatori di Vera sono saliti, e lui non sa spiegarsi il perché ed è insoddisfatto delle spiegazioni avute dai medici. E’ anche arrabbiato perché il prossimo Venerdì 24 Dicembre, non verrà fatta la terapia a Vera. E aprendo l’auto lo sento ripetere: “ Santo cielo, almeno lei…. di due….almeno lei…..” 24 Seguo Augusto in silenzio e mi siedo in auto con lui. La sua guida è agitata e sempre mi chiede la strada per arrivare in centro, e ad una rotonda, non segue le indicazioni e sbaglia direzione. Ormai l’abbiamo fatta tante volte la strada che dall’Ospedale va in centro, ma ora Augusto sembra averla completamente dimenticata. Il pensiero di Vera gli riempie la mente ed oltre a questo è palpabile che sta per dirmi qualcosa di importante. Sta faticosamente trovando il modo per controllare tutto il peso che ha dentro, darvi un ordine e poterlo fare uscire senza esplosione. Prende fiato e fermandosi molto spesso per avere il tempo di sedare l’angoscia che lo assale e gli attanaglia la gola, comincia a parlare: “Devi leggere quell’articolo che ti ho passato e leggerlo molto attentamente. Perché io sto pensando veramente di iscrivermi a quella associazione elvetica “ Exit”. Non voglio ridurmi come mio padre e non voglio che Vera mi veda così! Lei ha bisogno di pensare a se stessa, non riuscirebbe a pensare anche a me. Ho già telefonato e preso contatti, ma ancora non ho avuto risposte precise. Ma sto prendendo questa decisione.” Io rimango silenziosa ad ascoltarlo. Non sono sorpresa delle parole di Augusto: mi aspettavo da lui proprio quello che mi stava dicendo. Ma nonostante ciò, mi sentivo girare la testa e per un po’ rimango quasi bloccata davanti una montagna impossibile da scalare. E lascio che le parole di Augusto mi penetrino fino in fondo all’anima e le sue parole sono come una doccia gelida che mi investe violentemente. Sono tentata di scappare, di non sentire, ma sono anche fisicamente bloccata lì, vicino a lui , mentre lui continua dirmi: “Sai, è venuta mia sorella e non l’ho detto a lei, e nemmeno con Vera ho parlato di queste cose. Ne parlo con te!” E queste parole mi fanno aprire gli occhi e l’anima. Vedo la sofferenza di Augusto e la vedo in una luce piena, la vedo fino in fondo, vedo le sue angosce, le sue paure, la paura di non farcela e il suo desiderio di non fare soffrire Vera. Vera che, a suo parere, non riesce a badare a se stessa, che si dimentica le medicine, che non telefona al medico per… Vera non può badare anche alla madre… e poi a lui… e quindi è meglio pensarci per tempo e deciderlo presto. Ora riesco ad ascoltarlo e a capirlo, ma sto cercando anche di dargli la possibilità di ragionare fino in fondo, di vedere le cose da vari punti di vista, di sondare meglio, e soprattutto di conoscere bene Vera. 25 Siamo arrivati vicino alla chiesa di S. Francesco. Lui mi lascia in auto con Bonnie, la cokerina nera, col compito di leggere la cronaca di una storia di eutanasia attiva, mentre lui si allontana col mio ombrello per cercarsi un paio di mocassini che ancora non ha trovato. In macchina leggo l’articolo e quando Augusto ritorna, dopo circa dieci minuti, mi propone di andare in un caffè all’angolo. Seduta a tavolino c’è solo una persona e noi due prendiamo posto vicino alla porta . Il caffè è stretto e mi sembra impossibile poter parlare con Augusto di cose così grandi in così poco spazio. Inoltre Augusto è proprio seduto vicino alla porta e deve ritirarsi ogni volta che entra o esce qualcuno. Nonostante ciò, mi parla della sua esigenza di fare qualcosa, di pensare prima alla soluzione della sua vita. “Sai, in questa settimana ho avuto momenti in cui mi sono mancate le energie, dei cali vistosi. Capisco che peggioro. E sai cosa vuol dire….però….prendere questa decisione?“ Mi guarda fisso negli occhi in un silenzio inquietante. “ NO – rispondo – dimmi cosa significa per te “. “Vuol dire che io, poi, vado a trovare mia madre ….” e fa segni circolari con le mani sul tavolino…come se volesse dirmi che il ciclo così si chiude. Non riesce più a parlare e sta piangendo. Io sono immobile davanti a lui. Rispetto il suo silenzio e le sue lacrime. Mi trattengo da ogni minimo movimento e quasi religiosamente lo guardo. Sono serena, ora, e tranquilla e credo che la mia serenità lo contagi, perché a poco a poco si calma e quando riprende a parlare lo sento più rilassato. “ Bevi il tuo cappuccino , si sta raffreddando “– mi consiglia alzandosi per pagare il conto alla cassa. Io bevo lentamente il cappuccio rimanendo ancora seduta a tavolino. Lui torna a sedersi e continuiamo a parlare nonostante ora, nel caffè, ci siano molte persone. Ma nessuno di noi due le nota, anzi la confusione e il chiasso ci proteggono ancora di più. “Tu cosa ne pensi dell’eutanasia? Ti è capitato ancora nelle tue assistenze?“ mi chiede. “ Posso dirti quello che ho provato io quando sono stata vicino a mio padre!“ “Sai, io ben due volte ho tentato di chiudere la flebo a mia madre, ma poi non ce l’ho fatta!” mi confessa. 26 “Ho desiderato anch’io la morte di mio padre: lui aveva un tumore polmonare con metastasi ossee. Una domenica mattina, presto, ho desiderato per lui di avere una fiala e di farla finita. Era stato in coma per una notte e il suo risveglio mi ha trovata impreparata. Era uno stress e un’ansia incredibili e non potevo sopportare la sua sofferenza e dover ricominciare tutto di nuovo!“ “ E poi come andarono le cose ? “ mi chiede Augusto “ Mio padre visse ancora un mese e fu un mese bellissimo. Furono sospese, anche per sua tacita volontà, tutte le terapie, ad esclusione della morfina. Ma nel ’90 questi farmaci erano estremamente controllati ed io ero terrorizzata solo al pensiero di rimanere senza e non poter sedare il suo dolore fisico. Però è stato un mese ricco di emozioni, di dolcezze. Mio padre ebbe modo di salutare mia madre e andarsene tranquillo pur in una grande sofferenza.” “Io non voglio far soffrire Vera. Non ho paura della morte, ma è per Vera che ho paura!” “Potresti parlarne a Vera. Può essere che tu stia sottovalutando l’amore di Vera per te o le sue capacità di starti vicino” “E come faccio a parlare con Vera? Lei rifiuta…rifiuta…nemmeno si può ipotizzare di parlare con Vera!” “Capisco….ma forse Vera è così, perché non sa tutta la verità!” “Ci devo pensare io a queste cose…devo mettere le mani avanti…non si sa mai….forse potrei proprio averne bisogno!” riconferma. “Se questo ti dà serenità, allora è bene che tu faccia quello che tu ritieni giusto fare. Se ti serve per sentirti più sicuro e per avere una tua ultima possibilità….è bene quello che fai…Vuoi scegliere tu…tu pensi di avere il diritto di scegliere…” A questo punto Augusto ribadisce che vuole avere questa carta da giocare, proprio in extremis. Mi sembra che ora prospetti questa decisione da prendere proprio alla fine, quando…. Ero consapevole di una cosa durante tutta la conversazione: dovevo accettare tutto di Augusto, accettare di parlarne e quindi dovevo escogitare qualsiasi espediente perché Augusto continuasse a parlarne. Anche se all’inizio ero tremendamente spaventata, man mano che io ed Augusto parlavamo, sembrava che pian piano si smorzasse e si sgonfiasse quella tensione presente all’inizio. 27 Usciamo dal caffè e ci dirigiamo alla sua Banca. Io lo prendo sottobraccio per stare meglio sotto l’unico ombrello che abbiamo e ci troviamo a camminare speditamente per le vie di Mantova, sotto l’acqua e un vento gelidi. Ora parliamo di Napoli, delle bancarelle di Natale; ci fermiamo a chiedere informazioni ad un mercante di Rimini che vende padelle. Augusto scherza, ma non è plateale, commediante, lo sento sincero e più leggero. Mentre ritorniamo verso l’auto, verso le 13, mi chiede altre informazioni sull’Associazione e se avevo assistito altre persone col tumore al pancreas. “Sì - rispondo - una signora, nel ’94“ “E quanti mesi è vissuta ?“ “Circa quattro, cinque mesi!” Ormai siamo arrivati all’auto e siamo accolti dai festeggiamenti di Bonnie. Augusto continua a parlare di eutanasia fino a quando, aprendo la porta del reparto che conduce a Vera lo sento dire : “Ed ora rimettiamoci la maschera!” e così fa, meravigliando ancora una volta tutti i presenti. Andremo poi, ancora una volta, a pranzare insieme, ma nulla o pochissimo viene detto: si parla di Napoli… di Beirut…dell’India…di cibi…e di altre cose che in quel momento sentivo non interessavano nessuno. Augusto mi lascia di frequente con Vera; è evidente che è molto preoccupato per lei: i marcatori sono saliti e viene prospettata per lei una nuova terapia, più intensa. Lui mi lascia con Vera perché io possa parlare con lei, ma mi è quasi impossibile: Vera era stata in ospedale, seduta su una seggiola una mattina intera, ed ora lei si sta veramente gustando un antipasto dei Gonzaga. A lei piace moltissimo! Vicino a lei, legata al tavolo, c’è Bonnie che aspetta tranquilla qualcosa da mangiare. Verso le 16, dopo aver fatto un giro per le vie di Mantova, mi riaccompagnano all’auto. Vera mi regala un centro tavola natalizio fatto da lei. E’ veramente grazioso e io non so come ringraziarla. Ci salutiamo come le altre volte, ma ho la morte nel cuore e sono stanca, molto stanca. Venerdì 3 Marzo 2000 Biglietto dopo il 16 ° incontro presso l’Ospedale di Mantova. Augusto è andato a Roma e sono due giorni che penso spesso a lui: un romano a Roma! 28 Ci siamo ripromessi di incontrarci a Mantova Giovedì, 9 Marzo: entrambi saranno al day hospital per la chiemioterapia. Ma il 9 marzo mi sembra troppo lontano ed io sento il bisogno di comunicare con loro prima e così cerco e trovo un biglietto intenzionata a spedire loro un messaggio per posta. Il biglietto rappresenta un paesaggio di montagna: il colore dominante è il blu. Blu la notte, blu gli abeti, e blu è il cielo; solo un bagliore tenue illumina: è la luna, una sottilissima falce in cielo. “Ma chi ha detto che i biglietti si mandano solo per Natale e Pasqua?. Vivere per me è meraviglia e stupore. Essere stata catapultata nella vostra grande avventura ancora mi stordisce e mi affascina. E’ importante cosa succederà domani se possiamo goderci anche un solo attimo di serenità oggi? Grazie di essere così come siete. Vi voglio bene proprio perché siete così diversi da me e questo può dare ad ognuno di noi la grande opportunità di conoscerci meglio, dentro. Il 9 Marzo è troppo lontano e io volevo darvi questo messaggio subito. Ciao dolcissima Vera. Ciao Augusto sempre “assetato”. Vi abbraccio.“ Calla Venerdì 10 marzo 2000 lettera dopo il 18° incontro presso l’Ospedale di Mantova La notte è stata molto agitata. Devo fare qualcosa per cominciare a togliere le incrostazioni che col tempo si sono depositate nell’anima di Augusto. Scrivo una lettera. “Vera, ti ho promesso, per telefono, di lanciare frecce, ma già alcune mi sono tornate spuntate (ritengo solo apparentemente!). Sta tranquilla comunque, la lotta per me è 29 appena iniziata e se le frecce non riusciranno a colpire nel “tallone di Achille”, cercherò per te e troverò l’arma giusta perché si frantumino le corazze irrobustite negli anni. Sono convinta che la verità, per me l’oro della vita, sia la cosa più difficile da scoprire, a volte da accettare, ma è il bene più prezioso da custodire. La verità è sotto, è dentro di noi, è in fondo alla nostra anima. In alcuni casi è sufficiente spostare con la mano un leggero strato di sabbia, in altri casi sono necessarie le cannonate. Sono sicura di essere capita da te Vera, amica dal nome cristallino.” Per Augusto, rimandato (ingiustamente , aggiungo ora: 3 agosto 2000) a settembre in matematica, do il tema da fare a casa. Tema: commentate il seguente passo tratto da autore noto vivente (da un indovinello di Augusto) Un naufrago sta nuotando in mezzo al mare e vede una luce che si smorza e si spegne, si smorza e si spegne ….si smorza e si spegne… Domanda N° 1 Chi è quel naufrago? Non chiedo “ cosa vede ?” perché già il candidato lo sa, ma chi, e sottolineo chi, è quel naufrago? Descrivetelo nei dettagli esterni ed interni. Domanda N° 2 Ma perché sta sprecando energie e tempo verso una luce che si smorza e si spegne ? Tempo a disposizione: quello necessario PS : ………….. Augusto, se sei in difficoltà puoi farti aiutare da Vera, ammetto suggerimenti e sono auspicabili lavori di gruppo, e due persone forti fanno, se lavorano insieme, un gruppo vincente. Ciao, ciao, ciao. Ormai sono le 9,30 e andrò al lavoro con un ritardo pauroso. Ma ne valeva la pena! Ciao ancora. Calla. Domenica 30 Aprile 2000 cartolina da Firenze raffigurante il Ponte Vecchio, dopo il 23 incontro presso “Osteria da Oscar“ a Barcuzzi Lago di Garda 30 Vorrei regalarvi un arcobaleno: un ponte di colori. Calla 11 Maggio 2000 Sogno dopo il 25 ° incontro presso la sede dell’Associazione Credevo fosse già partito. Ero veramente convinta che se ne fosse già andato. Stava bene e a parte qualche segno di stanchezza, comprensibile per lo sforzo fatto nel parlare, era in forze e poteva arrivare fino a casa. Ma eccolo lì: barcollante vicino ad una sedia. Il viso sofferente, pallido, tumefatto. Sta accasciandosi dolcemente a terra. Ora tutto il suo corpo è molle e senza forze. Senza parlare mi avvicino e tento faticosamente di sollevarlo. Non ci riesco. Allora, stringendolo forte lo trascino verso il letto. Ma entrambi i letti sono occupati: i miei figli continuano indifferenti a dormire. Mi trascino con lui verso l’altra stanza da letto: un letto è occupato da mio marito. L’altro no: è il mio, libero. Non suoni, non rumori. Un pesante silenzio accompagna questi miei sforzi estremi. Riesco a sollevarlo piano piano, in uno sforzo enorme e a sistemarlo sopra il letto e poi sotto le coperte. Quel corpo maschile così malato, così sfinito è ora raggomitolato sotto le lenzuola scomposte. Anch’io mi accoccolo vicino a lui e poi mi inginocchio sul bordo del letto. Appoggio la sua testa sulle mie cosce e tengo sprofondato il suo viso sul mio ventre. Si, così si sta bene. Lo accarezzo dolcemente. Sento intorno che qualcuno sta proteggendo tutto questo: silenziosamente suo marito si era svegliato e girava intorno al letto della moglie proteggendo quella dolce intimità: rabbocca le coperte senza fare rumore, senza chiedere , quasi religiosamente rispetta quell’ultimo atto di amore. 31 Lei rimane così, immobile, inginocchiata e completamente curva sopra quell’uomo gravemente malato e continua ad accarezzargli la testa; mentre lui cerca rifugio e sollievo comprimendosi il viso contro il suo ventre e quasi nell’ultimo tentativo di riattraversare l’ombelico, si raggomitola tutto intorno a lei e, come un neonato, vorrebbe rientrare in quel grembo materno per ricominciare a vivere. Venerdì 12 Maggio 2000 lettera dopo il 25° incontro presso la sede dell’Associazione Carissimi Vera ed Augusto, ancora una volta, l’altra sera, durante l’incontro presso la sede della nostra Associazione sono stata colta da “ sbaldore “ che mi fa capire fino in fondo la tua unicità. …………..So che hai fatto un’operazione di razionalizzazione difficile e per molti quasi impossibile……… E noi, poveri volontari, che ti abbiamo ascoltato per due ore senza respirare, senza farti rumore attorno, quasi religiosi di fronte al tuo vissuto, cosa possiamo fare per ricambiare questo dono che tu hai voluto offrirci? Dirti grazie è troppo poco, è uno scambio impari e lo sappiamo. Sappiamo anche che il percorso a tratti è in solitudine ed esclusivamente personale: nessuno può stare al posto di un altro. Nessuno può sostituirsi a te, nemmeno la persona che ti ama di più. Ma una cosa è possibile: stare vicino. Offrirsi come bastone su cui appoggiarsi per una salita ardua e difficile e che è solo tua o di Vera da compiere. Se questo può alleviare la fatica, anche solo di poco, questo è quello che sarà fatto da me, quale “ ambasciatrice “, e dal gruppo come “ sostenitore “ dell’ambasciatrice. E in questa scalata verranno fatti tutti i tentativi perché le persone che ti sono state sempre vicine, e la persona che tu hai scelto come tua compagna possano trovare gli strumenti per stare al passo e sintonizzarsi con te. Sai, una tua frase mi ronza nelle orecchie : “se vuoi una cosa, la ottieni. Se lo vuoi veramente una persona la trovi.” 32 Questa tua determinazione sta diventando anche la mia: se si è decisi, se si vuole, ci sono 99 possibilità su 100 di fare meta (lasciamo all’imprevedibile l’1 %!). Ma quell’alta percentuale è data da tanti fattori: avere chiaro l’obiettivo e crederci veramente, sapere cogliere raggiungimento dell’obiettivo anche i segnali indiretti che possono favorire il e parlo di coincidenze che non sono affidate al caso; di magie, di incontri, di persone, di emozioni, di sentimenti, di riflessioni. Avere quindi tutte le antenne vigili per cogliere, per apprezzare, per condividere, per capire, per amare, per vivere. Questi sono i messaggi che lasci dietro di te a chi ha la “santa” pazienza di ascoltarti veramente, di seguirti nei tuoi vertiginosi spostamenti, non solo fisici, ma anche mentali. Sai, Augusto, ieri parlando con Vera al telefono, sono stata piacevolmente fulminata da una sua frase: “Vorrei aprire la porta e sentire anch’ io!“ Santo cielo, Augusto, è questa la cosa da fare, ora. Ne sono convinta. Ed è questa frase di Vera che mi fa capire, ora, quasi all’improvviso, la direzione chiara da seguire. Sarà una cosa meravigliosa aprire quella porta e scoprire cosa c’è oltre: ci siete voi due! Voi due che vivete la stessa esperienza con modalità diverse, ma è la stessa. Le paure che ha uno le ha anche l’altro; il caos è nella testa di tutti e due; e la voglia di essere vicino all’altro la sento, c’è. Me lo dite con le parole, coi gesti, con gli occhi lucidi. Io sono qui per cercare, insieme a voi, la chiave di quella porta e aprirla. Aprirla piano, piano, dolcemente. Sono qui per accompagnarvi, se lo volete, in questo viaggio meraviglioso che è la scoperta l’uno dell’altro: guardarlo dentro e scoprire l’altro come persona unica, coi suoi difetti e coi suoi pregi, con le sue debolezze e le sue forze; ma voi, liberi di essere voi stessi perché sicuri di essere amati ugualmente sfidando qualsiasi cambiamento la malattia può portare. Mi sento scoppiare dentro al pensiero di essere capita anche solo un poco. Come posso dirvi che sono sicura che questo potrà accadere se lo si vuole? Non ci sono regole perché questo succeda: è solo sufficiente accogliere completamente dentro di sé l’altro, offrirsi come porto sicuro; fare come la sponda che attutisce anche le onde più impetuose. Voi lo potete fare: l’uno per l’altro, ne avete la capacità, le energie e la volontà. 33 Se anche voi, come me, sentite che questa è la rotta giusta, bisogna partire subito, immediatamente. Non lasciamo passare questo tempo prezioso che deve essere vissuto pienamente fino in fondo. Vi voglio bene, amici miei carissimi. Calla. Venerdì 14 Luglio 2000 sogno dopo il 33 ° incontro presso l’ospedale di Mantova Per fortuna è stato solo un sogno di tardo pomeriggio. Augusto era stanco e non lo sapeva. Senza che ce ne accorgessimo ci ritroviamo nella casa che ho abitato quando ero bambina, all’età di dieci anni: mia madre c’era ed era giovane ed anche mio fratello si aggirava per la casa ed era bambino. Io no, e nemmeno Augusto. Augusto si corica su una specie di divano letto, stretto, molto stretto. Dice qualche parola e poi si addormenta rannicchiato, rivolto al muro. Intorno a lui noi tutti proteggiamo il suo riposo che sembra tranquillo. Lo copro con una coperta e lui sembra distendersi e rilassarsi meglio, continuando a dormire. Ma anch’io sono stanca e nel vedere lui così sereno cerco di riposare. Non so dove ho trovato sollievo, ma lasciavo passare il tempo così: Augusto dormiva e anch’io, poco distante da lui, riposavo. Di tanto in tanto lui apriva gli occhi, ma poi ricominciava a dormire. Poi, all’improvviso, è tutta confusione, tumulto, ansia e angoscia. E’ tardi: è tardi e Vera non è stata avvisata! Cerco, cerco subito di telefonarle. Come mai non è stato fatto prima: lei lo aspetta dalle 14 e sono quasi le 19! Starà in pensiero! Non è possibile che lei non sia stata avvisata! Non riesco a telefonarle, non riesco a parlarle! Sono disperata: il telefono non funziona, il cellulare mi si fa a pezzi in mano e non so più cosa fare. 34 Anche Augusto è arrabbiato e mi rimprovera di non averlo svegliato, di averlo lasciato dormire, di non aver avvisato Vera. Finalmente, dopo angoscianti tentativi, riesco a sentire la voce di Vera, ma poi scompare; la sento di nuovo: preoccupata ci dice di chiamare il fratello di Augusto, Luciano… “ Vera, ora non ti sento più …. Vera , Augusto sta bene …. si è riposato qui…era molto stanco: si è messo a dormire e si è svegliato solo ora! Scusami se non ti ho telefonato….se non te l’ ho detto prima!