Un’esperienza limite
di Franco Aldrovandi
Tutto è iniziato con un’avvisaglia di pericolo molto relativo riguardo mia moglie, di anni 52,
diplomata, insegnante elementare: le fu diagnosticato un lipoma all’arto inferiore destro
degenerato poi in liposarcoma nel corso di 14 anni, con 11 interventi d’asportazione
chirurgica e successiva disarticolazione dell'arto.
Mia moglie è deceduta nel gennaio del 1987.
Solo dopo una decina di anni dal primo intervento, la gravità è relativamente apparsa dai
referti istologici che inequivocabilmente definivano la degenerazione.
Gli interventi chirurgici, sempre più vasti e frequenti nel tempo, nonostante le speranze di
volta in volta espresse dai medici, erano sintomatici di una metastasi in atto.
Infatti, nemmeno la disarticolazione dell’arto, proposta come ultima possibilità da alcuni
eminenti oncologi e considerata un inutile sacrificio da altri, ha arrestato il processo di
invasione.
Descrivere cosa provano l’ammalato e i familiari è facilmente intuibile, considerata
l’alternanza di speranze e brutali decisioni. Ciò che invece appare meno evidente è il
cambiamento di rapporti tra i componenti del nucleo familiare: divengono sempre più
intensi dal lato affettivo ma degenerano irreparabilmente dalla normalità poiché subentra
un’automatica correzione nell’espressione dei sentimenti, del comportamento e del
dialogare stesso dovuto alle diverse situazioni dei congiunti sani e dell’ammalato che
cercano di interpretare ruoli inversi.
Da una parte e dall’altra si mente per non ferire o si ferisce per non volere mentire, si
recita un’assurda commedia fatta di riguardi eccessivi, di attenzioni particolari, inusitate, di
gioie e disperazioni represse e s’ingenerano situazioni tali da richiedere una professionalità
da attore talmente esperto da sapere esprimere in modo naturale emozioni e
atteggiamenti non propri, riuscendo a coinvolgersi nell’interpretazione degli stessi.
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Poi, il dolore fisico dell’ammalato e quello psichico dei parenti divengono praticamente
l’unica occupazione quotidiana.
Ci si svuota di ogni stimolo, non si riesce a programmare niente, si perde ogni interesse
per tutto quello che accade a noi e attorno a noi.
E’ in questo momento che ogni impegno abituale, come la pulizia della casa, il
confezionamento dei pasti, l’assolvere i compiti del proprio lavoro e provvedere ad ogni
necessità di routine, diviene talmente marginale da essere, nel migliore dei casi,
trascurato.
Ma ciò che più conta è che la sfera affettiva subisce profonde alterazioni.
Non c’è più tempo per tenere in debito conto dei propri problemi, di quelli dei figli, del
mantenere rapporti con parenti, amici e conoscenti.
Tutto questo porta ad un radicale cambiamento anche a livello caratteriale e questa
trasformazione rende instabili psichicamente, di umore estremamente variabile e, in ogni
caso, crea fratture nei rapporti tra se stessi e gli altri, semplici amici o intimi familiari. Il
demandare diviene l’unica soluzione di comodo e quindi tutto resta irrisolto: i dubbi sul
modo di comportarsi e come risolvere tutti i problemi che si presentano sono talmente
stressanti che, più che provvedere in merito, si finisce per assecondare e subire ogni
situazione.
Il non volere reagire non suscita nemmeno il rimorso della coscienza o il senso di colpa.
In questo stato d’animo, per chi non ha fede e assurdamente ritiene di avere ottenuto
quanto ha con le sue sole capacità, non è facile chiedere aiuto.
Com’è possibile supporre che qualcuno ci venga incontro se la nostra riservatezza, la
discrezione, l’orgoglio e la mancanza di fiducia anche per le persone più vicine, ci
allontanano sempre più da tutto e da tutti e ci rendono decisamente asociali?
La solidarietà umana viene ingiustamente negata e ci si rinchiude in se stessi impedendo,
anche a coloro che spontaneamente si rendono disponibili, ogni interessamento che viene
travisato in una sgradevole intromissione. E, in fondo, con chi si possono discutere o
dividere problemi relativi alla probabile perdita del lavoro, all’eutanasia o ai più intimi
rapporti familiari, quando non si riconoscono più nemmeno i veri amici?
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Esiste, per un estraneo, la reale possibilità di ferire ulteriormente chi è già in condizioni
psichiche precarie e ritiene utile ricorrere esclusivamente a professionisti: forzare questi
blocchi è arduo (non impossibile!) e l’aiuto, concreto o morale, deve essere molto
calibrato. Ricordo con assoluta chiarezza i momenti di disperazione in cui, non volendo
esternare i sentimenti e le sensazioni che provavo, trovavo sollievo scrivendo per me
stesso tutto ciò che non potevo ma avrei dovuto e voluto dire a mia moglie, ai miei figli e
agli amici.
In quel periodo, infatti, dopo la drammatica decisione di accettare la disarticolazione
dell’arto, c’è stato per tutti noi un momento felice. Si pensava di poterci separare
definitivamente
da
qualcosa
di
irrecuperabile e che tale eliminazione avrebbe
automaticamente comportato la fine delle incertezze e disillusioni trascorse. Purtroppo a
distanza di qualche mese, dopo avere ultimata la rieducazione fisica per l’uso della protesi,
ad un ennesimo controllo venivano evidenziati sospetti focolai polmonari ed una recidiva
sul moncone dell’arto amputato.
In seguito nuovi esami, nuove conferme, nuove proposte d’intervento. Appurato che
questi sarebbero risultati fini a se stessi, si è ritenuto logico rifiutarli per evitare ulteriori e
inutili sofferenze all’ammalata.
In questi mesi tenevo una specie di agenda-diario sui sentimenti e le sensazioni che
provavo:
-“La grande nostra speranza, dopo la disperazione per la crudeltà del tuo sacrificio, si era
trasformata in certezza. Eravamo come bambini gioiosi alle prese con un nuovo grande
gioco: il gioco della vita, di una vita ben diversa da quella che conoscevamo.
Il fervore d’intenti, le nuove situazioni, le intenzioni delle possibilità future ed i continui
adattamenti ci avevano preso al punto di essere felici ed orgogliosi di dimostrare a noi
stessi e agli altri che non ci sentivamo vinti ma dei vincitori.
Poi, tra sofferenze sempre più evidenti, non riuscivi più a mascherare la devastazione e lo
scempio che giorno dopo giorno questa subdola e bestiale malattia stava adoperando in
te.
E tutto è crollato quando, frastornati e intontiti dalla certezza di una ricaduta, ci siamo resi
conto dell’inutilità di quest’ultima battaglia contro il male.
Non abbiamo avuto il tempo per riflettere e organizzare una linea di condotta o almeno
una parvenza di programma: esausti, ci siamo arresi.
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Quasi più che una ribellione o rassegnazione, ci ha preso uno strano torpore e da
protagonisti siamo diventati abulici spettatori di questo gioco divenuto atroce. Il
cambiamento di ruolo ci ha in un certo senso rilassati e la cosa ci stupiva per
l’anacronismo al fervore di intenti precedente.
Poi abbiamo capito che chi abbandona e passivamente attende gli eventi non ha più
emozioni e che questa in fondo è una giusta legge naturale che consente di sopravvivere a
chi ha perso ogni speranza e non crede più a niente.
Era diventato offensivo e quasi insopportabile ascoltare i discorsi volutamente vuoti dei
pochi intimi che ancora ci frequentavano e provavamo pena per loro e per noi stessi
coinvolti nella recitazione di un’assurda commedia di circostanza.
Ed infine ti abbiamo costretto ad intorbidire la ragione e la coscienza di quanto ci
aspettava ed ai tuoi ragazzi è rimasta la straziante realtà quotidiana di ucciderti poco a
poco e costringerti ad allontanarti sempre più da noi.
Quante volte ti ho invidiato questo annullamento di sentimenti e quante volte avrei voluto
parlarti di ciò che provavo.
Ed ora che ti perdo e mi sto perdendo, non posso più dirti nulla prima che sia tutto
finito”.-“Mi vergogno per potermi muovere attorno al tuo letto, per la stanchezza che mi fa
addormentare accanto a te, per aver voglia di piangere quando ti guardo, per aver goduto
ieri lo spettacolo della nevicata mentre tu dormivi ed io fumavo l’ennesima sigaretta, per
riuscire a pensare al mio lavoro e programmare un futuro senza te. Ma soprattutto mi
vergogno di non riuscire a nasconderti la mia rassegnata disperazione”.-“Stai con me, parliamo, fammi compagnia…ma come fare ora che sono solo
un’occasionale presenza estranea al tuo mondo dove i soli amici sono il dolore, la paura e
lo stupore per ciò che sta accadendo?”-“Aiutami, mi dici, a capire perché, e io, disperato, posso solo bruciarti la ragione con un
farmaco e osservare impotente il tuo sguardo smarrito nel vuoto della ricerca di una verità
incomprensibile.”-
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-“Ora abbiamo la riprova quotidiana che il peggio di quanto può accaderci non è la morte
ma il dover sopravvivere a se stessi e alla propria dignità.”-“Ci hanno ed abbiamo allontanato tutto e tutti. E non poteva essere altrimenti: ma cosa ci
rimane se dobbiamo anche allontanarci tra noi e dai nostri figli?”-“Sogno sempre più spesso di continuare a volare alto sopra il tramonto per ritardare la
fine del giorno e la tristezza del rientro dove mi aspettano solo i ricordi per lenire la
solitudine che mi ruba sempre più il gusto della vita e mi sta portando, in un viaggio senza
ritorno, all’indifferenza.”RONDINI, GABBIANI, COLOMBI
Dopo una buona mezz’ora di lavoro i tubi di alluminio e la tela sono montati e
quell’accozzaglia di cose strane ha preso forma: si distingue una macchina che assomiglia,
in miniatura, a quelle che si vedono volare. Ed ora, dopo le verifiche di prammatica, si
mette in moto e si riscalda il motore che pare parlottare sommesso con l’elica intenta a
disegnare nell’aria cerchi trasparenti che accarezzano l’erba del prato.
La macchina acquista una vita sua e si direbbe che con le vibrazioni delle strutture esprima
l’impazienza di muoversi. A bordo!
Le cinghie ben strette, i freni pigiati, il motore che urla la sua potenza al massimo regime
e, dopo uno sguardo tutto attorno, la corsa sul prato con questo trabiccolo che diventa
sempre più veloce e sempre più leggero e, come un grande uccello, si alza dolcemente e
non ha più fremiti, non ha più scosse: sale quieto e sicuro verso l’azzurro del cielo, verso il
proprio elemento.
Si vola. E tutte le volte è come la prima volta…ci assale uno strano languore fatto di
malinconia e di gioia, di coraggio e di paura, di commozione e stupore per questo miracolo
che ci coinvolge assieme alla macchina; si galleggia in un elemento che non si vede.
Là sotto ci sono tutti i problemi quotidiani e noi qui, in questo nulla che ci circonda, a
riempirci gli occhi di spazi che mutano continuamente e non ci concedono mai di rendersi
abitudinari.
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Si è soli; del prato sono rimaste solo poche gocce di rugiada e qualche filo di erba nelle
strutture del carrello e le ruote si sono fermate e ci si muove con il soffio dell’elica che
taglia, instancabile, invisibili fette di cielo.
Ricordo quando bambino sono riuscito ad avvicinarmi sino a toccarla una di queste
macchine; avevo la stessa emozione di curiosità, timidezza ed ammirazione che ho avuto
per la mia prima donna e capisco quel ragazzino, che mi stava attorno quando armeggiavo
laggiù nel prato, con gli occhi pieni di voglie e timori per questa cosa che avrebbe poi visto
prendere il volo come per un incantesimo.
Sono sopra il grande fiume che un tempo è stato la mia palestra di giochi e che ora posso
vedere da altre prospettive che uniscono boschi, spiagge, acque profonde e secche
affioranti in un unico grande caleidoscopio di colori che entra dentro quasi a ferire lo
stupore.
Durante un volo ho intravisto nell’aria estiva davanti a me due punti sospesi che
avvicinandomi ho definito. Era una coppia di poiane che veleggiavano in cerchio in una
corrente ascensionale. Ho seguito il loro balletto aereo a distanza nel timore di disturbarle
ed ancora oggi mi chiedo perché non ho spento il motore e non ho cercato di unirmi a loro
in questo fantastico gioco aereo così diverso da quell’altro gioco terreno che ogni volta
intravedo sulle strade domenicali colme di scatoline di lamiera colorata che si rincorrono
ed incrociano affannosamente imitando le processioni delle formiche.
E mi riempio di orgoglio e mi sento un eletto se penso a chi è prigioniero delle scatoline
nel caldo e nella puzza dei gas di scarico e legato alle regole del traffico mentre io posso
scegliere di andare a destra o sinistra, salire o scendere in questo puro elemento che mi
accarezza ed avvolge sino a inebriarmi.
Non si può descrivere cosa ti lascia dentro la vista di una spiaggia che scorre sotto di te in
volo radente e improvvisamente sparisce sprofondando nelle acque increspate che
sembrano i brividi del fiume. E nuovamente una spiaggia, e al di là un bosco di pioppi
verde argento che ti si avventa contro e ti costringe a risollevarti. E, dopo averlo sfiorato,
di nuovo giù su un dorato campo di grano punteggiato di rossi papaveri ed ancora più
avanti il verde scuro dei prati di trifoglio con le gialle ferite lasciate dalle falciatrici. Ed
ebbro di colori rituffarsi, con una decisa richiamata, nell’azzurro intenso del cielo sino a
quando non rivedi sotto di te questa infinita scacchiera di colori che poco prima avevi
sfiorato.
Rondini, gabbiani, colombi, non vi invidio più; voi volate per vivere, io vivo per volare.
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E quando scendo sul prato e la mia macchina termina dolcemente la sua corsa con le
ruote sull’erba e spengo il motore devo sforzarmi per essere di nuovo me stesso con tutti
gli affanni e le preoccupazioni che vengono a riprendermi. Ma per un poco ancora mi
sento felice e leggero; le sensazioni appena provate formano una barriera che mi aiuta a
ritardare la trasformazione.
Mi tolgo il casco e a Giuliana che mi viene incontro chiedendomi apprensiva perché ho
questa strana espressione e gli occhi così lucidi dico, per pudore, che il vento penetrato
sotto la visiera difettosa me li ha irritati.
Ritengo molto importante soffermarmi ora su necessità che appaiono forse meno evidenti
ma che per i parenti sono particolarmente gravose e impegnative. E’ noto che la
burocrazia nel nostro Paese costringe chiunque abbia necessità di svolgere una semplice
domanda a disporre di molto tempo e molto spirito di sopportazione.
Gli uffici con orari impossibili per chi ha un lavoro, la disinformazione e alle volte la
mancata disposizione degli addetti rappresentano una specie di calvario che non sempre si
è in grado di percorrere.
Io personalmente ho avuto modo di capire che i vari Enti come Inam, Enpas, Inail…e molti
altri ancora possono essere di vero aiuto se si ha la fortuna di imbattersi nella persona
giusta. Altrimenti si è costretti a rinunciare per sfinimento o per mancanza di tempo.
Non so a quanti è noto che parecchi Centri Specializzati Privati, quasi inaccessibili per gli
alti costi dei ricoveri e degli esami diagnostici particolari, servono normalmente gli
Ospedali Pubblici e che, con adeguate procedure, sono accessibili a tutti senza nessun
onere a carico. Ho vissuto esperienze clamorose di ingenti spese sostenute e che in
seguito sono risultate evitabili e totalmente a carico del Servizio Nazionale o di Dottori non
in grado di fornire dati e chiarifiche per indirizzare i parenti dell’ammalato nello
svolgimento di quanto necessario di volta in volta.
E non è venalità cercare di limitare le spese: non tutti possono essere in grado di
sostenerle e, in ogni caso, non è umanamente possibile fare un distinzione tra chi può
pagare e chi no.
Non soffermiamoci poi sulle difficoltà di ottenere, per le prestazioni, regolari fatture: senza
queste ricevute non vengono quasi mai praticati rimborsi e non si possono nemmeno
operare detrazioni sulle denuncie dei redditi.
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Inoltre le strutture tecniche ospedaliere spesso sono antiquate o non in grado di fornire
dei risultati veritieri: la TAC fatta all’Ospedale di Mantova a mia moglie ha dato l’esito
esattamente opposto, e purtroppo veritiero, a quello avuto presso un altro ospedale.
Più di qualunque altro, l’ammalato ricoverato in qualsiasi struttura pubblica, privata o,
possibilmente, a domicilio ha diritto di trovarsi in un ambiente adeguato alle proprie
esigenze ma soprattutto dove la dignità umana non viene violentata più di quanto
necessario.
OLTRE AL DOLORE
In quel periodo uscì un farmaco, l’interluchina 2, che fece grande scalpore, sembrava
dovesse fare miracoli e vincere il tumore. Ho fatto di tutto per averlo: si trovava solo in
una clinica di Modena dove veniva prodotto artigianalmente da un ricercatore che ne
disponeva di poche gocce al giorno.
Mi disse: ”non insista. Abbiamo dei bambini, persone di 15 anni che hanno bisogno come
sua moglie. Noi cerchiamo di salvare un bambino o un caso dove le possibilità sono più
alte che non per sua moglie”.
Il dolore fisico, negli ultimi mesi, veniva definito ‘quasi insopportabile’.
I medici la narcotizzavano ed anch’io avevo l’autorizzazione a farlo. Quando mia moglie si
è sentita molto male ed ha capito che stava morendo, io non c’ero, ero fuori Bologna.
Quando sono rientrato, mia moglie, poche ore prima di morire, con un filo di voce mi
disse: “credevo di non fare in tempo a vederti”.
Poi, quando ha perso conoscenza, soffrendo tremendamente, con l’autorizzazione del
medico, ho fatto l’iniezione finale, ho praticato l’eutanasia: un antidolorifico a dosi
talmente alte che nelle sue condizioni significava farla crollare.
Ero cosciente di questo, il mio medico mi aveva dato questa fialetta come ultima
possibilità.
E’ un farmaco non in vendita, non può essere tenuto in casa. Poche ore dopo mia moglie
sarebbe morta ugualmente: ho la conferma del medico, non viene certo da me.
I miei figli lo sapevano.
Ho avuto una grande fortuna: l’aiuto dei miei tre ragazzi in un modo che non avrei mai
pensato potessero fare.
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Oltre al dolore, che ancora c’è, mi è rimasta una grande amarezza: le cliniche private e
l’ambiente degli ospedali non sono posti che meritano un morente.
No, non lo meritano davvero.
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Chi sono ?
di Roberta Battesini
Da poco, da alcune intime amiche, mi faccio chiamare Calla.
Sono volontaria dell’Associazione Maria Bianchi di Suzzara dal 1990.
Essere vicino a chi soffre, a chi sa di avere poco tempo a disposizione è un’esperienza
sconvolgente.
E’ un percorso unico e irrepetibile che mi ha modificata piano piano e alla fine sono
arrivata ad un punto di non ritorno e so con certezza che la mia vita può avere una sola
direzione.
“ Perché lo fai ? Qual è il comune denominatore che trovi in queste esperienze? “ mi
chiedeva un’amica.
Non lo sapevo. Strano, ma non lo sapevo. E da dieci anni ero volontaria ! Incredibile!
Poi, un giorno di novembre dello scorso anno, mentre lavavo i piatti (le riflessioni migliori
le ho fatte in cucina!), chiara come la luce del sole, la meravigliosa scoperta: l’amore.
Poteva essere la cosa più scontata e invece ne avevo coscienza piena solo dopo 10 anni!
So di vivere vicino agli ammalati terminali la più bella esperienza di vita che due persone
possono fare: un’esperienza d’amore.
Martedì 5 Maggio 1998
1° incontro
Della signora Celestina so poco, quasi niente : è ricoverata in Chirurgia Donne al n° 25, ha
84 anni e da poco le è stato diagnosticato un tumore ovarico. Vive a Carpi, ma da quando
la sua malattia si è aggravata si è avvicinata ad una delle figlie che vive a Suzzara (l’altra
vive a Ferrara).
La carenza d’informazioni mi provoca sempre ansia e tensione.
Quando devo cominciare un’assistenza mi sento sempre incerta, insicura: vorrei conoscere
già la persona. Invece dovrei pensare che io so già molto più di lei di quanto lei sappia di
me.
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Gli incontri programmati con la figlia sono due la settimana: il lunedì dalle 14 alle 16 e il
mercoledì dalle 14 alle 17.
Domenica 17 Maggio 1998
Per la seconda volta, quest’anno, sono andata a Firenze. Ho deciso, come la volta
precedente, di non andare a teatro, ma di andare libera per la città: volevo essere
trasparente e assorbente.
Così giravo senza una meta precisa, guardando tutto con tranquillità e serenità.
Qualcosa, lo sentivo, sarebbe successo. C’era un motivo, allora a me sconosciuto, per cui
io mi trovavo a Firenze proprio quel giorno. Io sarei partita da Firenze più ricca.
Così arrivo, nel primo pomeriggio, sul Ponte Vecchio. Sembra quasi deserto. Lo attraverso
un po’ assente, guardando distrattamente le vetrine.
A metà, sotto le arcate, quasi calamitata mi dirigo verso una figura. Non riesco subito a
percepire bene cosa sia: se statua, o uomo, o angelo. E’ immobile.
Io lo guardo spalancando gli occhi e resto come bloccata.
Non un movimento, non un battito di ciglia: solo il suo vestito ampio, di seta blu, svolazza
per la corrente d’aria che c’ è in quel punto.
Io mi sento come sospesa: non respiro per non rompere l’incantesimo che ci circonda.
Un bambino si avvicina ad un cappello posto lì, fra noi due, mette qualche soldo e …. per
magia….l’angelo si muove: prima piano piano come se si svegliasse da un sonno profondo
durato lunghi inverni; poi i suoi movimenti si fanno
più sicuri e Pierrot sembra
rivitalizzarsi sempre di più e si muove, e cammina, e corre …….e corre….fino a
raggiungere un prato ricco di fiori colorati ed odorosi.
Si china e ne coglie uno: è il più bello, il più profumato. Lo guarda contento, si riempie dei
suoi colori e annusandolo ne coglie il profumo soave ed inebriante. Sorride col suo fiore
meraviglioso tra le dita, ma sa già che non l’ha colto per tenerselo: lo deve donare. Lui l’ha
solo trovato, ne ha ammirato la bellezza ma non potrà tenerlo: questo fiore è per qualcun
altro.
Si prepara a staccarsene. Il mimo guarda il fiore e guarda le persone che, nel
frattempo, numerose, si sono avvicinate a lui.
E io sono lì: ancora immobile e incantata.
Lui guarda tutti e poi attraversa il breve spazio che ci separa e con riverenza gentile mi
allunga il “ fiore della fantasia”. Non è realtà.
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Vivo in un sogno.
La mia mano, come ipnotizzata, accoglie quel fiore.
Il mimo mi sorride, e lentamente si allontana ritornando al suo angolo. Immobile.
La gente se ne va.
Io sono ancora lì, davanti a lui.
Aspetto, ma non si muove più. IL SOGNO SEMBRA FINITO.
Ma qualcosa è successo.
Guardo la mia mano destra: tre dita sono unite, serrate, quasi magnetizzate tra loro.
La mano è paralizzata e io terrò per molte ore ancora quel fiore tra le dita.
Lunedì 18 Maggio 1998
5° Incontro
Mentre racconto alla Signora Celestina quello che mi è successo sul Ponte Vecchio a
Firenze, le lacrime mi riempiono prima il cuore e poi gli occhi.
Solo alla fine del racconto mi accorgo di avere nuovamente le dita della mano destra
unite, come se avessi ancora il fiore del mimo.
Sollevo lo sguardo a Celestina. Lei mi aveva ascoltata come rapita, in silenzio.
“ Perché? Perché tra tante persone ha scelto me? Perché ha scelto proprio me? “
La guardo supplichevole: ho bisogno della sua risposta per capire.
Lei dolce, serena, col viso rilassato e tranquillo mi risponde:
“Tu non sei stata scelta: tu sei stata prescelta. “
Improvvisamente vengo contagiata dalla dolcezza delle sue parole: ora le lacrime non
scendono più.
Guardo il fiore che ancora tengo tra le dita e come fossi mossa da un’intuizione luminosa:
“ Celestina, questo fiore della fantasia che il mimo mi ha donato, ora io lo dono a lei”.
Così dicendo allungo la mano e lei prendendo il fiore mi risponde :
“ ……E io te lo riporterò. “
Due giorni dopo, il 20 Maggio, Celestina muore e io ero con lei, con le figlie e i suoi nipoti.
Quando mi accorsi che non dovevamo aspettare altri respiri mi sentii come liberata ed ero
felice: provai la meravigliosa sensazione avuta dopo la nascita dei miei due figli: avevamo,
insieme, partorito la morte di Celestina.
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Stavo bene.
Sapevo che una promessa l’avrebbe mantenuta: mi avrebbe reso il fiore che le avevo
donato due giorni prima.
Martedì 1° Agosto 2000
Sono passati più di due anni dalla morte della Signora Celestina. Ci sono state, dopo di lei,
altre persone che io ho assistito. Esperienze importanti per me che mi hanno trasformata a
poco a poco: scambi ricchi, intensi, profondi.
Ho sperato sempre di poter riconoscere il fiore che Celestina aveva promesso di riportarmi.
E ora io li ho riconosciuti.
Martedì 5 Ottobre 1999
Ore 8, prima telefonata
Mi telefona Marica anticipandomi una nuova richiesta di assistenza.
Dopo appena cinque minuti squilla di nuovo il telefono.
E’ il sig. Augusto di Roma che mi telefona e si presenta.
A “ Ho avuto il suo numero di telefono da Marica”
C “ Si, ci siamo appena sentite : aspettavo la sua chiamata!”
A “ Ah si, che velocità ! “ dice il sig. Augusto piacevolmente sorpreso.
“ E sa anche il perché chiamo?”
C “ Marica mi ha fatto una sintesi veloce.”
A “ Allora le faccio una minicronistoria. Mi chiamo Augusto B. (con la i finale come il
plurale di B…..o) e sono di Roma. Vivo a Bardolino. Bardolino è bella, dolce, panoramica,
ma purtroppo io ci vengo per poter fare la terapia presso l’Ospedale di Mantova perché
per tre giorni la settimana sono a Roma per curare mia moglie che ha, dal ’96 un tumore
ovarico…..dal 1° Aprile del ’96.
Ha subito tre interventi per tre recidive e il lunedì, martedì e mercoledì lei fa le cure a
Roma.
Le dico che è morta anche mia madre di tumore al cervello e il paradosso…. non si può
dire tragedia…..il paradosso vuole che anch’io abbia un tumore al pancreas da luglio di
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quest’anno e che curo con la chemio qui a Mantova. Ci sono anche lesioni al fegato e
sono diabetico da cancro.
Prima ero in terapia a Roma da un mio amico professore, poi il mio caso è stato seguito
dalla Dott.ssa Cavazzini di Mantova che si è mostrata ben felice di curarmi qui, a Mantova.
Ora stanno trasferendo anche il protocollo di mia moglie a Mantova: la terapia la farà
settimanalmente, ogni venerdì, alle ore otto. Sa, io seguo la terapia ufficiale, non approvo
Di Bella….anche perché c’è una storia di guaritori Filippini che le racconterò. Quindi solo
protocolli e terapia ufficiali !
Io faccio la terapia ogni 20 giorni.
Cerco un aiuto a livello psicologico e relazionale per avere qualcuno, un anonimo, con cui
parlare.
Nell’Ospedale si è solo numeri!
Non abbiamo figli e mia sorella, che ci sostiene ma vive a Roma dice che è difficile non
spararsi in questa situazione. Sa, devo anche aiutare mia moglie e tutto è veramente
difficile!”
C “Ho capito. Per lei è importante avere vicino un volontario uomo o donna ?”
A “No, no, non fa differenza . Forse, una volta!… ma ora… Ho 61 anni e ho lavorato per
una compagnia aerea del Sud Africa; mia moglie ha 56 anni ed era hostess: siamo abituati
alle persone, a vivere con gli altri, a stare in mezzo alla gente!“
C “Se è così, posso essere disponibile io e cercare subito di incontrarci!”
A” Allora le posso dare il numero del mio cellulare…ma non ce l’ ho qui…devo andare in
stanza ….sono in un telefono pubblico!”
C “Io aspetto….”
A “Non mi scappi… rimanga in linea…”
Quando arriva al telefono è tutto trafelato e mi dà il numero del cellulare e anche il
numero di telefono di Bardolino. Cerco di fissare subito un incontro, anche per il
pomeriggio di oggi o domani perché poi Venerdì prossimo io non potrò esserci perché:
C “Il caso vuole che io, Venerdì, Sabato e Domenica prossimi, sia proprio a Roma…”
Il signor Augusto si anima tutto e mi chiede: dove a Roma... cosa andrò a vedere a Roma
e così mi inonda di piacevoli informazioni che solo un romano de Roma può sapere.
A “Lei dovrebbe andare alla Trattoria Lilli, Via Tordinona, 26, vicino a piazza Navona, e
chiedere di Patrizia e Silvio: il cuoco. Sono amici miei, dica che la mando io e li informi che
sono ammalato. E’ da tempo che non li vedo! Se vuole mangiare bene chieda la “ pasta
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alla matriciana e vitello alla fornara! “.. Mamma mia… e io non li potrò neanche più vedere
questi piatti!“
C “Sicuramente ci andrò“
A “Ma lei cosa andrà a vedere? Di che cosa si interessa ?”
C “Non lo so , perché il programma lo farà un amico di mio marito e io ho intenzione di
lasciarmi trasportare da Roma, senza meta !”
A “Vada a vedere la facciata di San Pietro!”
C “Ma l’ ho già vista!”
A “Si, sì: è stato scoperto anche un colore celestino nuovo! E poi vada in piazza Barberini a
visitare la Chiesa dei Cappuccini, all’inizio di Via Veneto. E’ ricca di scheletri (non si
impressioni!), di scheletri lavorati: c’hanno fatto degli oggetti con gli scheletri!… E… le
piace la pizza?“
C “ Moltissimo.”
A “Allora: vicino a Piazza Navona c’è la pizzeria del “ Baffetto”, in Via del Governo Vecchio.
Vedrà che c’è la fila, e se c’è la fila vuol dire che la pizza è buona….Ma quando ritorna?“
C “ Lunedì sarò già a Mantova!”
A “E con chi ci va a Roma ?”
C “Con mio marito.”
A “Che fa di bello suo marito ?”
C “E’ artigiano e col fratello ha una officina.”
A “E lei signora, lavora ?”
C “Si, lavoro a part-time in una azienda alimentare.”
A “Ha figli?”
C “Si, due.”
A “Grandi?”
C “Lorenzo si è laureato quest’anno !”
A “In che ?”
C “In Ingegneria Meccanica!”
A “Signora, tanto di cappello!”
C “Perché?”
A “Io sono laureato in Economia e Commercio, ma davanti alla laurea in Ingegneria
Meccanica io mi inchino!. Per me è il massimo: per averla bisogna lavorare duro, vero
signora? Almeno 10 ore di studio al giorno!! E l’altro suo figlio che fa?”
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C “Studia.”
A “Dove? Cosa? “
C “A Parma e frequenta il terzo anno di Ingegneria Meccanica.”
A “Pure.. pure lui.. mamma mia, madre di due ingegneri!“ dice quasi divertito il signor
Augusto.
Ci scambiamo ancora i numeri di telefono:
A “Signora, dalle 14 alle 16, tutti i pomeriggi, i telefoni sono staccati perché la madre di
mia moglie, anziana, deve riposare e anche noi ne approfittiamo. Allora ci possiamo
risentire Lunedì, quando rientra a Mantova.”
C “Se ha bisogno mi chiami anche prima: io sono fuori da Venerdì a Domenica compresi!
Diversamente ci sentiamo Lunedì”
A “Va bene. La saluto e mi saluti la “ Sacra famiglia “!“
Mercoledì 10 Novembre 1999
5° incontro a Bardolino
Il sole c’è, anche se fa un po’ freddo.
Ho pensato di partire per Bardolino verso le 14,30 per poter essere là verso le ore 16: non
so se anche con la raccolta delle olive Vera ed Augusto andranno a fare il riposino.
Comunque conto di andare là con calma anche per gustarmi il tragitto verso il lago di
Garda. Non nascondo di essere un poco agitata anche perché non sono frequenti i miei
spostamenti in auto e quindi anche il raggiungere una meta nuova è fonte di ansia per
me. Però tutto viene superato al solo pensiero di poter incontrare Vera ed Augusto a casa
loro, nel loro giardino così tante volte descritto.
Prima di partire ricevo la telefonata di Lorenzo che rientra da Bologna e sarà alla stazione
di Suzzara alle 17. Andrà suo nonno Orlando a prenderlo.
Alle 14,15 parto.
Il viaggio è abbastanza tranquillo anche se non riesco a rispettare il percorso
programmato sulla carta : troppo traffico in città, rondò incomprensibili e segnalazioni
distorte mi fanno molta confusione. Per fortuna di tanto in tanto compare l’indicazione: “
Lago di Garda” e io vado secondo le tabelle, senza preoccuparmi se i paesi sono diversi da
quelli studiati sulla carta ( che comunque ho con me ! ).
E’ da tanto tempo che non vado sul Lago di Garda e da sola, poi, non ci sono mai andata!
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Il percorso é abbastanza tranquillo ed è piacevole: il tratto di “ gardesana ” quasi deserto.
Luoghi come “ Gardaland “ o le piscine “ Caneva ” sono quasi impossibili da raggiungere in
estate ed ora è tutto tranquillo e le aree gioco sono silenziose. Anche i campeggi sono
silenziosi e tutto mi sembra veramente strano. La tranquillità però mi fa stare bene.
Sono pronta anche a non trovare Vera ed Augusto ed è per questo che cerco, comunque,
di godermi questa mezza giornata autunnale. Se non li troverò, mi fermerò in qualche
posto tranquillo, qui al lago.
Il sole comincia a scendere e una leggera foschia è calata sul lago quando mi fermo in un
bar di Cisano. Chiedo un caffè e la guida telefonica di Verona. Mi siedo a tavolino e sfoglio
decisa l’elenco alla ricerca di Bardolino e poi del cognome B…..i, per poi ricavarne
l’indirizzo. Non nascondo che temevo di non trovare il loro nome sulla guida. E invece,
eccolo: B…..i Augusto, V. Paerno, 25 Tel ………; controllo il numero: corrisponde a quello
che ho io.
“Bene – mi dico – non mi resta che cercare la via“ e così vado in centro a Bardolino.
Parcheggio l’auto sulla strada principale, vicino ad una chiesetta chiusa. Scendo la strada
ed entro in un negozio di “ottica” . Chiamo, ma non c’è nessuno all’interno. Quando esco
trovo un uomo che mi viene incontro uscendo dal bar di fronte con un caffè in mano.
“Desidera qualcosa ?“ mi chiede.
“Sì : può dirmi dove si trova Via Paerno?“
L’uomo si gratta in testa e mi manifesta tutta la sua difficoltà: “ Non è facile andare là….é
in alto… e la strada….la strada …. Senta: giri
subito a sinistra, uscendo di qua, e
poi….no…no… vada all’incrocio grande e poi giri a sinistra…. prosegua lungo la strada fino
al bivio, dove c’è un capitello, lì giri a sinistra e poi subito a destra…. la strada è stretta e
in salita…. lì , in fondo , troverà via Paerno…“ Mi fa ripetere gli appunti che mi ero scritta
e poi mi saluta.
Io risalgo in auto e seguo le non facili istruzioni fino a trovarmi lungo una stradina stretta,
ripida, ma asfaltata. Ho bisogno di chiedere se mi trovavo nella direzione esatta e così
entro in uno spiazzo con alcune case: un ragazzo mi conferma che devo proseguire fino in
fondo e poi girare a sinistra.
E infatti, dopo avere seguito le informazioni, mi ritrovo proprio davanti al cartello di via
Paerno.
Ora la ricerca si fa più ansiosa e il cuore comincia a tormentarmi. La strada si erpica
ancora e comincio a guardare i numeri dispari che sono alla mia sinistra: 1 – 3 - 5 17
…..23
-
e poi un grande passo carraio con un cancello spalancato con un cartello
enorme: Proprietà Privata. Non vedo il numero e allora proseguo girando ancora a sinistra
per via Paerno bassa. La strada diventa ora viottolo stretto e si inoltra in mezzo ai boschi.
Trovo alcune case, ma ho l’impressione di essermi allontanata dalla meta. Ritorno indietro
e ad un uomo che portava in giro un cane per i boschi chiedo dov’è il numero 25 di via
Paerno.
“Non sono del posto – mi risponde – io porto solo in giro il cane e non so aiutarla!”
Ritorno davanti all’ultimo cancello e parcheggio l’auto in una piazzola poco distante, vicino
ai bidoni delle spazzature.
Sono decisa a lasciare l’auto e a proseguire la mia ricerca a
piedi.
Ritorno davanti al cancello e in un angolo, nascosto da arbusti verdi, trovo il numero 25 !
Entro con circospezione e mi incammino lungo il sentiero. C’è un grande silenzio intorno e
il profumo di bosco che mi arriva alle narici sembra darmi vigore ed energia. Da molto
tempo non entravo nei boschi e in autunno sono stupendi: profumi intensi di piante che
non distinguo mi stordiscono un poco. Tutto intorno è bellissimo perché selvaggio, ma
nello stesso tempo niente sembra essere lì per caso. Mi colpisce una vegetazione fitta di
bambù e di piante grasse e poi, dopo aver camminato un bel po’, ecco gli ulivi.
“Sono arrivata!“ mi dico. Ma nessuno è intorno alle piante e rimango delusa. Più avanti
altri ulivi con le reti sotto. Li conto: sono circa una decina; proprio come mi aveva detto
Vera. E c’è anche un uomo in giardino, con una carriola, che mi guarda da lontano.
La casa è moderna e grandissima e tutto intorno un parco stupendo con tanti alberi curati
e un prato rasato ancora verde.
Vado al cancello e leggo i cartelli: Attenti al cane. Già, Vera mi ha detto di avere un coker.
E c’è anche il cartello del sistema d’allarme. Però sul campanello non c’è il nome! Sono
convinta di essere veramente a casa dei Signori B…..i, perché tante cose coincidono.
Ma il parco attorno alla casa è davvero speciale: non conosco i nomi di tutte quelle piante,
ma noto la cura con cui sono state piantate e la loro disposizione: tutto così armonioso e
bello.
Entro nel parco della villa, e cammino piano piano alla ricerca del giardiniere. Lo intravedo
da lontano mentre con la carriola va verso la serra. Così, camminando molto lentamente e
sempre pronta a dare una risposta a chi mi avesse fatto domande, vado sul retro della
casa in cerca del giardiniere.
Appena lo vedo uscire dalla serra chiedo subito: “Scusi, abitano qui i signori B…..i ?”
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“No” mi risponde lui.
Ho un sospiro di sollievo!
Veramente mi ero immaginata, dalle descrizioni di Vera ed
Augusto, un giardino e non un parco del genere intorno ad una villa gigantesca. Sapere
che né Vera né Augusto abitavano quella casa così fredda e deserta
mi faceva stare
meglio.
“Qui abita una signora tedesca!” e mi dice il nome che ora non ricordo.
C “Anche la signora che sto cercando io ha la madre tedesca….che sia lei ?“
Il giardiniere mi risponde che forse la signora padrona mi potrà aiutare, ma nessuno apre
l’enorme portone di casa che il giardiniere bussa ripetutamente.
“Senta – mi dice – più avanti, lungo la via, ci sono altre quindici o venti case, abitate
quasi tutte da tedeschi! Dovrà provare più avanti. Ma prenda l’auto, perché la via è lunga!“
“No, no – rispondo io decisa – preferisco andare a piedi“ ed esco dal parco salutando il
giardiniere.
“E’ stata una fortuna non aver conosciuto il cane!“ pensavo io uscendo dal parco.
La casa dopo non ha il nome del proprietario sulla cassetta delle lettere. Allora cerco di
leggere l’indirizzo sulle buste infilate dentro la cassetta delle lettere. No, non sono loro.
E così scendo lungo la strada e incontro case che sono del tutto deserte: non una imposta
aperta, nessun rumore, niente nomi sulle cassette delle lettere. Così io non so se anche
per i Signori B…..i sarà così: se non c’è il nome al cancello, sarà dura scovarli!.
Passo le case ad una ad una senza risultato. E non c’è anima viva a cui chiedere.
Le ombre, in alcuni tratti della stradina, sono ormai lunghe e sembra quasi buio.
Ad un certo punto mi prende la paura e forse sarei anche tornata indietro se due cani
non mi avessero seguita festosi per un buon tratto.
Fra paura, ansia e testardaggine proseguo lungo la strada che non sembra avere una
fine.
Ma fortunatamente vedo un’auto rossa che fa manovre per uscire da un viottolo.
Mi fermo davanti al passaggio, proprio sul mezzo: sono decisa
a fermare l’auto per
chiedere informazioni.
Sono controluce e ora vedo solo l’ombra dell’auto che viene verso di me.
Alzo il braccio per arrestarla e avvicinandomi, chiedo: “ Scusi,….sa…..”
“Ma…..ma…. ma cosa fai qui ? Ma tutta matta sei……!!.” Era il signor Augusto!
Non ci potevo credere! Lui, proprio lui.
Ero terribilmente contenta e non riuscivo a
controllare la gioia di averlo finalmente trovato!
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Lui pure era incredulo di trovarsi me davanti e continuava a chiedermi: “ Ma come hai
fatto ?… come hai fatto!
… Dai, sali….
che ti porto a casa da Vera … Ma non è
possibile!…Ma lo potevi dire: ti venivamo incontro. E la macchina?… Su, sali… sto andando
al frantoio coi sacchi delle olive!“
“Accidenti, sono arrivata tardi: contavo di aiutarvi !”
La nostra gioia è grande. Sono contenta di averli trovati e di aver fatto loro questa
sorpresa, e lui è così meravigliato e non sa più cosa fare. Così comincia a suonare il
campanello e a chiamare Vera (il nome sul loro campanello c’era!) e poi mi accompagna,
attraversando velocemente il giardino di Vera, verso la casa. Io lo seguo a fatica e non ho
nemmeno il tempo di guardarmi attorno: sento solo sprofondarmi nella tenera erba del
prato mentre lui continua a chiamare Vera ad alta voce. Mi accompagna alla piccola
scarpata che era stata per loro fonte di grande preoccupazione e alla quale avevano
dedicato tutte le loro attenzioni. Me la mostra dall’alto.
“Puoi scendere lungo il percorso fin giù. Sapessi quanto lavoro per impedire che questa
scarpata crollasse!“ E mentre io scendo lui si allontana e va a chiamare di nuovo Vera
senza ancora dirle che io ero venuta a trovarli.
Quando alzo lo sguardo vedo Vera appoggiata, là in alto, alla staccionata e, meravigliata,
mi saluta gioiosamente.
Risalgo in fretta e ci salutiamo calorosamente.
Siamo tutti
eccitati, persino la cagnetta Bonnie: una bella cokerina dal pelo nero e lucido.
Vengo presentata anche alla madre di Vera: una bella signora di 86 anni che parla il
tedesco – la sua lingua – l’inglese e pochissime parole di italiano.
Vera si cambia le scarpe, si infila un golf e dopo aver chiesto alla madre di preparare un
caffè lungo, alla tedesca, noi usciamo.
Mentre Augusto va, finalmente, al frantoio a portare i sacchi di olive, Vera mi fa vedere
tutte le piante e i fiori che sono stati piantati e mi parla di come è stata salvaguardata la
scarpata.
“Sai, c’erano state abbondanti piogge e il terreno franava tutto! Allora abbiamo chiamato
una ditta specializzata, di Bolzano, che per mezzo di un enorme “ragno” ha rafforzato tutta
la scarpata inserendo dei tronchi di larice in orizzontale e in vari strati. Così ora la scarpata
è sicura ed agibile“.
Poi Vera ha pensato di mettere piante e cespugli perché le radici tenessero compatto il
terreno.
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“Vedessi a primavera i colori che ci sono… e le piante che qui nascono spontaneamente!“
E mi descrive con trasporto tutte le piante che ha messo lei e i colori dei fiori a primavera
e in estate.
Capisco il suo amore per quella sua scarpata: ogni pianta, ogni fiore, ogni sasso è stato
scelto da lei e voluto da lei. Poi, con sua grande meraviglia, la natura porta semi nuovi, e
nuovi e imprevedibili colori si aggiungono. Lei aspetta con trepidazione che quei semi
sconosciuti diano fiori nuovi
che ancora non conosce. E mi parla della sua attesa, nella
primavera passata, davanti a due cespugli a lei sconosciuti: “…. e poi a primavera
inoltrata: una bellissima macchia di fiori blu!“
Il suo è un amore infinito, incondizionato e si scusa con me perché lungo il sentiero ci
sono alcune erbacce strappate, ma non portate nell’apposito contenitore dei rifiuti.
Si
scusa quasi io avessi trovato in disordine il suo ambiente!
Rimaniamo lì, andando su e giù per circa venti minuti: ormai è sera e rientriamo in casa
per bere il caffè lungo lungo, alla tedesca, accompagnato da deliziosi biscottini fatti dalla
mamma di Vera.
Chiedo a Vera di farmi vedere i lavoretti che sta preparando per il Natale.
Così mi
accompagna in un salottino da lavoro: sta facendo palle per l’albero di Natale e piccoli
mazzetti di fiori utilizzando i semi delle piante o ghiande intrecciati con nastrini, perline,
fili d’oro e d’argento. Tutto è così grazioso!
Anche la casa è molto bella, arredata con molto gusto: è piacevole e tutto così femminile!
Si sta bene, dentro.
Ma ancora Augusto non è tornato!
Poi Vera mi accompagna su al primo piano e mi mostra il resto della sua casa.
Proprio allora arriva Augusto: è come un tornado! Va su , e poi va giù; e poi se ne va e
quando ritorna accende la luce di una vetrinetta dicendomi:
“Lì dentro ci sono tutti i viaggi di Vera! Le cose belle sono sue, quelle brutte sono mie!”
Gli oggetti della vetrinetta sono tanti, raffinati e denotano la loro origine.
Ma ad un certo punto vengo attirata da una foto: “Vera, sei tu questa?“ chiedo.
“ Sì “ mi risponde sorridendo.
“Sei bellissima!“. E’ una foto bellissima di Vera: ha i capelli biondi, lunghi fino alle spalle,
pettinati all’insù. Indossa un abito originale, ma stupendo, color rosa confetto: giochi di
stoffa a pieghine sulle spalle sembrano ali d’uccello o forse di angelo. Resto muta e
incantata!
21
Allora Vera mi mostra il suo album di foto: sono le foto del suo matrimonio! E la foto che
mi aveva colpita ritraeva lei nel giorno in cui si è sposata con Augusto.
E così sfogliamo il suo album e lei è veramente radiosa. Sembra una modella: alta e
slanciata e con quell’abito semplice, ma straordinario.
“ Quando vi siete sposati? “ chiedo.
“ Nel 1984 “ mi risponde Vera.
Le foto sono molte e tutte molto belle, specialmente quelle dove c’è lei.
Noto come Augusto sia cambiato: era più robusto di ora.
Mentre guardo le foto, arriva Augusto che mi mostra il suo libretto universitario.
“ Vuoi fargli vedere quanti capelli avevi da giovane?“ scherza Vera.
“ No, voglio farle vedere il mio libretto tutto scritto a mano, ora ci sono i computer, ma
allora … a mano… e poi, vedi… guarda… cinque anni iscritto senza dare esami. La vita che
ho fatto per nasconderlo ai miei! E poi, guarda: quando ho cominciato a darne uno poi ho
finito alla svelta…”.
Purtroppo sono quasi le 18 ed io devo rientrare a casa.
Saluto la mamma di Vera, poi Vera.
Augusto mi riaccompagna alla macchina.
Ormai è buio e lui mi consiglia di prendere l’autostrada ad Affi: mi accompagnerà lui,
precedendomi con la sua auto, fino al casello autostradale per una scorciatoia.
Durante il breve tragitto verso la mia auto ridiamo, parliamo: veramente siamo contenti.
E’ stato un pomeriggio speciale e lo sappiamo tutti e tre, o forse tutti e cinque (Bonnie
inclusa!).
Per qualche giorno vivrò l’effetto alone di questo pomeriggio.
Ritornata a casa ho l’impressione di aver vissuto in un sogno: il percorso verso Vera ed
Augusto, il viottolo, la loro ricerca, la paura di non trovarli, e poi la gioia dell’incontro, la
sorpresa e la meraviglia di trovarmi nel loro ambiente, a casa loro, fra le loro cose, nel
giardino di Vera.
Mi ricordo la prima telefonata di Augusto:
“Qui tutto bello, panoramico, ma ….”
E là tutto è bello e panoramico: è come vivere in Paradiso.
Mantova sembra lontana e l’Ospedale un incubo lontano. Il reparto di oncologia e il day
hospital: un Inferno…..
22
Sono convinta che è proprio il posto dove hanno deciso di vivere che dà a loro tante forze
ed energie: è quasi impossibile pensare di essere ammalati in un posto così bello!
No, per ora, la malattia, la sofferenza, l’ansia viene relegata a Mantova: Mantova parentesi
infausta.
Per fortuna poi si rientra a Bardolino. Lassù, in alto, in mezzo ai boschi, ancora, forse, ci si
può nascondere.
In un posto così bello, forse, ci si può difendere dalla malattia.
E, forse, è proprio questa natura così amata che stimola, incentiva, ricrea e dà un senso
forte alla giornata e permette di mettere in secondo piano la sofferenza.
C’è un fiore da piantare, c’è un’erba da togliere, un sasso da sistemare, quella pianta da
potare, il prato da falciare e poi…laggiù…. il lago da guardare…e il profumo dei boschi da
annusare …e il rumore del Vaio, in fondo alla scarpata, dove fa cascatella, da ascoltare…e
Bonnie…. su Bonnie vieni….vieni qua…dai….vieni qua……..
Venerdì 10 Dicembre 1999
8° incontro presso l’Ospedale di Mantova
Il tempo che mi serve, una volta lasciato il lavoro, per arrivare a Mantova lo spendo tutto
nel pensare al prossimo incontro. Cerco di rivedere gli incontri precedenti, di focalizzare
meglio un atteggiamento, una frase per capire meglio la situazione. Mi sarà difficile farlo
dopo, perché gli incontri con Augusto sono sempre imprevedibili e quindi diventano molto
dinamici e creativi.
Con lui mi sento in pieno mare, sospinta su e giù, avanti e indietro, è difficile tenere la
rotta e rimanere come punto di riferimento.
Spesse volte ha tentato pure di coinvolgermi o di provocarmi su problemi che io sento
particolarmente (in questo momento sono presa anche da problemi relazionali in famiglia:
Renato soprattutto, Lorenzo che sta per finire la sua esperienza all’Istituto Psichiatrico
Roncati di Bologna e dovrà cominciare a cercarsi un lavoro). Non nascondo che Augusto
mi ha tentata e in alcuni momenti sono stata sul punto di esporre i miei problemi. Per
fortuna non è accaduto anche perché so che questo avrebbe aggravato il nostro rapporto
appesantendolo di fardelli di cui Augusto deve fare a meno. Quindi non è facile il dribbling
per tenere Augusto lontano pur mantenendo un rapporto di verità e sincerità.
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Nel corridoio dell’attesa, seduta in fila, insieme a tanti altri, scorgo Vera.
Subito mi dirigo verso di lei e cominciamo a parlottare fittamente.
Poco dopo viene chiamata in una salettina a due letti e lei viene fatta accomodare su una
sedia.
Io resto fuori in attesa che esca l’infermiera.
Ed ecco sbucare Augusto. Ci salutiamo, ma lui non è come sempre: lo vedo preoccupato e
cerca Vera.
“ E’ qui “ e gli mostro la stanza .
Augusto entra e comincia la sua parte da intrattenitore.
Di sfuggita però mi allunga un articolo di giornale e vuole che lo legga.
Si tratta dell’articolo di Repubblica con la testimonianza di Indro Montanelli: rivendica il
diritto di libertà di scelta: decidere di morire spetta al soggetto stesso e quindi appoggia
l'eutanasia attiva.
Avevo già letto quell’articolo e lo dico ad Augusto.
“Ah si? Ma proprio questo? O hai letto la Gazzetta di Mantova?!” Lo assicuro che si trattava
dell’articolo di Indro Montanelli su Repubblica.