… ma non so….anch’io ero stanca …..Ora rientrerà a casa….Vera non riesco più a sentirti …. ma se tu mi ascolti, tranquillizzati, perché Augusto rientra ora a casa…” Sono mortificata e disperata: perché non avevo pensato a Vera? Mentre ero al telefono con Vera, Augusto è uscito fuori in cortile, e quando esco anch’io lui non c’è più. Se ne è andato senza salutarmi: sarà arrabbiato sicuramente con me. Sono desolata! Per fortuna mi sveglio. Domenica 16 Luglio 2000 lettera dopo il 33° incontro presso l’Ospedale di Mantova Miei dolcissimi amici, l’ora frizzante del mattino mi ha svegliata e nonostante sia domenica e gli impegni di routine abbiano un andamento più lento (e quindi potrei stare a letto di più!) mi trovo qui a scrivervi. Gli altri, Renato e Davide, sono ancora a letto e spero ci rimangano per tutto il tempo che mi servirà per scrivervi. Forse è l’ultima volta che prendo carta e penna, perché mi sto vendendo al demonio (già mi sono ampiamente compromessa con l’acquisto del cellulare!) . Capirete a cose fatte di che si tratta…. per ora concedetemi un po’ si suspence! Da un po’ di tempo associo tutta la situazione che vi è crollata addosso ad alcuni disegni. Ed è la situazione di “ora“ la vittoria peggiore che la malattia potrebbe avere su di voi. Il cancro non solo può distruggere il corpo, ma può avere la grande e subdola capacità di minare dentro, in profondità: esplode prima ancora che nel fisico, nella nostra mente; 35 bombarda continuamente la nostra anima; ci può “ togliere la terra sotto i piedi “, per usare una frase delicata di Vera; ci può privare dei nostri punti di riferimento in cui si è creduto fino alla sua comparsa; tutto sembra non avere senso; può togliere tutto e lasciare terreno sterile, non più adatto a niente; e in un terreno bruciato lascia i suoi semi che sono paura, ansia, terrore, angoscia, insonnia, aggressività, isolamento. Ci può far morire dentro prima, e poi, con comodo, pensa a tutto il resto. Sembra una lotta impari quella che c’è da portare avanti. Ma vogliamo lasciarlo agire indisturbato? O.K. Il risultato inevitabile è che due persone, prima complementari, vadano ora allo sbando, alla deriva; vadano in direzioni diverse, se non opposte; e capita che non sappiano più riconoscersi, non sappiano più stare insieme. Questa si che sarebbe una bella vittoria per lui!: distruggere anche la vostra coppia, la vostra vita decisa insieme; distruggere abilmente, giorno per giorno, il vostro tempo e farvelo macerare e sciupare nella distanza, nell’isolamento. Guardo la figura di “ora“ ed è come se vedessi due enormi continenti ricchi di potenzialità ed energie alla deriva per l’avvicendarsi di maremoti e terremoti: ed il tumore è un terremoto del decimo grado della scala Mercalli. Certo, tutto è possibile: lasciarlo regnare sovrano su noi, implacabile, inarrestabile e faccia terra bruciata di tutto e distrugga quello che faticosamente è stato costruito. Mi sembra di sentirvi: “E tu, come puoi dirci queste cose? … che diritto hai? ... tu non hai il cancro… tu non puoi capirci… tu sei presuntuosa, arrogante, saccente …. si …. belle parole …. ma sono parole… teoria…. bella filosofia…. tu non ci sei dentro…. Si, valle a raccontà a tu nonna!“ E’ vero. Non ho un tumore (o forse credo solo di non averlo), ma dentro di me porto i segni del tumore polmonare di mio padre; quello ovarico della mia carissima amica Rosa; e quello al fegato della mia vicina di casa Tina…. e ancora il tumore alla mammella di Dea e altri ancora …Celestina, Clotilde, Elvira. Persone stupende che ho avuto la fortuna di conoscere e di assistere in momenti difficili, quando ormai non si poteva più guarire e il sentiero si fa stretto e buio. Il mio corpo, come il loro, è stato minato e come loro anche la mia anima. Ma se il corpo ha perso, tutte sono riuscite a risorgere dentro. I percorsi sono stati diversi, individuali, personali e difficili, ma ognuna di loro ha trovato il senso della propria esistenza. 36 A volte è bastato un attimo per trovarlo! E’ come un miracolo…. (se uno ci crede!)… oppure è come un’ispirazione, un’intuizione, un colpo di fulmine! Basta anche un solo attimo di vita per vedere tutto. A te Augusto è rimasta impressa particolarmente la frase che viene detta dai medici e infermieri quando una persona di tumore muore: “Non ce l’ha fatta !“ Dopo aver ripetuto questa frase ne rimani così sconvolto che non riesci a frenare quel groviglio di emozioni e sentimenti che dal fondo sale fino a bloccarti le altre parole in gola. Non ce l’ha fatta… nonostante la lotta coraggiosa? Non ce l’ha fatta ….. a vivere? Non ce l’ha fatta ….. a sconfiggere il male? Non ce l’ha fatta ….. ed ha perso? Non ce l’ha fatta ….. e si è arreso? Non ce l’ha fatta ….. e il male ha vinto? Ma quel tremendo “Non ce l’ha fatta“ che medici ed infermieri dicono, potrebbe anche voler dire: Per fortuna…. non ce l’ha fatta! Meno male….. che non ce l’ha fatta! Non ce l’ha fatta a guarire….. ma ce l’ha fatta a morire! Il male lo ha distrutto, ma lui ce l’ha fatta!: Ce l’ha fatta a resistere fino in fondo! Ce l’ha fatta a prepararsi! Ce l’ha fatta a vivere fino in fondo il suo morire! Non ce l’ha fatta a guarire, ma a vivere tutto il suo tempo, fino all’ultima goccia, c’è riuscito! Voi mi insegnate a non perdere il tempo (e io lo insegno anche a Davide …come tu, Augusto, ben sai). Voi mi insegnate che non c’è solo la lotta contro i danni fisici del tumore da portare avanti (e qui servono medici, infermieri, medicine, ospedali…) ma c’è un’altra, ugualmente importante battaglia da portare avanti e che può vederci vincitori: trovare il significato della nostra esistenza, trovare il senso del nostro vissuto e se nel passato non lo si trova, dare senso a quello che sarà il nostro futuro, anche se è solo un attimo di tempo. Per fare questo è necessario saper scegliere intorno a noi le persone che ci possono aiutare e sono quelle che ci amano nonostante tutto, sono quelle che ci accettano nelle 37 nostre debolezze, sono quelle che farebbero di tutto per noi; sono quelle che anche noi amiamo. Però è difficile: è molto più difficile conoscere il senso della nostra vita, che spesso coincide con l’amare e il lasciarsi amare, che riconoscere un tumore. Questo lo si riconosce subito o quasi: l’eco, la tac, la radiografia ed è presto diagnosticato. Ma il senso della vita come si fa a riconoscerlo? E, d’altronde, se fosse così semplice, che gusto ci sarebbe? Forse può essere questa la vittoria su questa malattia: vivo dentro, amo e mi lascio amare nonostante il cancro cerchi di impedirmelo con ogni mezzo! Può essere questa la grande rivincita! Lasciamo pure che le lacrime calde inondino la nostra anima sofferente: la laveranno da ogni incrostazione; lasciamo che le lacrime del bambino deluso e mortificato, che è in ognuno di noi,allontanino le paure e l’angoscia; non temiamo di perdere la nostra dignità, perché stiamo conquistando la nostra umanità; ci stiamo appropriando delle nostre debolezze che ci faranno sentire forti e sicuri. Mi sento di salutarvi con una frase, per me stupenda, di una canzone di Fabrizio de Andrè – Via del Campo - : “ Dai diamanti non nasce niente …dal letame nascono i fiori .” Calla PS: Sono quasi le 10 e ancora tutto intorno a me tace. Persino la gatta non ha fatto rumore per tutto questo tempo. Il pensiero di fare colazione mangiando la marmellata di albicocche di Margot (mamma di Vera) mi mette di buon umore: è così solare che sono convinta mi darà energia positiva. E’ stato più forte di me far godere di questo dolce piacere due mie carissime amiche e così mi è rimasto solo un vaso – di tre – della sua marmellata: il più grande, però. Vi prego di dire a Margot di fare altra marmellata o altre torte…. e quando saranno pronte, per favore, chiamatemi… e correrò da voi…. ma anche se la marmellata non c’è. Vi abbraccio teneramente. Calla. A.S. ( ante scriptum ) - su un biglietto a parte. 38 Cerco di correre ai ripari, visto la lunghezza della lettera, mettendovi al corrente dei diritti di voi che leggerete: 1. Libertà di interrompere la lettura quando lo vorrete 2. libertà di incavolarvi con chi l’ha scritta e ve l’ha anche spedita 3. libertà di fingere di non averla mai ricevuta – i disguidi cronici delle poste aiutano sempre! 4. libertà di stracciarla e cestinarla Dal 25 Luglio Augusto è ricoverato all’Ospedale di Peschiera : è stato operato per un collegamento diretto stomaco – intestino. Domenica 30 Luglio 2000 lettera dopo il 36° incontro presso l’Ospedale di Peschiera Miei teneri amici, chiedo perdono ad entrambi per aver seguito il mio intuito. Non vorrei che la mia disubbidienza avesse irritato Augusto che mi pensava a pranzo con Davide e Renato, o aver compromesso momenti importanti di ricarica per Vera, o negato un po’ di tempo a voi due. E di questo vi chiedo perdono, ma…. ditemi: Come può vivere un’ape lontano dai suoi fiori? Quando mi poso su voi e mi cedete continuamente il vostro nettare, è difficile per me staccarmi da voi. Mi attirate col vostro profumo, i vostri colori, e io ne resto incantata e catturata. La vostra malattia, le vostre ansie, le vostre preoccupazioni, la vostra sofferenza vorrei poterle succhiare tutte e allontanarle da voi. Vorrei potervi alleggerire, ma non sempre mi è permesso. A volte il fiore si chiude e mi respinge e allora volo su, su a Bardolino. Ma un’ape non solo raccoglie nettare dai suoi fiori, ma lo trasforma in miele dorato e profumato. 39 Così, quando rientro a casa, tutti i momenti, le parole dette, le parole non dette, le emozioni, i sentimenti vengono trasformati in pensieri, in riflessioni, che sono alimento mio, sono il mio miele che io poi riporto a voi raffinato e dolcissimo. Capisco in questo preciso momento, e sono profondamente colpita da questa improvvisa scoperta, che voi due siete “ il fiore della fantasia “ che Celestina mi ha riportato! Augusto, solo a te ho raccontato (e non ancora a Vera!) la mia esperienza con Celestina e del “fiore “ datomi dal mimo di Firenze. “ Perché quel mimo ha dato proprio a me il fiore della sua fantasia? Perché ha scelto me fra le tante persone presenti sul Ponte Vecchio?“ chiedevo a Celestina. “Tu non sei stata scelta, tu sei stata prescelta.” Come può una signora di poca cultura, a 84 anni, e che morirà dopo due giorni, fare una distinzione così sottile su un termine?: non “scelta“, ma “prescelta“: scelta prima. E io mi sto ancora chiedendo: ma prima …. quando ? …. e dove ?… e da chi ?…. “Questo fiore, Celestina, lo do a lei!” e mentre lo dicevo allungavo le dita serrate, fin dall’inizio del racconto, donando il fiore del mimo a Celestina. Lei allungava il debole braccio ormai tutto lividi e prendeva tra le sue mani questo meraviglioso, piccolo fiore bianco della fantasia del mimo. Sorride mentre lo prende e …. “…. questo fiore io te lo riporterò“ mi assicura. E’ calma, tranquilla, e mi guarda sorridendo: sappiamo entrambe che la promessa sarà mantenuta. E io ho aspettato il suo fiore per due anni e ogni volta che accettavo un’assistenza le ho chiesto di aiutarmi. Ora so che voi due siete il fiore di Celestina; ma ha voluto essere generosa con me: non un solo fiore mi ha portato, ma due: Augusto e Vera. Rosso il primo e bianco il secondo! Lascerò a Vera il nome da dare a questi meravigliosi doni. So già Augusto che starai dicendo che sono tutta matta, e forse hai anche ragione! Però ti ho guardato per un attimo, un attimo solo, quando ad occhi chiusi ti raccontavo la mia esperienza del “fiore “ e tu, ad occhi chiusi, sorridevi, eri tranquillo e permettevi che le mie parole entrassero dentro di te e ti scaldassero. Sono certa che in quel momento stavi anche tu bene, come stavo io. Ti sei lasciato andare, hai ascoltato senza fare resistenze. 40 E’ stato poco tempo, ma abbastanza per poter pensare che possa succedere ancora. E così anche domenica è successo. Io ho avuto il coraggio di parlarti di me, della mia infanzia povera, dei miei frequenti e miseri traslochi di S. Martino, della foto di Togliatti nascosta dietro l’armadio, di mio padre che divulgava l’ “Unità” - a proposito, mia madre mi ha confermato che a casa nostra c’era poco da mangiare, ma: Unità, Vie Nuove, Noi Donne e un pacchetto di Alfa nazionali non mancavano mai - , ed è stata la seconda volta che tu ti sei interessato a me in un modo diverso. Ed io ti ho ceduto, solo dopo dieci mesi che ci conosciamo, le mie origini: chi sono stata e chi erano i miei genitori. Pensa: prima non l’avrei potuto fare: tu sembravi prestare attenzione solo ai mega…. mega…. , agli amici importanti, a chi ha raggiunto fama, gloria e successo. E la mia storia è talmente normale, povera: le mie radici affondano nelle mortificazioni, negli sfruttamenti e nelle ingiustizie subite dai miei genitori. Sai, Augusto, che era da tanto tempo che volevo chiederti un regalo, ma non ne avevo il coraggio e non si era ancora presentato il momento giusto, e anche questo è avvenuto sabato. “E’ una cosa grande quella che ti devo chiedere e quando tu me la darai, potrai ritenerti, se mai lo sei, sdebitato completamente nei miei confronti “. Tu non riesci ad immaginare lo sforzo che ho fatto nel chiederlo e come sommessamente piangevo nel chiedere. “Desidererei tanto che tu mi regalassi un pensiero, un momento, un luogo della tua vita in cui sei stato particolarmente bene, in cui sei stato o sei felice. Non devi rispondermi subito… pensaci tutto il tempo che vuoi!” Figuriamoci se tu vuoi aspettare! Non è da te! “Te lo dico subito: i momenti più belli?: quando Vera mi ha dato una mossa e mi ha chiesto “chi ero e cosa stavo facendo“; e poi quando sono venuto a Bardolino. Là sto bene: il giardino, i fiori, il prato…. sì, là sto bene… Vera mi chiede ed io faccio….. non a Roma che è diventata un casino…. ma a Bardolino, nella nostra casa!“ Sinceramente ero convinta tu mi dicessi un angolo di Roma, un punto di Roma anche di soli pochi centimetri quadrati, ma particolarmente importanti per te. Ma tu eri deciso. Tu mi hai detto dove stavi bene: nella vostra casa di Bardolino. E, io, là sono andata. 41 Quando ti ho salutato sapevo che per quel giorno non ci saremmo più rivisti, ma non potevo ancora ritornare a casa mia. E così davanti al bivio, è stato più forte di me andare sul luogo dove tu mi avevi detto di stare bene e ho scelto di andare a casa vostra. Le feste di Bonnie sono state commoventi e con Margot sono pure riuscita a comunicare (Margot parla tedesco e inglese). Per fortuna tu Vera non eri a casa. Io cercavo intorno, fuori, sul prato, attorno alla piscina, qualcosa che mi parlasse di te. Bonnie era vicino e mi seguiva scodinzolante e festosa. Mi chino, l’accarezzo e pronuncio il nome di Vera: noto che Bonnie si ferma all’improvviso e resta immobile. Allora pronuncio subito il tuo nome : “ Augusto “ prima piano e poi più forte. Bonnie, sempre immobile, si rizza ancora di più e mi sembra che il suo “ alto-là “ sia degno di un vero soldato. E poi, di scatto si lancia verso il cancello con una corsa veloce e sicura. E io resto lì, proprio dove mi lascia Bonnie, sul prato del lato sinistro della piscina, guardando il lago. La vista è stupenda e io guardo questo dono gratuito della natura e dell’uomo. Intorno c’è silenzio e solo il cinguettio degli uccelli si sente. Una pace e una tranquillità assoluta: anche Bonnie è sparita. Resto là in contemplazione e all’improvviso comincio a piangere. Le lacrime sgorgano improvvise, dolci. E’ inutile fermarle, perché sento che mi aiutano a stare bene. E più piango e più si cheta la mia anima: come vorrei che le mie lacrime avessero la misteriosa capacità di lenire la vostra sofferenza! Non è un caso se io ho incontrato voi: voi siete il dono di Celestina! Le cose potevano andare diversamente, e noi non ci saremmo mai incontrati, e invece…. E’ una ricchezza immensa quella che cresce dentro di me: me ne rendo conto tutte le volte che rientro nel mio alveare. Voi non ve ne accorgete, ma a me basta poco: una frase, un sorriso, un gesto, una parola, un luogo e tutto si trasforma. Ho la convinzione che tutte le mie esperienze, le mie conoscenze abbiano con voi ragione di essere. Prendete: è tutto a vostra disposizione. Accettate da me tutto l’Amore che continuamente viene alimentato. Non temete di privarne altri: state certi. 42 Augusto, ti ho dato un libretto coi centri di cure palliative: Buttalo via. Non ne hai bisogno. Non c’è nessun posto migliore di V. Paerno n. 25/15 di Bardolino. Puoi esserne certo. Lì puoi trovare l’amore delle persone che ti sono vicino e l’amore della natura. “Non cercare altro: hai tutto“ mi ha detto, qualche giorno prima di morire, Celestina e io ora lo ripeto a te. Vi bacio, vi abbraccio e vi ringrazio, tre volte. Calla. Mercoledì 9 Agosto 2000 Lettera consegnata durante il 39° incontro presso l’Ospedale di Peschiera. Lettera scritta, ma non spedita, il 28 aprile 2000, dopo il 22° incontro presso l’Ospedale di Mantova. Allora non era ancora il momento. “Mio carissimo Augusto, a volte mi è molto difficile raggiungerti con le parole. Queste sembrano scivolare su te come fa l’acqua su una superficie oleata. Ma l’olio, se da un lato può difenderti e proteggerti, dall’altro può isolarti e impedire di essere permeabile ai messaggi che ti girano attorno. Lo so che è difficile, specialmente ora : così concentrato sulla nuova terapia e al centro di una nuova sperimentazione. “A Robbè, e non rompere!“ già mi sembra di sentirtelo brontolare. E questo sarebbe sufficiente per stracciare tutto. Ma da te ho imparato, fra le tante cose, anche a “tampinare“ e quindi, purtroppo per te, ne subirai le conseguenze!!!!! Non è una minaccia, sta tranquillo: è solo un modo per dirti che ti “tampinerò“, ma a modo mio: tu devi sapere solo che io ci sono e ci sarò sempre. Ci sono con le mie paure, con le mie insicurezze, con le mie debolezze, con i miei difetti, con le mie mancanze, con i miei errori; ma ci sono anche con la mia disponibilità, con la mia capacità di condividere, col mio ascoltare, col mio assorbire, col mio farti da pungolo: ci sarò con tutta me stessa fino in fondo, fino all’ultimo. 43 E’ sufficiente che tu mi chiami per nome e io ci sarò. “Mi sembravi il folletto del bosco“ mi diceva Maria Carla (sorella di Augusto) e io, proprio come il folletto del bosco, ti raggiungerò subito. Sono disponibile a fare con te un’esperienza di Amore perché io questo ho scelto fin dalla prima volta che ci siamo sentiti per telefono. Per me è impossibile non amarti dopo che tu mi hai fatto vedere dentro di te, dopo che tu hai alzato le saracinesche, dopo che tu hai abbandonato le maschere, dopo che tu hai lanciato il ponte. Non illuderti, però, di essere l’unico ad essere amato da me, perché questo mi succede inesorabilmente tutte le volte che entro in vera comunicazione con un’altra persona. E’ come se un invisibile ponte venisse lanciato tra due anime e questo ponte fosse continuamente attraversato da flussi magici che vanno e vengono: sono le emozioni, i sentimenti, le esperienze intime condivise, sono il confrontarsi sulle proprie diversità, sono l’accettarsi così come si è. E ogni ponte d’Amore è unico e irrepetibile. Ma ti rendi conto della meraviglia: riesco a farti capire questa cosa grandiosa e sublime che mi fa scoppiare al solo pensiero: io e te potremmo essere uniti da un ponte unico e irrepetibile! In nessun’altra parte dell’universo e in nessun altro tempo succederà ancora; solo ora e qui perché io e te siamo unici. La cosa straordinaria è che tutto questo può meravigliosamente ripetersi all’infinito, perché infinite possono essere le combinazioni (e tu, matematico quale sei, lo capisci bene) fra le diverse persone. Anche con Maria Carla mi è successa la stessa cosa, quasi subito: è stato sufficiente ascoltare la sua voce al telefono per capire che sarebbe stato facile entrare in sintonia con lei. Ed è proprio stata la sua leggera balbuzie a far scattare la molla. Con Vera è più difficile, serve più tempo, bisogna sapere aspettare, bisogna che lei soprattutto lo voglia. Già, perché questo è fondamentale: fare questa scelta di Amore. Io, Augusto, dico che ho fatto la scelta di essere con te, ma non sono sicura che tu voglia fare con me questo tipo di percorso: sta a te decidere. Forse per te è un cammino nuovo e non ne capisci la ragione, ma ti assicuro che vale la pena provare: è sufficiente, questo è il piccolo – grande segreto, lasciarsi Amare e Amare 44 veramente: senza interessi, senza speculazioni, senza inganni, senza maschere, senza aspettative. E la contropartita di tutto questo sai qual è? E’ la libertà di essere se stessi, di essere amati per quello che si è e non per quello che si vorrebbe essere o per quello che gli altri vorrebbero tu fossi. Ti assicuro che è come respirare ossigeno in alta montagna e trasforma ogni attimo della giornata. Vivere ogni istante di vita come si è. Ogni persona ha questo diritto: vivere la propria vita, secondo le proprie scelte. Unico punto di riferimento per poter fare le scelte giuste è l’ Amore. Solo l’Amore può dare le regole, dei trait – d’union e la sua ricerca può essere veramente scopo e senso di vita. Spero, Augusto di averti fatto capire di quale Amore posso essere capace: va al di là e al di sopra di tutto e di tutti: potrai trovarti nella situazione più umiliante, potrai essere irriconoscibile persino a te stesso, ma sta sicuro fin da ora che io ci sarò per dirti: Augusto ti amo e ti amerò sempre, sono con te, ci sono, sono qui; perché amo quello che c’è dentro, quello che c’è sotto e so che questo non potrà essere distrutto neanche dalla malattia più devastante. Vorrei che tu ti lasciassi amare perché intorno a te ci sono altre persone disposte a questo, io le ho viste; non respingerle a priori: dai a loro la possibilità di starti vicino, concedi l’opportunità di dirti : “Augusto sono qui perché ti voglio bene, perché ti amo!” Non è più tempo di fingere, di allontanare, di respingere. Solo così puoi conoscere la tua verità e quella degli altri. Forse potrebbero esserci delle delusioni, ma potrebbero esserci anche delle meravigliose sorprese! Dipende da te. Sta a te scegliere. Ti abbraccio forte forte. Domenica 13 Agosto 2000 Biglietto consegnato nel 41° incontro presso Ospedale Peschiera Lei (Vera) è come una farfalla, 45 può volare leggera per te, può offrirti i suoi splendidi colori, può donarti le sue eleganti forme. Ma resta fermo, non la toccare: si potrebbe sciupare. Non lasciarti tentare di volerla fermare: potresti le sue ali delicate rovinare. Non chiederle di ruggire, non potrebbe mai farlo: la uccideresti. Tu puoi solo, incantato, starla a guardare. Lunedì 14 Agosto 2000 L’assistenza ad Augusto e Vera continua. Sono successe molte cose da quel martedì, 5 Ottobre 1999 e già tre quaderni alti alti di diari e riflessioni sono stati scritti. Tanti sono stati gli incontri, le telefonate, tanti gli scambi. La distanza poi mi ha portato a comunicare con loro attraverso lettere. Si doveva attendere l’ultima lettera inviata a Vera ed Augusto per capire. 46 Accompagnare sino alla fine: un’esperienza. A cura di Armando G. c/o ASSOCIAZIONE MARIA BIANCHI di MANTOVA Via Conciliazione, 5 - 46100 MANTOVA Correva l’anno 1994. Per caso mi capitò di leggere un piccolo depliant che segnalava un corso di formazione per l’assistenza ai malati gravi, terminali, organizzato dall’associazione Maria Bianchi di Mantova e Suzzara. Decisi di iscrivermi e di partecipare. Gli incontri si svolsero in 10 lezioni, con un piccolo esame finale. Fui ammesso ed entrai a fare parte del gruppo di Volontari di Mantova. Era un periodo della mia vita in cui ero ancora occupato nel lavoro; conseguentemente, per eventuali assistenze avevo messo a disposizione la domenica: l’unica giornata libera di cui potevo disporre. Inoltre, ero impegnato nella realtà di tutti i giorni con sulle spalle una famiglia da portare avanti: figli, moglie e tutto quello che gira attorno a ciò, per soddisfare le esigenze materiali di vita. Nel rincorrere questi beni, per appagare le varie aspettative, mi sembrava che lo spazio per pensare alla solidarietà con chi aveva bisogno, fosse insufficiente. Quando avevo l’occasione, davo qualche offerta in denaro, forse per scaricare un po’ la coscienza. Sono diventato convinto volontario passando prima dall’altra parte della barricata, per tutta una serie di circostanze negative. L’avere vissuto, casualmente, da protagonista, un’esperienza di infermità, mi ha fatto vedere il problema da un’altra angolazione, mettendomi nelle condizioni di potere aiutare chi si trovava in quelle emergenze che avevo conosciuto da vicino, personalmente. Non sempre siamo in grado di volere, vedere, percepire, le aspettative di chi ci è vicino, se non quando si toccano con mano. Andando a recuperare un detto conosciuto da tutti: “non tutti i mali vengono per nuocere”, mi rendo conto che tale proverbio si può adattare al fatto reale che cercherò di narrare, con la speranza che possa essere d’aiuto a chi vuole intraprendere un’azione di Volontariato per stare vicino a persone che soffrono, sia che si tratti di famigliari, amici o persone care. In certi casi, non è difficile dare sostegno morale 47 a una persona sola o ammalata: bastano un sorriso, una stretta di mano, una carezza, un incoraggiamento a tenere duro, cercando di fare visite a cadenze regolari. A volte, basta poco per rasserenare un malato e aiutarlo ad affrontare con meno disagi certi momenti della sua malattia. Si presentano anche difficoltà oggettive, ma, con qualche stimolo e un po’ di buona volontà, si può riuscire a donare qualche momento di serenità. “LA CADUTA” Caduto da un’impalcatura, ero stato diversi mesi inattivo, per la gravità dell’infortunio. Nell’attesa di riprendere completamente le mie capacità motorie, passavo il tempo leggendo, ascoltando la radio, nella noia più assoluta. Quelli sono stai i giorni più lunghi della mia vita. Per oltre un mese, sono rimasto immobile, supino, muovendo appena il braccio sinistro per aiutarmi a bere con una cannuccia di plastica. Avevo molto tempo per pensare al futuro, un’infinità di modi per meditare e riflettere. Muovendo un po’ la testa verso la grande vetrata della finestra, dai palazzi circostanti l’ospedale vedevo antenne della TV, con qualche comignolo che sbucava dalle scure coperture di tegole, da tempo esposte alle intemperie. Scrutando il cielo seguivo con lo sguardo le piroette dei passeri nei loro voli briosi. Eravamo in primavera. C’erano nell’aria quei batuffoli bianchi, svolazzanti come fiocchi di neve che, con delicata leggerezza scendevano a terra. Ero stato radiografato in tutti gli angoli del corpo, per controllare eventuali lesioni interne; avevano visto alcuni calcoli ai reni che non sapevo di avere. Un Medico mi aveva consigliato, una volta guarito dalla caduta, di farmi controllare da uno specialista. Dopo poco più di un anno dall’esperienza della caduta, fatti tutti gli esami urologici del caso, il Medico specialista mi convocò per informarmi, con poche e concise parole, del fatto che dentro al mio corpo si era formato un adeno-carcinoma, ancora in nocciolo, per ora non pericoloso, ma che poteva scoppiare da un momento all’altro. Mi assicurò che, operando con un certa urgenza, vi era la quasi totale certezza di una completa guarigione, anche se sarei rimasto, in parte, leggermente menomato di una funzione fisica. Questa la triste notizia che portai a casa quel giorno, ai miei famigliari. Un fulmine a ciel sereno. Tuttavia, ciò che, in quel momento, mi affliggeva maggiormente, erano una serie di problemi personali con mia moglie e che, proprio in quel tempo, si erano ingigantiti. 48 Stavamo per separarci e questo era il più tormentoso e doloroso pensiero della mia vita di quel momento. Le separazioni sono oramai entrate a fare parte della quotidianità, con incidenza sempre maggiore, come un male oscuro che fa parte della modernità, del progresso o delle pari opportunità. Sono un sintomo di disagio rispetto a tutti quei beni e quelle libertà incondizionate che ci sono messe a disposizione e che non sappiamo gestire, ma dalle quali ci lasciamo, spesso, travolgere. Pensando all’operazione come al minore dei mali, l’affrontai a cuore leggero, come una seccatura di poco conto. Nel mio lettino di ospedale mi svegliavo con la gola secca; mia figlia mi bagnava le labbra. Intervenne una complicazione; mi portarono in un reparto per le cure intensive, vicino a un macchinario dove mi iniettarono un liquido: una sensazione di grande calore mi attraversò completamente, da capo a piedi. Il giorno dopo, mi riportarono in reparto: ero fuori pericolo. In seguito, tutto proseguì, secondo le previsioni. Allora, presi coscienza del male che mi aveva assalito e che avevano scoperto casualmente; mi sentii fortunato. Dopo qualche giorno, ero già in piedi per fare qualche passo che serviva per le necessità di routine. Avevo fatto amicizia con un vicino di letto che aveva subito il mio stesso intervento chirurgico, ma con qualche complicazione in più. Non aveva molte possibilità di muoversi, per la gravità della sua situazione. Nel limite delle mie possibilità, l’aiutavo per quei piccoli servizi di cui aveva bisogno. Viveva solo e aveva pochi parenti; raramente riceveva visite e conforto da qualcuno: ironia della sorte, si chiamava Fortunato. Nonostante la nostra situazione, trovavamo anche il tempo per ridere e scherzare anche sul suo nome. Mi sentii di seguire Fortunato anche dopo che entrambi rientrammo a casa, andandolo a trovare, ricordando insieme a lui i giorni del nostro ricovero in reparto, chiacchierando di tante cose attuali e ascoltando qualche suo progetto per il futuro. Purtroppo, Fortunato, dopo avere sofferto le pene dell’inferno, non ce la fece a sopravvivere. Ma, certamente, nacque in quell’occasione la mia disponibilità al Volontariato. 49 IL PRIMO CASO Quel giorno mi alzai di buon mattino, stava per iniziare una domenica particolare: dovevo fare il mio primo intervento di assistenza ad un malato terminale, come Volontario. Per la speciale occasione cercavo di prepararmi mentalmente, per essere all’altezza di affrontare tutti gli inconvenienti possibili, nel modo migliore, secondo quanto avevo letto sui libri e ascoltato alle lezioni. Cercai nel mio armadio un abito discreto, ‘della festa’, per una dignitosa presentazione: non volevo sfigurare, pensavo alle sgridate di mia figlia che mi rimproverava sempre, dicendomi che mi vestivo male. La giornata si presentava al meglio: un bel cielo da primavera avanzata. La mia mente vagava qua e là, paventando le ansie “della prima volta” e esplorando tutte le possibili modalità per “rompere il ghiaccio”. Ero molto facile a lasciarmi prendere dall’emozione e, a volte, questo mi bloccava. In questo groviglio di idee e sentimenti, mi sentivo un po’ annebbiato e cercavo di auto - convincermi che la calma mi avrebbe aiutato a svolgere bene il compito di affiancare il malato che stavo per conoscere. Sono diventato Volontario per aiutare gli altri, le persone che si trovano nella necessità, nel disagio, nella difficoltà, con la speranza di portare un poco di serenità per aiutare ad affrontare anche qualche imprevisto. “E’ importante, – mi dicevo – partire con il piede giusto”. Sapevo infatti che, a volte, nei desideri si possono insinuare conflitti che, contro le nostre intenzioni, rendono poco significative le nostre azioni. Ma, sentivo anche che quella era un’occasione per ritrovare un me stesso che mi facesse sentire soddisfatto e ‘diverso’ da quello che ero stato. Mi trovavo in una nuova situazione, che avevo cercato e questa Associazione, di cui ero appena entrato a fare parte, mi appariva come un’ancora di salvataggio, una possibilità per aggrapparmi a un nuovo stile di vita, con nuovi valori, forse anche per attenuare le forti delusioni che speravo di lasciarmi dietro le spalle. Federico era un malato terminale, completamente paralizzato agli arti inferiori; per fortuna, poteva muovere le braccia in modo normale. Tutte le mattine, a turno, un membro dell’Associazione andava a trovare questo malato. Il mio turno, era la domenica. Il supporto che si doveva fornire consisteva nell’aiutare la moglie di Federico a metterlo e mantenerlo su un fianco mentre lei detergeva le ferite e lo medicava. 50 Dopo questa operazione, con l’aiuto di un sollevatore elettrico, occorreva sistemarlo su una carrozzella per accompagnarlo in bagno. Federico, davanti al lavabo e al suo specchio, provvedeva da solo a darsi una lavata al volto, si radeva, portando a termine quelle piccole funzioni del mattino che siamo abituati a fare tutti. Era importante, per Federico, continuare a mantenere autonomia in quelle piccole operazioni e sentivo, mentre gli ero vicino, la sua tranquillità in quel momento e poi la soddisfazione, anche se un po’ nascosta, di essere riuscito da solo. Tuttavia, queste azioni stancavano Federico, che doveva essere rimesso a letto. Occorreva, per fare ciò, una certa pratica: serviva conoscere l’apparecchiatura per sollevarne il corpo e io mi sentivo imbarazzato perché non avevo idea di come si maneggiasse quello strumento. Con molta discrezione e delicatezza, mi venne in aiuto la figlia di Federico, che mi spiegò come andavano fatte le varie manovre. Federico osservava, lasciava fare e non diceva nulla. Non appariva imbarazzato dalla mia presenza, ma quasi nessuna parola, fino a quel momento, era passata fra noi due. Al momento del congedo si rivolse a me dicendomi “Grazie, puoi andare.” Salutai, e uscii. Per quella prima domenica, il mio compito era finito. Stavo ritornando al sole e al sereno di quella bella mattina primaverile. Anche se, da una parte, non mi pareva di essere stato un granché di aiuto, tuttavia sentivo, nello stesso tempo, che qualcosa aveva funzionato, ‘vibrava positivamente’. Le prime paure si andavano affievolendo, un primo esame ‘pratico’ era stato superato. Tornando verso casa, rimuginavo sul fatto che, se è vero che è importante avere una buona preparazione di base per affrontare le difficoltà di approccio con un malato in gravi condizioni; se è vero che le tecniche, le strategie di intervento e di relazione si affinano con l’esperienza, è altrettanto vero che è difficile imbrigliare le emozioni che suscita l’incontro con una persona che non si conosce. Mi era parso di non avere mascherato abbastanza l’imbarazzo suscitato dall’urgenza di sbloccare il muro di paura che mi aveva preso di fronte alla novità che stavo affrontando, di fronte al senso di responsabilità rispetto a quello che mi accingevo a fare, di fronte alle mie risorse umane che sentivo presenti, ma da coltivare. Mi sembrava di avere dimenticato tutto quello che, nei dieci incontri con l’Associazione Maria Bianchi, avevo acquisito; pareva proprio che mi fossero uscite completamente dalla mente tutte le nozioni apprese. 51 A mente più fredda, quindi solo dopo questo primo incontro, ricordavo alcune osservazioni dei docenti del Corso: l’incontro con l’altro, è in grado di fare emergere quelle predisposizioni, quelle doti potenziali che già abbiamo dentro, anche se non ne siamo del tutto consapevoli, orientando, in parte, i nostri comportamenti. Ma, dentro di me, che cosa era emerso, in questa occasione? Mi pareva che si trattasse proprio solo di paure. Ma forse, mi dicevo, sono importanti anche quelle. Mi veniva più facile pensare a lui, a Federico, a quest’uomo tranquillo che, nonostante la malattia, la gravità della sua condizione, la sua dipendenza da altri, non si era lamentato mai. Sembrava totalmente rassegnato, come se fosse in quella fase di accettazione che prelude alla morte. Eppure, il suo aspetto tranquillo, dava, nello stesso tempo, l’impressione che non avesse perso il sentimento della speranza. Anche se poche, scarne parole erano passate tra me e Federico, mi pareva di avere lasciato una buona impressione. Tuttavia, mi andavo convincendo che la prossima volta avrei potuto e dovuto fare di meglio. LA MIA SECONDA VOLTA Mi ero a lungo preparato, anche per affrontare la seconda domenica. Sentivo che, questo secondo incontro, sarebbe stato molto importante per gettare le basi di un rapporto sincero, costruttivo, utile ad entrambi. Avevo ripassato, dentro di me, ogni gesto, ogni parola, ogni immagine di quel primo incontro, per ritrovarvi qualcosa che mi permettesse di recuperare e mantenere il filo della relazione che avevo avvertito, anche se a livello puramente emotivo, agganciarsi nel primo incontro. Quando fui davanti alla porta di casa di Federico, mi sentivo ‘pronto per il collaudo’. Venne ad aprirmi la moglie. Il problema principale della Signora Angela era la sua difficoltà ad usare le mani per spostare Federico, a causa di forti dolori alle articolazioni: ciò l’aveva condotta a richiedere l’aiuto dei Volontari. Angela era già pronta con tutto l’occorrente per la medicazione del marito. Federico si aggrappò a me, lasciandosi andare con maggiore tranquillità, quasi affidandosi alle mie braccia che lo sostenevano mentre restava posizionato sul fianco, mentre la moglie procedeva con le sue cure. 52 La cosa mi rassicurò. Mi sentii maggiormente pronto ad affrontare la seconda parte del mio intervento presso di loro: dopo la manovra del sollevamento dal letto, si prospettava infatti uno spazio dedicato alla relazione interpersonale. Tante volte, durante gli incontri fra i membri dell’Associazione rivolti alla discussione dei casi seguiti dai Volontari, avevo potuto rendermi conto dell’importanza di parlare fra di noi, non soltanto delle persone di cui ci prendevamo cura, ma anche delle nostre difficoltà nel rapporto con loro, dei nostri sentimenti, dei nostri piccoli conflitti interni. Ci aiuta di solito, in questo faticoso, ma fondamentale lavoro, una psicologa, esperta di queste problematiche. Ripensai dunque a quegli incontri e ai contenuti delle discussioni a cui avevo assistito più volte, intervenendo ogni tanto a dire la mia. Mi sembrò che la cosa, in qualche modo, mi aiutasse: infatti, instaurare un dialogo con Federico, fu molto più facile del previsto. Il discorso prese subito un buon avvio: ci trovammo in accordo su alcuni argomenti che avevo lanciato nella discussione e mi sentii presto a mio agio. I timori svanirono come neve al sole. Avevo davanti a me un malato, cosiddetto terminale, che, con modi molto signorili, affrontava il dialogo ignorando completamente qualsiasi accenno alla propria malattia: ebbi subito l’impressione che, questo tema, spinoso e doloroso, fosse volutamente lasciato da parte come cosa che non lo riguardasse affatto, che non valesse la pena di essere affrontato nel dialogo con qualcuno che gli offriva l’opportunità di un momento di ‘evasione’. Scomparse le paure, mi sentii soddisfatto di avere avuto l’opportunità di fare questa esperienza. Notavo che, anche se qualche volta prendevo io l’iniziativa del discorso, la maggior parte delle volte era Federico che dava avvio a un nuovo ragionamento che appassionava entrambi e ci conduceva a identiche conclusioni. Parlammo a lungo dunque, in quell’occasione, di famiglia, figli, doveri, unione matrimoniale: entrambi, ritenevamo la famiglia un pilastro della società, ma, fatalmente, dovemmo riconoscere anche la possibilità di fallimento della vita di coppia. E qui mi trovai di nuovo a disagio. La mia storia personale mi pesava dentro. Che fare? Scelsi di parlargliene, confidandogli la mia situazione. Ma, decisi anche, subito dopo, che era meglio, in futuro, evitare di tornare sul discorso, se non me lo avesse sollecitato Federico, perché si trattava di problemi miei che non era il caso di scaricare su di lui. 53 LE ALTRE DOMENICHE Ormai era fatta. Federico mi aspettava; dimostrava contentezza nel vedermi arrivare alla domenica mattina; proponeva sempre nuovi argomenti alla discussione e parlava sempre volentieri. Molte delle cose di cui si parlava rientravano in materie conoscitive comuni: l’elettronica, la coltivazione dell’orto e del giardino, argomenti dei giornali e della TV. Federico era sempre aggiornato su tutti i temi più attuali: insieme evidenziavamo le contraddizioni che vivono la nostra società, i nostri figli. Ma, a poco a poco, da tali argomenti generici, i discorsi di Federico si spostarono anche su temi più personali, sul racconto di episodi e avvenimenti della propria vita. Aveva trovato il tempo, qualche anno prima, poco dopo la pensione, nonostante gli impegni di una famiglia numerosa e onerosa, di fare il volontario in terra di missione. Mi raccontò allora le sue avventure in terra d’Africa, in sperdute regioni: i lavori che aveva svolto laggiù e il tempo che aveva dedicato a compiti gravosi con intima convinzione e grande generosità, come poche persone riescono a fare. Ricordava il travaglio psicologico e la fatica fisica impiegati per portare a termine quei progetti che contribuiva a definire in Italia, prima della partenza, e a realizzare in quelle lontane terre. Si occupava soprattutto di manutenzione e di riparazioni di motori elettrici, ma più volte gli capitò di fare anche il muratore. Il suo approccio solidale alle popolazioni di quei lontani paesi era sostenuto da una fede forte e illuminante. Aspettavo ogni domenica con ansia e curiosità e mi accorgevo che quell’appuntamento settimanale con lui diventava per me sempre più importante e atteso. Ero curioso di ascoltare nuovi racconti ed episodi della sua vita affascinante che, man mano che il tempo passava, venivano sempre più corredati dalle immagini in bianco e nero dell’album della sua raccolta fotografica. Federico era ritratto sempre in mezzo a tanta povera gente, soprattutto bambini. La sua figura, alta e slanciata, era sempre amorevolmente china verso i bambini che lo circondavano e che apparivano provati da stenti e malattie. Non capitò mai che Federico parlasse con me della sua malattia, che mi facesse domande ‘difficili’, alle quali forse non avrei saputo come reagire. Più volte, ripensando alle nostre chiacchierate, ho avuto l’impressione che, nella sua grande sensibilità, abbia cercato di ‘proteggermi’ dal problema, delicato e doloroso, della sua infermità. Solo una volta, accennò alla morte: mi disse che non aveva paura di morire e che sapeva che non sarebbe guarito, ma subito aggiunse, con voce tranquilla e con atteggiamento un 54 po’ ironico: “Senti, Armando, quando muoio, ci vieni al mio funerale?”