Allora lui mi dà, sempre con fare complice, un altro articolo: “Leggi anche questo: è
interessante!” Ma non riesco a concentrarmi sulla lettura e rimango col pezzo di giornale in
mano perché seguo le evoluzioni di Augusto.
Le altre due pazienti e la nipote di una di queste sono catturate da Augusto e ridono
divertite alle sue battute. Io me ne sto in disparte, vicino a Vera: entrambe guardiamo
Augusto in silenzio.
Alla fine Augusto si rivolge a Vera per dirle che, anche se piove, andremo a fare un giro in
centro per sbrigare alcune commissioni.
E poi, rivolto alle due pazienti e alla nipote: “….e già, perché io ho due donne: una che
sta con me e una di Suzzara…ho anche quella di scorta!” Io e Vera ci guardiamo e
sorridiamo, mentre le altre tre donne ironizzano.
Salutiamo ed io ed Augusto usciamo.
Appena fuori dalla stanza Augusto si trasforma: il suo viso si impietrisce e mi dice di non
capire i risultati delle analisi della moglie. I marcatori di Vera sono saliti, e lui non sa
spiegarsi il perché ed è insoddisfatto delle spiegazioni avute dai medici.
E’ anche
arrabbiato perché il prossimo Venerdì 24 Dicembre, non verrà fatta la terapia a Vera.
E aprendo l’auto lo sento ripetere: “ Santo cielo, almeno lei…. di due….almeno lei…..”
24
Seguo Augusto in silenzio e mi siedo in auto con lui.
La sua guida è agitata e sempre mi chiede la strada per arrivare in centro, e ad una
rotonda, non segue le indicazioni e sbaglia direzione. Ormai l’abbiamo fatta tante volte la
strada che dall’Ospedale va in centro, ma ora Augusto sembra averla completamente
dimenticata. Il pensiero di Vera gli riempie la mente ed oltre a questo è palpabile che sta
per dirmi qualcosa di importante.
Sta faticosamente trovando il modo per controllare tutto il peso che ha dentro, darvi un
ordine e poterlo fare uscire senza esplosione.
Prende fiato e fermandosi molto spesso per avere il tempo di sedare l’angoscia che lo
assale e gli attanaglia la gola, comincia a parlare:
“Devi leggere quell’articolo che ti ho passato e leggerlo molto attentamente. Perché io sto
pensando veramente di iscrivermi a quella associazione elvetica “ Exit”. Non voglio ridurmi
come mio padre e non voglio che Vera mi veda così! Lei ha bisogno di pensare a se
stessa, non riuscirebbe a pensare anche a me. Ho già telefonato e preso contatti, ma
ancora non ho avuto risposte precise. Ma sto prendendo questa decisione.”
Io rimango silenziosa ad ascoltarlo. Non sono sorpresa delle parole di Augusto: mi
aspettavo da lui proprio quello che mi stava dicendo. Ma nonostante ciò, mi sentivo girare
la testa e per un po’ rimango quasi bloccata davanti una montagna impossibile da scalare.
E lascio che le parole di Augusto mi penetrino fino in fondo all’anima e le sue parole sono
come una doccia gelida che mi investe violentemente.
Sono tentata di scappare, di non sentire, ma sono anche fisicamente bloccata lì, vicino a
lui , mentre lui continua dirmi:
“Sai, è venuta mia sorella e non l’ho detto a lei, e nemmeno con Vera ho parlato di queste
cose. Ne parlo con te!” E queste parole mi fanno aprire gli occhi e l’anima. Vedo la
sofferenza di Augusto e la vedo in una luce piena, la vedo fino in fondo, vedo le sue
angosce, le sue paure, la paura di non farcela e il suo desiderio di non fare soffrire Vera.
Vera che, a suo parere, non riesce a badare a se stessa, che si dimentica le medicine, che
non telefona al medico per… Vera non può badare anche alla madre… e poi a lui… e
quindi è meglio pensarci per tempo e deciderlo presto.
Ora riesco ad ascoltarlo e a capirlo, ma sto cercando anche di dargli la possibilità di
ragionare fino in fondo, di vedere le cose da vari punti di vista, di sondare meglio, e
soprattutto di conoscere bene Vera.
25
Siamo arrivati vicino alla chiesa di S. Francesco. Lui mi lascia in auto con Bonnie, la
cokerina nera, col compito di leggere la cronaca di una storia di eutanasia attiva, mentre
lui si allontana col mio ombrello per cercarsi un paio di mocassini che ancora non ha
trovato.
In macchina leggo l’articolo e quando Augusto ritorna, dopo circa dieci minuti, mi propone
di andare in un caffè all’angolo.
Seduta a tavolino c’è solo una persona e noi due prendiamo posto vicino alla porta .
Il caffè è stretto e mi sembra impossibile poter parlare con Augusto di cose così grandi in
così poco spazio. Inoltre Augusto è proprio seduto vicino alla porta e deve ritirarsi ogni
volta che entra o esce qualcuno. Nonostante ciò,
mi parla della sua esigenza di fare
qualcosa, di pensare prima alla soluzione della sua vita.
“Sai, in questa settimana ho avuto momenti in cui mi sono mancate le energie, dei cali
vistosi. Capisco che peggioro. E sai cosa vuol dire….però….prendere questa decisione?“
Mi guarda fisso negli occhi in un silenzio inquietante. “ NO – rispondo – dimmi cosa
significa per te “.
“Vuol dire che io, poi, vado a trovare mia madre ….” e fa segni circolari con le mani sul
tavolino…come se volesse dirmi che il ciclo così si chiude.
Non riesce più a parlare e sta piangendo.
Io sono immobile davanti a lui. Rispetto il suo silenzio e le sue lacrime. Mi trattengo da
ogni minimo movimento e quasi religiosamente lo guardo. Sono serena, ora, e tranquilla e
credo che la mia serenità lo contagi, perché a poco a poco si calma e quando riprende a
parlare lo sento più rilassato.
“ Bevi il tuo cappuccino , si sta raffreddando “– mi consiglia alzandosi per pagare il conto
alla cassa.
Io bevo lentamente il cappuccio rimanendo ancora seduta a tavolino.
Lui torna a sedersi e continuiamo a parlare nonostante ora, nel caffè, ci siano molte
persone.
Ma nessuno di noi due le nota, anzi la confusione e il chiasso ci proteggono ancora di più.
“Tu cosa ne pensi dell’eutanasia? Ti è capitato ancora nelle tue assistenze?“ mi chiede.
“ Posso dirti quello che ho provato io quando sono stata vicino a mio padre!“
“Sai, io ben due volte ho tentato di chiudere la flebo a mia madre, ma poi non ce l’ho
fatta!” mi confessa.
26
“Ho desiderato anch’io la morte di mio padre: lui aveva un tumore polmonare con
metastasi ossee. Una domenica mattina, presto, ho desiderato per lui di avere una fiala e
di farla finita. Era stato in coma per una notte e il suo risveglio mi ha trovata impreparata.
Era uno stress e un’ansia incredibili e non potevo sopportare la sua sofferenza e dover
ricominciare tutto di nuovo!“
“ E poi come andarono le cose ? “ mi chiede Augusto
“ Mio padre visse ancora un mese e fu un mese bellissimo. Furono sospese, anche per sua
tacita volontà, tutte le terapie, ad esclusione della morfina. Ma nel ’90 questi farmaci
erano estremamente controllati ed io ero terrorizzata solo al pensiero di rimanere senza e
non poter sedare il suo dolore fisico. Però è stato un mese ricco di emozioni, di dolcezze.
Mio padre ebbe modo di salutare mia madre e andarsene tranquillo pur in una grande
sofferenza.”
“Io non voglio far soffrire Vera. Non ho paura della morte, ma è per Vera che ho paura!”
“Potresti parlarne a Vera. Può essere che tu stia sottovalutando l’amore di Vera per te o le
sue capacità di starti vicino”
“E come faccio a parlare con Vera? Lei rifiuta…rifiuta…nemmeno si può ipotizzare di
parlare con Vera!”
“Capisco….ma forse Vera è così, perché non sa tutta la verità!”
“Ci devo pensare io a queste cose…devo mettere le mani avanti…non si sa mai….forse
potrei proprio averne bisogno!” riconferma.
“Se questo ti dà serenità, allora è bene che tu faccia quello che tu ritieni giusto fare. Se ti
serve per sentirti più sicuro e per avere una tua ultima possibilità….è bene quello che
fai…Vuoi scegliere tu…tu pensi di avere il diritto di scegliere…”
A questo punto Augusto ribadisce che vuole avere questa carta da giocare, proprio in
extremis.
Mi sembra che ora prospetti questa decisione da prendere proprio alla fine, quando….
Ero consapevole di una cosa durante tutta la conversazione: dovevo accettare tutto di
Augusto, accettare di parlarne e quindi dovevo escogitare qualsiasi espediente perché
Augusto continuasse a parlarne. Anche se all’inizio ero tremendamente spaventata, man
mano che io ed Augusto parlavamo, sembrava che pian
piano
si smorzasse e si
sgonfiasse quella tensione presente all’inizio.
27
Usciamo dal caffè e ci dirigiamo alla sua Banca. Io lo prendo sottobraccio per stare meglio
sotto l’unico ombrello che abbiamo e ci troviamo a camminare speditamente per le vie di
Mantova, sotto l’acqua e un vento gelidi. Ora parliamo di Napoli, delle bancarelle di Natale;
ci fermiamo a chiedere informazioni ad un mercante di Rimini che vende padelle. Augusto
scherza, ma non è plateale, commediante, lo sento sincero e più leggero.
Mentre ritorniamo verso l’auto, verso le 13, mi chiede altre informazioni sull’Associazione e
se avevo assistito altre persone col tumore al pancreas.
“Sì - rispondo - una signora, nel ’94“
“E quanti mesi è vissuta ?“
“Circa quattro, cinque mesi!”
Ormai siamo arrivati all’auto e siamo accolti dai festeggiamenti di Bonnie.
Augusto continua a parlare di eutanasia fino a quando, aprendo la porta del reparto che
conduce a Vera lo sento dire :
“Ed
ora rimettiamoci la maschera!” e così fa,
meravigliando ancora una volta tutti i
presenti.
Andremo poi, ancora una volta, a pranzare insieme, ma nulla o pochissimo viene detto: si
parla di Napoli… di Beirut…dell’India…di cibi…e di altre cose che in quel momento sentivo
non interessavano nessuno.
Augusto mi lascia di frequente con Vera; è evidente che è molto preoccupato per lei: i
marcatori sono saliti e viene prospettata per lei una nuova terapia, più intensa. Lui mi
lascia con Vera perché io possa parlare con lei, ma mi è quasi impossibile: Vera era stata
in ospedale, seduta su una seggiola una mattina intera, ed ora lei si sta veramente
gustando un antipasto dei Gonzaga. A lei piace moltissimo! Vicino a lei, legata al tavolo,
c’è Bonnie che aspetta tranquilla qualcosa da mangiare.
Verso le 16, dopo aver fatto un giro per le vie di Mantova, mi riaccompagnano all’auto.
Vera mi regala un centro tavola natalizio fatto da lei. E’ veramente grazioso e io non so
come ringraziarla.
Ci salutiamo come le altre volte, ma ho la morte nel cuore e sono stanca, molto stanca.
Venerdì 3 Marzo 2000
Biglietto dopo il 16 ° incontro presso l’Ospedale di Mantova.
Augusto è andato a Roma e sono due giorni che penso spesso a lui: un romano a Roma!
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Ci siamo ripromessi di incontrarci a Mantova Giovedì, 9 Marzo: entrambi saranno al day
hospital per la chiemioterapia.
Ma il 9 marzo mi sembra troppo lontano ed io sento il bisogno di comunicare con loro
prima e così cerco e trovo un biglietto intenzionata
a spedire loro un messaggio per
posta.
Il biglietto rappresenta un paesaggio di montagna: il colore dominante è il blu. Blu la
notte, blu gli abeti, e blu è il cielo; solo un bagliore tenue illumina: è la luna, una
sottilissima falce in cielo.
“Ma chi ha detto che i biglietti si mandano solo per Natale e Pasqua?.
Vivere per me è meraviglia e stupore.
Essere stata catapultata nella vostra grande avventura ancora mi stordisce e mi affascina.
E’ importante cosa succederà domani se possiamo goderci anche un solo attimo di
serenità oggi?
Grazie di essere così come siete.
Vi voglio bene proprio perché siete così diversi da me e questo può dare ad ognuno di noi
la grande opportunità di conoscerci meglio, dentro.
Il 9 Marzo è troppo lontano e io volevo darvi questo messaggio subito.
Ciao dolcissima Vera.
Ciao Augusto sempre “assetato”.
Vi abbraccio.“
Calla
Venerdì 10 marzo 2000
lettera dopo il 18° incontro presso l’Ospedale di Mantova
La notte è stata molto agitata.
Devo fare qualcosa per cominciare a togliere le incrostazioni che col tempo si sono
depositate nell’anima di Augusto.
Scrivo una lettera.
“Vera, ti ho promesso, per telefono, di lanciare frecce, ma già alcune mi sono tornate
spuntate (ritengo solo apparentemente!). Sta tranquilla comunque, la lotta per me è
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appena iniziata e se le frecce non riusciranno a colpire nel “tallone di Achille”, cercherò
per te e troverò l’arma giusta perché si frantumino le corazze irrobustite negli anni.
Sono convinta che la verità, per me l’oro della vita, sia la cosa più difficile da scoprire, a
volte da accettare, ma è il bene più prezioso da custodire. La verità è sotto, è dentro di
noi, è in fondo alla nostra anima. In alcuni casi è sufficiente spostare con la mano un
leggero strato di sabbia, in altri casi sono necessarie le cannonate.
Sono sicura di essere capita da te Vera, amica dal nome cristallino.”
Per Augusto, rimandato (ingiustamente , aggiungo ora: 3 agosto 2000) a settembre in
matematica, do il tema da fare a casa.
Tema: commentate il seguente passo tratto da autore noto vivente
(da un indovinello di Augusto)
Un naufrago sta nuotando in mezzo al mare e vede una luce che si smorza e si spegne, si
smorza e si spegne ….si smorza e si spegne…
Domanda N° 1
Chi è quel naufrago? Non chiedo “ cosa vede ?” perché già il candidato lo sa, ma chi, e
sottolineo chi, è quel naufrago? Descrivetelo nei dettagli esterni ed interni.
Domanda N° 2
Ma perché sta sprecando energie e tempo verso una luce che si smorza e si spegne ?
Tempo a disposizione: quello necessario
PS :
………….. Augusto, se sei in difficoltà puoi farti aiutare da Vera, ammetto suggerimenti e
sono auspicabili lavori di gruppo, e due persone forti fanno, se lavorano insieme, un
gruppo vincente.
Ciao, ciao, ciao.
Ormai sono le 9,30 e andrò al lavoro con un ritardo pauroso. Ma ne valeva la pena!
Ciao ancora.
Calla.
Domenica 30 Aprile 2000
cartolina da Firenze raffigurante il Ponte Vecchio,
dopo il 23 incontro presso “Osteria da Oscar“ a Barcuzzi Lago di Garda
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Vorrei regalarvi un arcobaleno:
un ponte di colori.
Calla
11 Maggio 2000
Sogno dopo il 25 ° incontro presso la sede dell’Associazione
Credevo fosse già partito.
Ero veramente convinta che se ne fosse già andato.
Stava bene e a parte qualche segno di stanchezza, comprensibile per lo sforzo fatto nel
parlare, era in forze e poteva arrivare fino a casa.
Ma eccolo lì: barcollante vicino ad una sedia.
Il viso sofferente, pallido, tumefatto.
Sta accasciandosi dolcemente a terra.
Ora tutto il suo corpo è molle e senza forze.
Senza parlare mi avvicino e tento faticosamente di sollevarlo. Non ci riesco.
Allora, stringendolo forte lo trascino verso il letto.
Ma entrambi i letti sono occupati: i miei figli continuano indifferenti a dormire.
Mi trascino con lui verso l’altra stanza da letto: un letto è occupato da mio marito.
L’altro no: è il mio, libero.
Non suoni, non rumori. Un pesante silenzio accompagna questi miei sforzi estremi.
Riesco a sollevarlo piano piano, in uno sforzo enorme e a sistemarlo sopra il letto e poi
sotto le coperte.
Quel corpo maschile così malato, così sfinito è ora raggomitolato sotto le lenzuola
scomposte.
Anch’io mi accoccolo vicino a lui e poi mi inginocchio sul bordo del letto.
Appoggio la sua testa sulle mie cosce e tengo sprofondato il suo viso sul mio ventre.
Si, così si sta bene. Lo accarezzo dolcemente.
Sento intorno che qualcuno sta proteggendo tutto questo: silenziosamente suo marito si
era svegliato e girava intorno al letto della moglie proteggendo quella dolce intimità:
rabbocca le coperte senza fare rumore, senza chiedere , quasi religiosamente rispetta
quell’ultimo atto di amore.
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Lei rimane così, immobile, inginocchiata e completamente curva sopra quell’uomo
gravemente malato e continua ad accarezzargli la testa; mentre lui cerca rifugio e sollievo
comprimendosi il viso contro il suo ventre e quasi nell’ultimo tentativo di riattraversare
l’ombelico, si raggomitola tutto intorno a lei e, come un neonato, vorrebbe rientrare in
quel grembo materno per ricominciare a vivere.
Venerdì 12 Maggio 2000
lettera dopo il 25° incontro presso la sede dell’Associazione
Carissimi Vera ed Augusto,
ancora una volta, l’altra sera, durante l’incontro presso la sede della nostra Associazione
sono stata colta da “ sbaldore “ che mi fa capire fino in fondo la tua unicità.
…………..So che hai fatto un’operazione di razionalizzazione difficile e per molti quasi
impossibile………
E noi, poveri volontari, che ti abbiamo ascoltato per due ore senza respirare, senza farti
rumore attorno, quasi religiosi di fronte al tuo vissuto, cosa possiamo fare per ricambiare
questo dono che tu hai voluto offrirci?
Dirti grazie è troppo poco, è uno scambio impari e lo sappiamo.
Sappiamo anche che il percorso a tratti è in solitudine ed esclusivamente personale:
nessuno può stare al posto di un altro. Nessuno può sostituirsi a te, nemmeno la persona
che ti ama di più.
Ma una cosa è possibile: stare vicino.
Offrirsi come bastone su cui appoggiarsi per una salita ardua e difficile e che è solo tua o
di Vera da compiere. Se questo può alleviare la fatica, anche solo di poco, questo è quello
che sarà fatto da me, quale “ ambasciatrice “, e dal gruppo come “ sostenitore “
dell’ambasciatrice.
E in questa scalata verranno fatti tutti i tentativi perché le persone che ti sono state
sempre vicine, e la persona che tu hai scelto come tua compagna possano trovare gli
strumenti per stare al passo e sintonizzarsi con te.
Sai, una tua frase mi ronza nelle orecchie : “se
vuoi una cosa, la ottieni. Se lo vuoi
veramente una persona la trovi.”
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Questa tua determinazione sta diventando anche la mia: se si è decisi, se si vuole, ci sono
99 possibilità su 100 di fare meta (lasciamo all’imprevedibile l’1 %!).
Ma quell’alta percentuale è data da tanti fattori: avere chiaro l’obiettivo e crederci
veramente,
sapere
cogliere
raggiungimento dell’obiettivo
anche
i
segnali
indiretti
che
possono
favorire
il
e parlo di coincidenze che non sono affidate al caso; di
magie, di incontri, di persone, di emozioni, di sentimenti, di riflessioni.
Avere quindi tutte le antenne vigili per cogliere, per apprezzare, per condividere, per
capire, per amare, per vivere.
Questi sono i messaggi che lasci dietro di te a chi ha la “santa” pazienza di ascoltarti
veramente, di seguirti nei tuoi vertiginosi spostamenti, non solo fisici, ma anche mentali.
Sai, Augusto, ieri parlando con Vera al telefono, sono stata piacevolmente fulminata da
una sua frase:
“Vorrei aprire la porta e sentire anch’ io!“
Santo cielo, Augusto, è questa la cosa da fare, ora. Ne sono convinta.
Ed è questa frase di Vera che mi fa capire, ora, quasi all’improvviso, la direzione chiara da
seguire.
Sarà una cosa meravigliosa aprire quella porta e scoprire cosa c’è oltre: ci siete voi due!
Voi due che vivete la stessa esperienza con modalità diverse, ma è la stessa.
Le paure che ha uno le ha anche l’altro; il caos è nella testa di tutti e due; e la voglia di
essere vicino all’altro la sento, c’è. Me lo dite con le parole, coi gesti, con gli occhi lucidi.
Io sono qui per cercare, insieme a voi, la chiave di quella porta e aprirla.
Aprirla piano, piano, dolcemente.
Sono qui per accompagnarvi, se lo volete, in questo viaggio meraviglioso che è la scoperta
l’uno dell’altro: guardarlo dentro e scoprire l’altro come persona unica, coi suoi difetti e coi
suoi pregi, con le sue debolezze e le sue forze; ma voi, liberi di essere voi stessi perché
sicuri di essere amati ugualmente sfidando qualsiasi cambiamento la malattia può portare.
Mi sento scoppiare dentro al pensiero di essere capita anche solo un poco.
Come posso dirvi che sono sicura che questo potrà accadere se lo si vuole?
Non ci sono regole perché questo succeda: è solo sufficiente accogliere completamente
dentro di sé l’altro, offrirsi come porto sicuro; fare come la sponda che attutisce anche le
onde più impetuose.
Voi lo potete fare: l’uno per l’altro, ne avete la capacità, le energie e la volontà.
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Se anche voi, come me, sentite che questa è la rotta giusta, bisogna partire subito,
immediatamente.
Non lasciamo passare questo tempo prezioso che deve essere vissuto pienamente fino in
fondo.
Vi voglio bene, amici miei carissimi.
Calla.
Venerdì 14 Luglio 2000
sogno dopo il 33 ° incontro presso l’ospedale di Mantova
Per fortuna è stato solo un sogno di tardo pomeriggio.
Augusto era stanco e non lo sapeva.
Senza che ce ne accorgessimo ci ritroviamo nella casa che ho abitato quando ero
bambina, all’età di dieci anni: mia madre c’era ed era giovane ed anche mio fratello si
aggirava per la casa ed era bambino.
Io no, e nemmeno Augusto.
Augusto si corica su una specie di divano letto, stretto, molto stretto.
Dice qualche parola e poi si addormenta rannicchiato, rivolto al muro.
Intorno a lui noi tutti proteggiamo il suo riposo che sembra tranquillo.
Lo copro con una coperta
e lui sembra distendersi e rilassarsi meglio, continuando a
dormire.
Ma anch’io sono stanca e nel vedere lui così sereno cerco di riposare.
Non so dove ho trovato sollievo, ma lasciavo passare il tempo così: Augusto dormiva e
anch’io, poco distante da lui, riposavo. Di tanto in tanto lui apriva gli occhi, ma poi
ricominciava a dormire.
Poi, all’improvviso, è tutta confusione, tumulto, ansia e angoscia.
E’ tardi: è tardi e Vera non è stata avvisata!
Cerco, cerco subito di telefonarle.
Come mai non è stato fatto prima: lei lo aspetta dalle 14 e sono quasi le 19!
Starà in pensiero! Non è possibile che lei non sia stata avvisata!
Non riesco a telefonarle, non riesco a parlarle!
Sono disperata: il telefono non funziona, il cellulare mi si fa a pezzi in mano e non so più
cosa fare.
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Anche Augusto è arrabbiato e mi rimprovera di non averlo svegliato, di averlo lasciato
dormire, di non aver avvisato Vera.
Finalmente, dopo angoscianti tentativi, riesco a sentire la voce di Vera, ma poi scompare;
la sento di nuovo: preoccupata ci dice di chiamare il fratello di Augusto, Luciano…
“ Vera, ora non ti sento più …. Vera , Augusto sta bene …. si è riposato qui…era molto
stanco: si è messo a dormire e si è svegliato solo ora! Scusami se non ti ho telefonato….se
non te l’ ho detto prima!… ma non so….anch’io ero stanca …..Ora rientrerà a casa….Vera
non riesco più a sentirti …. ma se tu mi ascolti, tranquillizzati, perché Augusto rientra ora a
casa…”
Sono mortificata e disperata: perché non avevo pensato a Vera?
Mentre ero al telefono con Vera, Augusto è uscito fuori in cortile, e quando esco anch’io lui
non c’è più.
Se ne è andato senza salutarmi: sarà arrabbiato sicuramente con me. Sono desolata!
Per fortuna mi sveglio.
Domenica 16 Luglio 2000
lettera dopo il 33° incontro presso l’Ospedale di Mantova
Miei dolcissimi amici,
l’ora frizzante del mattino mi ha svegliata e nonostante sia domenica e gli impegni di
routine abbiano un andamento più lento (e quindi potrei stare a letto di più!) mi trovo
qui a scrivervi.
Gli altri, Renato e Davide, sono ancora a letto e spero ci rimangano per tutto il tempo che
mi servirà per scrivervi.
Forse è l’ultima volta che prendo carta e penna, perché mi sto vendendo al demonio (già
mi sono ampiamente compromessa con l’acquisto del cellulare!) .
Capirete a cose fatte di che si tratta…. per ora concedetemi un po’ si suspence!
Da un po’ di tempo associo tutta la situazione che vi è crollata addosso ad alcuni disegni.
Ed è la situazione di “ora“ la vittoria peggiore che la malattia potrebbe avere su di voi.
Il cancro non solo può distruggere il corpo, ma può avere la grande e subdola capacità di
minare dentro, in profondità: esplode prima ancora che nel fisico, nella nostra mente;
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bombarda continuamente la nostra anima; ci può “ togliere la terra sotto i piedi “, per
usare una frase delicata di Vera; ci può privare dei nostri punti di riferimento in cui si è
creduto fino alla sua comparsa; tutto sembra non avere senso; può togliere tutto e
lasciare terreno sterile, non più adatto a niente; e in un terreno bruciato lascia i suoi semi
che sono paura, ansia, terrore, angoscia, insonnia, aggressività, isolamento.
Ci può far morire dentro prima, e poi, con comodo, pensa a tutto il resto.
Sembra una lotta impari quella che c’è da portare avanti.
Ma vogliamo lasciarlo agire indisturbato? O.K.
Il risultato inevitabile è che due persone, prima complementari, vadano ora allo sbando,
alla deriva; vadano in direzioni diverse, se non opposte; e capita che non sappiano più
riconoscersi, non sappiano più stare insieme.
Questa si che sarebbe una bella vittoria per lui!: distruggere anche la vostra coppia, la
vostra vita decisa insieme; distruggere abilmente, giorno per giorno, il vostro tempo e
farvelo macerare e sciupare nella distanza, nell’isolamento.
Guardo la figura di “ora“ ed è come se vedessi due enormi continenti ricchi di potenzialità
ed energie alla deriva per l’avvicendarsi di maremoti e terremoti: ed il tumore è un
terremoto del decimo grado della scala Mercalli.
Certo, tutto è possibile: lasciarlo regnare sovrano su noi, implacabile, inarrestabile e faccia
terra bruciata di tutto e distrugga quello che faticosamente è stato costruito.
Mi sembra di sentirvi:
“E tu, come puoi dirci queste cose? … che diritto hai? ... tu non hai il cancro… tu non puoi
capirci… tu sei presuntuosa, arrogante, saccente …. si …. belle parole …. ma sono parole…
teoria…. bella filosofia…. tu non ci sei dentro…. Si, valle a raccontà a tu nonna!“
E’ vero. Non ho un tumore (o forse credo solo di non averlo), ma dentro di me porto i
segni del tumore polmonare di mio padre; quello ovarico della mia carissima amica Rosa;
e quello al fegato della mia vicina di casa Tina…. e ancora il tumore alla mammella di Dea
e altri ancora …Celestina, Clotilde, Elvira.
Persone stupende che ho avuto la fortuna di conoscere e di assistere in momenti difficili,
quando ormai non si poteva più guarire e il sentiero si fa stretto e buio.
Il mio corpo, come il loro, è stato minato e come loro anche la mia anima.
Ma se il corpo ha perso, tutte sono riuscite a risorgere dentro.
I percorsi sono stati diversi, individuali, personali e difficili, ma ognuna di loro ha trovato il
senso della propria esistenza.
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A volte è bastato un attimo per trovarlo!
E’ come un miracolo…. (se uno ci crede!)… oppure è come un’ispirazione, un’intuizione, un
colpo di fulmine! Basta anche un solo attimo di vita per vedere tutto.
A te Augusto è rimasta impressa particolarmente la frase che viene detta dai medici e
infermieri quando una persona di tumore muore: “Non ce l’ha fatta !“
Dopo aver ripetuto questa frase ne rimani così sconvolto che non riesci a frenare quel
groviglio di emozioni e sentimenti che dal fondo sale fino a bloccarti le altre parole in
gola.
Non ce l’ha fatta… nonostante la lotta coraggiosa?
Non ce l’ha fatta ….. a vivere?
Non ce l’ha fatta ….. a sconfiggere il male?
Non ce l’ha fatta ….. ed ha perso?
Non ce l’ha fatta ….. e si è arreso?
Non ce l’ha fatta ….. e il male ha vinto?
Ma quel tremendo “Non ce l’ha fatta“ che medici ed infermieri dicono, potrebbe anche
voler dire:
Per fortuna…. non ce l’ha fatta!
Meno male….. che non ce l’ha fatta!
Non ce l’ha fatta a guarire….. ma ce l’ha fatta a morire!
Il male lo ha distrutto, ma lui ce l’ha fatta!:
Ce l’ha fatta a resistere fino in fondo!
Ce l’ha fatta a prepararsi!
Ce l’ha fatta a vivere fino in fondo il suo morire!
Non ce l’ha fatta a guarire, ma a vivere tutto il suo tempo, fino all’ultima goccia, c’è
riuscito! Voi mi insegnate a non perdere il tempo (e io lo insegno anche a Davide …come
tu, Augusto, ben sai).
Voi mi insegnate che non c’è solo la lotta contro i danni fisici del tumore da portare avanti
(e qui servono medici, infermieri, medicine, ospedali…) ma c’è un’altra, ugualmente
importante battaglia da portare avanti e che può vederci vincitori: trovare il significato
della nostra esistenza, trovare il senso del nostro vissuto e se nel passato non lo si trova,
dare senso a quello che sarà il nostro futuro, anche se è solo un attimo di tempo.
Per fare questo è necessario saper scegliere intorno a noi le persone che ci possono
aiutare e sono quelle che ci amano nonostante tutto, sono quelle che ci accettano nelle
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nostre debolezze, sono quelle che farebbero di tutto per noi; sono quelle che anche noi
amiamo.
Però è difficile: è molto più difficile conoscere il senso della nostra vita, che spesso
coincide con l’amare e il lasciarsi amare, che riconoscere un tumore. Questo lo si riconosce
subito o quasi: l’eco, la tac, la radiografia ed è presto diagnosticato.
Ma il senso della vita come si fa a riconoscerlo?
E, d’altronde, se fosse così semplice, che gusto ci sarebbe?
Forse può essere questa la vittoria su questa malattia: vivo dentro, amo e mi lascio amare
nonostante il cancro cerchi di impedirmelo con ogni mezzo!
Può essere questa la grande rivincita!
Lasciamo pure che le lacrime calde inondino la nostra anima sofferente: la laveranno da
ogni incrostazione; lasciamo che le lacrime del bambino deluso e mortificato, che è in
ognuno di noi,allontanino le paure
e l’angoscia; non temiamo di perdere
la nostra
dignità, perché stiamo conquistando la nostra umanità; ci stiamo appropriando delle
nostre debolezze che ci faranno sentire forti e sicuri.
Mi sento di salutarvi con una frase, per me stupenda, di una canzone di Fabrizio de Andrè
– Via del Campo - :
“ Dai diamanti non nasce niente
…dal letame nascono i fiori .”
Calla
PS:
Sono quasi le 10 e ancora tutto intorno a me tace. Persino la gatta non ha fatto rumore
per tutto questo tempo.
Il pensiero di fare colazione mangiando la marmellata di albicocche di Margot (mamma di
Vera) mi mette di buon umore: è così solare che sono convinta mi darà energia positiva.
E’ stato più forte di me far godere di questo dolce piacere due mie carissime amiche e così
mi è rimasto solo un vaso – di tre – della sua marmellata: il più grande, però.
Vi prego di dire a Margot di fare altra marmellata o altre torte…. e quando saranno
pronte, per favore, chiamatemi… e correrò da voi…. ma anche se la marmellata non c’è.
Vi abbraccio teneramente.
Calla.
A.S.
( ante scriptum ) - su un biglietto a parte.
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Cerco di correre ai ripari, visto la lunghezza della lettera, mettendovi al corrente dei diritti
di voi che leggerete:
1. Libertà di interrompere la lettura quando lo vorrete
2. libertà di incavolarvi con chi l’ha scritta e ve l’ha anche spedita
3. libertà di fingere di non averla mai ricevuta – i disguidi cronici delle poste aiutano
sempre!
4. libertà di stracciarla e cestinarla
Dal 25 Luglio Augusto è ricoverato all’Ospedale di Peschiera : è stato operato per un
collegamento diretto stomaco – intestino.
Domenica 30 Luglio 2000
lettera dopo il 36° incontro presso l’Ospedale di Peschiera
Miei teneri amici,
chiedo perdono ad entrambi per aver seguito il mio intuito.
Non vorrei che la mia disubbidienza avesse irritato Augusto che mi pensava a pranzo con
Davide e Renato, o aver compromesso momenti importanti di ricarica per Vera, o negato
un po’ di tempo a voi due. E di questo vi chiedo perdono, ma…. ditemi:
Come può vivere un’ape lontano dai suoi fiori?
Quando mi poso su voi e mi cedete continuamente il vostro nettare, è difficile per me
staccarmi da voi.
Mi attirate col vostro profumo, i vostri colori, e io ne resto incantata e catturata.
La vostra malattia, le vostre ansie, le vostre preoccupazioni, la vostra sofferenza vorrei
poterle succhiare tutte e allontanarle da voi. Vorrei potervi alleggerire, ma non sempre mi
è permesso.
A volte il fiore si chiude e mi respinge e allora volo su, su a Bardolino.
Ma un’ape non solo raccoglie nettare dai suoi fiori, ma lo trasforma in miele dorato e
profumato.
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Così, quando rientro a casa, tutti i momenti, le parole dette, le parole non dette, le
emozioni, i sentimenti vengono trasformati in pensieri, in riflessioni, che sono alimento
mio, sono il mio miele che io poi riporto a voi raffinato e dolcissimo.
Capisco in questo preciso momento, e sono profondamente colpita da questa improvvisa
scoperta, che voi due siete “ il fiore della fantasia “ che Celestina mi ha riportato!
Augusto, solo a te ho raccontato (e non ancora a Vera!) la mia esperienza con Celestina
e del “fiore “ datomi dal mimo di Firenze.
“ Perché quel mimo ha dato proprio a me il fiore della sua fantasia?
Perché ha scelto me fra le tante persone presenti sul Ponte Vecchio?“ chiedevo a
Celestina.
“Tu non sei stata scelta, tu sei stata prescelta.”
Come può una signora di poca cultura, a 84 anni, e che morirà dopo due giorni, fare una
distinzione così sottile su un termine?:
non “scelta“, ma “prescelta“: scelta prima.
E io mi sto ancora chiedendo: ma prima …. quando ? …. e dove ?… e da chi ?….
“Questo fiore, Celestina, lo do a lei!” e mentre lo dicevo allungavo le dita serrate, fin
dall’inizio del racconto, donando il fiore del mimo a Celestina.
Lei allungava il debole braccio ormai tutto lividi e prendeva tra le sue mani questo
meraviglioso, piccolo fiore bianco della fantasia del mimo.
Sorride mentre lo prende e …. “…. questo fiore io te lo riporterò“ mi assicura.
E’ calma, tranquilla, e mi guarda sorridendo: sappiamo entrambe che la promessa sarà
mantenuta.
E io ho aspettato il suo fiore per due anni e ogni volta che accettavo un’assistenza le ho
chiesto di aiutarmi.
Ora so che voi due siete il fiore di Celestina; ma ha voluto essere generosa con me: non
un solo fiore mi ha portato, ma due: Augusto e Vera. Rosso il primo e bianco il secondo!
Lascerò a Vera il nome da dare a questi meravigliosi doni.
So già Augusto che starai dicendo che sono tutta matta, e forse hai anche ragione!
Però ti ho guardato per un attimo, un attimo solo, quando ad occhi chiusi ti raccontavo la
mia esperienza del “fiore “ e tu, ad occhi chiusi, sorridevi, eri tranquillo e permettevi che le
mie parole entrassero dentro di te e ti scaldassero.
Sono certa che in quel momento stavi anche tu bene, come stavo io.
Ti sei lasciato andare, hai ascoltato senza fare resistenze.
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E’ stato poco tempo, ma abbastanza per poter pensare che possa succedere ancora.
E così anche domenica è successo.
Io ho avuto il coraggio di parlarti di me, della mia infanzia povera, dei miei frequenti e
miseri traslochi di S. Martino, della foto di Togliatti nascosta dietro l’armadio, di mio padre
che divulgava l’ “Unità” - a proposito, mia madre mi ha confermato che a casa nostra
c’era poco da mangiare, ma: Unità, Vie Nuove, Noi Donne e un pacchetto di Alfa nazionali
non mancavano mai - , ed è stata la seconda volta che tu ti sei interessato a me in un
modo diverso.
Ed io ti ho ceduto, solo dopo dieci mesi che ci conosciamo, le mie origini: chi sono stata e
chi erano i miei genitori.
Pensa: prima non l’avrei potuto fare: tu sembravi prestare
attenzione solo ai mega…. mega…. , agli amici importanti, a chi ha raggiunto fama, gloria
e successo.
E la mia storia è talmente normale, povera: le mie radici affondano nelle mortificazioni,
negli sfruttamenti e nelle ingiustizie subite dai miei genitori.
Sai, Augusto, che era da tanto tempo che volevo chiederti un regalo, ma non ne avevo il
coraggio e non si era ancora presentato il momento giusto, e anche questo è avvenuto
sabato.
“E’ una cosa grande quella che ti devo chiedere e quando tu me la darai, potrai ritenerti,
se mai lo sei, sdebitato completamente nei miei confronti “.
Tu non riesci ad immaginare lo sforzo che ho fatto nel chiederlo e come sommessamente
piangevo nel chiedere.
“Desidererei tanto che tu mi regalassi un pensiero, un momento, un luogo della tua vita in
cui sei stato particolarmente bene, in cui sei stato o sei felice.
Non devi rispondermi subito… pensaci tutto il tempo che vuoi!”
Figuriamoci se tu vuoi aspettare! Non è da te!
“Te lo dico subito: i momenti più belli?: quando Vera mi ha dato una mossa e mi ha
chiesto “chi ero e cosa stavo facendo“; e poi quando sono venuto a Bardolino. Là sto
bene: il giardino, i fiori, il prato…. sì, là sto bene… Vera mi chiede ed io faccio….. non a
Roma che è diventata un casino…. ma a Bardolino, nella nostra casa!“
Sinceramente ero convinta tu mi dicessi un angolo di Roma, un punto di Roma anche di
soli pochi centimetri quadrati, ma particolarmente importanti per te.
Ma tu eri deciso.
Tu mi hai detto dove stavi bene: nella vostra casa di Bardolino. E, io, là sono andata.
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Quando ti ho salutato sapevo che per quel giorno non ci saremmo più rivisti, ma non
potevo ancora ritornare a casa mia. E così davanti al bivio, è stato più forte di me andare
sul luogo dove tu mi avevi detto di stare bene e ho scelto di andare a casa vostra.
Le feste di Bonnie sono state commoventi e con Margot sono pure riuscita a comunicare
(Margot parla tedesco e inglese).
Per fortuna tu Vera non eri a casa.
Io cercavo intorno, fuori, sul prato, attorno alla piscina, qualcosa che mi parlasse di te.
Bonnie era vicino e mi seguiva scodinzolante e festosa. Mi chino, l’accarezzo e pronuncio il
nome di Vera: noto che Bonnie si ferma all’improvviso e resta immobile. Allora pronuncio
subito il tuo nome : “ Augusto “ prima piano e poi più forte. Bonnie, sempre immobile, si
rizza ancora di più e mi sembra che il suo “ alto-là “ sia degno di un vero soldato. E poi, di
scatto si lancia verso il cancello con una corsa veloce e sicura.
E io resto lì, proprio dove mi lascia Bonnie, sul prato del lato sinistro della piscina,
guardando il lago.
La vista è stupenda e io guardo questo dono gratuito della natura e dell’uomo.
Intorno c’è silenzio e solo il cinguettio degli uccelli si sente.
Una pace e una tranquillità assoluta: anche Bonnie è sparita.
Resto là in contemplazione e all’improvviso comincio a piangere. Le lacrime sgorgano
improvvise, dolci. E’ inutile fermarle, perché sento che mi aiutano a stare bene.
E più piango e più si cheta la mia anima: come vorrei che le mie lacrime avessero la
misteriosa capacità di lenire la vostra sofferenza!
Non è un caso se io ho incontrato voi: voi siete il dono di Celestina!
Le cose potevano andare diversamente, e noi non ci saremmo mai incontrati, e invece….
E’ una ricchezza immensa quella che cresce dentro di me: me ne rendo conto tutte le volte
che rientro nel mio alveare.
Voi non ve ne accorgete, ma a me basta poco: una frase, un sorriso, un gesto, una parola,
un luogo e tutto si trasforma.
Ho la convinzione che tutte le mie esperienze, le mie conoscenze abbiano con voi ragione
di essere.
Prendete: è tutto a vostra disposizione.
Accettate da me tutto l’Amore che continuamente viene alimentato.
Non temete di privarne altri: state certi.
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Augusto, ti ho dato un libretto coi centri di cure palliative: Buttalo via. Non ne hai bisogno.
Non c’è nessun posto migliore di V. Paerno n. 25/15 di Bardolino.
Puoi esserne certo.
Lì puoi trovare l’amore delle persone che ti sono vicino e l’amore della natura.
“Non cercare altro: hai tutto“ mi ha detto, qualche giorno prima di morire, Celestina e io
ora lo ripeto a te.
Vi bacio, vi abbraccio e vi ringrazio, tre volte.
Calla.
Mercoledì 9 Agosto 2000
Lettera consegnata durante il 39° incontro presso l’Ospedale di Peschiera.
Lettera scritta, ma non spedita, il 28 aprile 2000, dopo il 22° incontro presso l’Ospedale di
Mantova. Allora non era ancora il momento.
“Mio carissimo Augusto,
a volte mi è molto difficile raggiungerti con le parole.
Queste sembrano scivolare su te come fa l’acqua su una superficie oleata.
Ma l’olio, se da un lato può difenderti e proteggerti, dall’altro può isolarti e impedire di
essere permeabile ai messaggi che ti girano attorno.
Lo so che è difficile, specialmente ora : così concentrato sulla nuova terapia e al centro di
una nuova sperimentazione.
“A Robbè, e non rompere!“
già mi sembra di sentirtelo brontolare. E questo sarebbe
sufficiente per stracciare tutto.
Ma da te ho imparato, fra le tante cose, anche a “tampinare“ e quindi, purtroppo per te,
ne subirai le conseguenze!!!!!
Non è una minaccia, sta tranquillo: è solo un modo per dirti che ti “tampinerò“, ma a
modo mio:
tu devi sapere solo che io ci sono e ci sarò sempre.
Ci sono con le mie paure, con le mie insicurezze, con le mie debolezze, con i miei difetti,
con le mie mancanze, con i miei errori; ma ci sono anche con la mia disponibilità, con la
mia capacità di condividere, col mio ascoltare, col mio assorbire, col mio farti da pungolo:
ci sarò con tutta me stessa fino in fondo, fino all’ultimo.
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E’ sufficiente che tu mi chiami per nome e io ci sarò.
“Mi sembravi il folletto del bosco“ mi diceva Maria Carla
(sorella di Augusto) e io, proprio
come il folletto del bosco, ti raggiungerò subito.
Sono disponibile a fare con te un’esperienza di Amore perché io questo ho scelto fin dalla
prima volta che ci siamo sentiti per telefono.
Per me è impossibile non amarti dopo che tu mi hai fatto vedere dentro di te, dopo che tu
hai alzato le saracinesche, dopo che tu hai abbandonato le maschere, dopo che tu hai
lanciato il ponte.
Non illuderti, però, di essere l’unico ad essere amato da me, perché questo mi succede
inesorabilmente tutte le volte che entro in vera comunicazione con un’altra persona.
E’ come se un invisibile ponte venisse lanciato tra due anime e questo ponte fosse
continuamente attraversato da flussi magici che vanno e vengono: sono le emozioni, i
sentimenti, le esperienze intime condivise, sono il confrontarsi sulle proprie diversità, sono
l’accettarsi così come si è.
E ogni ponte d’Amore è unico e irrepetibile.
Ma ti rendi conto della meraviglia: riesco a farti capire questa cosa grandiosa e sublime
che mi fa scoppiare al solo pensiero: io e te potremmo essere uniti da un ponte unico e
irrepetibile!
In nessun’altra parte dell’universo e in nessun altro tempo succederà ancora; solo ora e
qui perché io e te siamo unici.
La cosa straordinaria è che tutto questo può meravigliosamente ripetersi all’infinito, perché
infinite possono essere le combinazioni (e tu, matematico quale sei, lo capisci bene) fra le
diverse persone.
Anche con Maria Carla mi è successa la stessa cosa, quasi subito: è stato sufficiente
ascoltare la sua voce al telefono per capire che sarebbe stato facile entrare in sintonia con
lei. Ed è proprio stata la sua leggera balbuzie a far scattare la molla.
Con Vera è più difficile, serve più tempo, bisogna sapere aspettare, bisogna che lei
soprattutto lo voglia.
Già, perché questo è fondamentale: fare questa scelta di Amore.
Io, Augusto, dico che ho fatto la scelta di essere con te, ma non sono sicura che tu voglia
fare con me questo tipo di percorso: sta a te decidere.
Forse per te è un cammino nuovo e non ne capisci la ragione, ma ti assicuro che vale la
pena provare: è sufficiente, questo è il piccolo – grande segreto, lasciarsi Amare e Amare
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veramente: senza interessi, senza speculazioni, senza inganni, senza maschere, senza
aspettative.
E la contropartita di tutto questo sai qual è? E’ la libertà di essere se stessi, di essere
amati per quello che si è e non per quello che si vorrebbe essere o per quello che gli altri
vorrebbero tu fossi.
Ti assicuro che è come respirare ossigeno in alta montagna e trasforma ogni attimo della
giornata.
Vivere ogni istante di vita come si è.
Ogni persona ha questo diritto: vivere la propria vita, secondo le proprie scelte.
Unico punto di riferimento per poter fare le scelte giuste è l’ Amore.
Solo l’Amore può dare le regole, dei trait – d’union e la sua ricerca può essere veramente
scopo e senso di vita.
Spero, Augusto di averti fatto capire di quale Amore posso essere capace: va al di là e al
di sopra di tutto e di tutti: potrai trovarti nella situazione più umiliante, potrai essere
irriconoscibile persino a te stesso, ma sta sicuro fin da ora che io ci sarò per dirti: Augusto
ti amo e ti amerò sempre, sono con te, ci sono, sono qui; perché amo quello che c’è
dentro, quello che c’è sotto e so che questo non potrà essere distrutto neanche dalla
malattia più devastante.
Vorrei che tu ti lasciassi amare perché intorno a te ci sono altre persone disposte a questo,
io le ho viste; non respingerle a priori: dai a loro la possibilità di starti vicino, concedi
l’opportunità di dirti : “Augusto sono qui perché ti voglio bene, perché ti amo!”
Non è più tempo di fingere, di allontanare, di respingere.
Solo così puoi conoscere la tua verità e quella degli altri.
Forse potrebbero esserci delle delusioni, ma potrebbero esserci anche delle meravigliose
sorprese!
Dipende da te.
Sta a te scegliere.
Ti abbraccio forte forte.
Domenica 13 Agosto 2000
Biglietto consegnato nel 41° incontro presso Ospedale Peschiera
Lei (Vera) è come una farfalla,
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può volare leggera per te,
può offrirti i suoi splendidi colori,
può donarti le sue eleganti forme.
Ma resta fermo, non la toccare:
si potrebbe sciupare.
Non lasciarti tentare di volerla fermare:
potresti le sue ali delicate rovinare.
Non chiederle di ruggire, non potrebbe mai farlo:
la uccideresti.
Tu puoi solo, incantato, starla a guardare.
Lunedì 14 Agosto 2000
L’assistenza ad Augusto e Vera continua.
Sono successe molte cose da quel martedì, 5 Ottobre 1999 e già tre quaderni alti alti di
diari e riflessioni sono stati scritti.
Tanti sono stati gli incontri, le telefonate, tanti gli scambi.
La distanza poi mi ha portato a comunicare con loro attraverso lettere.
Si doveva attendere l’ultima lettera inviata a Vera ed Augusto per capire.
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Accompagnare sino alla fine: un’esperienza.
A cura di Armando G.
c/o ASSOCIAZIONE MARIA BIANCHI di MANTOVA
Via Conciliazione, 5 - 46100 MANTOVA
Correva l’anno 1994. Per caso mi capitò di leggere un piccolo depliant che segnalava un
corso di formazione per l’assistenza ai malati gravi, terminali, organizzato dall’associazione
Maria Bianchi di Mantova e Suzzara.
Decisi di iscrivermi e di partecipare. Gli incontri si svolsero in 10 lezioni, con un piccolo
esame finale. Fui ammesso ed entrai a fare parte del gruppo di Volontari di Mantova.
Era un periodo della mia vita in cui ero ancora occupato nel lavoro; conseguentemente,
per eventuali assistenze avevo messo a disposizione la domenica: l’unica giornata libera di
cui potevo disporre. Inoltre, ero impegnato nella realtà di tutti i giorni con sulle spalle una
famiglia da portare avanti: figli, moglie e tutto quello che gira attorno a ciò, per soddisfare
le esigenze materiali di vita. Nel rincorrere questi beni, per appagare le varie aspettative,
mi sembrava che lo spazio per pensare alla solidarietà con chi aveva bisogno, fosse
insufficiente. Quando avevo l’occasione, davo qualche offerta in denaro, forse per
scaricare un po’ la coscienza.
Sono diventato convinto volontario passando prima dall’altra parte della barricata, per
tutta una serie di circostanze negative. L’avere vissuto, casualmente, da protagonista,
un’esperienza di infermità, mi ha fatto vedere il problema da un’altra angolazione,
mettendomi nelle condizioni di potere aiutare chi si trovava in quelle emergenze che avevo
conosciuto da vicino, personalmente.
Non sempre siamo in grado di volere, vedere, percepire, le aspettative di chi ci è vicino,
se non quando si toccano con mano. Andando a recuperare un detto conosciuto da tutti:
“non tutti i mali vengono per nuocere”, mi rendo conto che tale proverbio si può adattare
al fatto reale che cercherò di narrare, con la speranza che possa essere d’aiuto a chi vuole
intraprendere un’azione di Volontariato per stare vicino a persone che soffrono, sia che si
tratti di famigliari, amici o persone care. In certi casi, non è difficile dare sostegno morale
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a una persona sola o ammalata: bastano un sorriso, una stretta di mano, una carezza, un
incoraggiamento a tenere duro, cercando di fare visite a cadenze regolari.
A volte, basta poco per rasserenare un malato e aiutarlo ad affrontare con meno disagi
certi momenti della sua malattia. Si presentano anche difficoltà oggettive, ma, con qualche
stimolo e un po’ di buona volontà, si può riuscire a donare qualche momento di serenità.
“LA CADUTA”
Caduto da un’impalcatura, ero stato diversi mesi inattivo, per la gravità dell’infortunio.
Nell’attesa di riprendere completamente le mie capacità motorie, passavo il tempo
leggendo, ascoltando la radio, nella noia più assoluta. Quelli sono stai i giorni più lunghi
della mia vita. Per oltre un mese, sono rimasto immobile, supino, muovendo appena il
braccio sinistro per aiutarmi a bere con una cannuccia di plastica. Avevo molto tempo per
pensare al futuro, un’infinità di modi per meditare e riflettere. Muovendo un po’ la testa
verso la grande vetrata della finestra, dai palazzi circostanti l’ospedale vedevo antenne
della TV, con qualche comignolo che sbucava dalle scure coperture di tegole, da tempo
esposte alle intemperie. Scrutando il cielo seguivo con lo sguardo le piroette dei passeri
nei loro voli briosi. Eravamo in primavera. C’erano nell’aria quei batuffoli bianchi,
svolazzanti come fiocchi di neve che, con delicata leggerezza scendevano a terra.