. Cogliendo la sua ironia, per stare al gioco, gli risposi che, se non fosse venuto prima lui al mio, sarei andato senz’altro al suo. Io non feci alcuna ulteriore osservazione sull’argomento, ma attesi un momento, prima di riavviare il discorso, per lasciargli il tempo di proseguire sul tema. Ma Federico cambiò subito ‘registro’ e prese a raccontarmi del suo tardivo pensionamento. Aveva compiuto quarant’anni di servizio, quando si congedò dal lavoro e avrebbe molto desiderato ritirarsi in una piccola casa colonica che possedeva nelle zone in cui era nato e in cui aveva vissuto la sua infanzia e un breve periodo da ragazzo. Rievocò con nostalgia momenti per lui stupendi vissuti con i genitori. Avrebbe voluto, anche se con tanti anni di distanza, esaudire il desiderio di papà e mamma che tanto avrebbero desiderato che coltivasse quel piccolo appezzamento di terreno attiguo alla casa, invece di vederlo impegnato nel lavoro in un’industria della città. Ricordava con rimpianto le passeggiate con suo padre, attraverso i campi, nella stagione migliore, in cui la natura è prospera, piena del profumo dell’erba appena falciata. Sembrava rivedesse le distese di grano quasi maturo che il sole faceva brillare di giallo oro, in contrasto con il verde scuro dei filari dei gelsi. Sull’albero di gelso mi fece una lezione speciale: mi spiegò dei frutti di questa pianta che molti raccoglievano, allora, per trasformarli in una specie di ‘vino’, distillandoli in un intruglio “brucia – gargarozzo”. E intanto sorrideva, ma mestamente. Poi riprese a parlarmi dell’importanza delle foglie del gelso che servivano per nutrire i bachi da seta. “A casa mia – mi diceva – si costruivano speciali scaffalature nel largo androne che separava la cucina dalla cantina; sopra questi ripiani si depositavano questi animaletti che venivano poi nutriti con le foglie del gelso. Era bello vedere come queste bestiole, giorno dopo giorno, si avvolgevano dentro un bozzolo ovale, fatto di tanti filini gialli, sottilissimi, lucidi, trasformandosi in materia prima per fare la seta.” Altre volte, mi raccontava dei filari di vite dietro casa, curati con tanto amore dal padre per produrre il vino per il consumo della famiglia. A Federico piaceva osservare la natura: guardare il ciliegio, con i suoi fiori bianchi che ricoprono completamente tutti i rami, tanto da trasformare la pianta in una nuvola di fiori che sembrano sospesi nel vuoto, tanto sono fitti; oppure ascoltare, nelle ore più calde della giornata, il ronzare delle api nel loro lavoro abitudinario di impollinatura. 55 Federico, parlando, si stancava e sentiva il bisogno di ritornare a letto. Allora lo aiutavo cercando di mettergli le cinghie del sollevatore, sotto le cosce e sotto le ascelle, il più delicatamente possibile. Federico manovrava poi, da solo, il pulsante della macchina che lo sollevava dalla carrozzella e lo adagiava lentamente sul letto. Così trascorrevano le nostre domeniche mattina e a me sembrava di avere trovato un amico. Scoprimmo, un giorno, di avere una conoscenza comune: la Vanda. Era una Volontaria che si occupava del trasporto di persone malate impossibilitate a muoversi da sole e che aveva lavorato anche nell’Associazione di Federico. Vanda divenne un ulteriore elemento di conversazione, dal momento che potevo aggiornarlo sulle più recenti ‘prodezze’ di questa comune conoscenza. Con Federico si parlava anche di fede e di preghiera. In una di queste occasioni, io gli confessai i miei dubbi e le mie perplessità per questo mondo inizialmente ben fatto, ma che gli uomini stavano guastando. Mi disse allora che comprendeva le mie perplessità: “I dubbi vengono a tutti, guardando le brutture da cui siamo circondati. Ma io, ho potuto approfondire e rinforzare la mia fede proprio in quelle terre sperdute dove ho toccato con mano la sofferenza, la disperazione, la fame. La mancanza di tutto e l’assurdità delle continue, inutili guerre seminanti solo disperazione, rendevano possibile pensare alla morte come a una liberazione da tutte le pene.” Fu in quell’occasione che Federico mi riparlò della sua morte. “Sai, caro Armando, come ti ho già detto io non ho paura di morire; ho solo qualche rammarico per le cose che avrei voluto fare, ma per le quali mi è mancato il tempo a causa di questa situazione in cui mi trovo.” E proseguì: “ E’ un periodo che faccio sogni strani, ma belli…. Ieri notte ho sognato di essere con mio padre, in un misterioso paese, pieno di luce, dove ogni cosa aveva i colori dell’arcobaleno… Ero felice di essere vicino a lui, anche per concludere una discussione iniziata fra di noi sull’importanza e il senso della vita e rimasta in sospeso per la sua morte improvvisa…. Nel sogno era entrata anche mia madre e così ho potuto dirle che l’avevo baciata più volte, nei suoi ultimi giorni di vita, quando ormai era assente con la mente… Mi sono sentito leggero e mi sembrava di volare…. È stata una sensazione meravigliosa …. E’ un po’ un mistero vivere in questi sogni, con i propri cari… Mi è venuto da pensare di essere in paradiso…. La vita riserva sempre delle sorprese e, nella consuetudine di tutti i giorni, ci fa conoscere il momento dell’origine e ignorare dove il nostro spirito inquieto troverà la pace…”. 56 Mi lasciò molta tristezza la conversazione di quella domenica, di un malato che sa che non ha più niente da perdere ed è quindi in grado di sciogliere tutte le energie del suo cuore che è ancora vivo e vorrebbe proseguire il cammino anche per continuare ad aiutare chi soffre. Pensavo alla fortuna che avevo avuto nell’incontrare una persona che, nell’incognita della sua semplice vita, e così vicino alla sua morte, sapeva dare a me fiducia nel futuro della mia stessa vita. Per la prima volta nella mia esistenza non breve, mi ritrovai, quella domenica, a guardare il cielo cercandovi Qualcuno da implorare affinché guardasse a tanta gente quaggiù che soffriva e aveva molto bisogno di aiuto. Ma poi pensai che, questo Qualcuno, non sarebbe stato in grado di recepire il messaggio di un miscredente incapace di sintonizzarsi sulla stessa Sua lunghezza d’onda. LA GELATINA DI MORE Passò l’estate e arrivò l’autunno. Il continuo scambio di confidenze, pareri, valutazioni, emozioni con Federico mi faceva sentire più ricco. La malattia, inesorabilmente, avanzava e, con essa, a volte, il mio imbarazzo, la mia impotenza di fronte a questo male e alla sua aggressività. Poi però, una semplice frase o richiesta di Federico, riusciva a riportare tutto in equilibrio. Come quella volta che, con grande semplicità e immediatezza, Federico mi disse: “Mi è venuto un gran prurito alla schiena. Dammi, per piacere, una grattatina”. Gli passai la mano sulla canottiera e, con la punta delle dita, feci il movimento richiesto, per dargli un po’ di sollievo. C’era voluto un po’ di tempo perché si creasse confidenza fra noi; ma ormai il rapporto era così solido che tutto diventava naturale nella relazione; anche toccare il suo corpo per un bisogno così semplice, ma così importante per chi da solo non è più in grado di soddisfarlo. La capacità di Federico di resistere seduto andava accorciandosi sempre di più. Il tempo martellava pesantemente sui nostri incontri. Restavo sempre impressionato dalla calma e dalla tranquillità con cui riusciva ad affrontare la sua malattia, aiutato dalla sua fede che gli infondeva il coraggio necessario a tenere accesa la speranza, inconfessata, ma intuibile, di un miglioramento. Una domenica, all’inizio dell’autunno, gli portai un vasetto di gelatina di more da me stesso prodotta e confezionata, ormai da qualche anno, con i frutti delle pianticelle del mio 57 giardino. E’ per me un divertimento prepararla e un piacere regalarla agli amici. Federico ormai era un amico e quindi diventava il destinatario di uno di questi vasetti. Federico apprezzò tantissimo il mio piccolo regalo e, qualche settimana più avanti, a non molti giorni dalla fine della sua vita, mi mandò a dire che avrebbe gradito un altro vasetto. Il male avanzava a vista d’occhio e, giorno dopo giorno, Federico diventava sempre più debole. Non riusciva più ad alzarsi e veniva sottoposto a continue trasfusioni di sangue. Parlando, si affaticava molto. Ma il suo spirito non cambiava: non sembrava quello di un malato così grave, ma nemmeno quello di un malato meno grave. A volte, riusciva proprio a farmi dimenticare di essere accanto a un malato. Qualche volta, oltre ad andarlo a trovare, ci parlavamo al telefono. Allora, Federico, mi chiedeva di portargli qualche frutto del mio giardino o del mio orto. Si ricordava perfettamente delle piante di cui gli avevo parlato e, dopo avere assaggiato i frutti che gli portavo, faceva commenti sul loro sapore, sul grado di maturazione, sulla dimensione, sulla consistenza della buccia…. Non gli sfuggiva nulla! Negli ultimi tempi, oltre a gestire la propria sofferenza con la solita forza di sopportazione, mi parlava del concorso che stava sostenendo il figlio più piccolo: mi confidava che era preoccupato per la fatica che stava affrontando questo figlio che, contemporaneamente, lavorava e studiava, ma non mancava di essere presente e vicino al padre ogni volta che gli era possibile. Man mano che si avvicinava la morte, Federico dimostrava di apprezzare sempre di più le cure del figlio maggiore, medico affermato; diceva che si sentiva sicuro nelle sue mani. Questo figlio apprezzava molto la mia gelatina di more, mi fece sapere Federico. Anche se ormai il tempo che la malattia gli concedeva per rimanere alzato era divenuto brevissimo, il ricordo delle prime domeniche di ottobre va alle nostre ‘colazioni’ assieme: la moglie ci preparava il caffè e lo accompagnava con qualche pasticcino o biscotto. Federico, seduto sulla carrozzina, di fronte a me, prendeva la tazzina con mano piuttosto ferma e si godeva il sapore della bevanda guardandomi con un sorriso. Poi, venne il momento in cui non fu più possibile mantenere neppure questo piccolo ‘rito’. Federico rimase a letto, non sempre del tutto cosciente. Ma non volle rinunciare alla rasatura della barba. Divenne quello, dunque, il mio compito del mattino, dopo le manovre di igiene compiute dalla moglie. Federico si passava la mano sul volto per controllare il livello di rasatura e, finita l’operazione, non mancava di richiedermi un’attenta pulizia del rasoio elettrico con l’apposito spazzolino. 58 Le ricche conversazioni delle precedenti domeniche cominciarono a lasciare il posto a lunghi intervalli di silenzio. Il male sembrava avere vinto, annientando le sue ultime resistenze e spegnendo le sue speranze. Stavo lì, accanto a lui, a guardare il suo lungo volto smagrito, affilato, orlato da radi, bianchi capelli a ciuffetti. Anche le sue mani erano lunghe, distese, immobili adagiate sopra le lenzuola. Gli occhi restavano chiusi e si vedeva che faticava ad aprirli. A tratti sembrava non rendersi conto di me, che stavo al suo fianco. A volte, uno dei famigliari lo chiamava e gli diceva che io ero lì, ma non si capiva se avesse compreso e mi avesse riconosciuto. Riandavo con il pensiero alle nostre passate, calde conversazioni e mi venivano in mente tante altre cose che avrei ancora voluto dirgli, raccontargli, chiedergli. Mi chiedevo se stavo comportandomi in modo adeguato, se non avrei dovuto fargli o dirgli qualcosa di più o diversa da ciò che stavo facendo e dicendo. Era forse il secondo momento difficile del mio primo intervento di Volontario. Se pensavo a quanto ero preoccupato all’inizio, mi rendevo conto che, in un certo senso, era questa, invece, la fase più delicata. All’inizio, in fondo, Federico mi aveva aiutato: eravamo in due nella situazione e lui aveva collaborato a rendere possibile il nostro rapporto. Con il suo modo di fare spontaneo e diretto, anche se molto misurato e composto, mi aveva permesso di entrare piuttosto velocemente in sintonia con lui e si era ‘fidato’ di me, anche se ero uno sconosciuto e, certamente, aveva avvertito le mie insicurezze iniziali, la mia inesperienza. E pensavo anche a quanto lui era stato importante per me. Conoscere la sua storia, la sua vita, il suo pensiero, mi stavo rendendo conto, mi aveva in un certo senso “maturato”. Il suo modo di affrontare la malattia, con tanta dignità e compostezza, era stata una lezione di vita indimenticabile, ma anche, mi rendevo conto, poco ‘traducibile’ in parole. Emozioni, sentimenti, più che pensieri, mi attraversavano in quei momenti in cui mi sentivo anche un po’ solo, un po’ sperso, come un po’ “abbandonato” da lui. Federico aveva iniziato un percorso a cui non potevo ‘partecipare’ direttamente. Mi sentivo come uno spettatore coinvolto dalla scena, ma giù dal palcoscenico. Ma forse, la vera rappresentazione, si giocava dentro di me. Dentro il mondo delle confidenze reciproche, dei ricordi evocati dalle chiacchierate con Federico, dei pensieri rinnovati dalle sue considerazioni. Federico era lì davanti a me, nell’involucro del suo corpo sofferente, ma era anche e soprattutto dentro di me, dove sarebbe rimasto. Federico se ne stava andando, era sempre più assente; ma sentivo che quello stargli accanto fino alla fine lo radicava maggiormente in me. 59 Non sentii più bisogno, negli ultimi giorni e nelle ultime ore, di vedergli riaprire gli occhi o di risentire la sua voce. Bastava che chiudessi gli occhi e i suoi toni di voce bassi riecheggiavano nelle mie orecchie. Federico si spense in uno dei primi giorni di un novembre tiepido, circondato dall’affetto dei suoi famigliari che, in ultimo intensificarono tutti la loro presenza al suo capezzale. Non assistetti alla sua morte, perché la famiglia scelse di essere la protagonista unica di quel momento. Ma Federico rappresenta un po’ una sorta di pietra ‘miliare’ nella mia storia di volontario, anche perché, accanto all’aiuto fisico, pratico che può essere utile dare a un malato grave, mi ha insegnato che è importante non scappare davanti alla morte, ma che si può avvicinarla senza spaventarsi troppo, soprattutto quando dal ‘morire’ viene un insegnamento di vita. Penso oggi che potrebbe essere utile, per altre persone, vivere un’esperienza analoga: per il malato e la sua famiglia, sentirsi affiancato da qualcuno che mette a disposizione una presenza discreta, ma affidabile, e, soprattutto non tecnica, non paternalistica, non interventista; per il volontario, incontrare e conoscere altre dimensioni dell’esistenza, quasi sempre rifiutate e negate, ma ricche di valori. 60 Attimi, sguardi, domande e poco altro ancora a cura di ausiliarie socio-assistenziali e infermiere professionali della provincia di Mantova. ‘Non avere paura Maria’ L’esperienza che abbiamo particolarmente vissuto e che ricordiamo con affetto è la storia di un ospite autosufficiente, la signora Maria, da parecchi anni in Casa di riposo, deceduta pochi giorni fa. La signora è stata portata in Istituto perché il lavoro dei figli non permetteva la vita nella sua abitazione, così fu deciso per l’istituzionalizzazione. La Maria si era ambientata senza problemi perché conosceva altri ospiti compaesani. Con la signora s’instaurò un rapporto d’amicizia e l’ospite è sempre stata gentile con il personale, non causando mai difficoltà assistenziali. La leucemia fu diagnosticata a febbraio e la portò progressivamente ad uno stato di non autosufficienza con forti reazioni di rabbia e paura della morte, non accettando la malattia. La lontananza dei figli aggravò la situazione e l’assistenza si fece difficile e particolarmente vissuta dal personale, vista l’amicizia passata. La malattia la costrinse a lunghe terapie trasfusionali e ad una debilitazione fisica arrivata agli estremi della sopportazione. Venne programmata un’assistenza mirata a sostenere l’aspetto psicologico ridotto a pezzi. L’ospite desiderava morire nel suo letto vicino al figlio e alla figlia. Le ore precedenti la morte furono molto penose e portarono ad aggravamento immediato richiedendo la presenza del medico curante che per cause ignote non poté presentarsi, consigliando telefonicamente l’intervento del 118. Così venne fatto e Maria fu trasportata d’urgenza ma morì nel tragitto per l’ospedale, lontano dai figli e in una barella dell’autoambulanza. La nostra delusione e la disperazione dei figli ci portarono a riflettere sul significato della vita e sul senso della morte. 61 Ancor oggi, scrivendo la storia di Maria, la rabbia è tanta e avremmo voluto salutarla e starle vicino quando stava morendo e dirle di non avere paura, che ci saremmo riviste in un altro mondo, invece non siamo riuscite a fare niente. ‘Quante ne abbiamo passate insieme!’ Il signor Alessio, emiplegico aggravato, era stato portato in struttura dai familiari perché non riuscivano più a gestire la situazione per il lavoro che avevano e perché lui era seminfermo. La loro era una famiglia di stampo patriarcale e anche se avevano portato il padre in casa di riposo, lo seguivano moltissimo: lo venivano a trovare tutti i giorni e lo portavano a casa tutte le domeniche a pranzo. Era una famiglia molto unita. Anche con noi del personale avevano particolarmente legato, si era instaurato un buon clima. Il rapporto è stato lineare fino all’aggravamento del signor Alessio: è rimasto in fase preterminale per 15-20 giorni. Nessun parente lo ha mai abbandonato, c’era sempre qualcuno con lui. Noi del personale eravamo spesso in stanza e ogni volta i familiari esprimevano una richiesta d’aiuto, un cenno di miglioramento che purtroppo non avveniva. Per me era la prima esperienza di morte vissuta veramente e la situazione, a livello emotivo e psicologico, era divenuta molto pesante; io mi ero affezionata e stavo male sia per l’ospite che per i familiari. Dopo l’agonia, l’ospite è morto. Mi è dispiaciuto molto ma da questa esperienza ho dovuto imparare a farmi coinvolgere ma non troppo. I parenti dell’ospite a volte li vediamo ancora e ci invitano sempre ad andare a bere un caffè da loro, ricordandoci ‘ quante ne abbiamo passate insieme ’. E’ come se, condividendo l’esperienza della morte, fossimo diventati parte della loro famiglia. ‘ Angela che non vuole disturbare ’ Andavo dalla signora Angela durante il mio servizio d’assistenza domiciliare. 