Ero stato radiografato in tutti gli angoli del corpo, per controllare eventuali lesioni interne;
avevano visto alcuni calcoli ai reni che non sapevo di avere. Un Medico mi aveva
consigliato, una volta guarito dalla caduta, di farmi controllare da uno specialista.
Dopo poco più di un anno dall’esperienza della caduta, fatti tutti gli esami urologici del
caso, il Medico specialista mi convocò per informarmi, con poche e concise parole, del
fatto che dentro al mio corpo si era formato un adeno-carcinoma, ancora in nocciolo, per
ora non pericoloso, ma che poteva scoppiare da un momento all’altro. Mi assicurò che,
operando con un certa urgenza, vi era la quasi totale certezza di una completa guarigione,
anche se sarei rimasto, in parte, leggermente menomato di una funzione fisica.
Questa la triste notizia che portai a casa quel giorno, ai miei famigliari. Un fulmine a ciel
sereno.
Tuttavia, ciò che, in quel momento, mi affliggeva maggiormente, erano una serie di
problemi personali con mia moglie e che, proprio in quel tempo, si erano ingigantiti.
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Stavamo per separarci e questo era il più tormentoso e doloroso pensiero della mia vita di
quel momento.
Le separazioni sono oramai entrate a fare parte della quotidianità, con incidenza sempre
maggiore, come un male oscuro che fa parte della modernità, del progresso o delle pari
opportunità. Sono un sintomo di disagio rispetto a tutti quei beni e quelle libertà
incondizionate che ci sono messe a disposizione e che non sappiamo gestire, ma dalle
quali ci lasciamo, spesso, travolgere.
Pensando all’operazione come al minore dei mali, l’affrontai a cuore leggero, come una
seccatura di poco conto.
Nel mio lettino di ospedale mi svegliavo con la gola secca; mia figlia mi bagnava le labbra.
Intervenne una complicazione; mi portarono in un reparto per le cure intensive, vicino a
un macchinario dove mi iniettarono un liquido: una sensazione di grande calore mi
attraversò completamente, da capo a piedi.
Il giorno dopo, mi riportarono in reparto: ero fuori pericolo.
In seguito, tutto proseguì, secondo le previsioni.
Allora, presi coscienza del male che mi aveva assalito e che avevano scoperto
casualmente; mi sentii fortunato.
Dopo qualche giorno, ero già in piedi per fare qualche passo che serviva per le necessità
di routine.
Avevo fatto amicizia con un vicino di letto che aveva subito il mio stesso
intervento chirurgico, ma con qualche complicazione in più. Non aveva molte possibilità di
muoversi, per la gravità della sua situazione. Nel limite delle mie possibilità, l’aiutavo per
quei piccoli servizi di cui aveva bisogno. Viveva solo e aveva pochi parenti; raramente
riceveva visite e conforto da qualcuno: ironia della sorte, si chiamava Fortunato.
Nonostante la nostra situazione, trovavamo anche il tempo per ridere e scherzare anche
sul suo nome. Mi sentii di seguire Fortunato anche dopo che entrambi rientrammo a casa,
andandolo a trovare, ricordando insieme a lui i giorni del nostro ricovero in reparto,
chiacchierando di tante cose attuali e ascoltando qualche suo progetto per il futuro.
Purtroppo, Fortunato, dopo avere sofferto le pene dell’inferno, non ce la fece a
sopravvivere. Ma, certamente, nacque in quell’occasione la mia disponibilità al
Volontariato.
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IL PRIMO CASO
Quel giorno mi alzai di buon mattino, stava per iniziare una domenica particolare: dovevo
fare il mio primo intervento di assistenza ad un malato terminale, come Volontario.
Per la speciale occasione cercavo di prepararmi mentalmente, per essere all’altezza di
affrontare tutti gli inconvenienti possibili, nel modo migliore, secondo quanto avevo letto
sui libri e ascoltato alle lezioni.
Cercai nel mio armadio un abito discreto, ‘della festa’, per una dignitosa presentazione:
non volevo sfigurare, pensavo alle sgridate di mia figlia che mi rimproverava sempre,
dicendomi che mi vestivo male.
La giornata si presentava al meglio: un bel cielo da primavera avanzata.
La mia mente vagava qua e là, paventando le ansie “della prima volta” e esplorando tutte
le possibili modalità per “rompere il ghiaccio”. Ero molto facile a lasciarmi prendere
dall’emozione e, a volte, questo mi bloccava. In questo groviglio di idee e sentimenti, mi
sentivo un po’ annebbiato e cercavo di auto - convincermi che la calma mi avrebbe aiutato
a svolgere bene il compito di affiancare il malato che stavo per conoscere.
Sono diventato Volontario per aiutare gli altri, le persone che si trovano nella necessità,
nel disagio, nella difficoltà, con la speranza di portare un poco di serenità per aiutare ad
affrontare anche qualche imprevisto. “E’ importante, – mi dicevo – partire con il piede
giusto”. Sapevo infatti che, a volte, nei desideri si possono insinuare conflitti che, contro le
nostre intenzioni, rendono poco significative le nostre azioni.
Ma, sentivo anche che quella era un’occasione per ritrovare un me stesso che mi facesse
sentire soddisfatto e ‘diverso’ da quello che ero stato. Mi trovavo in una nuova situazione,
che avevo cercato e questa Associazione, di cui ero appena entrato a fare parte, mi
appariva come un’ancora di salvataggio, una possibilità per aggrapparmi a un nuovo stile
di vita, con nuovi valori, forse anche per attenuare le forti delusioni che speravo di
lasciarmi dietro le spalle.
Federico era un malato terminale, completamente paralizzato agli arti inferiori; per
fortuna, poteva muovere le braccia in modo normale.
Tutte le mattine, a turno, un membro dell’Associazione andava a trovare questo malato. Il
mio turno, era la domenica.
Il supporto che si doveva fornire consisteva nell’aiutare la moglie di Federico a metterlo e
mantenerlo su un fianco mentre lei detergeva le ferite e lo medicava.
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Dopo questa operazione, con l’aiuto di un sollevatore elettrico, occorreva sistemarlo su
una carrozzella per accompagnarlo in bagno. Federico, davanti al lavabo e al suo specchio,
provvedeva da solo a darsi una lavata al volto, si radeva, portando a termine quelle
piccole funzioni del mattino che siamo abituati a fare tutti. Era importante, per Federico,
continuare a mantenere autonomia in quelle piccole operazioni e sentivo, mentre gli ero
vicino, la sua tranquillità in quel momento e poi la soddisfazione, anche se un po’
nascosta, di essere riuscito da solo.
Tuttavia, queste azioni stancavano Federico, che doveva essere rimesso a letto.
Occorreva, per fare ciò, una certa pratica: serviva conoscere l’apparecchiatura per
sollevarne il corpo e io mi sentivo imbarazzato perché non avevo idea di come si
maneggiasse quello strumento. Con molta discrezione e delicatezza, mi venne in aiuto la
figlia di Federico, che mi spiegò come andavano fatte le varie manovre. Federico
osservava, lasciava fare e non diceva nulla. Non appariva imbarazzato dalla mia presenza,
ma quasi nessuna parola, fino a quel momento, era passata fra noi due. Al momento del
congedo si rivolse a me dicendomi “Grazie, puoi andare.”
Salutai, e uscii. Per quella prima domenica, il mio compito era finito. Stavo ritornando al
sole e al sereno di quella bella mattina primaverile.
Anche se, da una parte, non mi pareva di essere stato un granché di aiuto, tuttavia
sentivo, nello stesso tempo, che qualcosa aveva funzionato, ‘vibrava positivamente’. Le
prime paure si andavano affievolendo, un primo esame ‘pratico’ era stato superato.
Tornando verso casa, rimuginavo sul fatto che, se è vero che è importante avere una
buona preparazione di base per affrontare le difficoltà di approccio con un malato in gravi
condizioni; se è vero che le tecniche, le strategie di intervento e di relazione si affinano
con l’esperienza, è altrettanto vero che è difficile imbrigliare le emozioni che suscita
l’incontro con una persona che non si conosce. Mi era parso di non avere mascherato
abbastanza l’imbarazzo suscitato dall’urgenza di sbloccare il muro di paura che mi aveva
preso di fronte alla novità che stavo affrontando, di fronte al senso di responsabilità
rispetto a quello che mi accingevo a fare, di fronte alle mie risorse umane che sentivo
presenti, ma da coltivare.
Mi sembrava di avere dimenticato tutto quello che, nei dieci incontri con l’Associazione
Maria Bianchi, avevo acquisito; pareva proprio che mi fossero uscite completamente dalla
mente tutte le nozioni apprese.
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A mente più fredda, quindi solo dopo questo primo incontro, ricordavo alcune osservazioni
dei docenti del Corso:
l’incontro con l’altro, è in grado di fare emergere quelle
predisposizioni, quelle doti potenziali che già abbiamo dentro, anche se non ne siamo del
tutto consapevoli, orientando, in parte, i nostri comportamenti.
Ma, dentro di me, che cosa era emerso, in questa occasione? Mi pareva che si trattasse
proprio solo di paure. Ma forse, mi dicevo, sono importanti anche quelle.
Mi veniva più facile pensare a lui, a Federico, a quest’uomo tranquillo che, nonostante la
malattia, la gravità della sua condizione, la sua dipendenza da altri, non si era lamentato
mai. Sembrava totalmente rassegnato, come se fosse in quella fase di accettazione che
prelude alla morte. Eppure, il suo aspetto tranquillo, dava, nello stesso tempo,
l’impressione che non avesse perso il sentimento della speranza.
Anche se poche, scarne parole erano passate tra me e Federico,
mi pareva di avere
lasciato una buona impressione. Tuttavia, mi andavo convincendo che la prossima volta
avrei potuto e dovuto fare di meglio.
LA MIA SECONDA VOLTA
Mi ero a lungo preparato, anche per affrontare la seconda domenica. Sentivo che, questo
secondo incontro, sarebbe stato molto importante per gettare le basi di un rapporto
sincero, costruttivo, utile ad entrambi.
Avevo ripassato, dentro di me, ogni gesto, ogni parola, ogni immagine di quel primo
incontro, per ritrovarvi qualcosa che mi permettesse di recuperare e mantenere il filo della
relazione che avevo avvertito, anche se a livello puramente emotivo,
agganciarsi nel
primo incontro.
Quando fui davanti alla porta di casa di Federico, mi sentivo ‘pronto per il collaudo’. Venne
ad aprirmi la moglie.
Il problema principale della Signora Angela era la sua difficoltà ad usare le mani per
spostare Federico, a causa di forti dolori alle articolazioni: ciò l’aveva condotta a richiedere
l’aiuto dei Volontari.
Angela era già pronta con tutto l’occorrente per la medicazione del marito. Federico si
aggrappò a me, lasciandosi andare con maggiore tranquillità, quasi affidandosi alle mie
braccia che lo sostenevano mentre restava posizionato sul fianco, mentre la moglie
procedeva con le sue cure.
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La cosa mi rassicurò. Mi sentii maggiormente pronto ad affrontare la seconda parte del
mio intervento presso di loro: dopo la manovra del sollevamento dal letto, si prospettava
infatti uno spazio dedicato alla relazione interpersonale.
Tante volte, durante gli incontri fra i membri dell’Associazione rivolti alla discussione dei
casi seguiti dai Volontari, avevo potuto rendermi conto dell’importanza di parlare fra di noi,
non soltanto delle persone di cui ci prendevamo cura, ma anche delle nostre difficoltà nel
rapporto con loro, dei nostri sentimenti, dei nostri piccoli conflitti interni. Ci aiuta di solito,
in questo faticoso, ma fondamentale lavoro, una psicologa, esperta di queste
problematiche. Ripensai dunque a quegli incontri e ai contenuti delle discussioni a cui
avevo assistito più volte, intervenendo ogni tanto a dire la mia. Mi sembrò che la cosa, in
qualche modo, mi aiutasse: infatti, instaurare un dialogo con Federico, fu molto più facile
del previsto. Il discorso prese subito un buon avvio: ci trovammo in accordo su alcuni
argomenti che avevo lanciato nella discussione e mi sentii presto a mio agio. I timori
svanirono come neve al sole.
Avevo davanti a me un malato, cosiddetto terminale, che, con modi molto signorili,
affrontava il dialogo ignorando completamente qualsiasi accenno alla propria malattia:
ebbi subito l’impressione che, questo tema, spinoso e doloroso, fosse volutamente lasciato
da parte come cosa che non lo riguardasse affatto, che non valesse la pena di essere
affrontato nel dialogo con qualcuno che gli offriva l’opportunità di un momento di
‘evasione’.
Scomparse le paure, mi sentii soddisfatto di avere avuto l’opportunità di fare questa
esperienza. Notavo che, anche se qualche volta prendevo io l’iniziativa del discorso, la
maggior parte delle volte era Federico che dava avvio a un nuovo ragionamento che
appassionava entrambi e ci conduceva a identiche conclusioni.
Parlammo a lungo dunque, in quell’occasione, di famiglia, figli, doveri, unione
matrimoniale: entrambi, ritenevamo la famiglia un pilastro della società, ma, fatalmente,
dovemmo riconoscere anche la possibilità di fallimento della vita di coppia. E qui mi trovai
di nuovo a disagio. La mia storia personale mi pesava dentro. Che fare?
Scelsi di
parlargliene, confidandogli la mia situazione. Ma, decisi anche, subito dopo, che era
meglio, in futuro, evitare di tornare sul discorso, se non me lo avesse sollecitato Federico,
perché si trattava di problemi miei che non era il caso di scaricare su di lui.
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LE ALTRE DOMENICHE
Ormai era fatta. Federico mi aspettava; dimostrava contentezza nel vedermi arrivare alla
domenica mattina; proponeva sempre nuovi argomenti alla discussione e parlava sempre
volentieri. Molte delle cose di cui si parlava rientravano in materie conoscitive comuni:
l’elettronica, la coltivazione dell’orto e del giardino, argomenti dei giornali e della TV.
Federico era sempre aggiornato su tutti i temi più attuali: insieme evidenziavamo le
contraddizioni che vivono la nostra società, i nostri figli.
Ma, a poco a poco, da tali argomenti generici, i discorsi di Federico si spostarono anche su
temi più personali, sul racconto di episodi e avvenimenti della propria vita.
Aveva trovato il tempo, qualche anno prima, poco dopo la pensione, nonostante gli
impegni di una famiglia numerosa e onerosa, di fare il volontario in terra di missione. Mi
raccontò allora le sue avventure in terra d’Africa, in sperdute regioni: i lavori che aveva
svolto laggiù e il tempo che aveva dedicato a compiti gravosi con intima convinzione e
grande generosità, come poche persone riescono a fare. Ricordava il travaglio psicologico
e la fatica fisica impiegati per portare a termine quei progetti che contribuiva a definire in
Italia, prima della partenza, e a realizzare in quelle lontane terre. Si occupava soprattutto
di manutenzione e di riparazioni di motori elettrici, ma più volte gli capitò di fare anche il
muratore.
Il suo approccio solidale alle popolazioni di quei lontani paesi era sostenuto da una fede
forte e illuminante.
Aspettavo ogni domenica con ansia e curiosità e mi accorgevo che quell’appuntamento
settimanale con lui diventava per me sempre più importante e atteso. Ero curioso di
ascoltare nuovi racconti ed episodi della sua vita affascinante che, man mano che il tempo
passava, venivano sempre più corredati dalle immagini in bianco e nero dell’album della
sua raccolta fotografica. Federico era ritratto sempre in mezzo a tanta povera gente,
soprattutto bambini. La sua figura, alta e slanciata, era sempre amorevolmente china
verso i bambini che lo circondavano e che apparivano provati da stenti e malattie.
Non capitò mai che Federico parlasse con me della sua malattia, che mi facesse domande
‘difficili’, alle quali forse non avrei saputo come reagire. Più volte, ripensando alle nostre
chiacchierate, ho avuto l’impressione che, nella sua grande sensibilità, abbia cercato di
‘proteggermi’ dal problema, delicato e doloroso, della sua infermità.
Solo una volta, accennò alla morte: mi disse che non aveva paura di morire e che sapeva
che non sarebbe guarito, ma subito aggiunse, con voce tranquilla e con atteggiamento un
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po’ ironico: “Senti, Armando, quando muoio, ci vieni al mio funerale?”. Cogliendo la sua
ironia,
per stare al gioco, gli risposi che, se non fosse venuto prima lui al mio, sarei
andato senz’altro al suo. Io non feci alcuna ulteriore osservazione sull’argomento, ma
attesi un momento, prima di riavviare il discorso, per lasciargli il tempo di proseguire sul
tema. Ma Federico cambiò subito ‘registro’ e prese a raccontarmi del suo tardivo
pensionamento.
Aveva compiuto quarant’anni di servizio, quando si congedò dal lavoro e avrebbe molto
desiderato ritirarsi in una piccola casa colonica che possedeva nelle zone in cui era nato e
in cui aveva vissuto la sua infanzia e un breve periodo da ragazzo.
Rievocò con nostalgia momenti per lui stupendi vissuti con i genitori. Avrebbe voluto,
anche se con tanti anni di distanza, esaudire il desiderio di papà e mamma che tanto
avrebbero desiderato che coltivasse quel piccolo appezzamento di terreno attiguo alla
casa, invece di vederlo impegnato nel lavoro in un’industria della città.
Ricordava con rimpianto le passeggiate con suo padre, attraverso i campi, nella stagione
migliore, in cui la natura è prospera, piena del profumo dell’erba appena falciata.
Sembrava rivedesse le distese di grano quasi maturo che il sole faceva brillare di giallo
oro, in contrasto con il verde scuro dei filari dei gelsi.
Sull’albero di gelso mi fece una lezione speciale: mi spiegò dei frutti di questa pianta che
molti raccoglievano, allora, per trasformarli in una specie di ‘vino’, distillandoli in un
intruglio “brucia – gargarozzo”.
E intanto sorrideva, ma mestamente.
Poi riprese a
parlarmi dell’importanza delle foglie del gelso che servivano per nutrire i bachi da seta. “A
casa mia – mi diceva – si costruivano speciali scaffalature nel largo androne che separava
la cucina dalla cantina; sopra questi ripiani si depositavano questi animaletti che venivano
poi nutriti con le foglie del gelso. Era bello vedere come queste bestiole, giorno dopo
giorno, si avvolgevano dentro un bozzolo ovale, fatto di tanti filini gialli, sottilissimi, lucidi,
trasformandosi in materia prima per fare la seta.”
Altre volte, mi raccontava dei filari di vite dietro casa, curati con tanto amore dal padre per
produrre il vino per il consumo della famiglia.
A Federico piaceva osservare la natura: guardare il ciliegio, con i suoi fiori bianchi che
ricoprono completamente tutti i rami, tanto da trasformare la pianta in una nuvola di fiori
che sembrano sospesi nel vuoto, tanto sono fitti; oppure ascoltare, nelle ore più calde
della giornata, il ronzare delle api nel loro lavoro abitudinario di impollinatura.
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Federico, parlando, si stancava e sentiva il bisogno di ritornare a letto. Allora lo aiutavo
cercando di mettergli le cinghie del sollevatore, sotto le cosce e sotto le ascelle, il più
delicatamente possibile. Federico manovrava poi, da solo, il pulsante della macchina che lo
sollevava dalla carrozzella e lo adagiava lentamente sul letto.
Così trascorrevano le nostre domeniche mattina e a me sembrava di avere trovato un
amico.
Scoprimmo, un giorno, di avere una conoscenza comune: la Vanda. Era una Volontaria che
si occupava del trasporto di persone malate impossibilitate a muoversi da sole e che aveva
lavorato anche nell’Associazione di Federico. Vanda divenne un ulteriore elemento di
conversazione, dal momento che potevo aggiornarlo sulle più recenti ‘prodezze’ di questa
comune conoscenza.
Con Federico si parlava anche di fede e di preghiera. In una di queste occasioni, io gli
confessai i miei dubbi e le mie perplessità per questo mondo inizialmente ben fatto, ma
che gli uomini stavano guastando. Mi disse allora che comprendeva le mie perplessità: “I
dubbi vengono a tutti, guardando le brutture da cui siamo circondati. Ma io, ho potuto
approfondire e rinforzare la mia fede proprio in quelle terre sperdute dove ho toccato con
mano la sofferenza, la disperazione, la fame. La mancanza di tutto e l’assurdità delle
continue, inutili guerre seminanti solo disperazione, rendevano possibile pensare alla
morte come a una liberazione da tutte le pene.” Fu in quell’occasione che Federico mi
riparlò della sua morte.
“Sai, caro Armando, come ti ho già detto io non ho paura di morire; ho solo qualche
rammarico per le cose che avrei voluto fare, ma per le quali mi è mancato il tempo a
causa di questa situazione in cui mi trovo.” E proseguì: “ E’ un periodo che faccio sogni
strani, ma belli…. Ieri notte ho sognato di essere con mio padre, in un misterioso paese,
pieno di luce, dove ogni cosa aveva i colori dell’arcobaleno… Ero felice di essere vicino a
lui, anche per concludere una discussione iniziata fra di noi sull’importanza e il senso della
vita e rimasta in sospeso per la sua morte improvvisa…. Nel sogno era entrata anche mia
madre e così ho potuto dirle che l’avevo baciata più volte, nei suoi ultimi giorni di vita,
quando ormai era assente con la mente… Mi sono sentito leggero e mi sembrava di
volare…. È stata una sensazione meravigliosa …. E’ un po’ un mistero vivere in questi
sogni, con i propri cari… Mi è venuto da pensare di essere in paradiso…. La vita riserva
sempre delle sorprese e, nella consuetudine di tutti i giorni, ci fa conoscere il momento
dell’origine e ignorare dove il nostro spirito inquieto troverà la pace…”.
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Mi lasciò molta tristezza la conversazione di quella domenica, di un malato che sa che non
ha più niente da perdere ed è quindi in grado di sciogliere tutte le energie del suo cuore
che è ancora vivo e vorrebbe proseguire il cammino anche per continuare ad aiutare chi
soffre.
Pensavo alla fortuna che avevo avuto nell’incontrare una persona che,
nell’incognita della sua semplice vita,
e così vicino alla sua morte, sapeva dare a me
fiducia nel futuro della mia stessa vita.
Per la prima volta nella mia esistenza non breve, mi ritrovai, quella domenica, a guardare
il cielo cercandovi Qualcuno da implorare affinché guardasse a tanta gente quaggiù che
soffriva e aveva molto bisogno di aiuto. Ma poi pensai che, questo Qualcuno, non sarebbe
stato in grado di recepire il messaggio di un miscredente incapace di sintonizzarsi sulla
stessa Sua lunghezza d’onda.
LA GELATINA DI MORE
Passò l’estate e arrivò l’autunno. Il continuo scambio di confidenze, pareri, valutazioni,
emozioni con Federico mi faceva sentire più ricco.
La malattia, inesorabilmente, avanzava e, con essa, a volte,
il mio imbarazzo, la mia
impotenza di fronte a questo male e alla sua aggressività.
Poi però, una semplice frase o richiesta di Federico, riusciva a riportare tutto in equilibrio.
Come quella volta che, con grande semplicità e immediatezza, Federico mi disse: “Mi è
venuto un gran prurito alla schiena. Dammi, per piacere, una grattatina”. Gli passai la
mano sulla canottiera e, con la punta delle dita, feci il movimento richiesto, per dargli un
po’ di sollievo.
C’era voluto un po’ di tempo perché si creasse confidenza fra noi; ma ormai il rapporto era
così solido che tutto diventava naturale nella relazione; anche toccare il suo corpo per un
bisogno così semplice, ma così importante per chi da solo non è più in grado di
soddisfarlo.
La capacità di Federico di resistere seduto andava accorciandosi sempre di più. Il tempo
martellava pesantemente sui nostri incontri. Restavo sempre impressionato dalla calma e
dalla tranquillità con cui riusciva ad affrontare la sua malattia, aiutato dalla sua fede che
gli infondeva il coraggio necessario a tenere accesa la speranza, inconfessata, ma intuibile,
di un miglioramento.
Una domenica, all’inizio dell’autunno, gli portai un vasetto di gelatina di more da me stesso
prodotta e confezionata, ormai da qualche anno, con i frutti delle pianticelle del mio
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giardino. E’ per me un divertimento prepararla e un piacere regalarla agli amici. Federico
ormai era un amico e quindi diventava il destinatario di uno di questi vasetti. Federico
apprezzò tantissimo il mio piccolo regalo e, qualche settimana più avanti, a non molti
giorni dalla fine della sua vita, mi mandò a dire che avrebbe gradito un altro vasetto.
Il male avanzava a vista d’occhio e, giorno dopo giorno, Federico diventava sempre più
debole. Non riusciva più ad alzarsi e veniva sottoposto a continue trasfusioni di sangue.
Parlando, si affaticava molto. Ma il suo spirito non cambiava: non sembrava quello di un
malato così grave, ma nemmeno quello di un malato meno grave. A volte, riusciva proprio
a farmi dimenticare di essere accanto a un malato.
Qualche volta, oltre ad andarlo a trovare, ci parlavamo al telefono. Allora, Federico, mi
chiedeva di portargli qualche frutto del mio giardino o del mio orto.
Si ricordava
perfettamente delle piante di cui gli avevo parlato e, dopo avere assaggiato i frutti che gli
portavo, faceva commenti sul loro sapore, sul grado di maturazione, sulla dimensione,
sulla consistenza della buccia…. Non gli sfuggiva nulla!
Negli ultimi tempi, oltre a gestire la propria sofferenza con la solita forza di sopportazione,
mi parlava del concorso che stava sostenendo il figlio più piccolo: mi confidava che era
preoccupato per la fatica che stava affrontando questo figlio che, contemporaneamente,
lavorava e studiava, ma non mancava di essere presente e vicino al padre ogni volta che
gli era possibile.
Man mano che si avvicinava la morte, Federico dimostrava di apprezzare sempre di più le
cure del figlio maggiore, medico affermato; diceva che si sentiva sicuro nelle sue mani.
Questo figlio apprezzava molto la mia gelatina di more, mi fece sapere Federico.