62 Angela aveva subito due crisi d’infarto per cui non riusciva a svolgere pienamente le mansioni domestiche, oltre tutto abitava da sola; per questi motivi andavo a darle una mano ed a farle un po’ di compagnia. Ad Angela piaceva passeggiare, così dopo aver svolto i lavori a casa andavamo a farci una breve camminata. Parlavamo di tutto, della vita, un po’ della sua e della mia, di politica, ma negli ultimi periodi anche della fede. Mi esprimeva la sua fede ed ogni tanto mi diceva: “Quando sarà la mia vita ora sarà come il Signore vorrà”. Avevo come un presentimento, che quelle sue parole anticipassero qualcosa. Nei giorni seguenti quando andavo a trovarla mi diceva che non stava molto bene, di notte, che le faceva male il cuore. Le dissi di non indugiare a chiamare il pronto intervento con il telesoccorso ma lei non voleva, diceva che non voleva disturbare. Purtroppo dopo qualche giorno fui informata dall’assistente sociale che Angela era morta. Aveva chiamato il telesoccorso quando era stata di nuovo male. La prima volta si era ripresa ma la seconda non ce l’aveva fatta. Alla notizia della morte di Angela sono rimasta molto emozionata anche perché viveva da sola e da sola se ne è andata. ‘ Padri e figlie ’ Rino 77 anni. Maggio 1988. Operato di tumore allo stomaco, trascorre circa 20 giorni in ospedale. Tutto bene, viene dimesso. Noi figlie gli diciamo che è stato operato di ulcera. Per 2 anni circa prosegue la sua vita normalmente, mangia senza problemi, beve ed esce ancora come prima. Gennaio 1990. Ricomincia a lamentarsi. Viene ricoverato di nuovo in ospedale e da lì inizia a perdere una parte della sua lucidità. Dice cose strane, non vere: “mi vogliono far morire, guarda quello lì mi uccide”. 75 anni. Marzo. 63 Inizia a mangiare meno, esce poco, diventa pigro, resta quasi tutto il giorno a letto, si alza solo per mangiare. Più il tempo passa più si lamenta dei dolori, del freddo. In agosto viene ricoverato di nuovo per delle cure. Dopo 18 giorni è dimesso. Incomincia a dire che lui in ospedale non ci va più, vuole restare a casa sua e dormire nel suo letto. Ottobre. Qualche giorno prima della sua morte dice che vuole andare al cimitero a trovare mia sorella (sua figlia) che è morta 8 anni fa. Noi cerchiamo una carrozzella per portarlo perché non ce la faceva più a camminare. Tutto pronto. Lui dice: ”no, domani ci vado da solo”. Alla sera ci ha salutato tutti dicendo che sarebbe morto. Infatti alle 6 del mattino si è spento serenamente. Ho provato dispiacere e tristezza, mi sono sentita abbandonata, era mio padre. Ma tante domande non riescono a trovare risposte. Che cosa si sentiva? Perché? Matilde, 85 anni, vedova. Una donna lucida, sana. Nella sua vita, mi raccontava, non era mai stata ammalata, tranne una qualche influenza. Nell’ottobre 1993 si sente un lieve mal di gola e bruciori allo stomaco. Chiama il dottore. Dice che è cosa da poco. Le ordina dei farmaci ma il dolore continua senza sosta. Il medico la manda allora in ospedale per fare degli accertamenti: tumore all’esofago e stomaco con metastasi, non c’è più niente da fare. Lì vi resta per circa un mese. Gennaio 1994. Viene in casa di riposo, contro la sua volontà. A casa non avrebbe avuto assistenza continua perché sola. In casa di riposo a iniziato a non alzarsi. Trascorreva le sue giornate a leggere e a pregare. I primi tempi riusciva a mangiare purea, carne macinata, minestrine. Più il tempo passava meno si alimentava, bevendo solo yogurt, caffelatte, frullati. Trascorsi altri sei mesi non riusciva a ingerire più niente tranne un qualche sorso d’acqua. La nutrivano con dei flebo; restando sempre lucida diceva: “guarda Anna, ho lavorato tanto nella mia vita, mi tocca tribolare anche per morire. Mi tocca morire qui, nel ricovero, che a casa ho il mio letto vuoto. Se avessi avuto una figlia come te non sarei qui. 64 Domenica 8 agosto 1994 si è spenta. Ho provato tristezza, era stata la mia vicina di casa per molti anni. Ho provato sollievo, ha finito di soffrire. Ho provato rabbia, non ho potuto fare niente per accontentarla a morire nel suo letto. Come lei desiderava. ‘ Soli in due ’ E’ una donna di 85 anni di nome Lidia, affetta purtroppo da una malattia inguaribile ed evolutiva a prognosi infausta, in condizioni tali da indurre un’aspettativa di morte in tempi relativamente brevi. Un cancro al polmone. Un cancro al polmone. Mi viene assegnato l’incarico di assistere a domicilio questo ‘caso’. Mi è stato molto difficile affrontare l’approccio con la signora, e la conoscenza stessa, in quanto come persona era assai vitale, indipendente, forte, precisa, nonostante il suo stato. E nello stesso tempo molto speranzosa. Lidia abitava con il marito in una villa esageratamente grande sulla collina del lago di Garda. Aveva tutto, non le mancava niente, ma le mancava il tempo per vivere ancora. Ogni mattina raggiungevo i due coniugi nella loro casa dove il marito Luigi, premuroso in tutto, mi seguiva in ogni intervento che eseguivo a sua moglie, mi suggeriva e mi indicava come dovevo comunicare con lei. Io la lavavo, la stimolavo a lavarsi, le parlavo, le chiedevo di parlare con me. Le davo la terapia e le iniezioni. Insieme passeggiavamo in casa, raccontavo delle cose per spezzare un po’ quel silenzio immenso, ma era più forte di me perché intorno non ricevevo nessuna risposta né da Lidia né da Luigi, solo tristezza e sguardi fissi. Il marito di Lidia era molto depresso e preoccupato perché sapeva che la moglie sarebbe stata ancora con lui non più per tanto tempo. Ne parlava tutti i giorni sfogandosi con me, nel momento in cui mi accompagnava al cancello. Esprimeva le sue ansie, la tensione, il terrore della solitudine nell’affrontare la morte della moglie, magari improvvisa, di notte, quando non c’è nessuno. 65 Io lo ascoltavo e lo ascoltavo e la proposta era quella di chiamare la figlia lontana, residente in Francia, perché si trasferisse per un po’ di tempo con loro. La signora attenuava i momenti di gioia con il pianto; essendo stata scrittrice, aveva ricevuto coppe, medaglie, riconoscimenti e lodi varie dalle autorità letterarie. Insieme al marito mi commemorava la loro vita, dal primo incontro fino a questo momento, mi colmava di emozioni, ma tutto all’improvviso travolgeva in lacrime e pianto. Probabilmente Lidia era consapevole della sua fine, nonostante la volontà del marito di nascondere. Ma come si fa, essendo soli in due? Da una parte lei che se ne rende conto e dall’altra lui con il sentimento di rimanere solo. Poi la signora sta male e viene trasferita in ospedale. Ho smesso di andare. Pochi giorni dopo sento al telefono Luigi che mi comunica la morte della moglie. Spesse volte mi ritrovo a pensare. ‘ Atto di dolore ’ Lavorando in una casa di riposo la morte è una realtà purtroppo quotidiana. E’ inevitabile quindi che ogni persona che muore susciti in me sentimenti diversi e a volte persino contrastanti. Questo comportamento è sicuramente dovuto al rapporto che si ha avuto con l’anziano durante il lavoro, quando è ancora in vita. Capita di provare persino gioia, come se la morte avesse liberato da un peso non solo me, alleggerendomi il lavoro, ma talvolta anche l’utente stesso, perché è arrivato ormai alla fine del suo travaglio e delle sue sofferenze. Il sentimento che prevale però rimane sempre la tristezza ed il senso di impotenza, soprattutto se la morte arriva improvvisa suscitando nell’anziano un comportamento di disperazione e di paura. Una situazione simile mi è capitata parecchi anni fa ma mi ha fatto una tale impressione che ancora la ricordo con dolore. La signora era molto avanti con l’età. Aveva 90 anni ed era affetta da diabete mellito. Era però ancora in buone condizioni fisiche: deambulava da sola, era autosufficiente nella diuresi; veniva solo aiutata a lavarsi e nel venire accompagnata nella sua stanza al quarto piano. 66 Una sera, dopo aver consumato la solita cena, lavata e accompagnata nella sua stanza, tutto sembrava tranquillo mentre, dopo una ventina di minuti, si sentì suonare ininterrottamente un campanello. Era la sua vicina di letto che sentendo la signora lamentarsi ci avvisava. Sono corsa immediatamente ed ho visto che la signora era in condizioni gravi. Ho avvisato l’infermiera che si trovava al piano terra. Questa ha ritenuto opportuno misurare il diabete e, data la gravità della situazione, è corsa di nuovo a prendere l’insulina. Nonostante tutti gli sforzi i minuti passavano e ognuno di questi contribuiva ad aggravare sempre di più la situazione. Nel frattempo io cercavo il più possibile di confortare la signora stringendola fra le mie braccia. La signora era però molto disperata perché consapevole di ciò che le stava accadendo e di fatti, in un atto di dolore e nello stesso tempo di rabbia, ha urlato per la prima e l’ultima volta il mio nome. In quel momento mi sentii terribilmente inutile e impotente, fino a che il terrore paralizzò anche me nel vedere quella signora morire tra le mie braccia. ‘ Due ore ’ La signora Carla, affetta da cancro mammario sinistro. Le fu diagnosticato nel 1989. Lei decise di non farsi operare perché sapeva che oltre all’intervento avrebbe dovuto sottoporsi a chemioterapia, quindi rifiutò. Quando entrò in ospedale aveva già metastasi polmonari e ascellari e il tumore aveva invaso tutto il tessuto cutaneo con evidente necrosi. Un pomeriggio, ormai in fase terminale, ha avuto una crisi dispnoica. Io ho chiamato il medico che mi ha fatto eseguire ECG, applicazione di catetere vescicale, impostazione di terapia infusiva a due vie, applicazioni di microinfusore con morfina. Intanto la paziente si continuava a lamentare e diceva di lasciarla morire in pace, che tanto era arrivata la sua “ora”. Ad un certo punto mi ha preso la mano e mi ha detto: “potrei essere tua madre, perché non mi lasci morire in pace, senza torturami così?” 67 Mi sono sentita malissimo e per un secondo sono rimasta come bloccata, perché in quel momento non sapevo più se ascoltare i miei sentimenti e dire ‘ lasciamola morire in pace ’ oppure se seguire la mia etica professionale e fare tutto ciò che era necessario e giusto. Ha prevalso la parte professionale e ho continuato il mio lavoro. Dopo due ore la paziente è deceduta ed io mi sono chiesta se non fossero state inutili tutte le ‘cure’ che abbiamo cercato di darle. Le ‘cure’. ‘ Dollj ’ Dolores era una signora di 89 anni deceduta nel settembre 1989 in casa di riposo dopo una lunga e sofferente agonia. Ormai debilitata da tempo perché affetta da tumore renale, ha iniziato il suo peggioramento clinico nella primavera non riuscendo più a deambulare ed alimentarsi. L’estate è stata un susseguirsi di ricoveri in ospedale, creando maggiore ansia nei familiari a lei molto legati. Le prime ansie e indecisioni avvertite da tutto il personale sono state create dai parenti stessi in quanto non contenti di un solo parere medico: continuavano a farla visitare da un internista dell’ospedale nel quale avevano riposto la loro fiducia durante i vari ricoveri. Al suo rientro in struttura i familiari cercavano di coordinare i nostri interventi soprattutto in campo medico e infermieristico, insegnando agli operatori come imboccarla durante i pasti, come somministrare la terapia orale e con il medico esponevano le loro perplessità riguardo all’assistenza. Tutto questo creava molta insicurezza e imbarazzo in noi poiché non potevamo intervenire su Dolores in modo autonomo, senza lo sguardo vigile dei familiari. Dopo l’ultimo peggioramento per sospetta emiparesi, l’atteggiamento dei parenti era cambiato; a questo punto il difficile era decidere di continuare con ‘l’accanimento terapeutico’ oppure rispettare le loro volontà, lasciando Dolores tranquilla e cercando di ‘curarla’ nel suo ambiente. Proprio per questo motivo è stata poi trasferita in una stanza singola, dove si è riuscito a garantire la giusta privacy. In questa stanza i familiari potevano accedere in qualsiasi momento della giornata, fino a tarda notte. 68 Durante l’ultimo periodo di malattia in casa di riposo, Dolores era definita da qualsiasi medico che l’aveva visitata ‘paziente in fase terminale’. Ormai sia i familiari che gli operatori stessi erano preparati alla sua morte, sempre più se ne parlava, riflettendo sulla dura sofferenza cui Dolores aveva dovuto sottoporsi. Tra noi operatori era iniziato il ’ripasso’ del “protocollo di decesso” per non trovarci impreparati al temuto evento. Infine, una notte di settembre, Dolores è spirata; gli operatori in turno hanno cercato di agire nel modo più corretto, garantendo un’adeguata sistemazione della salma. Il sentimento più evidente nei familiari è stato il rimorso di non essere stati presenti nel momento dell’avvenimento triste, dopo tutta l’assistenza fornita alla loro cara. Successivamente i parenti hanno pregato, recitato il rosario per tutta la notte, senza lasciare Dolores nemmeno per un attimo. Alla notizia il personale ha reagito in modo discreto e rispettoso; ognuno di noi si è comportato in modo diverso: alcuni hanno voluto ricordarla in silenzio, altri partecipando al funerale ed altri con fiori. Tutti sapevamo che il nostro atteggiamento non era corretto se paragonato a quello degli altri ospiti ma Dolores era la nostra Dollj. ‘ Brividi ’ Una chiamata improvvisa diceva: “correte, mia madre sta male, è pallida, è sdraiata sulle scale, immobile, aiuto, presto”. Era la mia prima uscita in autoambulanza ed ero molto agitata per cosa avrei dovuto fare dopo pochi minuti. In due minuti e trenta secondi siamo giunti sul posto dell’intervento: la signora era pallida, tra le braccia della figlia seduta sulle scale, priva di conoscenza. Io e Paolo, l’infermiere, abbiamo sdraiato la signora su un piano rigido, abbiamo collegato il monitor che mostrava un grande infarto del miocardi; immediatamente Paolo ha incominciato ad eseguire il massaggio cardiaco; a me era stato affidato il compito di ventilare con maschera ed ambu la paziente, dopo aver posizionato la cannula di Majo. Ero agitatissima per la grande responsabilità che mi era stata affidata, tanto da non sapere se ciò che facevo era corretto o meno. Trasportata sull’autoambulanza con l’aiuto dell’autista, abbiamo continuato le manovre rianimatorie, ostacolati dalla velocità con cui proseguivamo per giungere in ospedale. 69 Una volta arrivati, la frequenza cardiaca era di 16 battiti al minuto, valore che siamo riusciti a mantenere per tutto il tempo dell’intervento attraverso manovre di nostra competenza, per poi effettuare tutti gli altri accorgimenti che necessitano della presenza del medico. In pronto soccorso il medico, non riuscendo ad intubare la paziente, disse: “lasciamola andare, ormai è troppo tardi”. In quel momento mi sono sentita come se qualcuno mi stesse dando una pugnalata mentre un brivido saliva dai piedi. Quella esclamazione mi fece pensare molto per quello che io e Paolo avevamo fatto. Io in modo particolare mi sentivo in colpa perché sapevo che il mio comportamento non era stato all’altezza se confrontato con quello di un infermiere professionale con esperienza da tempo in pronto soccorso. Il giorno successivo ne parlai con Paolo e mi disse di non preoccuparmi perché non era né colpa mia né sua: la signora era veramente grave ed era stato un miracolo se eravamo riusciti a portarla in ospedale in quelle condizioni. Sapevo che Paolo aveva risposto così per consolarmi ma non riuscivo a capire come i nostri sforzi per mantenere la paziente in vita fossero stati troncati in quel modo. Ancora oggi non comprendo come un medico possa arrendersi così di fronte ad una situazione come questa, proprio lui che dovrebbe salvaguardare la vita, proteggerla, tentare con qualsiasi mezzo, sempre nel rispetto del soggetto, con qualsiasi mezzo. ‘ Perché piangere? ’ Mi trovavo a fare tirocinio in Unità coronarica nell’ospedale di Mantova. Ero lì da soli 4-5 giorni. Un paziente cardiopatico ricoverato da circa due settimane, era peggiorato da qualche giorno. Si trovava all’ennesima crisi cardio-respiratoria. A quel punto una delle infermiere mi chiamò. Io corsi al letto del paziente. Era sudato e cianotico. L’infermiera mi disse di posizionargli la cannula di Guedel per poi procedere alla ventilazione mediante il pallone Ambu. A quel punto non ero più l’allieva, a quel punto eravamo io e il paziente che stava per morire. Aveva bisogno del mio intervento ed io sentii questo peso da subito. L’infermiera mi lasciò sola con lui dicendomi di chiamarla se avevo bisogno. 70 Io continuai a ventilarlo per un lungo periodo di tempo, perlomeno lungo mi sembrò. Lo fissavo cercando di cogliere i segni di alterazioni del suo stato dalle papille, colorito del viso, sudorazione e nello stesso tempo cercando di fare del mio meglio perché la sua vita era legata ad un filo che io potevo rompere. Questa frase sembrava risuonare all’infinito nella mia mente. Pensavo che quell’infermiera era stata davvero incosciente a lasciarmi sola con quell’uomo, forse ‘cattiva’ perché ero alla mia prima esperienza così grave. Forse il mio rifiuto era un rifiuto alla morte e mi dicevo: “perché proprio io qui?” La scena fu completata dall’arrivo della figlia di quell’uomo. Si sedette accanto al padre, apparentemente tranquilla. Fissava gli occhi del padre e subito dopo i miei come per capire cosa accadesse. Ricordo che la sua prima frase non fu riferita a lui, del tipo ‘come sta?’, ‘ce la farà?’ ma a me; mi guardò e disse: “così giovane…ma come fai a stare qui? E’ proprio vero che bisogna essere portati”. Io non riuscii a dirle niente, niente di niente, non una parola. Ricordo che la guardai con occhi rammaricati come se lei dovesse consolare me e subito distolsi lo sguardo per tornare alla realtà. Di lì a poco tornò l’infermiera accompagnata dal medico. Per tutto il pomeriggio non toccammo l’argomento e io continuavo a nutrire un senso di rammarico verso la collega. L’uomo riuscì a superare la notte, ma il pomeriggio seguente ci lasciò. Io non ero di turno, rientrai la mattina dopo e la notizia mi fu comunicata, tra l’altro, dalla stessa infermiera. Al momento non dissi nulla, sembrava quasi che avessi cancellato il fatto ma poi esplosi in un pianto liberatorio. Perché piangevo? Piangevo perché mi sentivo impotente, piangevo perché avendo conosciuto quella persona mi ci ero affezionata, piangevo perché ero ancora arrabbiata con lei. L’infermiera mi abbracciò e mi disse che non dovevo vergognarmi. Il pianto è segno di umanità e spesso serve per prendere cognizione dei fatti. Mi spiegò che non mi aveva lasciata sola con quel paziente grave per cattiveria o per sua comodità ma semplicemente per rendermi responsabile delle mie azioni: casi come quello mi sarebbero potuti capitare frequentemente e d’ora in poi sarei stata più pronta. 71 Ripensando oggi a quell’episodio, matura di altre piccole esperienze, non posso che ringraziare quella ragazza ed alla domanda che mi ero posta nell’attimo di crisi: ‘perché proprio io sola…qui?, rispondo ‘perché no?’. La morte non deve fare paura, fa parte della vita e per quanto riguarda i sensi di colpa bisogna tenere presenti che come operatori sanitari ci accolliamo continuamente delle piccole e gravi responsabilità. Ma come esseri umani non siamo onnipotenti. Quell’episodio mi ha fatto inoltre pensare quanto sia importante il confronto tra colleghi. Spesso noi operatori siamo portati a prestare talmente tanta attenzione a ciò che dobbiamo fare durante l’assistenza al paziente morente che, di fronte alla sua fine, quasi non ce ne rendiamo conto. Spesso rimaniamo freddi come ghiaccio, un po’ per orgoglio, un po’ perché ci manca il tempo fisiologico d’interiorizzare l’evento. E allora silenzio, tutto viene nascosto, apparentemente cancellato. Dico ‘apparentemente’ perché non credo sia umano cancellare una realtà come farebbe un computer sul dischetto. Trovo giusto invece ‘ tirare fuori ’ i propri sentimenti, le sensazioni evocate, parlando con altri della propria esperienza per poter elaborare positivamente l’evento. ‘ Senza parole ’ Iolanda, una signora che visse per molti anni nella casa di riposo. Era sola, senza parenti o persone a lei care, il suo unico desiderio era di morire nel suo letto. Preparò con cura minuziosa il giorno della sua morte. Mise in una valigia gli abiti che voleva indossare, la collana di perle con orecchini coordinati, la corona da mettere tra le dita, altri oggetti che voleva nella bara e una lettera dove spiegava le sue ultime volontà. Desiderava morire nel suo letto, non voleva assolutamente morire in ospedale da sola. Aveva il terrore di essere sola anche in quel momento. La sua lettera si concludeva con un arrivederci al giorno in cui ci saremmo rincontrati nell’aldilà. 72 Purtroppo in fase terminale venne mandata all’ospedale, anche se lei implorava il medico di farla morire nel suo letto. Dopo un paio d’ore morì. Mi addolora il fatto di non aver avuto il coraggio di lottare per far rispettare la sua volontà. 73 Caro Franco di Lorenzo Purini Caro Franco mi manca la tua voce, la tua forza, il tuo coraggio. Nei mesi scorsi mi hai regalato un'esperienza che porterò con me per tutta la vita. Ti ricordi, Franco, quando ci hanno presentati? Abbiamo riso spesso di quel giorno. Ti ricordi? Erano tutti tristi in volto; tutti tranne te. Nessuno poteva sapere che la consapevolezza di convivere con il cancro è capace di strapparti il cuore, attimo dopo attimo, ma è anche fonte di forza eterna. C'è ancora, oggi, qualcuno che non sa come fosse possibile che io e te potessimo riempire i giorni con le nostre risa, con i nostri scherzi. Ti ricordi, Franco? Anche in ospedale c'era chi provava a sgridarti per quello che chiamavano "esuberanza". Ti ricordi? Quanto abbiamo riso su quella parola. Ora ti confesso che anche io ero un po' sorpreso per la tua serenità. I medici con me erano stati più buoni: il mio cancro era meno cattivo del tuo o, meglio, un po' più debole. Per me era più facile vivere la malattia con coraggio. Eppure, Franco, eri tu che trascinavi, ostinato, la nostra serenità. E la nostra dignità. Ed io, illuso, ho pensato di pregiarmi dell'esserti d'aiuto. E di conforto. Mi sentivo forte, io, ricco di una giovane età e della sua spavalderia. 74 Ecco, Franco, è da questa mia convinzione che è nata la voglia, l'esigenza di accompagnarti alla morte. Ho saputo da subito che quel tragitto sarebbe stato breve. L' ho saputo quando ci hanno presentati. Quando erano tutti tristi in volto; tutti tranne te. Ti ricordi? Quel giorno ci siamo incontrati per la prima volta e già ci conoscevamo l'un l'altro più di quanto si conoscono gli amici di una vita. E' paradossale, eppure la tragedia d'essere malati ci ha regalato la sensibilità per poter confondere le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre gioie. Mi hai lasciato entrare nel tuo nuovo universo. Un mondo diverso, difficile da abitare, ma del quale ti sei saputo imporre padrone. Eppure il ricordo del passato era ancora vivo, indelebile ed onnipresente nelle tue parole. Da ogni tuo racconto traspariva l'orgoglio del tuo esserci stato. Mi raccontavi delle goliardie del giovane Franco, delle cadute e di come ti eri saputo rialzare nel lavoro e negli affetti. A volte, Franco, non riuscivo a comprendere dove finisse la tua storia e dove questa lasciasse il posto all'immaginazione. E tu te ne accorgevi. Capivi che non era facile immaginarti protagonista di tali avventure, e ciò per il nuovo universo in cui eri costretto a vivere. Già, quella stanza con piccole fotografie ovunque, incorniciate sul muro, sui mobili, oppure custodite gelosamente in grossi album. E poi le medaglie vinte in competizioni sportive e messe in bella mostra tra i pochi spazi rimasti liberi dalle foto. E poi quella poltrona che avevi attrezzato in modo da poterti ospitare anche nelle notti in cui i dolori non ti permettevano di trasferirti nel letto. Ed accanto a quella poltrona, un piccolo divano sul quale ho passato innumerevoli giornate e sul quale, nel ricordo, trascorrerò nuovi attimi per sempre. E davanti a noi quell'enorme televisore che ti eri procurato. Dicevi che con quello ti portavi il mondo a casa. A tua disposizione. Quante sensazioni nuove mi hai regalato. Parenti, amici e conoscenti ti passavano davanti. Si fermavano con te per qualche attimo della loro vita frenetica. Sembrava, a loro ma non a noi, che fossero loro a portarti conforto, affetto, compagnia. Noi no. Noi non ci siamo mai fatti ingannare: sapevamo entrambi che quelle visite erano una risposta ad un loro bisogno; non al tuo. 75 In quella stanza sommersa dalle foto eri capace di stare seduto lasciando che ti passassero davanti pronunciando frasi di cortesia. Ogni persona aveva un modo diverso per starti accanto. Qualcuno più impaurito, qualcun altro più deciso. E la mutevolezza di queste persone si scontrava con la tua costanza. Ti ho osservato quando attorno a te tutto viveva mentre tu assistevi, in silenzio, a quell'interminabile balletto. Eppure eri tu il fulcro, il centro di quel nuovo mondo. Ti ricordi, Franco? Anche io, lo ammetto, ho sempre pensato di esserti d'aiuto e di conforto. Ho sempre ascoltato le tue parole credendo di farlo per lasciarti sfogare, o per aiutarti a riempire i giorni che ti separavano dalla morte in modo sereno. E invece no. Ero io ad assorbire conforto dalle tue parole. Parole dalle quale, giorno dopo giorno, diventavo sempre più dipendente. E le mie parole? Quante ore passate a convincerti che i tuoi dolori sarebbero cessati, che la sofferenza avrebbe lasciato il posto al ritorno alla tua vita di allora. Ed invece, ancora una volta, ero io ad avere bisogno di pensare a ciò. E tu non mi hai mai portato alla realtà. Quella realtà che ti portava a spegnerti. Mi lasciavi parlare aspettando che mi convincessi. Avevo bisogno di credere che tutto sarebbe finito bene. E tu lo sapevi; hai sempre saputo che della nostra esperienza ero io ad avere bisogno. Ecco perché non hai mai violentato le mie speranze, e tra queste la più importante: sapere di esserti di conforto. Ho sempre cercato le argomentazioni più diverse, a volte improbabili, per regalarti i motivi per continuare a sperare e per convincerti che il progredire testardo dei tuoi dolori era un’evoluzione normale della convalescenza. E per ogni tuo disagio trovavo una motivazione. Sempre più impossibile, ma della quale sembravi esserti lasciato convincere. Eri troppo acuto per contraddirmi, per portarmi alla ragione. Mi sono sempre chiesto il motivo per cui lo facessi ed ho sempre pensato che fosse un modo per convincere te stesso. Avrei dovuto capire da subito che il tuo accettare, il tuo starmi ad ascoltare senza contraddire era un segno del fatto che tra noi due ero io ad avere un disperato bisogno dell'altro. E quando ti ho visto guardarmi quell'ultima volta, in quell'attimo eterno, sono stato paralizzato dall'intuizione che ogni mio sforzo fosse stato inutile. Inutile per te. E che 76 tu sapessi già tutto e molto più di me. Ed il solo sospetto d'aver intuito il giusto non mi abbandona più. Come i pianti. Ti ricordi, Franco? Quante parole per cercare di fermare le tue lacrime. Eppure riuscivi a lasciarti incoraggiare anche da loro. Mi dicevi che piangevi perché eri un uomo. Mi dicevi che se tu non fossi stato un uomo non avresti pianto, perché non avresti odiato la malattia. Ma non avresti neanche amato la vita. E così passavano i giorni. Fino a quello in cui sono stato avvertito che stavi molto male. Mi sono precipitato davanti alla tua poltrona rossa. Mi hai guardato fisso negli occhi, ostinato come sempre. Non hai provato a parlarmi, segno chiaro che ti era impossibile. Segno certo che non avresti mai più parlato. Anche gli occhi stavano per chiudersi. Non avevi più cose da guardare, dolori da sopportare. Mi invase un pensiero che si risolse in un enorme impatto: da oggi potrai ascoltarmi meglio. Ora ne sono certo: sono stato io, e sono io, ad avere avuto e ad avere bisogno di te. Non sono stato io ad accompagnare te alla morte: sei tu che mi ci hai accompagnato. Hai saputo leggere nei miei occhi la paura ed il bisogno di qualcosa cui aggrapparmi quando mi sarebbe stata strappata la tua presenza. E lo hai intuito da subito. Da quando ci hanno presentati. Abbiamo riso spesso di quel giorno. Ti ricordi? Ho ancora tante cose da dirti: è ancora grande il bisogno che ho di te. Non sei mai stato libero ed hai accettato di non esserlo neppure mentre sapevi di dover morire. Hai accettato di accompagnarmi alla tua morte lasciando che mi convincessi di averti dato conforto. Lasciandomi pregiare di quel pensiero. Adesso sono più grande, più ricco. Ricco di un’esperienza che mi ha dilaniato il cuore per il dispiacere di aver dovuto rinunciare a te. Ma è davvero così? Ho davvero dovuto rinunciare a te? 77 Ti abbraccio forte Lorenzo 78 E tu te ne stai lì di Liliana Pesci "Mah! stanotte ho fatto un sogno strano: mi vedevo prima qui sul letto, ammalato, e poi mi ritrovavo su una collina verde con dei fiori". Lo strano gioco della memoria. Chissà perché il ricordo che ho è di te steso sul letto di un ospedale, tra diagnosi superficiali o addirittura sbagliate, tra medici troppo tecnici per essere umani ed infermieri umani nella loro professionalità. E tu te ne stai lì, con la tua fiducia innata, a volte persino ingenua verso le persone e verso quelli "che ne sapevano più di te". Quella fiducia che hai coltivato con speranza fino all'ultimo. La speranza: io te l'ho nutrita, svuotandomi. Per te, che ormai non ti nutrivi più, era l'alimento primario. Era una speranza intrisa di amore che stava lì, tra le riserve infinite che abbiamo e che ho tirato fuori al bisogno. Di un amore puro, che usciva dal cuore (un cuore abbastanza sterile, nutritosi della tua sofferenza per rianimarsi), filtrava dalla pelle ed arrivava a te. E tu te ne stai lì, cercando di cogliere nei nostri sguardi, più che nelle nostre parole, la verità resa a te incomprensibile con subdola complicità di tutti noi. Ma l'hai cercata a volte in modo decisivo, con quella determinazione che aveva in sé la paura stessa di sapere cosa ti stava succedendo. E, forse, ad un certo punto questa verità, che da noi non hai mai saputo, l'hai trovata tu. Non hai più mostrato desiderio di sapere, anche se i tuoi occhi fino all'ultimo giorno hanno scrutato i nostri occhi, i miei occhi, per sapere, per capire che non c'era più niente da fare. Avevi perso fiducia in noi, non volevi sapere o non volevi farci soffrire? Il vortice degli eventi, lentamente, ci ha travolti per poi diventare inarrestabile. Qualche mese di lieve malessere con dolori forse un po’ sottovalutati da tutti. Una prima diagnosi ed un primo intervento deciso in ventiquattr'ore che non ci hanno dato nemmeno il tempo di chiederci perché. 79 Un facile intervento ed un altrettanto facile responso postoperatorio, purtroppo sbagliato. Il malessere che tu continuavi ad avvertire dopo l'intervento era il normale decorso postoperatorio!!!! Una convalescenza vissuta sulla speranza e poi, dopo circa quaranta giorni, il tracollo. Che sia stato quel facile intervento a svegliare quell’infida malattia che è il tumore al pancreas? Era il giorno del tuo compleanno ed è in quel giorno che venne proclamata la tua sentenza di morte. Tre mesi. E tre mesi dopo non c'eri più. No, non a te. Tu non dovevi sapere. Tu dovevi stare tranquillo, essere fiducioso della felice risoluzione della tua malattia che aveva da subito preso un falso nome. Falsa ipocrisia! Ci siamo presi gioco della tua ingenuità, della tua sensibilità, della tua intelligenza. Dovevi stare tranquillo. No, non abbiamo saputo guardarti negli occhi ed affrontare la dura realtà. Eravamo terrorizzati dal volerla vedere. Lì nei tuoi occhi, che a saperli guardare, dicevano molto di più di tutte le parole. Era lì sul tuo viso che si scavava sempre di più, tanto che quando di mattino ti radevo, potevo seguire la forma esatta delle ossa. Era lì sul tuo corpo lacerato da tagli, sondini, flebo, cateteri. Hai messo a dura prova il mio coraggio. Alla fine hai vinto tu. Abbandonandoti in un sonno consolatorio che potesse preservarci da ulteriori sofferenze. Non ti sei più sforzato di trovare un respiro, quello che in fondo non c'era davvero più. Potendo oggi ripensare alla tua malattia riesco a decifrare le fasi di quel periodo, che ci ha permesso di essere due persone separate straordinariamente insieme. TU: 1. fase: fiducia 2. fase: voglio sapere 3. fase: fate quel che c'è da fare 4. fase: rabbia 5. fase: accettazione 6. fase: distacco 7. fase: silenzio. IO: 1. fase: terribile, ma abbastanza facile da gestire con te 80 2. fase: faticose acrobazie 3. fase: molto dolorosa 4. fase: mi arrampico sui vetri per poi cadere tra le tue braccia in pianti liberatori. Forse é stato con i pianti e gli abbracci che io e te ci siamo dette le nostre verità, le ultime, le più assolute. 5. fase: forse tu non soffrivi più, non fisicamente intendo, eri già oltre. Ora ero io arrabbiata. Non volevo lasciarti andare. 6. fase: LA FINE? 81 Nuove Persone di Valentina Catellani Mai come in questo momento desidero avere il dono della dialettica e possedere il grande bagaglio della cultura per esprimere su questo bianco foglio i sentimenti, la delusione, le emozioni che ho provato durante la malattia che ha colpito mia madre, chiamata sempre “terminale” e che è durata quasi dieci anni. Negli anni sessanta io ero una bambina serena e felice. Facevo parte di una numerosa famiglia contadina, una nonna, tre zie sposate e tanti cuginetti. Una zia godeva di pochissima salute: ciò che mi è rimasto impresso nella mente è il valore dell’aiuto fisico e morale che si scambiavano l’uno con l’altro e la compagnia che si facevano. La solitudine e la malinconia non abitavano lì. Ricordo che mia madre mi educava dicendomi di essere sempre disponibile verso gli altri, altruista e di sacrificarmi per loro, perché un domani se avessi avuto bisogno sarei stata ripagata. Mi chiamo Valentina e sono l’unica figlia di una mamma colpita da tumore mammario. Era il febbraio 1988 quando mia madre, 63 anni, andò dal senologo per una visita di prevenzione. L’ambulatorio era gremito di gente e mia madre si era innervosita nel perdere tanto tempo in quanto lei non si sentiva assolutamente niente e a casa l’aspettavano tre nipotini, i miei figli, che accudiva per permettermi di lavorare e guadagnare uno stipendio. In quel momento però una tegola si staccò dal cielo e cadde sulla sua testa, perché l’oncologo diagnosticò un tumore mammario da entrambi i seni e non esitò a dirle che non vi era più nulla da fare!!! Mi resi conto immediatamente che quella tegola era rimbalzata anche sulla mia testa. Venne operata e le furono asportati tutti e due i seni ma la sua voglia di combattere era tale che il primo pensiero fu quello di sottoporsi anche alla ricostruzione. Dopo soltanto 82 alcuni giorni, alle sei pazienti ricoverate per l’intervento insieme a mia madre venne fatta l’ecografia al fegato: per lei ci furono subito dei dubbi, continuavano con la scintigrafia epatica e parlavano di dubbiosi angiomi al fegato. I controlli oncologici erano assidui, accompagnavo sempre io mia madre anche per tenerla lontano dagli sguardi umilianti dei parenti che schiettamente l’avevano ‘messa morta’ un attimo dopo aver saputo della malattia. Per tutti la parola ‘tumore’ era ’morte’ ma non per me!! Per me significava ‘credere’. Tra alti e bassi, angosce e speranze, passò qualche anno finché arrivò il maggio del 1996: all’improvviso e in sordina il male bussò di nuovo alla nostra porta, il tumore si era esteso al polmone destro, riempiendolo di liquido e procurando grossi problemi di respirazione a mia madre. Ancora una volta un altro medico pronunziò la sua sentenza di morte con l’ammalata e con me definì il tempo: tre mesi se sottoposta a chemioterapia, sei mesi se non la tollerasse. Nemmeno Nostro Signore parla così della morte nella Bibbia, anzi, la paragona al ladro che arriva all’improvviso quando meno lo si aspetta. E’ giusto che il paziente sappia ma non è giusto che lo sappia così brutalmente, bisognerebbe prima avere validi colloqui con i familiari e insieme decidere cosa e come dire; mia madre ad esempio dopo la prima scoperta del tumore disse che più di tanto non avrebbe voluto sapere e loro sembrava facessero apposta, sembrava si sentissero grandi nel proclamare certe affermazioni, che poi si sono rivelate contraddittorie alle loro previsioni per cui noi abbiamo sofferto il doppio per il male fisico e per il male psicologico. La prima dose di chemioterapia è risultata allergica: come asettico con febbre oltre i 40° e globuli bianchi azzerati. Speranze dei medici inesistenti anzi una sera mi dissero che non avrebbe trascorso la notte. Su quel letto candido c’era la morte, uno scheletro senza capelli e senza dignità. Io non l’abbandonavo mai e distrutta dal dolore e dall’angoscia mi sdraiai sullo sdraio accanto a lei, le presi la mano, la strinsi nella mia in attesa di sentirla diventare gelida. Alle prime luci dell’alba il rumore del carrello degli infermieri mi fece riavere e sobbalzare, la mano di mia madre era ancora calda e lì, mi guardava. Mi fece cenno di avvicinarmi, aveva un filo di voce, ma riuscì a dirmi che si era trovata in un immenso prato verde con una varietà meravigliosa d’alberi e un grande viale che 83 portava ad una piramide di cristallo, con delle luci e colori indescrivibili; lei aveva raggiunto questa piramide ma si era seduta ai suoi piedi, poi si era svegliata. Dagli esami risultò che i globuli bianchi si stavano riprendendo anche se la febbre era ancora abbastanza elevata, non mangiava e rimetteva spesso. Siamo rimaste in ospedale due mesi, l’abbiamo assistita in due, io e una mia zia: non ho permesso a nessun altro di assisterla pur avendo a casa una famiglia perché io dovevo essere lì con lei, scrutarla ogni minuto. Non ho mai parlato con i medici per non vedere quelle brutte smorfie sui loro visi. Tutte le mattine la truccavo: le davo il rossetto, lo smalto alle unghie e pettinavo quella testa quasi pelata, anzi ho avuto il coraggio di passarle sulla testa un cotone imbevuto di una fiala colorante, perché si potesse vedere qualche capello grigio anziché una testa di cera! E lei riprendeva la voglia vivere. Non la lasciavo sopravvivere, la obbligavo a sforzarsi in tutto, le massaggiavo in continuazione le gambe che si erano irrigidite. La dimisero dall’ospedale il 16 agosto, con ancora la febbre che spuntava puntuale verso sera e lei non autosufficiente. Quella carrozzina che ci avevano assegnato con mille giri, un’infinità di documentazione –mancava sempre qualcosa per avere il benestare- non è servita tanto perché in breve ha ripreso a camminare. Quella lettera di dimissione, che diceva di recarsi in ospedale per togliere il liquido dal polmone ogni sei-sette giorni, è rimasta sempre nel cassetto e quell’ammalata TERMINALE continuava a vivere dignitosamente. Eravamo due persone sfinite e senza aiuti. Quante volte ho desiderato che qualcuno venisse spontaneamente ad accudire la casa e la famiglia, per permettermi di stare tranquillamente ad assistere mia madre; invece tornavo a casa dall’ospedale e dovevo sbrigare tante cose che non potevo lasciare al caso. Tutti pensavano per sé, se pagavi sì, altrimenti niente. Alcuni venivano in fretta, ti parlavano dei loro viaggi e dei loro divertimenti, altri dicevano che non avevano il coraggio e che in una situazione così non sapevano cosa dire. “Che tristezza”. Per circa un anno venne controllata la malattia con pastiglie chemioterapiche che poi finirono il loro effetto e grossi dolori presero il sopravvento: le ossa di mia madre si stavano sbriciolando. 