Anche se ormai il tempo che la malattia gli concedeva per rimanere alzato era divenuto
brevissimo, il ricordo delle prime domeniche di ottobre va alle nostre ‘colazioni’ assieme: la
moglie ci preparava il caffè e lo accompagnava con qualche pasticcino o biscotto.
Federico, seduto sulla carrozzina, di fronte a me, prendeva la tazzina con mano piuttosto
ferma e si godeva il sapore della bevanda guardandomi con un sorriso.
Poi, venne il momento in cui non fu più possibile mantenere neppure questo piccolo ‘rito’.
Federico rimase a letto, non sempre del tutto cosciente. Ma non volle rinunciare alla
rasatura della barba. Divenne quello, dunque, il mio compito del mattino, dopo le manovre
di igiene compiute dalla moglie. Federico si passava la mano sul volto per controllare il
livello di rasatura e, finita l’operazione, non mancava di richiedermi un’attenta pulizia del
rasoio elettrico con l’apposito spazzolino.
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Le ricche conversazioni delle precedenti domeniche cominciarono a lasciare il posto a
lunghi intervalli di silenzio.
Il male sembrava avere vinto, annientando le sue ultime
resistenze e spegnendo le sue speranze.
Stavo lì, accanto a lui, a guardare il suo lungo volto smagrito, affilato, orlato da radi,
bianchi capelli a ciuffetti. Anche le sue mani erano lunghe, distese, immobili adagiate
sopra le lenzuola. Gli occhi restavano chiusi e si vedeva che faticava ad aprirli. A tratti
sembrava non rendersi conto di me, che stavo al suo fianco. A volte, uno dei famigliari lo
chiamava e gli diceva che io ero lì, ma non si capiva se avesse compreso e mi avesse
riconosciuto.
Riandavo con il pensiero alle nostre passate, calde conversazioni e mi venivano in mente
tante altre cose che avrei ancora voluto dirgli, raccontargli, chiedergli.
Mi chiedevo se stavo comportandomi in modo adeguato, se non avrei dovuto fargli o dirgli
qualcosa di più o diversa da ciò che stavo facendo e dicendo.
Era forse il secondo
momento difficile del mio primo intervento di Volontario. Se pensavo a quanto ero
preoccupato all’inizio, mi rendevo conto che, in un certo senso, era questa, invece, la fase
più delicata. All’inizio, in fondo, Federico mi aveva aiutato: eravamo in due nella situazione
e lui aveva collaborato a rendere possibile il nostro rapporto. Con il suo modo di fare
spontaneo e diretto, anche se molto misurato e composto, mi aveva permesso di entrare
piuttosto velocemente in sintonia con lui e si era ‘fidato’ di me, anche se ero uno
sconosciuto e, certamente, aveva avvertito le mie insicurezze iniziali, la mia inesperienza.
E pensavo anche a quanto lui era stato importante per me. Conoscere la sua storia, la sua
vita, il suo pensiero, mi stavo rendendo conto, mi aveva in un certo senso “maturato”. Il
suo modo di affrontare la malattia, con tanta dignità e compostezza, era stata una lezione
di vita indimenticabile, ma anche, mi rendevo conto, poco ‘traducibile’ in parole. Emozioni,
sentimenti, più che pensieri, mi attraversavano in quei momenti in cui mi sentivo anche un
po’ solo, un po’ sperso, come un po’ “abbandonato” da lui. Federico aveva iniziato un
percorso a cui non potevo ‘partecipare’ direttamente. Mi sentivo come uno spettatore
coinvolto dalla scena, ma giù dal palcoscenico. Ma forse, la vera rappresentazione, si
giocava dentro di me. Dentro il mondo delle confidenze reciproche, dei ricordi evocati dalle
chiacchierate con Federico, dei pensieri rinnovati dalle sue considerazioni. Federico era lì
davanti a me, nell’involucro del suo corpo sofferente, ma era anche e soprattutto dentro
di me, dove sarebbe rimasto. Federico se ne stava andando, era sempre più assente; ma
sentivo che quello stargli accanto fino alla fine lo radicava maggiormente in me.
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Non sentii più bisogno, negli ultimi giorni e nelle ultime ore, di vedergli riaprire gli occhi o
di risentire la sua voce. Bastava che chiudessi gli occhi e i suoi toni di voce bassi
riecheggiavano nelle mie orecchie.
Federico si spense in uno dei primi giorni di un novembre tiepido, circondato dall’affetto
dei suoi famigliari che, in ultimo intensificarono tutti la loro presenza al suo capezzale.
Non assistetti alla sua morte, perché la famiglia scelse di essere la protagonista unica di
quel momento.
Ma Federico rappresenta un po’ una sorta di pietra ‘miliare’ nella mia storia di volontario,
anche perché, accanto all’aiuto fisico, pratico che può essere utile
dare a un malato
grave, mi ha insegnato che è importante non scappare davanti alla morte, ma che si può
avvicinarla senza spaventarsi troppo, soprattutto quando dal ‘morire’ viene un
insegnamento di vita.
Penso oggi che potrebbe essere utile, per altre persone, vivere un’esperienza analoga: per
il malato e la sua famiglia, sentirsi affiancato da qualcuno che mette a disposizione una
presenza discreta, ma affidabile, e, soprattutto non tecnica, non paternalistica, non
interventista; per il volontario, incontrare e conoscere altre dimensioni dell’esistenza, quasi
sempre rifiutate e negate, ma ricche di valori.
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Attimi, sguardi, domande
e poco altro ancora
a cura di ausiliarie socio-assistenziali e infermiere professionali della provincia di Mantova.
‘Non avere paura Maria’
L’esperienza che abbiamo particolarmente vissuto e che ricordiamo con affetto è la storia
di un ospite autosufficiente, la signora Maria, da parecchi anni in Casa di riposo, deceduta
pochi giorni fa.
La signora è stata portata in Istituto perché il lavoro dei figli non permetteva la vita nella
sua abitazione, così fu deciso per l’istituzionalizzazione. La Maria si era ambientata senza
problemi perché conosceva altri ospiti compaesani. Con la signora s’instaurò un rapporto
d’amicizia e l’ospite è sempre stata gentile con il personale, non causando mai difficoltà
assistenziali.
La leucemia fu diagnosticata a febbraio e la portò progressivamente ad uno stato di non
autosufficienza con forti reazioni di rabbia e paura della morte, non accettando la malattia.
La lontananza dei figli aggravò la situazione e l’assistenza si fece difficile e particolarmente
vissuta dal personale, vista l’amicizia passata.
La malattia la costrinse a lunghe terapie trasfusionali e ad una debilitazione fisica arrivata
agli estremi della sopportazione. Venne programmata un’assistenza mirata a sostenere
l’aspetto psicologico ridotto a pezzi. L’ospite desiderava morire nel suo letto vicino al figlio
e alla figlia. Le ore precedenti la morte furono molto penose e portarono ad aggravamento
immediato richiedendo la presenza del medico curante che per cause ignote non poté
presentarsi, consigliando telefonicamente l’intervento del 118. Così venne fatto e Maria fu
trasportata d’urgenza ma morì nel tragitto per l’ospedale, lontano dai figli e in una barella
dell’autoambulanza.
La nostra delusione e la disperazione dei figli ci portarono a riflettere sul significato della
vita e sul senso della morte.
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Ancor oggi, scrivendo la storia di Maria, la rabbia è tanta e avremmo voluto salutarla e
starle vicino quando stava morendo e dirle di non avere paura, che ci saremmo riviste in
un altro mondo, invece non siamo riuscite a fare niente.
‘Quante ne abbiamo passate insieme!’
Il signor Alessio, emiplegico aggravato, era stato portato in struttura dai familiari perché
non riuscivano più a gestire la situazione per il lavoro che avevano e perché lui era
seminfermo.
La loro era una famiglia di stampo patriarcale e anche se avevano portato il padre in casa
di riposo, lo seguivano moltissimo: lo venivano a trovare tutti i giorni e lo portavano a casa
tutte le domeniche a pranzo. Era una famiglia molto unita.
Anche con noi del personale avevano particolarmente legato, si era instaurato un buon
clima.
Il rapporto è stato lineare fino all’aggravamento del signor Alessio: è rimasto in fase
preterminale per 15-20 giorni. Nessun parente lo ha mai abbandonato, c’era sempre
qualcuno con lui.
Noi del personale eravamo spesso in stanza e ogni volta i familiari esprimevano una
richiesta d’aiuto, un cenno di miglioramento che purtroppo non avveniva.
Per me era la prima esperienza di morte vissuta veramente e la situazione, a livello
emotivo e psicologico, era divenuta molto pesante; io mi ero affezionata e stavo male sia
per l’ospite che per i familiari.
Dopo l’agonia, l’ospite è morto.
Mi è dispiaciuto molto ma da questa esperienza ho dovuto imparare a farmi coinvolgere
ma non troppo.
I parenti dell’ospite a volte li vediamo ancora e ci invitano sempre ad andare a bere un
caffè da loro, ricordandoci ‘ quante ne abbiamo passate insieme ’.
E’ come se, condividendo l’esperienza della morte, fossimo diventati parte della loro
famiglia.
‘ Angela che non vuole disturbare ’
Andavo dalla signora Angela durante il mio servizio d’assistenza domiciliare.
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Angela aveva subito due crisi d’infarto per cui non riusciva a svolgere pienamente le
mansioni domestiche, oltre tutto abitava da sola; per questi motivi andavo a darle una
mano ed a farle un po’ di compagnia.
Ad Angela piaceva passeggiare, così dopo aver svolto i lavori a casa andavamo a farci una
breve camminata.
Parlavamo di tutto, della vita, un po’ della sua e della mia, di politica, ma negli ultimi
periodi anche della fede.
Mi esprimeva la sua fede ed ogni tanto mi diceva: “Quando sarà la mia vita ora sarà come
il Signore vorrà”.
Avevo come un presentimento, che quelle sue parole anticipassero qualcosa.
Nei giorni seguenti quando andavo a trovarla mi diceva che non stava molto bene, di
notte, che le faceva male il cuore. Le dissi di non indugiare a chiamare il pronto intervento
con il telesoccorso ma lei non voleva, diceva che non voleva disturbare.
Purtroppo dopo qualche giorno fui informata dall’assistente sociale che Angela era morta.
Aveva chiamato il telesoccorso quando era stata di nuovo male. La prima volta si era
ripresa ma la seconda non ce l’aveva fatta.
Alla notizia della morte di Angela sono rimasta molto emozionata anche perché viveva da
sola e da sola se ne è andata.
‘ Padri e figlie ’
Rino 77 anni. Maggio 1988.
Operato di tumore allo stomaco, trascorre circa 20 giorni in ospedale.
Tutto bene, viene dimesso.
Noi figlie gli diciamo che è stato operato di ulcera.
Per 2 anni circa prosegue la sua vita normalmente, mangia senza problemi, beve ed esce
ancora come prima.
Gennaio 1990.
Ricomincia a lamentarsi. Viene ricoverato di nuovo in ospedale e da lì inizia a perdere una
parte della sua lucidità. Dice cose strane, non vere: “mi vogliono far morire, guarda quello
lì mi uccide”.
75 anni. Marzo.
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Inizia a mangiare meno, esce poco, diventa pigro, resta quasi tutto il giorno a letto, si alza
solo per mangiare. Più il tempo passa più si lamenta dei dolori, del freddo.
In agosto viene ricoverato di nuovo per delle cure. Dopo 18 giorni è dimesso. Incomincia a
dire che lui in ospedale non ci va più, vuole restare a casa sua e dormire nel suo letto.
Ottobre.
Qualche giorno prima della sua morte dice che vuole andare al cimitero a trovare mia
sorella (sua figlia) che è morta 8 anni fa. Noi cerchiamo una carrozzella per portarlo
perché non ce la faceva più a camminare. Tutto pronto. Lui dice: ”no, domani ci vado da
solo”.
Alla sera ci ha salutato tutti dicendo che sarebbe morto. Infatti alle 6 del mattino si è
spento serenamente.
Ho provato dispiacere e tristezza, mi sono sentita abbandonata, era mio padre.
Ma tante domande non riescono a trovare risposte.
Che cosa si sentiva? Perché?
Matilde, 85 anni, vedova.
Una donna lucida, sana. Nella sua vita, mi raccontava, non era mai stata ammalata, tranne
una qualche influenza.
Nell’ottobre 1993 si sente un lieve mal di gola e bruciori allo stomaco. Chiama il dottore.
Dice che è cosa da poco. Le ordina dei farmaci ma il dolore continua senza sosta.
Il medico la manda allora in ospedale per fare degli accertamenti: tumore all’esofago e
stomaco con metastasi, non c’è più niente da fare.
Lì vi resta per circa un mese.
Gennaio 1994.
Viene in casa di riposo, contro la sua volontà. A casa non avrebbe avuto assistenza
continua perché sola.
In casa di riposo a iniziato a non alzarsi. Trascorreva le sue giornate a leggere e a
pregare. I primi tempi riusciva a mangiare purea, carne macinata, minestrine. Più il tempo
passava meno si alimentava, bevendo solo yogurt, caffelatte, frullati.
Trascorsi altri sei mesi non riusciva a ingerire più niente tranne un qualche sorso d’acqua.
La nutrivano con dei flebo; restando sempre lucida diceva: “guarda Anna, ho lavorato
tanto nella mia vita, mi tocca tribolare anche per morire. Mi tocca morire qui, nel ricovero,
che a casa ho il mio letto vuoto. Se avessi avuto una figlia come te non sarei qui.
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Domenica 8 agosto 1994 si è spenta.
Ho provato tristezza, era stata la mia vicina di casa per molti anni.
Ho provato sollievo, ha finito di soffrire.
Ho provato rabbia, non ho potuto fare niente per accontentarla a morire nel suo letto.
Come lei desiderava.
‘ Soli in due ’
E’ una donna di 85 anni di nome Lidia, affetta purtroppo da una malattia inguaribile ed
evolutiva a prognosi infausta, in condizioni tali da indurre un’aspettativa di morte in tempi
relativamente brevi.
Un cancro al polmone.
Un cancro al polmone.
Mi viene assegnato l’incarico di assistere a domicilio questo ‘caso’.
Mi è stato molto difficile affrontare l’approccio con la signora, e la conoscenza stessa, in
quanto come persona era assai vitale, indipendente, forte, precisa, nonostante il suo stato.
E nello stesso tempo molto speranzosa.
Lidia abitava con il marito in una villa esageratamente grande sulla collina del lago di
Garda. Aveva tutto, non le mancava niente, ma le mancava il tempo per vivere ancora.
Ogni mattina raggiungevo i due coniugi nella loro casa dove il marito Luigi, premuroso in
tutto, mi seguiva in ogni intervento che eseguivo a sua moglie, mi suggeriva e mi indicava
come dovevo comunicare con lei.
Io la lavavo, la stimolavo a lavarsi, le parlavo, le chiedevo di parlare con me.
Le davo la terapia e le iniezioni.
Insieme passeggiavamo in casa, raccontavo delle cose per spezzare un po’ quel silenzio
immenso, ma era più forte di me perché intorno non ricevevo nessuna risposta né da Lidia
né da Luigi, solo tristezza e sguardi fissi.
Il marito di Lidia era molto depresso e preoccupato perché sapeva che la moglie sarebbe
stata ancora con lui non più per tanto tempo. Ne parlava tutti i giorni sfogandosi con me,
nel momento in cui mi accompagnava al cancello. Esprimeva le sue ansie, la tensione, il
terrore della solitudine nell’affrontare la morte della moglie, magari improvvisa, di notte,
quando non c’è nessuno.
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Io lo ascoltavo e lo ascoltavo e la proposta era quella di chiamare la figlia lontana,
residente in Francia, perché si trasferisse per un po’ di tempo con loro.
La signora attenuava i momenti di gioia con il pianto; essendo stata scrittrice, aveva
ricevuto coppe, medaglie, riconoscimenti e lodi varie dalle autorità letterarie.
Insieme al marito mi commemorava la loro vita, dal primo incontro fino a questo
momento, mi colmava di emozioni, ma tutto all’improvviso travolgeva in lacrime e pianto.
Probabilmente Lidia era consapevole della sua fine, nonostante la volontà del marito di
nascondere.
Ma come si fa, essendo soli in due?
Da una parte lei che se ne rende conto e dall’altra lui con il sentimento di rimanere solo.
Poi la signora sta male e viene trasferita in ospedale.
Ho smesso di andare.
Pochi giorni dopo sento al telefono Luigi che mi comunica la morte della moglie.
Spesse volte mi ritrovo a pensare.
‘ Atto di dolore ’
Lavorando in una casa di riposo la morte è una realtà purtroppo quotidiana.
E’ inevitabile quindi che ogni persona che muore susciti in me sentimenti diversi e a volte
persino contrastanti.
Questo comportamento è sicuramente dovuto al rapporto che si ha avuto con l’anziano
durante il lavoro, quando è ancora in vita.
Capita di provare persino gioia, come se la morte avesse liberato da un peso non solo me,
alleggerendomi il lavoro, ma talvolta anche l’utente stesso, perché è arrivato ormai alla
fine del suo travaglio e delle sue sofferenze.
Il sentimento che prevale però rimane sempre la tristezza ed il senso di impotenza,
soprattutto se la morte arriva improvvisa suscitando nell’anziano un comportamento di
disperazione e di paura. Una situazione simile mi è capitata parecchi anni fa ma mi ha
fatto una tale impressione che ancora la ricordo con dolore.
La signora era molto avanti con l’età. Aveva 90 anni ed era affetta da diabete mellito. Era
però ancora in buone condizioni fisiche: deambulava da sola, era autosufficiente nella
diuresi; veniva solo aiutata a lavarsi e nel venire accompagnata nella sua stanza al quarto
piano.
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Una sera, dopo aver consumato la solita cena, lavata e accompagnata nella sua stanza,
tutto sembrava tranquillo mentre, dopo una ventina di minuti, si sentì suonare
ininterrottamente un campanello. Era la sua vicina di letto che sentendo la signora
lamentarsi ci avvisava.
Sono corsa immediatamente ed ho visto che la signora era in condizioni gravi. Ho avvisato
l’infermiera che si trovava al piano terra. Questa ha ritenuto opportuno misurare il diabete
e, data la gravità della situazione, è corsa di nuovo a prendere l’insulina.
Nonostante tutti gli sforzi i minuti passavano e ognuno di questi contribuiva ad aggravare
sempre di più la situazione.
Nel frattempo io cercavo il più possibile di confortare la signora stringendola fra le mie
braccia.
La signora era però molto disperata perché consapevole di ciò che le stava accadendo e di
fatti, in un atto di dolore e nello stesso tempo di rabbia, ha urlato per la prima e l’ultima
volta il mio nome.
In quel momento mi sentii terribilmente inutile e impotente, fino a che il terrore paralizzò
anche me nel vedere quella signora morire tra le mie braccia.
‘ Due ore ’
La signora Carla, affetta da cancro mammario sinistro.
Le fu diagnosticato nel 1989.
Lei decise di non farsi operare perché sapeva che oltre all’intervento avrebbe dovuto
sottoporsi a chemioterapia, quindi rifiutò.
Quando entrò in ospedale aveva già metastasi polmonari e ascellari e il tumore aveva
invaso tutto il tessuto cutaneo con evidente necrosi.
Un pomeriggio, ormai in fase terminale, ha avuto una crisi dispnoica. Io ho chiamato il
medico che mi ha fatto eseguire ECG, applicazione di catetere vescicale, impostazione di
terapia infusiva a due vie, applicazioni di microinfusore con morfina.
Intanto la paziente si continuava a lamentare e diceva di lasciarla morire in pace, che
tanto era arrivata la sua “ora”.
Ad un certo punto mi ha preso la mano e mi ha detto: “potrei essere tua madre, perché
non mi lasci morire in pace, senza torturami così?”
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Mi sono sentita malissimo e per un secondo sono rimasta come bloccata, perché in quel
momento non sapevo più se ascoltare i miei sentimenti e dire ‘ lasciamola morire in pace ’
oppure se seguire la mia etica professionale e fare tutto ciò che era necessario e giusto.
Ha prevalso la parte professionale e ho continuato il mio lavoro.
Dopo due ore la paziente è deceduta ed io mi sono chiesta se non fossero state inutili
tutte le ‘cure’ che abbiamo cercato di darle.
Le ‘cure’.
‘ Dollj ’
Dolores era una signora di 89 anni deceduta nel settembre 1989 in casa di riposo dopo
una lunga e sofferente agonia.
Ormai debilitata da tempo perché affetta da tumore renale, ha iniziato il suo
peggioramento clinico nella primavera non riuscendo più a deambulare ed alimentarsi.
L’estate è stata un susseguirsi di ricoveri in ospedale, creando maggiore ansia nei familiari
a lei molto legati.
Le prime ansie e indecisioni avvertite da tutto il personale sono state create dai parenti
stessi in quanto non contenti di un solo parere medico: continuavano a farla visitare da un
internista dell’ospedale nel quale avevano riposto la loro fiducia durante i vari ricoveri.
Al suo rientro in struttura i familiari cercavano di coordinare i nostri interventi soprattutto
in campo medico e infermieristico, insegnando agli operatori come imboccarla durante i
pasti, come somministrare la terapia orale e con il medico esponevano le loro perplessità
riguardo all’assistenza.
Tutto questo creava molta insicurezza e imbarazzo in noi poiché non potevamo intervenire
su Dolores in modo autonomo, senza lo sguardo vigile dei familiari.
Dopo l’ultimo peggioramento per sospetta emiparesi, l’atteggiamento dei parenti era
cambiato; a questo punto il difficile era decidere di continuare con ‘l’accanimento
terapeutico’ oppure rispettare le loro volontà, lasciando Dolores tranquilla e cercando di
‘curarla’ nel suo ambiente.
Proprio per questo motivo è stata poi trasferita in una stanza singola, dove si è riuscito a
garantire la giusta privacy. In questa stanza i familiari potevano accedere in qualsiasi
momento della giornata, fino a tarda notte.
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Durante l’ultimo periodo di malattia in casa di riposo, Dolores era definita da qualsiasi
medico che l’aveva visitata ‘paziente in fase terminale’. Ormai sia i familiari che gli
operatori stessi erano preparati alla sua morte, sempre più se ne parlava, riflettendo sulla
dura sofferenza cui Dolores aveva dovuto sottoporsi. Tra noi operatori era iniziato il
’ripasso’ del “protocollo di decesso” per non trovarci impreparati al temuto evento.
Infine, una notte di settembre, Dolores è spirata; gli operatori in turno hanno cercato di
agire nel modo più corretto, garantendo un’adeguata sistemazione della salma.
Il sentimento più evidente nei familiari è stato il rimorso di non essere stati presenti nel
momento dell’avvenimento triste, dopo tutta l’assistenza fornita alla loro cara.
Successivamente i parenti hanno pregato, recitato il rosario per tutta la notte, senza
lasciare Dolores nemmeno per un attimo.
Alla notizia il personale ha reagito in modo discreto e rispettoso; ognuno di noi si è
comportato in modo diverso: alcuni hanno voluto ricordarla in silenzio, altri partecipando al
funerale ed altri con fiori.
Tutti sapevamo che il nostro atteggiamento non era corretto se paragonato a quello degli
altri ospiti ma Dolores era la nostra Dollj.
‘ Brividi ’
Una chiamata improvvisa diceva: “correte, mia madre sta male, è pallida, è sdraiata sulle
scale, immobile, aiuto, presto”.
Era la mia prima uscita in autoambulanza ed ero molto agitata per cosa avrei dovuto fare
dopo pochi minuti.
In due minuti e trenta secondi siamo giunti sul posto dell’intervento: la signora era pallida,
tra le braccia della figlia seduta sulle scale, priva di conoscenza. Io e Paolo, l’infermiere,
abbiamo sdraiato la signora su un piano rigido, abbiamo collegato il monitor che mostrava
un grande infarto del miocardi; immediatamente Paolo ha incominciato ad eseguire il
massaggio cardiaco; a me era stato affidato il compito di ventilare con maschera ed ambu
la paziente, dopo aver posizionato la cannula di Majo.
Ero agitatissima per la grande responsabilità che mi era stata affidata, tanto da non
sapere se ciò che facevo era corretto o meno.
Trasportata sull’autoambulanza con l’aiuto dell’autista, abbiamo continuato le manovre
rianimatorie, ostacolati dalla velocità con cui proseguivamo per giungere in ospedale.
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Una volta arrivati, la frequenza cardiaca era di 16 battiti al minuto, valore che siamo
riusciti a mantenere per tutto il tempo dell’intervento attraverso manovre di nostra
competenza, per poi effettuare tutti gli altri accorgimenti che necessitano della presenza
del medico.
In pronto soccorso il medico, non riuscendo ad intubare la paziente, disse: “lasciamola
andare, ormai è troppo tardi”. In quel momento mi sono sentita come se qualcuno mi
stesse dando una pugnalata mentre un brivido saliva dai piedi.
Quella esclamazione mi fece pensare molto per quello che io e Paolo avevamo fatto.
Io in modo particolare mi sentivo in colpa perché sapevo che il mio comportamento non
era stato all’altezza se confrontato con quello di un infermiere professionale con
esperienza da tempo in pronto soccorso.
Il giorno successivo ne parlai con Paolo e mi disse di non preoccuparmi perché non era né
colpa mia né sua: la signora era veramente grave ed era stato un miracolo se eravamo
riusciti a portarla in ospedale in quelle condizioni. Sapevo che Paolo aveva risposto così
per consolarmi ma non riuscivo a capire come i nostri sforzi per mantenere la paziente in
vita fossero stati troncati in quel modo.
Ancora oggi non comprendo come un medico possa arrendersi così di fronte ad una
situazione come questa, proprio lui che dovrebbe salvaguardare la vita, proteggerla,
tentare con qualsiasi mezzo, sempre nel rispetto del soggetto, con qualsiasi mezzo.
‘ Perché piangere? ’
Mi trovavo a fare tirocinio in Unità coronarica nell’ospedale di Mantova.
Ero lì da soli 4-5 giorni.
Un paziente cardiopatico ricoverato da circa due settimane, era peggiorato da qualche
giorno. Si trovava all’ennesima crisi cardio-respiratoria. A quel punto una delle infermiere
mi chiamò. Io corsi al letto del paziente. Era sudato e cianotico. L’infermiera mi disse di
posizionargli la cannula di Guedel per poi procedere alla ventilazione mediante il pallone
Ambu.
A quel punto non ero più l’allieva, a quel punto eravamo io e il paziente che stava per
morire.