84 ‘Tumore osseo’ e l’ortopedico disse che non si sarebbe più alzata dal letto e avrebbe dovuto sopportare dolori atroci e infatti poco dopo si ruppe l’anca. Altro intervento, altre parolone di fine e di termine, altre battaglie, altri sorrisi amari. Con tutta la mia timidezza ma con tanta forza, proibii categoricamente a tutti i medici di parlare a mia madre dell’avanzare della sua malattia. Era una lotta continua: ogni volta che veniva sottoposta a qualsiasi esame, dovevo prima andare a parlare con il medico, ovvero a lottare con lui ma non mi arresi mai. La fortuna volle che mi assegnassero una dottoressa oncologa che soltanto un anno prima aveva perso il marito di soli quarant’anni colpito da tumore e posso dire di aver visto un grosso spiraglio nella battaglia: non ha mai negato l’evidenza ma non hai mai parlato di termine e con il sorriso sulle labbra ci ha sempre incitato a sperare. Ho trovato una persona che lottava con noi e con tutti gli altri ammalati e famigliari che seguiva con tanta pazienza e tanta costanza. Mia madre si rimise in piedi ancora una volta ma il tumore avanzava sempre più e lei era ormai da anni compromessa; in dicembre 1998 avrebbe festeggiato il 50° anno d’anniversario di matrimonio, perciò doveva vivere ad ogni costo. Era talmente felice, festeggiata e coccolata che sembrava guarita. Nonostante tutto quello che aveva, era riuscita ad indossare le sue scarpe col tacco e arrivare con le sue gambe dentro al ristorante. La malattia però ormai era al culmine per cui bisognava decidere se tentare ancora con la chemio, con tutti rischi dell’allergia. Io non potevo in coscienza decidere per mia madre ma non potevo certamente dirle a che stadio era la sua malattia. Trascorsi giorni critici e notti insonni, la mia famiglia era ormai allo sbaraglio, ognuno dei componenti faceva vita a sé, ognuno viveva come poteva. Gli altri fuori, indifferenti, non si curavano di noi. Un mattino mentre facevamo colazione le dissi in modo confuso che l’esame rilevatore del tumore al seno aveva evidenziato valori un po’ elevati e bisognava ripetere la chemio; mia madre mi rispose che pur di vivere la rifaceva. Arrivò l’estate, sapevo che era l’ultima. Feci di tutto per poterla portare ancora una volta in montagna per trascorrere le vacanze. Il suo fisico peggiorava di giorno in giorno: era sfinita ed io con lei. 85 Il giorno di ferragosto vennero a trovarla due sue amiche e lei con un filo di voce e un grande sorriso disse loro che della sua malattia non si moriva ma che ci si doveva curare tutta la vita. La ricoverai il giorno dopo, perché lei così volle, sfidando l’ultima speranza ma si spense nel sonno all’alba del 20 agosto 1999. Durante quell’ultima notte gl’infermieri non erano mai passati dalla camera per accertarsi delle sue condizioni e ho dovuto dire io a loro che mia madre era morta: si preoccuparono soltanto di portare il paravento. Il medico di guardia poi io non l’ho visto assolutamente, nessuno che mi abbia chiesto se avevo bisogno di telefonare… Il problema è che la famiglia dell’ammalato di tumore prova lo stesso shock e la stessa ansia e nessuno se ne accorge; ogni membro ne risente, che lo dimostri e ne sia consapevole o meno. Ogni giorno è una battaglia. Man mano che il malato si abitua al disagio, all’umiliazione e al dolore fisico causato dalla terapia e dai continui controlli medici, ha sempre più bisogno della famiglia per ricevere aiuto pratico e sostegno emotivo; di conseguenza i familiari non solo devono imparare a fare gesti nuovi per prendersi fisicamente cura del malato ma sono tutti costretti a cambiare atteggiamenti, emozioni, abitudini e programmi. Diventare nuove persone, voglio dire. I continui alti e bassi della malattia creano uno spaventoso senso di insicurezza. Non appena ci si adatta ad una serie di circostanze può capitare che si debba far fronte a condizioni nuove ancora più difficili, ad esempio quando la terapia non dà i tanto attesi risultati. L’ammalato dipende sempre più dal sostegno della famiglia; già stravolta per questo, la famiglia stessa ha bisogno di aiuto perché, lo garantisco, si trova sola con nessuno. La malattia di mia madre è durata 10 anni, abbiamo conosciuto tanti ammalati di tumore con i quali ci siamo trovati amici, abbiamo pianto e riso insieme, ci siamo aiutati e consolati. L’ultima è stata Maria, 57 anni, si è spenta tre mesi dopo mia madre; l’ ho assistita alcuni pomeriggi in ospedale, soffriva molto, la tenevo per mano e sorridevo, ritrovavo mia madre e ritrovavo la voglia di combattere una malattia che oggi è la guerra di ieri, quando la gente combatteva consapevole forse di dover morire, ma nessuno diceva loro quando, anzi magari si sarebbero salvati. 86 I medici poi quando si sentono impotenti perché la ‘loro’ terapia non funziona più ti lasciano allo sbaraglio…anche di più: lasciano fare a te famigliare. “Noi non possiamo fare più niente, provi lei i vari antidolorifici per vedere quale può fare effetto contro il dolore” e solo ora lasciano a te il compito di dire: “mamma, è finita”. Spero che qualcuno si laurei in UMANOLOGIA. Non avevo mai parlato con nessuno della malattia di mia madre: grazie per avermene dato la possibilità. Dopo la sua morte ho richiesto all’ospedale tutta la sua cartella clinica, chissà perché, forse per non staccarmi completamente da un ricordo. Stiamo tutti combattendo per togliere la pena di morte e non ci rendiamo conto che in questo momento tante persone stanno morendo nei nostri ospedali su tante sedie elettriche, sotto gli sguardi incuranti delle persone consapevoli di morire. L’amore sia sempre la nostra forza. 87 Il Mio Amore di Luciano Motti Con la nascita del secondo figlio, una svolta improvvisa accadde nella nostra vita familiare. Nel periodo dell’allattamento un noto ginecologo consigliava a mia moglie di bere della birra per aumentare la quantità di latte per il nutrimento del bambino. Da quel suggerimento, nel giro di qualche mese, il quantitativo di birra aumentò, dalla birra passò al vino sino ad arrivare agli alcolici in modo smisurato. Premetto che mia moglie proveniva da una famiglia di contadini, sulla tavola non mancava mai il vino, ma non ha mai avuto problemi legati al bere. Soffriva spesso di mal di testa che alleviava con molte pastiglie di “Saridon”; la notte la trascorreva in uno stato di dormiveglia compensando con compresse di “Tavor” da 2,5 mg. Era un vero miscuglio di medicinali e alcolici. Il nemico principale era l’alcol che da principio ha colpito mia moglie, trascinando poi in un vero travaglio tutta la famiglia. Non riuscivo a perdonare le sue debolezze, spesso mi chiedevo quali erano le mie responsabilità, cosa dovevo fare, mi sembrava di andare controcorrente, contro un muro, non capivo cosa stava succedendo, ero completamente disorientato. Liti a non finire, con conseguenze psicologiche sui due figli, mi sentivo solo e deriso dall’alcolista. I rapporti erano tesi, spesso si parlava di separazione o divorzio, la mia vita era diventata un inferno, non era più proponibile vivere in casa. Nel frattempo uno dei figli ci dava molte preoccupazioni; sia alla scuola materna che in quella elementare non partecipava con gli altri compagni, si isolava, si metteva in disparte, era sempre davanti ai vetri in attesa di venire a casa. Ha frequentato la scuola media con una certa difficoltà, non socializzava, mentre gli insegnanti, anziché essergli d’aiuto, di capire la sua fragilità, gli incutevano paura e disagio. E’ stato seguito da uno psicologo, il ragazzo marinava la scuola a nostra insaputa, di mattino si chiudeva nella sua stanza, non voleva andare a scuola; a volte è intervenuto un mio familiare, si smontava la porta per convincerlo ma nulla è valso, rifiutava qualsiasi 88 aiuto, la madre si faceva a pezzi per essergli vicino, per questo figlio donava tutta se stessa. Alla fine il medico si fece promotore verso il preside di quella scuola e riuscì, per il bene del ragazzo, a fargli ottenere la licenza media. Il ragazzo è molto intelligente, ma con comportamenti psicologici fuori delle norme comuni. Io ero appena andato in pensione, fui costretto con la mia liquidazione e con piccoli risparmi a comperare un piccolo appartamento per la figlia, affinché uscisse da questa difficile situazione. La mia consorte ne ha sofferto molto. Venne in seguito ricoverata in ospedale per 15 giorni, disintossicata per disturbi al fegato, ne uscì riabilitata. Nel frattempo ecco emergere uno spiraglio improvviso: la notizia di un centro degli alcolisti anonimi poteva esserci d’aiuto. Da principio mia moglie si dimostrò riluttante, per lei era difficile presentarsi davanti ad un gruppo di persone a raccontare tutte le sue pene, ma vista la mia insistenza, nonché dei figli, è cominciata per tutti noi una presa di coscienza a frequentare il centro. Provammo anche l’esperienza di un’altra sede chiamata CAT. Ben presto mia moglie si trovò a suo agio con gli alcolisti anonimi. Tutti abbiamo imparato cose a noi sconosciute, che lo smettere di bere era il primo ostacolo da superare per arrivare alla sobrietà; bisognava sostituire alla sostanza alcol un nuovo programma spirituale. Anche noi famigliari ci siamo adeguati ad un nuovo schema di vita, vita intensa fatta di nuove regole, di tante difficoltà che ancora mi sovvengono alla memoria. Per aiutare mia moglie, ho frequentato anche un corso particolare con la presenza del prof. Hudolin, noto luminare e fondatore dei CAT. Con costanza e forza di volontà nel giro di tre anni mia moglie è riuscita a superare quell’enorme ostacolo, sempre pronto a colpire, in ogni istante, diventando una donna sobria, completamente trasformata. Fu un vero miracolo. Con questo nuovo stile di vita la serenità è tornata tra noi, è iniziata veramente una nuova unione, sembrava incredibile ma vero. Quello che mi ha sorpreso e stupito è che ella ha continuato a frequentare gli A.A. insegnando ai nuovi arrivati la propria esperienza, di non demordere, perché la malattia è sempre in agguato: è stata esempio di incoraggiamento e saggezza. Dotata di uno spirito sorprendente e di un humor eccezionale, tutti l’ammiravano per il suo coraggio, le 89 volevano bene. Una medaglietta datata di tutti gli anni di sobrietà la porto sempre con me, è un meraviglioso ricordo. Per vincere quei tristi stati d’animo, qualcosa doveva sostituire l’alcol, così mia moglie ha iniziato a fumare qualche sigaretta e col passare degli anni ne consumava circa 30 al giorno. Nonostante i miei suggerimenti di rivolgersi a qualche centro di disintossicazione, non c’è stato verso di farle cambiare atteggiamento, era qualcosa di più forte di lei. Spesso faceva esami di controllo con la paura che qualche organo ne risentisse; sia l’alcol, il fumo e i “Saridon” potevano compromettere la sua salute. Si recò perfino nella provincia di Genova presso Villa Rovetta per una cura disintossicante a base di sostanze vegetali. Nel 1996 iniziarono altri sintomi, difficoltà digestive, accompagnati da rigurgiti e bruciori allo stomaco. Dapprincipio non diede molto peso alla cosa, la redarguii più volte. Passarono mesi, quei segnali si facevano sempre più insistenti, andò diverse volte dal medico di famiglia, il quale la sottopose a prove ecografiche al fegato e radiologiche ai polmoni con esito negativo. A mio parere fu un vero errore, anziché fare controlli allo stomaco dove accusava dolore, il medico, sapendo del suo vissuto d’alcolista e di fumatrice, insisteva in inutili esami. Quei dolori si facevano lancinanti, mi preoccupai e mi feci carico della brutta situazione che si stava instaurando. Su mia insistenza chiesi al dottore di fare una gastroscopia; si doveva aspettare più di 40 giorni, per cui decisi una visita presso l’ospedale di Parma, dove i tempi d’attesa erano più brevi. Il risultato fu catastrofico, venne fatta una biopsia e nel giro di alcuni giorni ci fu la conferma di un tumore maligno allo stomaco. Di fronte a quell’esito così improvviso mi lasciai trascinare da un profondo sconcerto, come se un grosso macigno mi fosse caduto sulla testa. Mia moglie avvertì subito la pericolosità in cui si trovava, con grande spirito volle sapere tutta la verità, era un suo diritto. Non riuscivo a comunicare con lei, un pianto dirotto mi sovrastò, non riuscivo a capacitarmi, ero frastornato; vidi per la prima volta la forza d’animo e il coraggio di mia moglie che reagì a quella notizia con incredulità, pensava che qualcosa fosse sbagliato, che quell’esito fosse dovuto ad un errore umano. Ci rivolgemmo al dott. Bedogni, primario dell’Endoscopia dell’ospedale di Reggio Emilia che non credette a quell’esito così infausto. Ci rimaneva un filo di speranza: praticò a mia moglie una cura di “Ranidil” per 2 mesi, insisteva dicendo che si trattava di un “elicobacter pilori” che in quel periodo avevano scoperto in America, da cui molti malati venivano colpiti. 90 Passarono settimane e mesi, i bruciori si fecero sempre più insistenti, vomito su vomito, l’alimentazione era quasi nulla mia moglie non riusciva più a tollerare qualsiasi forma di cibo; non si lamentava, soffriva in segreto, cercava di apparire serena ai figli, non voleva farci star male. Trascorsi due mesi inutili di cura, fu fatta una nuova gastroscopia che metteva in evidenza e confermava la prima diagnosi. Con urgenza passò una visita dal chirurgo dott. Prati, il quale consigliò di sottoporsi ad intervento chirurgico: durò più di otto ore, le vennero asportati tre quarti di stomaco e ripulito le parti vicine, si analizzò la parte tolta; si sperava che il male fosse circoscritto solo in quella zona, purtroppo l’esito fu avvilente, molte metastasi si erano sparse ovunque. Mia moglie ancora una volta affrontò l’ostacolo con coraggio, volle sapere tutto ciò che le accadeva e che cosa si poteva fare. Dalla chirurgia passò al reparto oncologico; prima di prendere una decisione definitiva ci furono diversi contatti tra alcuni medici, fu diagnosticata una sopravvivenza dai sei mesi ai due anni. Le strade da seguire erano due: la chemioterapia e la radioterapia. Eravamo tutti smarriti, pensavamo di portarla a Milano in un centro più attrezzato e di prendere un appuntamento con il prof. Veronesi. Mia moglie, più determinata di noi, si oppose a questa idea, diceva che le cure contro i tumori qui a Reggio E. erano le stesse che venivano praticate a Milano. Un mare di dubbi, interrogativi quando vengono prospettate due alternative di cura!! Così iniziò la chemioterapia: si fece un piano di 12 sedute senza spiegare alla paziente quali conseguenze, quali inconvenienti potevano succedere; le fu soltanto detto che avrebbe avuto delle piccole noie. Non c’erano altre alternative, mia moglie accettò di buon grado quella decisione con fiducia. Ricordo il primo giorno di terapia – era una splendida giornata di primavera, un cielo azzurro luminoso – mia moglie si vestì elegantemente, indossò una bellissima gonna blu con diversi fiorellini colorati, una candida camicetta e un graziosissimo foulard intorno al collo. Aveva una meravigliosa pettinatura, somigliava ad un angelo, mi pareva che andasse ad una festa di matrimonio. Con gli occhi inumiditi di pianto forse immaginava già a cosa stava andando incontro. Io non riuscivo a trattenere le lacrime, ero irrequieto, mentre lei cercava di nascondere la sua ansia per non farmi stare male, mi incoraggiava dicendomi che la vita è fatta anche di queste tristi cose. 91 Le prime otto chemio le sopportò con indifferenza, sembrava filare tutto liscio, le infermiere che la curavano vedevano in lei una donna formidabile, coraggiosa, con una grande voglia di vivere. Spesso faceva dei controlli clinici, esami del sangue, ecografie e tac. Poi cominciò a perdere i capelli, comprammo due parrucche per non farla sentire diversa dalle altre donne. In poco tempo la cura a base di “Cisplatino” le tolse la sensibilità ai piedi, alle gambe, nonché agli arti superiori. Andammo a Ponticelli dotati di una speciale apparecchiatura per un controllo, passò due visite neurologiche che confermarono l’assenza lieve di sensibilità; i piedi e le mani erano ghiacciati, portava calze grosse invernali, un paio di guanti e scarpe imbottite di lana. Man mano che si procedeva con la chemioterapia le gambe e i piedi si gonfiavano, l’alimentazione era solo a base di sostanze liquide, faceva iniezioni su iniezioni e ipodermo e sacche di sangue per reggersi in piedi. Quelle cure incominciavano ad essere pesanti, il “Cisplatino” distruggeva anche le cellule sane del suo corpo, si era indebolita, ma la sua voglia di vivere era incrollabile. Arrivati alla dodicesima chemio, fatti altri controlli, risultò che il tumore del diametro di 5 cm. era sparito, dagli esami non si vedeva più nulla. Con grande sorpresa, e all’insaputa di mia moglie, continuarono la chemio-terapia sino a 16 sedute; stavano diventando insopportabili. Ella accettò il prolungamento delle cure, nonostante il suo fisico fosse minato. Resistette con volontà. I medici curanti erano meravigliati da come l’ammalata affrontava la terapia; due volte la settimana si presentava in Day Hospital per le cure; spesse volte fu costretta a sospendere tutto perché il numero dei globuli bianchi era bassissimo. Fisicamente e moralmente era sfinita. Fu ricoverata per 20 giorni nel reparto di Medicina, e ne uscì riabilitata e contenta di aver superato quel momento di crisi. Finalmente finirono le cure di chemio. Dalla gioia offrì al reparto infermieristico dell’Oncologia un vassoio di paste per festeggiare l’evento; ancora una volta ci fu meraviglia nel reparto nel vedere tornare la fiducia e il sorriso sulle labbra di mia moglie. Ogni 15 giorni controlli intensi, ma nel giro di due mesi, in seguito ad ulteriori ecografie e tac, improvvisamente il tumore cominciò a risvegliarsi. Nuovi incontri coi medici. Fu suggerito di riprendere la chemioterapia in forma più leggera della precedente perché le sue condizioni apparivano troppo precarie, nei prelievi del 92 sangue non riuscivano più a trovare le vene, si spezzavano; venne alimentata tramite la vena principale del collo; la bocca era invasa dal mughetto, era una vera sofferenza. Consultammo anche il primario della radioterapia, che sconsigliò l’applicazione di raggi x perché avrebbero danneggiato e fatto soffrire la paziente; ormai non c’era più nulla da fare: i linfonodi apparivano intaccati lungo il tubo digerente. Si pensava ad un aggravamento del fegato e del pancreas, ma tutto era ancora sano. Mia moglie, sofferente e cosciente di ciò che stava accadendo, non accettò di iniziare una nuova chemio, era insostenibile. Deperiva sempre di più, si rese conto della fine. L’unica alternativa era la cura Di Bella, che lei accettò come l’ultima cosa risolutiva, era fiduciosa e sperava ancora di vincere quel male terribile. Perse tutti i denti, non si perse d’animo ebbe il coraggio di andare da un dentista per mettere una dentiera, fu ammirata per la sua volontà di sopravvivenza e la forza interiore che sprigionava in lei per affrontare la morte. Ebbe anche un incontro col Sindaco di Reggio E. perché, prossima alla fine, cercava aiuto, voleva vedere i suoi figli sistemati. Si tentò con la cura Di Bella, molto costosa; le nostre condizioni familiari non potevano affrontare tali spese. Tali preoccupazioni incisero maggiormente sulle condizioni psicologiche di mia moglie, non riusciva a capacitarsi. Siamo nel 1998, la nuova cura veniva elargita gratuitamente dal Governo, fu un Calvario nell’affrontare tale prassi. Il primario dell’ospedale di Reggio Emilia non volle concederci questa possibilità, ci rivolgemmo allora al Tribunale del Malato e dopo varie peripezie ci furono concessi i medicinali. Eravamo in preda alla disperazione. Più volte abbiamo cercato un contatto col prof. Di Bella e col figlio, ma inutilmente. Non era possibile comunicare con loro. Il primario dell’ospedale voleva un protocollo di cura, non sapevamo a chi rivolgerci. In quel periodo molti medici praticavano la cura Di Bella, anche abusivamente. In quali mani mettere la vita del proprio caro? Ci siamo rivolti ad un centro di Modena, poi ad uno di Bologna per sapere con chi iniziare questa nuova cura. Fummo sommersi solo da notizie frammentarie senza certezza. Mia moglie ne soffrì tantissimo. Lei aveva bisogno di un aiuto immediato, tutte queste pratiche burocratiche erano una perdita di tempo prezioso, ormai non si reggeva più, ma aveva ancora il coraggio e la capacità di essere la nostra guida. 93 Presi dalla disperazione ci affidammo ad un medico di Bologna che proveniva da Matera, ci diede il protocollo di cura, ma la lontananza di questo medico ci impediva di seguire la cura con una certa tranquillità e di avere dei consigli, tanto è vero che la somministrazione di alcuni medicinali non veniva più tollerata, per cui nel giro di brevissimo tempo mia moglie sospese le cure: stava malissimo. I capelli erano cresciuti di nuovo, il suo viso era diventato uno spettro, nonostante ciò aveva la forza ancora di cucinare, ci faceva coraggio, non voleva spaventare i suoi figli, desiderava che fossero sereni. Priva di ogni speranza, ma col morale sempre alto, si indeboliva sempre più, si chiudeva nella sua camera chissà in quali tristi meditazioni, voleva essere sola, ci invitava ad uscire, non voleva vederci soffrire. Trascorsi giorni e settimane peggiorò sempre di più, nel ventre si formò molta acqua, le venne tolta più volte mediante la paracentesi. Amava la montagna, quasi tutti gli anni trascorrevamo alcuni giorni sulle Dolomiti. Eravamo nell’Agosto 1988, aveva un grande desiderio, rivedere i picchi di quelle montagne, fu accontentata. Chiusa nella sua camera d’albergo si affacciava al balcone per vedere l’ultima volta quei bellissimi prati. Il viaggio fu inverosimile, lacerante, ma in lei vedevo ancora il sorriso di un tempo, contenta di rivedere quei luoghi. Era in condizioni pietose, faceva fatica a camminare, nonostante ciò, per suo grande desiderio, la portai al mercatino di Canazei; tutti la guardavano per il suo pallore, così gonfia, sembrava una donna prossima alla gravidanza, ma lei fu felice perché le comprai un paio di pantofole e un giacchettone che nascondeva il suo stato di salute. Ritornati dalle vacanze non riusciva più a reggersi. Il suo pensiero era rivolto a noi, aveva il coraggio di rincuorarci, finché decise di essere ricoverata in ospedale. Dalla finestra la vidi salire sull’ambulanza, fu veramente uno strazio, un ricordo che non dimenticherò mai. Era l’ultima volta che lasciava la sua casa. Frastornato non riuscii a seguire l’ambulanza, dopo qualche minuto precipitai in ospedale, la trovai fiduciosa, credeva di nuovo di farcela, credeva nei medici, si sentiva protetta. Tutti i giorni le ero vicino, piangevo in continuazione, una forte depressione si stava instaurando in me; vedendomi demoralizzato mi faceva coraggio, mi diceva di curare la mia tosse, di andare a trovare mia madre di 101 anni e di non preoccuparsi di lei. Mi sembra ancora di sentirla: “abbi cura di te stesso, sii vicino ai tuoi figli e voglio loro bene, salutami Pierluigi, cura la tua salute, per me sarà come sarà; Luciano vai a mangiare da tua madre”. 94 Negli ultimi tre giorni l’acqua aveva invaso anche i polmoni; si praticò una paracentesi dolorosa, si sentiva come soffocare, sempre lucidissima. Un giorno venne a trovarla il suo medico di famiglia egli chiese come si fa ad andare in coma e se il coma è un dormiveglia. Nei rimanenti due giorni cominciava ad essere irrequieta, nel suo respiro si sentiva il rumore dell’acqua che arrivava alla gola, sembrava che da un momento all’altro rimanesse soffocata. Per tranquillizzarla cominciarono a somministrarle una piccola dose di morfina; io le ero sempre vicino, le tenevo in continuazione la mano, il mio amore mi stava abbandonando, la seguivo con molta sofferenza. A un certo momento disse che vedeva la sua cara mamma, la Madonna con in braccio Gesù Bambino tutto in uno splendore di luce. Con una seconda dose di morfina entrò in coma e verso le quattro di notte del 12 dicembre 1998 dolcemente chinò il capo sulla sua destra e si spense lentamente senza emettere alcun cenno di soffocamento. Una strana cosa accadde dopo tre ore dalla sua morte, mentre usciva dalla stanza su una barella ricoperta da un lenzuolo, io e mia figlia Linda, ad una distanza di 3 metri l’uno dall’altra, ci sentimmo chiamare col nome ‘Linda, Linda’. In casa trovai una lettera su cui mia moglie aveva scritto le sue ultime volontà: voleva che quattro asce di legno, le più comuni, raccogliessero le sue spoglie, nella camera ardente fosse messo un séparé in modo che nessuno la vedesse tranne la sua famiglia, voleva che si ricordassero di lei diversamente, senza alcuna cerimonia, desiderò essere cremata. La seguii sino al forno crematorio, all’apertura non resistetti e fui accompagnato fuori. A distanza di un anno e sei mesi e la mia vita è distrutta, una parte di me stesso se ne è andata con lei. Ora sento maggiormente la mancanza della sua presenza; la depressione mi sovrasta, mi sembra di sentire l’eco delle sue parole: ‘sii vicino ai tuoi figli e fatti forte’. Ciao amore mio. 95 96 Olindo di Loredana Pesenti Olindo, una storia che a dire il vero solo fino a pochi giorni fa, non avrei raccontato più a nessuno, neanche a me. Quella che vi voglio raccontare è la piccola storia mia e di mio marito, la stessa. Avrei preferito ripensare a quei giorni da sola, come se fosse la sola cosa che ancora mi unisse ad Olindo, come se quei ricordi, nessuno, neanche Dio mi potesse togliere, cullandomi in quel dolore che ti appartiene, come il primo amore. E' stata un'amica a chiedermi di dividerlo con gli altri, cercando di farlo diventare scudo per qualcuno che lo scudo non l’ ha, cercando di potergli dare un’ulteriore arma per affrontare la prova, e...quale prova! Mi sono seduta e ho pensato: " è un'altra richiesta mio Dio; beh! se me la chiedi è perché ne sono capace. Forza Lori " Come potrei dimenticare quella mattina, quando ti ho salutato, partivi convinto di tornare in settimana, un’ecografia veloce da fare a Trento dal tuo caro amico Prof. Fatti; la televisione sotto il braccio e la promessa di risentirci di lì a qualche ora sul cellulare. All'ospedale San Camillo, ci sei rimasto per ben tre settimane, inconscio della gravità del tuo male: tra un esame e l'altro, quante corse abbiamo fatto io e i tuoi genitori. Poi è arrivato l'esame istologico da Padova, allora non ci sono stati più dubbi: “tumore al fegato e alle vie biliari ". Cominciava allora una lotta contro il male più grande di noi, una lotta a cui tu non ti sei mai tirato indietro, convinto fino all'ultimo di poter dominare e vincere ciò che forse era già perso fin dall'inizio. L’INTERVENTO A TRENTO Chi dice che di fronte a questa malattia siamo impotenti si sbaglia di grosso. 97 Dio aiuta i malati armandoli di una innocenza che se fossero sani mai avrebbero, o li carica di una serenità che è disarmante perfino per chi gli sta accanto. Quando Olindo stava bene, era un uomo dinamico e brillante, la malattia lo ha trasformato in una sorta di bambino ingenuo e anche credulone. Con una innocenza sconvolgente credeva e si fidava, mettendosi nelle mani dei medici, dei suoi familiari e degli amici che non lo hanno abbandonato in quei 18 mesi di calvario. E' così che Olindo è riuscito ad affrontare il primo grande intervento nell' ospedale di Trento all'insaputa completa di quella che era la sua vera malattia e soprattutto della sua gravità. Eravamo a conoscenza di tutto solo io, mio suocero e mia sorella, vi potete quindi immaginare, cosa voglia dire, cercare sempre davanti a lui di fare un viso sereno, un atteggiamento sicuro, cercando di nascondere tutto ciò che avrebbe potuto insospettirlo, e sentirsi spezzare dentro e non poter urlare il tuo dolore. Poi purtroppo il Signore, non sempre da a tutti la carità cristiana, e certamente, quel dottorino che il 20 ottobre 1998, mi ha chiamato nel·ripostiglio dell'ospedale per dirmi che per Olindo, non c'era più niente da fare, tale era l'entità del suo male, non ne era minimamente dotato. Se si potesse chiedere un piacere a Dio, il mio sarebbe stato quello di andarmene con mio marito, ma non era possibile e forse nemmeno giusto. Potevamo solo pregare e per 45 giorni, che sono stati solo angoscia, io e Olindo,non abbiamo fatto che quello: piangere e pregare assieme. Lui in un letto di dolore, divorato dalla febbre, che lo tormentava ed io seduta su di una sedia, cercando di sorridere, raccontando bugie, giocando a carte, mangiando panini con la mortadella, guardando partite di pallone e conoscendo tanta sofferenza. I VIAGGI DELLA SPERANZA Non è stato facile spiegare a Olindo che aveva bisogno di un trapianto di fegato, credo che non si sia mai reso conto del tutto della gravità del suo male. Gli amici, quelli sì, avevano capito, non si sono mai arresi, nemmeno loro, cocciuti più di lui, ottimisti e speranzosi. In testa a tutti c'era Francesco, il caro fraterno amico, il dottore, forse colui che dalla malattia ha avuto la sconfitta più grossa: vedersi portare via un grande amico. 98 Era lui che guidava le speranze e le armava; fino a che un giorno disse:"Si parte, venerdì si va a Bruxelles per il trapianto". Era arrivata la prima speranza concreta, così accompagnati da Dario siamo partiti per il Belgio. La nostra permanenza è durata tre giorni e non la posso ricordare che positivamente. Olindo era uscito dal Santa Chiara dopo 45 giorni di inferno tra febbre e un intervento non riuscito. Nonostante tutto a Bruxelles abbiamo mangiato pesce, girato la città in lungo e in largo, parlato con primari e siamo tornati a casa con una risposta quasi negativa, ma con un appuntamento per Innsbruck. Di nuovo partenza, questa volta per l'Austria dopo una breve sosta a casa: era il 13 dicembre, il giorno di Santa Lucia. L'ospedale austriaco con le sue strutture universitarie ci ha scioccato e l'efficienza dei medici era impressionante. Qui abbiamo conosciuto molti italiani, malati tumorali in viaggio di speranza; per molti non c'era niente da fare, ma per noi si parlava di un intervento unico in Europa che ci ridava la possibilità di rivivere. Prima di arrivare al vero e proprio intervento era necessaria l'embolizzazione della vena porta, da farsi in anestesia locale. Anche se breve, tutto ciò per Olindo è stato molto doloroso, ma ripensandoci, poco in confronto a ciò che lo aspettava. Sistemato questo pre-intervento preparatorio, la vigilia di Natale, senza che nessuno se lo aspettava, ci hanno fatto andare a casa. Eravamo carichi di nuove forze e fiduciosi nel futuro. Abbiamo trascorso un Natale sereno e calmo e Olindo con gli amici Dario, Fausto e Luca hanno programmato un pellegrinaggio al santuario di Padre Pio per una preghiera particolare. Padre Pio a cui Olindo era particolarmente devoto, non ha mai abbandonato mio marito, neanche nei terribili momenti di sofferenza che ebbe negli ultimi giorni di vita; il suo calvario è seguito dalla presenza del Santo Frate, partendo dai primi giorni di ospedale a Trento fino agli ultimi giorni nella nostra casa di Quistello, sempre in compagnia del suo Angelo. 99 Nei momenti di grande dolore prendeva tra le mani la statuetta del Santo, se la portava dove più forte si faceva sentire il male, la stringeva pregando con fede e speranza sicuro in un miracolo che non è mai accaduto. Ma forse il vero miracolo è stato dentro di lui, questa nuova fede che era assopita, si è risvegliata e ha trasformato Olindo in un vero cristiano, senza dubbi e convinto di entrare in una pace assoluta fatta di solo grande amore. SPERANZA E RIPRESA Il 22 gennaio 1999 si riparte per Innsbruck, ci attende il grosso intervento al fegato, siamo fiduciosi e convinti di aver imboccato la strada giusta. L’équipe guidata dal professor Konisnaider, con una nuova tecnica raffinata, staccherà da Olindo la parte di fegato andata in necrosi, ricostruirà le vie biliari con le anse dell'intestino e non so quant'altro. E' un intervento che durerà 13 ore, definito all'avanguardia, ma visto la ricrescita del fegato sano presentata da Olindo, parte sotto i migliori auspici. Non me la sento però di affrontare da sola tutto ciò, per questo chiedo a mia sorella Mirca di accompagnarmi e di parlare insieme con me ai professori. A lei devo tanto, so che ha voluto molto bene a Olindo, un bene fatto solo di amore sincero e grande tenerezza. Abbiamo vissuto le ore dell'intervento con un solo respiro, in uno stato quasi di coma, impacciate con la lingua, ma nessuno può farci dimenticare la vista della sua lettiga che entrava nella sala rianimazione alla fine dell'intervento con la sua sciarpa del Toro, un portafortuna che lo seguiva ovunque, attaccata vicino alla flebo. Altri 30 giorni prima di tornare a casa, giorni lunghi fatti di dolore, conoscenza della malattia e vista della morte. Ma il primo marzo si ritorna a casa. DONGO A casa gli amici non mancano mai e tanta compagnia aiuta nei momenti tristi e di angoscia, ma ciò che di più ci rallegra è l'arrivo di Dongo, un cucciolo di labrador, regalo di mia madre per Olindo. 100 Sono sei mesi di felicità, fatta di piccole cose, di famiglia e quotidianità. Lì interrompono i viaggi di controllo a Innsbruck e qualche piccolo imprevisto che sempre si risolve però per il meglio e dove soprattutto la voglia di tornare a casa avanza su tutto. IL CROLLO Le valigie erano sempre pronte nel nostro appartamento, ma questa volta le avevo preparate per una breve vacanza in Toscana, da amici del Prof. Fatti. Mai avrei immaginato che il male potesse ritornare con tanta ferocia, una T.A.C. e la terribile sentenza: ci sono tre macchie di dubbia gravità, che necessitano di una radio frequenza, intervento semplice di sicuro effetto. Da questo momento e siamo ad agosto, il cammino si fa veramente faticoso e sofferto, fatto di febbri continue, molto alte, ricoveri in vari ospedali e tanta straziante angoscia. Odio il termometro e quei brividi così forti, il sudore e l'angoscia di poter fare poco o nulla. Si riparte per Innsbruck non so quante volte forse altre tre. I medici dopo la seconda radio non sanno più cosa fare, Olindo continua ad avere febbre e tremori, perde peso in continuazione, il suo fisico è a terra quanto il suo morale. Ascessi e infezioni sono all'ordine del giorno. Solo l'amico Francesco capisce che forse tutto deriva da una endocardite, ma è già novembre, io non posso più ritornare al lavoro, devo stare costantemente al fianco di mio marito e con lui passo da un ospedale all' altro. Il nostro medico di famiglia segue giorno per giorno la malattia di Olindo e gli affianca un altro medico oncologo, tra loro si instaura un rapporto di amicizia. Le infermiere che giornalmente offrono il loro aiuto, diventano ben presto persone di famiglia e la nostra camera da letto si trasforma in camera d' ospedale con materiale medico sempre pronto. C'è sempre molta gente che viene a trovarci, se Olindo è in grado si instaurano discussioni e chiacchiere di ogni genere . E' ancora molto pronto e vivace, scattante nella risposta: mi chiedo spesso come faccia a non capire di essere alla fine della partita. Parla del suo futuro, fa programmi di lavoro e prepara schemi di gioco per le partite di calcio della squadra amatori di cui è il titolare allenatore. Sono convinta che non abbia mai rinunciato a vivere nemmeno quando il dolore era così forte da renderlo quasi aggressivo. 101 E' di questo periodo la dolce amicizia allacciata con mia madre, fatta di silenzi, strette di mano e dolci abbracci. Lei era capace di stargli vicino come fosse un figlio e credo che lui lo abbia potuto capire; sono certa che aiuterà mia mamma nei momenti pericolosi o di difficoltà, se lo troverà vicino e sentirà la sua mano tra le sue, come lei era abituata a fare con lui. Un'altra persona a cui devo tanto è Italo, l'amico fraterno di Olindo, compagno di tante avventure, dai banchi di scuola alle partite a briscola. Fratello, non amico, ad un amico si racconta, con un fratello basta guardarsi negli occhi per capire e Italo ha sempre saputo, mai chiesto, ha dato senza mai chiedere nulla in cambio; ogni sera una barzelletta nuova, una cassetta, una pizza da dividere assieme e infine tanti ricordi da portare dentro e non dimenticare mai. Olindo ha potuto godere di varie soddisfazioni prima di lasciarci, una di queste è stato il primo esame universitario di nostra figlia Francesca: il risultato è stato ottimo e lui ne ha gioito come sempre, decantando le qualità della figlia ad amici e parenti. Tutte le volte che Francesca affronta un esame, lei ha la certezza che il padre la accompagni e la guidi, quindi la certezza di fare bene perché guidata da uno speciale angelo custode. Nel grande dolore che ha portato questa malattia c'è stata anche una grazia di Dio: Olindo che nella sua vita prima di ammalarsi era un semplice cristiano, praticante si, ma forse adagiato come tanti, ha avuto la fortuna di riscoprire una vera fede. E' facile penserete voi, in questi momenti ci si aggrappa spesso a Dio; non è vero, non è facile, a volte ti verrebbe voglia di respingerlo completamente, di arrabbiarti con Lui per la prova chiesta. Olindo si è lasciato guidare spiritualmente da persone molto brave, come Don Fausto, che lo ha preparato, con tutti i conforti religiosi compresa confessione e comunione ad avvicinarsi a Dio con il passo giusto. Pensandoci bene lui era pronto, chi non era pronta ero io; non mi sono mai arresa, nemmeno davanti all'evidenza, nemmeno l'ultima sera passata con lui; ho sempre sperato in un recupero, in un miracolo; ho tanto pregato, pianto da consumarmi gli occhi e piango ancora quando ricordo quelle lunghe notti e angosciosi giorni. Io e i miei figli avremo un ricordo solo nostro di quel terribile periodo, nessuno potrà mai togliercelo dal cuore. 102 L'ultima settimana, dopo aver passato tre giorni a Innsbruck per essere più che convinti che nulla era più possibile tentare e per portarlo alla fine con il meno dolore fisico possibile, Olindo l'ha passata nella sua casa, tra le cose di sempre, circondato da tutti noi e altri ancora. Al suo capezzale si sono alternati amici vecchi e nuovi, parenti cari e soprattutto i suo figli, principalmente Francesca che lo ha imboccato fino all'ultimo giorno. Lui li ha abbracciati più di una volta, di un amore eterno, grande e indimenticabile, come se non volesse staccarsi da loro; li ha voluti vicino e loro sono stati lì, anche se costava tanta fatica. Io ho abbandonato solo momentaneamente Olindo, vivo lentamente e con tanta fatica e aspetto di rivederlo presto, spero che Dio mi possa accontentare. Quello che faccio tutti i giorni, dal lavoro al riposo notturno ha poco senso per me; ho conosciuto mio marito all'età di 17 anni, mi sono sposata a 22 e da allora tutto è ruotato intorno a lui e alla mia famiglia. Non ho mai chiesto, nelle mie preghiere di avere una vita tranquilla o di possedere una bella casa: ho chiesto a Dio di darmi una famiglia serena e tanto lavoro per tutti noi. Mia sorella mi proibisce di pensare che dietro la malattia di Olindo ci sia la punizione per qualche peccato fatto; sarebbe ben misero dice pensare che un Dio sia così piccolo da rimandarci punizioni corporali per ciò che abbiamo sbagliato; voglio pensare che ci sia un ben più grande disegno divino e che comunque Olindo gode della sua presenza prima di noi e prega preparandoci la strada. Un grazie di cuore a tutti quelli che ci sono stati vicini e hanno condiviso con Olindo momenti di gioia, lacrime, tante corse tra un ospedale e l'altro e le ultime giornate attorno al suo capezzale. Amici, parenti, medici ed infermiere, i ragazzi del pallone, i vicini di casa, i compagni di partito, la zia massaggiatrice, la mamma materna, i suoi genitori a cui spetta un futuro certamente pesante, i compagni di scuola dei miei figli e non per ultima la comunità di Quistello. A loro devo molto, per non aver lasciato solo Olindo, per non averlo mai dimenticato e aver condiviso con tutta la famiglia il dolore per la sua perdita. Mio marito mi ha lasciato la domenica mattina alle ore 10 del 23 gennaio 2000 all'età di 45 anni. 103 Sono veramente pochi per uno spirito libero come era lui, ha amato la vita fino all'ultima sua ora, ha coltivato la sua rosa, anzi è il tempo che ha perduto per la sua rosa che l'ha resa così importante. Così “IL PICCOLO PRINCIPE” gli ha insegnato a vedere non con gli occhi ma con il cuore, perché l'essenziale è invisibile agli occhi. Così come dice lui: "quando guarderò il cielo, la notte, alzerò lo sguardo alle stelle, in una di quelle troverò il tuo sorriso, avrò voglia di ridere e sarò contenta di averlo conosciuto. Sarai sempre mio amico, e gli altri saranno stupiti di vedermi ridere guardando il cielo. Allora dirò: si le stelle mi fanno sempre ridere e mi crederanno pazza." A Olindo, al bambino che questa grande persona è stato: tutti i grandi sono stati bambini una volta (ma pochi di essi se ne ricordano). LA TUA LOREDANA 104