Aveva bisogno del mio intervento ed io sentii questo peso da subito. L’infermiera mi lasciò
sola con lui dicendomi di chiamarla se avevo bisogno.
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Io continuai a ventilarlo per un lungo periodo di tempo, perlomeno lungo mi sembrò.
Lo fissavo cercando di cogliere i segni di alterazioni del suo stato dalle papille, colorito del
viso, sudorazione e nello stesso tempo cercando di fare del mio meglio perché la sua vita
era legata ad un filo che io potevo rompere.
Questa frase sembrava risuonare all’infinito nella mia mente.
Pensavo che quell’infermiera era stata davvero incosciente a lasciarmi sola con quell’uomo,
forse ‘cattiva’ perché ero alla mia prima esperienza così grave.
Forse il mio rifiuto era un rifiuto alla morte e mi dicevo: “perché proprio io qui?”
La scena fu completata dall’arrivo della figlia di quell’uomo.
Si sedette accanto al padre, apparentemente tranquilla.
Fissava gli occhi del padre e subito dopo i miei come per capire cosa accadesse.
Ricordo che la sua prima frase non fu riferita a lui, del tipo ‘come sta?’, ‘ce la farà?’ ma a
me; mi guardò e disse: “così giovane…ma come fai a stare qui? E’ proprio vero che
bisogna essere portati”.
Io non riuscii a dirle niente, niente di niente, non una parola.
Ricordo che la guardai con occhi rammaricati come se lei dovesse consolare me e subito
distolsi lo sguardo per tornare alla realtà. Di lì a poco tornò l’infermiera accompagnata dal
medico.
Per tutto il pomeriggio non toccammo l’argomento e io continuavo a nutrire un senso di
rammarico verso la collega.
L’uomo riuscì a superare la notte, ma il pomeriggio seguente ci lasciò.
Io non ero di turno, rientrai la mattina dopo e la notizia mi fu comunicata, tra l’altro, dalla
stessa infermiera.
Al momento non dissi nulla, sembrava quasi che avessi cancellato il fatto ma poi esplosi in
un pianto liberatorio. Perché piangevo?
Piangevo perché mi sentivo impotente, piangevo perché avendo conosciuto quella persona
mi ci ero affezionata, piangevo perché ero ancora arrabbiata con lei.
L’infermiera mi abbracciò e mi disse che non dovevo vergognarmi. Il pianto è segno di
umanità e spesso serve per prendere cognizione dei fatti.
Mi spiegò che non mi aveva lasciata sola con quel paziente grave per cattiveria o per sua
comodità ma semplicemente per rendermi responsabile delle mie azioni: casi come quello
mi sarebbero potuti capitare frequentemente e d’ora in poi sarei stata più pronta.
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Ripensando oggi a quell’episodio, matura di altre piccole esperienze, non posso che
ringraziare quella ragazza ed alla domanda che mi ero posta nell’attimo di crisi: ‘perché
proprio io sola…qui?, rispondo ‘perché no?’.
La morte non deve fare paura, fa parte della vita e per quanto riguarda i sensi di colpa
bisogna tenere presenti che come operatori sanitari ci accolliamo continuamente delle
piccole e gravi responsabilità.
Ma come esseri umani non siamo onnipotenti.
Quell’episodio mi ha fatto inoltre pensare quanto sia importante il confronto tra colleghi.
Spesso noi operatori siamo portati a prestare talmente tanta attenzione a ciò che
dobbiamo fare durante l’assistenza al paziente morente che, di fronte alla sua fine, quasi
non ce ne rendiamo conto.
Spesso rimaniamo freddi come ghiaccio, un po’ per orgoglio, un po’ perché ci manca il
tempo fisiologico d’interiorizzare l’evento.
E allora silenzio, tutto viene nascosto, apparentemente cancellato.
Dico ‘apparentemente’ perché non credo sia umano cancellare una realtà come farebbe un
computer sul dischetto. Trovo giusto invece ‘ tirare fuori ’ i propri sentimenti, le sensazioni
evocate, parlando con altri della propria esperienza per poter elaborare positivamente
l’evento.
‘ Senza parole ’
Iolanda, una signora che visse per molti anni nella casa di riposo.
Era sola, senza parenti o persone a lei care, il suo unico desiderio era di morire nel suo
letto.
Preparò con cura minuziosa il giorno della sua morte.
Mise in una valigia gli abiti che voleva indossare, la collana di perle con orecchini
coordinati, la corona da mettere tra le dita, altri oggetti che voleva nella bara e una lettera
dove spiegava le sue ultime volontà.
Desiderava morire nel suo letto, non voleva assolutamente morire in ospedale da sola.
Aveva il terrore di essere sola anche in quel momento.
La sua lettera si concludeva con un arrivederci al giorno in cui ci saremmo rincontrati
nell’aldilà.
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Purtroppo in fase terminale venne mandata all’ospedale, anche se lei implorava il medico
di farla morire nel suo letto.
Dopo un paio d’ore morì.
Mi addolora il fatto di non aver avuto il coraggio di lottare per far rispettare la sua volontà.
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Caro Franco
di Lorenzo Purini
Caro Franco
mi manca la tua voce, la tua forza, il tuo coraggio.
Nei mesi scorsi mi hai regalato un'esperienza che porterò con me per tutta la vita.
Ti ricordi, Franco, quando ci hanno presentati? Abbiamo riso spesso di quel giorno. Ti
ricordi? Erano tutti tristi in volto; tutti tranne te. Nessuno poteva sapere che la
consapevolezza di convivere con il cancro è capace di strapparti il cuore, attimo dopo
attimo, ma è anche fonte di forza eterna.
C'è ancora, oggi, qualcuno che non sa come fosse possibile che io e te potessimo riempire
i giorni con le nostre risa, con i nostri scherzi.
Ti ricordi, Franco? Anche in ospedale c'era chi provava a sgridarti per quello che
chiamavano "esuberanza".
Ti ricordi? Quanto abbiamo riso su quella parola.
Ora ti confesso che anche io ero un po' sorpreso per la tua serenità. I medici con me
erano stati più buoni: il mio cancro era meno cattivo del tuo o, meglio, un po' più debole.
Per me era più facile vivere la malattia con coraggio. Eppure, Franco, eri tu che trascinavi,
ostinato, la nostra serenità. E la nostra dignità.
Ed io, illuso, ho pensato di pregiarmi dell'esserti d'aiuto. E di conforto.
Mi sentivo forte, io, ricco di una giovane età e della sua spavalderia.
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Ecco, Franco, è da questa mia convinzione che è nata la voglia, l'esigenza di
accompagnarti alla morte.
Ho saputo da subito che quel tragitto sarebbe stato breve. L' ho saputo quando ci hanno
presentati. Quando erano tutti tristi in volto; tutti tranne te. Ti ricordi?
Quel giorno ci siamo incontrati per la prima volta e già ci conoscevamo l'un l'altro più di
quanto si conoscono gli amici di una vita. E' paradossale, eppure la tragedia d'essere
malati ci ha regalato la sensibilità per poter confondere le nostre emozioni, le nostre
paure, le nostre gioie.
Mi hai lasciato entrare nel tuo nuovo universo. Un mondo diverso, difficile da abitare, ma
del quale ti sei saputo imporre padrone. Eppure il ricordo del passato era ancora vivo,
indelebile ed onnipresente nelle tue parole. Da ogni tuo racconto traspariva l'orgoglio del
tuo esserci stato. Mi raccontavi delle goliardie del giovane Franco, delle cadute e di come
ti eri saputo rialzare nel lavoro e negli affetti.
A volte, Franco, non riuscivo a comprendere dove finisse la tua storia e dove questa
lasciasse il posto all'immaginazione. E tu te ne accorgevi. Capivi che non era facile
immaginarti protagonista di tali avventure, e ciò per il nuovo universo in cui eri costretto a
vivere. Già, quella stanza con piccole fotografie ovunque, incorniciate sul muro, sui mobili,
oppure custodite gelosamente in grossi album. E poi le medaglie vinte in competizioni
sportive e messe in bella mostra tra i pochi spazi rimasti liberi dalle foto. E poi quella
poltrona che avevi attrezzato in modo da poterti ospitare anche nelle notti in cui i dolori
non ti permettevano di trasferirti nel letto. Ed accanto a quella poltrona, un piccolo divano
sul quale ho passato innumerevoli giornate e sul quale, nel ricordo, trascorrerò nuovi
attimi per sempre. E davanti a noi quell'enorme televisore che ti eri procurato. Dicevi che
con quello ti portavi il mondo a casa. A tua disposizione.
Quante sensazioni nuove mi hai regalato. Parenti, amici e conoscenti ti passavano davanti.
Si fermavano con te per qualche attimo della loro vita frenetica. Sembrava, a loro ma non
a noi, che fossero loro a portarti conforto, affetto, compagnia. Noi no. Noi non ci siamo
mai fatti ingannare: sapevamo entrambi che quelle visite erano una risposta ad un loro
bisogno; non al tuo.
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In quella stanza sommersa dalle foto eri capace di stare seduto lasciando che ti
passassero davanti pronunciando frasi di cortesia. Ogni persona aveva un modo diverso
per starti accanto. Qualcuno più impaurito, qualcun altro più deciso. E la mutevolezza di
queste persone si scontrava con la tua costanza. Ti ho osservato quando attorno a te tutto
viveva mentre tu assistevi, in silenzio, a quell'interminabile balletto. Eppure eri tu il fulcro,
il centro di quel nuovo mondo.
Ti ricordi, Franco? Anche io, lo ammetto, ho sempre pensato di esserti d'aiuto e di
conforto. Ho sempre ascoltato le tue parole credendo di farlo per lasciarti sfogare, o per
aiutarti a riempire i giorni che ti separavano dalla morte in modo sereno. E invece no. Ero
io ad assorbire conforto dalle tue parole. Parole dalle quale, giorno dopo giorno, diventavo
sempre più dipendente.
E le mie parole? Quante ore passate a convincerti che i tuoi dolori sarebbero cessati, che
la sofferenza avrebbe lasciato il posto al ritorno alla tua vita di allora. Ed invece, ancora
una volta, ero io ad avere bisogno di pensare a ciò. E tu non mi hai mai portato alla realtà.
Quella realtà che ti portava a spegnerti. Mi lasciavi parlare aspettando che mi convincessi.
Avevo bisogno di credere che tutto sarebbe finito bene. E tu lo sapevi; hai sempre saputo
che della nostra esperienza ero io ad avere bisogno. Ecco perché non hai mai violentato le
mie speranze, e tra queste la più importante: sapere di esserti di conforto.
Ho sempre cercato le argomentazioni più diverse, a volte improbabili, per regalarti i motivi
per continuare a sperare e per convincerti che il progredire testardo dei tuoi dolori era
un’evoluzione normale della convalescenza. E per ogni tuo disagio trovavo una
motivazione. Sempre più impossibile, ma della quale sembravi esserti lasciato convincere.
Eri troppo acuto per contraddirmi, per portarmi alla ragione. Mi sono sempre chiesto il
motivo per cui lo facessi ed ho sempre pensato che fosse un modo per convincere te
stesso. Avrei dovuto capire da subito che il tuo accettare, il tuo starmi ad ascoltare senza
contraddire era un segno del fatto che tra noi due ero io ad avere un disperato bisogno
dell'altro. E quando ti ho visto guardarmi quell'ultima volta, in quell'attimo eterno, sono
stato paralizzato dall'intuizione che ogni mio sforzo fosse stato inutile. Inutile per te. E che
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tu sapessi già tutto e molto più di me. Ed il solo sospetto d'aver intuito il giusto non mi
abbandona più.
Come i pianti. Ti ricordi, Franco? Quante parole per cercare di fermare le tue lacrime.
Eppure riuscivi a lasciarti incoraggiare anche da loro. Mi dicevi che piangevi perché eri un
uomo. Mi dicevi che se tu non fossi stato un uomo non avresti pianto, perché non avresti
odiato la malattia. Ma non avresti neanche amato la vita.
E così passavano i giorni. Fino a quello in cui sono stato avvertito che stavi molto male.
Mi sono precipitato davanti alla tua poltrona rossa. Mi hai guardato fisso negli occhi,
ostinato come sempre. Non hai provato a parlarmi, segno chiaro che ti era impossibile.
Segno certo che non avresti mai più parlato. Anche gli occhi stavano per chiudersi. Non
avevi più cose da guardare, dolori da sopportare. Mi invase un pensiero che si risolse in un
enorme impatto: da oggi potrai ascoltarmi meglio.
Ora ne sono certo: sono stato io, e sono io, ad avere avuto e ad avere bisogno di te. Non
sono stato io ad accompagnare te alla morte: sei tu che mi ci hai accompagnato.
Hai saputo leggere nei miei occhi la paura ed il bisogno di qualcosa cui aggrapparmi
quando mi sarebbe stata strappata la tua presenza. E lo hai intuito da subito. Da quando
ci hanno presentati. Abbiamo riso spesso di quel giorno. Ti ricordi?
Ho ancora tante cose da dirti: è ancora grande il bisogno che ho di te. Non sei mai stato
libero ed hai accettato di non esserlo neppure mentre sapevi di dover morire.
Hai accettato di accompagnarmi alla tua morte lasciando che mi convincessi di averti dato
conforto. Lasciandomi pregiare di quel pensiero.
Adesso sono più grande, più ricco. Ricco di un’esperienza che mi ha dilaniato il cuore per il
dispiacere di aver dovuto rinunciare a te.
Ma è davvero così? Ho davvero dovuto rinunciare a te?
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Ti abbraccio forte
Lorenzo
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E tu te ne stai lì
di Liliana Pesci
"Mah! stanotte ho fatto un sogno strano: mi vedevo prima qui sul letto, ammalato, e poi
mi ritrovavo su una collina verde con dei fiori".
Lo strano gioco della memoria.
Chissà perché il ricordo che ho è di te steso sul letto di un ospedale, tra diagnosi
superficiali o addirittura sbagliate, tra medici troppo tecnici per essere umani ed infermieri
umani nella loro professionalità.
E tu te ne stai lì, con la tua fiducia innata, a volte persino ingenua verso le persone e
verso quelli "che ne sapevano più di te". Quella fiducia che hai coltivato con speranza fino
all'ultimo.
La speranza: io te l'ho nutrita, svuotandomi. Per te, che ormai non ti nutrivi più, era
l'alimento primario. Era una speranza intrisa di amore che stava lì, tra le riserve infinite
che abbiamo e che ho tirato fuori al bisogno.
Di un amore puro, che usciva dal cuore (un cuore abbastanza sterile, nutritosi della tua
sofferenza per rianimarsi), filtrava dalla pelle ed arrivava a te. E tu te ne stai lì, cercando
di cogliere nei nostri sguardi, più che nelle nostre parole, la verità resa a te
incomprensibile con subdola complicità di tutti noi.
Ma l'hai cercata a volte in modo decisivo, con quella determinazione che aveva in sé la
paura stessa di sapere cosa ti stava succedendo. E, forse, ad un certo punto questa verità,
che da noi non hai mai saputo, l'hai trovata tu.
Non hai più mostrato desiderio di sapere, anche se i tuoi occhi fino all'ultimo giorno hanno
scrutato i nostri occhi, i miei occhi, per sapere, per capire che non c'era più niente da fare.
Avevi perso fiducia in noi, non volevi sapere o non volevi farci soffrire?
Il vortice degli eventi, lentamente, ci ha travolti per poi diventare inarrestabile.
Qualche mese di lieve malessere con dolori forse un po’ sottovalutati da tutti. Una prima
diagnosi ed un primo intervento deciso in ventiquattr'ore che non ci hanno dato nemmeno
il tempo di chiederci perché.
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Un facile intervento ed un altrettanto facile responso postoperatorio, purtroppo sbagliato.
Il malessere che tu continuavi ad avvertire dopo l'intervento era il normale decorso
postoperatorio!!!!
Una convalescenza vissuta sulla speranza e poi, dopo circa quaranta giorni, il tracollo. Che
sia stato quel facile intervento a svegliare quell’infida malattia che è il tumore al pancreas?
Era il giorno del tuo compleanno ed è in quel giorno che venne proclamata la tua sentenza
di morte. Tre mesi. E tre mesi dopo non c'eri più.
No, non a te. Tu non dovevi sapere. Tu dovevi stare tranquillo, essere fiducioso della felice
risoluzione della tua malattia che aveva da subito preso un falso nome. Falsa ipocrisia!
Ci siamo presi gioco della tua ingenuità, della tua sensibilità, della tua intelligenza. Dovevi
stare tranquillo. No, non abbiamo saputo guardarti negli occhi ed affrontare la dura realtà.
Eravamo terrorizzati dal volerla vedere. Lì nei tuoi occhi, che a saperli guardare, dicevano
molto di più di tutte le parole.
Era lì sul tuo viso che si scavava sempre di più, tanto che quando di mattino ti radevo,
potevo seguire la forma esatta delle ossa. Era lì sul tuo corpo lacerato da tagli, sondini,
flebo, cateteri.
Hai messo a dura prova il mio coraggio. Alla fine hai vinto tu. Abbandonandoti in un sonno
consolatorio che potesse preservarci da ulteriori sofferenze.
Non ti sei più sforzato di trovare un respiro, quello che in fondo non c'era davvero più.
Potendo oggi ripensare alla tua malattia riesco a decifrare le fasi di quel periodo, che ci ha
permesso di essere due persone separate straordinariamente insieme.
TU:
1. fase: fiducia
2. fase: voglio sapere
3. fase: fate quel che c'è da fare
4. fase: rabbia
5. fase: accettazione
6. fase: distacco
7. fase: silenzio.
IO:
1. fase: terribile, ma abbastanza facile da gestire con te
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2. fase: faticose acrobazie
3. fase: molto dolorosa
4. fase: mi arrampico sui vetri per poi cadere tra le tue braccia in pianti liberatori. Forse é
stato con i pianti e gli abbracci che io e te ci siamo dette le nostre verità, le ultime, le più
assolute.
5. fase: forse tu non soffrivi più, non fisicamente intendo, eri già oltre. Ora ero io
arrabbiata.
Non volevo lasciarti andare.
6. fase: LA FINE?
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Nuove Persone
di Valentina Catellani
Mai come in questo momento desidero avere il dono della dialettica e possedere il grande
bagaglio della cultura per esprimere su questo bianco foglio i sentimenti, la delusione, le
emozioni che ho provato durante la malattia che ha colpito mia madre, chiamata sempre
“terminale” e che è durata quasi dieci anni.
Negli anni sessanta io ero una bambina serena e felice.
Facevo parte di una numerosa famiglia contadina, una nonna, tre zie sposate e tanti
cuginetti.
Una zia godeva di pochissima salute: ciò che mi è rimasto impresso nella mente è il valore
dell’aiuto fisico e morale che si scambiavano l’uno con l’altro e la compagnia che si
facevano.
La solitudine e la malinconia non abitavano lì.
Ricordo che mia madre mi educava dicendomi di essere sempre disponibile verso gli altri,
altruista e di sacrificarmi per loro, perché un domani se avessi avuto bisogno sarei stata
ripagata.
Mi chiamo Valentina e sono l’unica figlia di una mamma colpita da tumore mammario. Era
il febbraio 1988 quando mia madre, 63 anni, andò dal senologo per una visita di
prevenzione. L’ambulatorio era gremito di gente e mia madre si era innervosita nel
perdere tanto tempo in quanto lei non si sentiva assolutamente niente e a casa
l’aspettavano tre nipotini, i miei figli, che accudiva per permettermi di lavorare e
guadagnare uno stipendio.
In quel momento però una tegola si staccò dal cielo e cadde sulla sua testa, perché
l’oncologo diagnosticò un tumore mammario da entrambi i seni e non esitò a dirle che non
vi era più nulla da fare!!!
Mi resi conto immediatamente che quella tegola era rimbalzata anche sulla mia testa.
Venne operata e le furono asportati tutti e due i seni ma la sua voglia di combattere era
tale che il primo pensiero fu quello di sottoporsi anche alla ricostruzione. Dopo soltanto
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alcuni giorni, alle sei pazienti ricoverate per l’intervento insieme a mia madre venne fatta
l’ecografia al fegato: per lei ci furono subito dei dubbi, continuavano con la scintigrafia
epatica e parlavano di dubbiosi angiomi al fegato. I controlli oncologici erano assidui,
accompagnavo sempre io mia madre anche per tenerla lontano dagli sguardi umilianti dei
parenti che schiettamente l’avevano ‘messa morta’ un attimo dopo aver saputo della
malattia.
Per tutti la parola ‘tumore’ era ’morte’ ma non per me!!
Per me significava ‘credere’.
Tra alti e bassi, angosce e speranze, passò qualche anno finché arrivò il maggio del 1996:
all’improvviso e in sordina il male bussò di nuovo alla nostra porta, il tumore si era esteso
al polmone destro, riempiendolo di liquido e procurando grossi problemi di respirazione a
mia madre.
Ancora una volta un altro medico pronunziò la sua sentenza di morte con l’ammalata e con
me definì il tempo: tre mesi se sottoposta a chemioterapia, sei mesi se non la tollerasse.
Nemmeno Nostro Signore parla così della morte nella Bibbia, anzi, la paragona al ladro che
arriva all’improvviso quando meno lo si aspetta.
E’ giusto che il paziente sappia ma non è giusto che lo sappia così brutalmente,
bisognerebbe prima avere validi colloqui con i familiari e insieme decidere cosa e come
dire; mia madre ad esempio dopo la prima scoperta del tumore disse che più di tanto non
avrebbe voluto sapere e loro sembrava facessero apposta, sembrava si sentissero grandi
nel proclamare certe affermazioni, che poi si sono rivelate contraddittorie alle loro
previsioni per cui noi abbiamo sofferto il doppio per il male fisico e per il male psicologico.
La prima dose di chemioterapia è risultata allergica: come asettico con febbre oltre i 40° e
globuli bianchi azzerati.
Speranze dei medici inesistenti anzi una sera mi dissero che non avrebbe trascorso la
notte.
Su quel letto candido c’era la morte, uno scheletro senza capelli e senza dignità.
Io non l’abbandonavo mai e distrutta dal dolore e dall’angoscia mi sdraiai sullo sdraio
accanto a lei, le presi la mano, la strinsi nella mia in attesa di sentirla diventare gelida.
Alle prime luci dell’alba il rumore del carrello degli infermieri mi fece riavere e sobbalzare,
la mano di mia madre era ancora calda e lì, mi guardava.
Mi fece cenno di avvicinarmi, aveva un filo di voce, ma riuscì a dirmi che si era trovata in
un immenso prato verde con una varietà meravigliosa d’alberi e un grande viale che
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portava ad una piramide di cristallo, con delle luci e colori indescrivibili; lei aveva raggiunto
questa piramide ma si era seduta ai suoi piedi, poi si era svegliata.
Dagli esami risultò che i globuli bianchi si stavano riprendendo anche se la febbre era
ancora abbastanza elevata, non mangiava e rimetteva spesso. Siamo rimaste in ospedale
due mesi, l’abbiamo assistita in due, io e una mia zia: non ho permesso a nessun altro di
assisterla pur avendo a casa una famiglia perché io dovevo essere lì con lei, scrutarla ogni
minuto.
Non ho mai parlato con i medici per non vedere quelle brutte smorfie sui loro visi.
Tutte le mattine la truccavo: le davo il rossetto, lo smalto alle unghie e pettinavo quella
testa quasi pelata, anzi ho avuto il coraggio di passarle sulla testa un cotone imbevuto di
una fiala colorante, perché si potesse vedere qualche capello grigio anziché una testa di
cera!
E lei riprendeva la voglia vivere.
Non la lasciavo sopravvivere, la obbligavo a sforzarsi in tutto, le massaggiavo in
continuazione le gambe che si erano irrigidite.
La dimisero dall’ospedale il 16 agosto, con ancora la febbre che spuntava puntuale verso
sera e lei non autosufficiente. Quella carrozzina che ci avevano assegnato con mille giri,
un’infinità di documentazione –mancava sempre qualcosa per avere il benestare- non è
servita tanto perché in breve ha ripreso a camminare.
Quella lettera di dimissione, che diceva di recarsi in ospedale per togliere il liquido dal
polmone ogni sei-sette giorni, è rimasta sempre nel cassetto e quell’ammalata TERMINALE
continuava a vivere dignitosamente.
Eravamo due persone sfinite e senza aiuti.
Quante volte ho desiderato che qualcuno venisse spontaneamente ad accudire la casa e la
famiglia, per permettermi di stare tranquillamente ad assistere mia madre; invece tornavo
a casa dall’ospedale e dovevo sbrigare tante cose che non potevo lasciare al caso. Tutti
pensavano per sé, se pagavi sì, altrimenti niente.
Alcuni venivano in fretta, ti parlavano dei loro viaggi e dei loro divertimenti, altri dicevano
che non avevano il coraggio e che in una situazione così non sapevano cosa dire.
“Che tristezza”.
Per circa un anno venne controllata la malattia con pastiglie chemioterapiche che poi
finirono il loro effetto e grossi dolori presero il sopravvento: le ossa di mia madre si
stavano sbriciolando.
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‘Tumore osseo’ e l’ortopedico disse che non si sarebbe più alzata dal letto e avrebbe
dovuto sopportare dolori atroci e infatti poco dopo si ruppe l’anca.
Altro intervento, altre parolone di fine e di termine, altre battaglie, altri sorrisi amari.
Con tutta la mia timidezza ma con tanta forza, proibii categoricamente a tutti i medici di
parlare a mia madre dell’avanzare della sua malattia. Era una lotta continua: ogni volta
che veniva sottoposta a qualsiasi esame, dovevo prima andare a parlare con il medico,
ovvero a lottare con lui ma non mi arresi mai.
La fortuna volle che mi assegnassero una dottoressa oncologa che soltanto un anno prima
aveva perso il marito di soli quarant’anni colpito da tumore e posso dire di aver visto un
grosso spiraglio nella battaglia: non ha mai negato l’evidenza ma non hai mai parlato di
termine e con il sorriso sulle labbra ci ha sempre incitato a sperare.
Ho trovato una persona che lottava con noi e con tutti gli altri ammalati e famigliari che
seguiva con tanta pazienza e tanta costanza.
Mia madre si rimise in piedi ancora una volta ma il tumore avanzava sempre più e lei era
ormai da anni compromessa; in dicembre 1998 avrebbe festeggiato il 50° anno
d’anniversario di matrimonio, perciò doveva vivere ad ogni costo.
Era talmente felice, festeggiata e coccolata che sembrava guarita.
Nonostante tutto quello che aveva, era riuscita ad indossare le sue scarpe col tacco e
arrivare con le sue gambe dentro al ristorante.
La malattia però ormai era al culmine per cui bisognava decidere se tentare ancora con la
chemio, con tutti rischi dell’allergia. Io non potevo in coscienza decidere per mia madre
ma non potevo certamente dirle a che stadio era la sua malattia. Trascorsi giorni critici e
notti insonni, la mia famiglia era ormai allo sbaraglio, ognuno dei componenti faceva vita a
sé, ognuno viveva come poteva.
Gli altri fuori, indifferenti, non si curavano di noi.
Un mattino mentre facevamo colazione le dissi in modo confuso che l’esame rilevatore del
tumore al seno aveva evidenziato valori un po’ elevati e bisognava ripetere la chemio; mia
madre mi rispose che pur di vivere la rifaceva.
Arrivò l’estate, sapevo che era l’ultima.
Feci di tutto per poterla portare ancora una volta in montagna per trascorrere le vacanze.
Il suo fisico peggiorava di giorno in giorno: era sfinita ed io con lei.
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Il giorno di ferragosto vennero a trovarla due sue amiche e lei con un filo di voce e un
grande sorriso disse loro che della sua malattia non si moriva ma che ci si doveva curare
tutta la vita.
La ricoverai il giorno dopo, perché lei così volle, sfidando l’ultima speranza ma si spense
nel sonno all’alba del 20 agosto 1999.
Durante quell’ultima notte gl’infermieri non erano mai passati dalla camera per accertarsi
delle sue condizioni e ho dovuto dire io a loro che mia madre era morta: si preoccuparono
soltanto di portare il paravento.
Il medico di guardia poi io non l’ho visto assolutamente, nessuno che mi abbia chiesto se
avevo bisogno di telefonare…
Il problema è che la famiglia dell’ammalato di tumore prova lo stesso shock e la stessa
ansia e nessuno se ne accorge; ogni membro ne risente, che lo dimostri e ne sia
consapevole o meno.
Ogni giorno è una battaglia.
Man mano che il malato si abitua al disagio, all’umiliazione e al dolore fisico causato dalla
terapia e dai continui controlli medici, ha sempre più bisogno della famiglia per ricevere
aiuto pratico e sostegno emotivo; di conseguenza i familiari non solo devono imparare a
fare gesti nuovi per prendersi fisicamente cura del malato ma sono tutti costretti a
cambiare atteggiamenti, emozioni, abitudini e programmi.
Diventare nuove persone, voglio dire.
I continui alti e bassi della malattia creano uno spaventoso senso di insicurezza.
Non appena ci si adatta ad una serie di circostanze può capitare che si debba far fronte a
condizioni nuove ancora più difficili, ad esempio quando la terapia non dà i tanto attesi
risultati.
L’ammalato dipende sempre più dal sostegno della famiglia; già stravolta per questo, la
famiglia stessa ha bisogno di aiuto perché, lo garantisco, si trova sola con nessuno.
La malattia di mia madre è durata 10 anni, abbiamo conosciuto tanti ammalati di tumore
con i quali ci siamo trovati amici, abbiamo pianto e riso insieme, ci siamo aiutati e
consolati. L’ultima è stata Maria, 57 anni, si è spenta tre mesi dopo mia madre; l’ ho
assistita alcuni pomeriggi in ospedale, soffriva molto, la tenevo per mano e sorridevo,
ritrovavo mia madre e ritrovavo la voglia di combattere una malattia che oggi è la guerra
di ieri, quando la gente combatteva consapevole forse di dover morire, ma nessuno diceva
loro quando, anzi magari si sarebbero salvati.
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I medici poi quando si sentono impotenti perché la ‘loro’ terapia non funziona più ti
lasciano allo sbaraglio…anche di più: lasciano fare a te famigliare.
“Noi non possiamo fare più niente, provi lei i vari antidolorifici per vedere quale può fare
effetto contro il dolore” e solo ora lasciano a te il compito di dire: “mamma, è finita”.
Spero che qualcuno si laurei in UMANOLOGIA.
Non avevo mai parlato con nessuno della malattia di mia madre: grazie per avermene dato
la possibilità. Dopo la sua morte ho richiesto all’ospedale tutta la sua cartella clinica, chissà
perché, forse per non staccarmi completamente da un ricordo.
Stiamo tutti combattendo per togliere la pena di morte e non ci rendiamo conto che in
questo momento tante persone stanno morendo nei nostri ospedali su tante sedie
elettriche, sotto gli sguardi incuranti delle persone consapevoli di morire.
L’amore sia sempre la nostra forza.
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Il Mio Amore
di Luciano Motti
Con la nascita del secondo figlio, una svolta improvvisa accadde nella nostra vita familiare.
Nel periodo dell’allattamento un noto ginecologo consigliava a mia moglie di bere della
birra per aumentare la quantità di latte per il nutrimento del bambino. Da quel
suggerimento, nel giro di qualche mese, il quantitativo di birra aumentò, dalla birra passò
al vino sino ad arrivare agli alcolici in modo smisurato.
Premetto che mia moglie proveniva da una famiglia di contadini, sulla tavola non mancava
mai il vino, ma non ha mai avuto problemi legati al bere. Soffriva spesso di mal di testa
che alleviava con molte pastiglie di “Saridon”; la notte la trascorreva in uno stato di
dormiveglia compensando con compresse di “Tavor” da 2,5 mg. Era un vero miscuglio di
medicinali e alcolici.
Il nemico principale era l’alcol che da principio ha colpito mia moglie, trascinando poi in un
vero travaglio tutta la famiglia.
Non riuscivo a perdonare le sue debolezze, spesso mi chiedevo quali erano le mie
responsabilità, cosa dovevo fare, mi sembrava di andare controcorrente, contro un muro,
non
capivo
cosa
stava
succedendo,
ero
completamente disorientato. Liti a non finire, con conseguenze psicologiche sui due figli,
mi sentivo solo e deriso dall’alcolista. I rapporti erano tesi, spesso si parlava di separazione
o divorzio, la mia vita era diventata un inferno, non era più proponibile vivere in casa.
Nel frattempo uno dei figli ci dava molte preoccupazioni; sia alla scuola materna che in
quella elementare non partecipava con gli altri compagni, si isolava, si metteva in disparte,
era sempre davanti ai vetri in attesa di venire a casa. Ha frequentato la scuola media con
una certa difficoltà, non socializzava, mentre gli insegnanti, anziché essergli d’aiuto, di
capire la sua fragilità, gli incutevano paura e disagio.
E’ stato seguito da uno psicologo, il ragazzo marinava la scuola a nostra insaputa, di
mattino si chiudeva nella sua stanza, non voleva andare a scuola; a volte è intervenuto un
mio familiare, si smontava la porta per convincerlo ma nulla è valso, rifiutava qualsiasi
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aiuto, la madre si faceva a pezzi per essergli vicino, per questo figlio donava tutta se
stessa.
Alla fine il medico si fece promotore verso il preside di quella scuola e riuscì, per il bene
del ragazzo, a fargli ottenere la licenza media. Il ragazzo è molto intelligente, ma con
comportamenti psicologici fuori delle norme comuni.
Io ero appena andato in pensione, fui costretto con la mia liquidazione e con piccoli
risparmi a comperare un piccolo appartamento per la figlia, affinché uscisse da questa
difficile situazione.
La mia consorte ne ha sofferto molto. Venne in seguito ricoverata in ospedale per 15
giorni, disintossicata per disturbi al fegato, ne uscì riabilitata. Nel frattempo ecco emergere
uno spiraglio improvviso: la notizia di un centro degli alcolisti anonimi poteva esserci
d’aiuto. Da principio mia moglie si dimostrò riluttante, per lei era difficile presentarsi
davanti ad un gruppo di persone a raccontare tutte le sue pene, ma vista la mia
insistenza, nonché dei figli, è cominciata per tutti noi una presa di coscienza a frequentare
il centro.
Provammo anche l’esperienza di un’altra sede chiamata CAT.
Ben presto mia moglie si trovò a suo agio con gli alcolisti anonimi. Tutti abbiamo imparato
cose a noi sconosciute, che lo smettere di bere era il primo ostacolo da superare per
arrivare alla sobrietà; bisognava sostituire alla sostanza alcol un nuovo programma
spirituale. Anche noi famigliari ci siamo adeguati ad un nuovo schema di vita, vita intensa
fatta di nuove regole, di tante difficoltà che ancora mi sovvengono alla memoria. Per
aiutare mia moglie, ho frequentato anche un corso particolare con la presenza del prof.
Hudolin, noto luminare e fondatore dei CAT.
Con costanza e forza di volontà nel giro di tre anni mia moglie è riuscita a superare
quell’enorme ostacolo, sempre pronto a colpire, in ogni istante, diventando una donna
sobria, completamente trasformata. Fu un vero miracolo. Con questo nuovo stile di vita la
serenità è tornata tra noi, è iniziata veramente una nuova unione, sembrava incredibile ma
vero.
Quello che mi ha sorpreso e stupito è che ella ha continuato a frequentare gli A.A.
insegnando ai nuovi arrivati la propria esperienza, di non demordere, perché la malattia è
sempre in agguato: è stata esempio di incoraggiamento e saggezza. Dotata di uno spirito
sorprendente e di un humor eccezionale, tutti l’ammiravano per il suo coraggio, le
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volevano bene. Una medaglietta datata di tutti gli anni di sobrietà la porto sempre con me,
è un meraviglioso ricordo.
Per vincere quei tristi stati d’animo, qualcosa doveva sostituire l’alcol, così mia moglie ha
iniziato a fumare qualche sigaretta e col passare degli anni ne consumava circa 30 al
giorno. Nonostante i miei suggerimenti di rivolgersi a qualche centro di disintossicazione,
non c’è stato verso di farle cambiare atteggiamento, era qualcosa di più forte di lei.
Spesso faceva esami di controllo con la paura che qualche organo ne risentisse; sia l’alcol,
il fumo e i “Saridon” potevano compromettere la sua salute. Si recò perfino nella provincia
di Genova presso Villa Rovetta per una cura disintossicante a base di sostanze vegetali.
Nel 1996 iniziarono altri sintomi, difficoltà digestive, accompagnati da rigurgiti e bruciori
allo stomaco. Dapprincipio non diede molto peso alla cosa, la redarguii più volte.
Passarono mesi, quei segnali si facevano sempre più insistenti, andò diverse volte dal
medico di famiglia, il quale la sottopose a prove ecografiche al fegato e radiologiche ai
polmoni con esito negativo. A mio parere fu un vero errore, anziché fare controlli allo
stomaco dove accusava dolore, il medico, sapendo del suo vissuto d’alcolista e di
fumatrice, insisteva in inutili esami. Quei dolori si facevano lancinanti, mi preoccupai e mi
feci carico della brutta situazione che si stava instaurando.
Su mia insistenza chiesi al dottore di fare una gastroscopia; si doveva aspettare più di 40
giorni, per cui decisi una visita presso l’ospedale di Parma, dove i tempi d’attesa erano più
brevi. Il risultato fu catastrofico, venne fatta una biopsia e nel giro di alcuni giorni ci fu la
conferma di un tumore maligno allo stomaco.
Di fronte a quell’esito così improvviso mi lasciai trascinare da un profondo sconcerto, come
se un grosso macigno mi fosse caduto sulla testa.
Mia moglie avvertì subito la pericolosità in cui si trovava, con grande spirito volle sapere
tutta la verità, era un suo diritto. Non riuscivo a comunicare con lei, un pianto dirotto mi
sovrastò, non riuscivo a capacitarmi, ero frastornato; vidi per la prima volta la forza
d’animo e il coraggio di mia moglie che reagì a quella notizia con incredulità, pensava che
qualcosa fosse sbagliato, che quell’esito fosse dovuto ad un errore umano.
Ci rivolgemmo al dott. Bedogni, primario dell’Endoscopia dell’ospedale di Reggio Emilia che
non credette a quell’esito così infausto. Ci rimaneva un filo di speranza: praticò a mia
moglie una cura di “Ranidil” per 2 mesi, insisteva dicendo che si trattava di un “elicobacter
pilori” che in quel periodo avevano scoperto in America, da cui molti malati venivano
colpiti.
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Passarono settimane e mesi, i bruciori si fecero sempre più insistenti, vomito su vomito,
l’alimentazione era quasi nulla mia moglie non riusciva più a tollerare qualsiasi forma di
cibo; non si lamentava, soffriva in segreto, cercava di apparire serena ai figli, non voleva
farci star male.
Trascorsi due mesi inutili di cura, fu fatta una nuova gastroscopia che metteva in evidenza
e confermava la prima diagnosi. Con urgenza passò una visita dal chirurgo dott. Prati, il
quale consigliò di sottoporsi ad intervento chirurgico: durò più di otto ore, le vennero
asportati tre quarti di stomaco e ripulito le parti vicine, si analizzò la parte tolta; si sperava
che il male fosse circoscritto solo in quella zona, purtroppo l’esito fu avvilente, molte
metastasi si erano sparse ovunque.
Mia moglie ancora una volta affrontò l’ostacolo con coraggio, volle sapere tutto ciò che le
accadeva e che cosa si poteva fare. Dalla chirurgia passò al reparto oncologico; prima di
prendere una decisione definitiva ci
furono diversi contatti tra alcuni medici, fu
diagnosticata una sopravvivenza dai sei mesi ai due anni. Le strade da seguire erano due:
la chemioterapia e la radioterapia.
Eravamo tutti smarriti, pensavamo di portarla a Milano in un centro più attrezzato e di
prendere un appuntamento con il prof. Veronesi. Mia moglie, più determinata di noi, si
oppose a questa idea, diceva che le cure contro i tumori qui a Reggio E. erano le stesse
che venivano praticate a Milano.
Un mare di dubbi, interrogativi quando vengono prospettate due alternative di cura!!
Così iniziò la chemioterapia: si fece un piano di 12 sedute senza spiegare alla paziente
quali conseguenze, quali inconvenienti potevano succedere; le fu soltanto detto che
avrebbe avuto delle piccole noie.
Non c’erano altre alternative, mia moglie accettò di buon grado quella decisione con
fiducia.
Ricordo il primo giorno di terapia – era una splendida giornata di primavera, un cielo
azzurro luminoso – mia moglie si vestì elegantemente, indossò una bellissima gonna blu
con diversi fiorellini colorati, una candida camicetta e un graziosissimo foulard intorno al
collo. Aveva una meravigliosa pettinatura, somigliava ad un angelo, mi pareva che
andasse ad una festa di matrimonio. Con gli occhi inumiditi di pianto forse immaginava già
a cosa stava andando incontro. Io non riuscivo a trattenere le lacrime, ero irrequieto,
mentre lei cercava di nascondere la sua ansia per non farmi stare male, mi incoraggiava
dicendomi che la vita è fatta anche di queste tristi cose.
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Le prime otto chemio le sopportò con indifferenza, sembrava filare tutto liscio, le
infermiere che la curavano vedevano in lei una donna formidabile, coraggiosa, con una
grande voglia di vivere. Spesso faceva dei controlli clinici, esami del sangue, ecografie e
tac. Poi cominciò a perdere i capelli, comprammo due parrucche per non farla sentire
diversa dalle altre donne.
In poco tempo la cura a base di “Cisplatino” le tolse la sensibilità ai piedi, alle gambe,
nonché agli arti superiori. Andammo a Ponticelli dotati di una speciale apparecchiatura per
un controllo, passò due visite neurologiche che confermarono l’assenza lieve di sensibilità;
i piedi e le mani erano ghiacciati, portava calze grosse invernali, un paio di guanti e scarpe
imbottite di lana.
Man mano che si procedeva con la chemioterapia le gambe e i piedi si gonfiavano,
l’alimentazione era solo a base di sostanze liquide, faceva iniezioni su iniezioni e ipodermo
e sacche di sangue per reggersi in piedi.
Quelle cure incominciavano ad essere pesanti, il “Cisplatino” distruggeva anche le cellule
sane del suo corpo, si era indebolita, ma la sua voglia di vivere era incrollabile.
Arrivati alla dodicesima chemio, fatti altri controlli, risultò che il tumore del diametro di 5
cm. era sparito, dagli esami non si vedeva più nulla.
Con grande sorpresa, e all’insaputa di mia moglie, continuarono la chemio-terapia sino a
16 sedute; stavano diventando insopportabili. Ella accettò il prolungamento delle cure,
nonostante il suo fisico fosse minato. Resistette con volontà. I medici curanti erano
meravigliati da come l’ammalata affrontava la terapia; due volte la settimana si presentava
in Day Hospital per le cure; spesse volte fu costretta a sospendere tutto perché il numero
dei globuli bianchi era bassissimo. Fisicamente e moralmente era sfinita.
Fu ricoverata per 20 giorni nel reparto di Medicina, e ne uscì riabilitata e contenta di aver
superato quel momento di crisi.
Finalmente finirono le cure di chemio. Dalla gioia offrì al reparto infermieristico
dell’Oncologia un vassoio di paste per festeggiare l’evento; ancora una volta ci fu
meraviglia nel reparto nel vedere tornare la fiducia e il sorriso sulle labbra di mia moglie.
Ogni 15 giorni controlli intensi, ma nel giro di due mesi, in seguito ad ulteriori ecografie e
tac, improvvisamente il tumore cominciò a risvegliarsi.
Nuovi incontri coi medici. Fu suggerito di riprendere la chemioterapia in forma più leggera
della precedente perché le sue condizioni apparivano troppo precarie, nei prelievi del
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sangue non riuscivano più a trovare le vene, si spezzavano; venne alimentata tramite la
vena principale del collo; la bocca era invasa dal mughetto, era una vera sofferenza.
Consultammo anche il primario della radioterapia, che sconsigliò l’applicazione di raggi x
perché avrebbero danneggiato e fatto soffrire la paziente; ormai non c’era più nulla da
fare: i linfonodi apparivano intaccati lungo il tubo digerente. Si pensava ad un
aggravamento del fegato e del pancreas, ma tutto era ancora sano.
Mia moglie, sofferente e cosciente di ciò che stava accadendo, non accettò di iniziare una
nuova chemio, era insostenibile. Deperiva sempre di più, si rese conto della fine. L’unica
alternativa era la cura Di Bella, che lei accettò come l’ultima cosa risolutiva, era fiduciosa e
sperava ancora di vincere quel male terribile.
Perse tutti i denti, non si perse d’animo ebbe il coraggio di andare da un dentista per
mettere una dentiera, fu ammirata per la sua volontà di sopravvivenza e la forza interiore
che sprigionava in lei per affrontare la morte.
Ebbe anche un incontro col Sindaco di Reggio E. perché, prossima alla fine, cercava aiuto,
voleva vedere i suoi figli sistemati.
Si tentò con la cura Di Bella, molto costosa; le nostre condizioni familiari non potevano
affrontare tali spese. Tali preoccupazioni incisero maggiormente sulle condizioni
psicologiche di mia moglie, non riusciva a capacitarsi.
Siamo nel 1998, la nuova cura veniva elargita gratuitamente dal Governo, fu un Calvario
nell’affrontare tale prassi. Il primario dell’ospedale di Reggio Emilia non volle concederci
questa possibilità, ci rivolgemmo allora al Tribunale del Malato e dopo varie peripezie ci
furono concessi i medicinali.
Eravamo in preda alla disperazione. Più volte abbiamo cercato un contatto col prof. Di
Bella e col figlio, ma inutilmente. Non era possibile comunicare con loro. Il primario
dell’ospedale voleva un protocollo di cura, non sapevamo a chi rivolgerci.
In quel periodo molti medici praticavano la cura Di Bella, anche abusivamente. In quali
mani mettere la vita del proprio caro?
Ci siamo rivolti ad un centro di Modena, poi ad uno di Bologna per sapere con chi iniziare
questa nuova cura. Fummo sommersi solo da notizie frammentarie senza certezza. Mia
moglie ne soffrì tantissimo. Lei aveva bisogno di un aiuto immediato, tutte queste pratiche
burocratiche erano una perdita di tempo prezioso, ormai non si reggeva più, ma aveva
ancora il coraggio e la capacità di essere la nostra guida.
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Presi dalla disperazione ci affidammo ad un medico di Bologna che proveniva da Matera, ci
diede il protocollo di cura, ma la lontananza di questo medico ci impediva di seguire la
cura con una certa tranquillità e di avere dei consigli, tanto è vero che la somministrazione
di alcuni medicinali non veniva più tollerata, per cui nel giro di brevissimo tempo mia
moglie sospese le cure: stava malissimo. I capelli erano cresciuti di nuovo, il suo viso era
diventato uno spettro, nonostante ciò aveva la forza ancora di cucinare, ci faceva
coraggio, non voleva spaventare i suoi figli, desiderava che fossero sereni.
Priva di ogni speranza, ma col morale sempre alto, si indeboliva sempre più, si chiudeva
nella sua camera chissà in quali tristi meditazioni, voleva essere sola, ci invitava ad uscire,
non voleva vederci soffrire.
Trascorsi giorni e settimane peggiorò sempre di più, nel ventre si formò molta acqua, le
venne tolta più volte mediante la paracentesi.
Amava la montagna, quasi tutti gli anni trascorrevamo alcuni giorni sulle Dolomiti.
Eravamo nell’Agosto 1988, aveva un grande desiderio, rivedere i picchi di quelle
montagne, fu accontentata. Chiusa nella sua camera d’albergo si affacciava al balcone per
vedere l’ultima volta quei bellissimi prati. Il viaggio fu inverosimile, lacerante, ma in lei
vedevo ancora il sorriso di un tempo, contenta di rivedere quei luoghi.
Era in condizioni pietose, faceva fatica a camminare, nonostante ciò, per suo grande
desiderio, la portai al mercatino di Canazei; tutti la guardavano per il suo pallore, così
gonfia, sembrava una donna prossima alla gravidanza, ma lei fu felice perché le comprai
un paio di pantofole e un giacchettone che nascondeva il suo stato di salute.
Ritornati dalle vacanze non riusciva più a reggersi. Il suo pensiero era rivolto a noi, aveva
il coraggio di rincuorarci, finché decise di essere ricoverata in ospedale.
Dalla finestra la vidi salire sull’ambulanza, fu veramente uno strazio, un ricordo che non
dimenticherò mai. Era l’ultima volta che lasciava la sua casa.
Frastornato non riuscii a seguire l’ambulanza, dopo qualche minuto precipitai in ospedale,
la trovai fiduciosa, credeva di nuovo di farcela, credeva nei medici, si sentiva protetta.
Tutti i giorni le ero vicino, piangevo in continuazione, una forte depressione si stava
instaurando in me; vedendomi demoralizzato mi faceva coraggio, mi diceva di curare la
mia tosse, di andare a trovare mia madre di 101 anni e di non preoccuparsi di lei. Mi
sembra ancora di sentirla: “abbi cura di te stesso, sii vicino ai tuoi figli e voglio loro bene,
salutami Pierluigi, cura la tua salute, per me sarà come sarà; Luciano vai a mangiare da
tua madre”.
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Negli ultimi tre giorni l’acqua aveva invaso anche i polmoni; si praticò una paracentesi
dolorosa, si sentiva come soffocare, sempre lucidissima.
Un giorno venne a trovarla il suo medico di famiglia egli chiese come si fa ad andare in
coma e se il coma è un dormiveglia.
Nei rimanenti due giorni cominciava ad essere irrequieta, nel suo respiro si sentiva il
rumore dell’acqua che arrivava alla gola, sembrava che da un momento all’altro rimanesse
soffocata.
Per tranquillizzarla cominciarono a somministrarle una piccola dose di morfina; io le ero
sempre vicino, le tenevo in continuazione la mano, il mio amore mi stava abbandonando,
la seguivo con molta sofferenza.
A un certo momento disse che vedeva la sua cara mamma, la Madonna con in braccio
Gesù Bambino tutto in uno splendore di luce.
Con una seconda dose di morfina entrò in coma e verso le quattro di notte del 12
dicembre 1998 dolcemente chinò il capo sulla sua destra e si spense lentamente senza
emettere alcun cenno di soffocamento.
Una strana cosa accadde dopo tre ore dalla sua morte, mentre usciva dalla stanza su una
barella ricoperta da un lenzuolo, io e mia figlia Linda, ad una distanza di 3 metri l’uno
dall’altra, ci sentimmo chiamare col nome ‘Linda, Linda’.
In casa trovai una lettera su cui mia moglie aveva scritto le sue ultime volontà: voleva che
quattro asce di legno, le più comuni, raccogliessero le sue spoglie, nella camera ardente
fosse messo un séparé in modo che nessuno la vedesse tranne la sua famiglia, voleva che
si ricordassero di lei diversamente, senza alcuna cerimonia, desiderò essere cremata.
La seguii sino al forno crematorio, all’apertura non resistetti e fui accompagnato fuori.
A distanza di un anno e sei mesi e la mia vita è distrutta, una parte di me stesso se ne è
andata con lei.
Ora sento maggiormente la mancanza della sua presenza; la depressione mi sovrasta, mi
sembra di sentire l’eco delle sue parole: ‘sii vicino ai tuoi figli e fatti forte’.
Ciao amore mio.
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Olindo
di Loredana Pesenti
Olindo, una storia che a dire il vero solo fino a pochi giorni fa, non avrei raccontato più a
nessuno, neanche a me. Quella che vi voglio raccontare è la piccola storia mia e di mio
marito, la stessa.
Avrei preferito ripensare a quei giorni da sola, come se fosse la sola cosa che ancora mi
unisse ad Olindo, come se quei ricordi, nessuno, neanche Dio mi potesse togliere,
cullandomi in quel dolore che ti appartiene, come il primo amore.
E' stata un'amica a chiedermi di dividerlo con gli altri, cercando di farlo diventare scudo
per qualcuno che lo scudo non l’ ha, cercando di potergli dare un’ulteriore arma per
affrontare la prova, e...quale prova!
Mi sono seduta e ho pensato: " è un'altra richiesta mio Dio; beh! se me la chiedi è perché
ne sono capace. Forza Lori "
Come potrei dimenticare quella mattina, quando ti ho salutato, partivi convinto di tornare
in settimana, un’ecografia veloce da fare a Trento dal tuo caro amico Prof. Fatti; la
televisione sotto il braccio e la promessa di risentirci di lì a qualche ora sul cellulare.
All'ospedale San Camillo, ci sei rimasto per ben tre settimane, inconscio della gravità del
tuo male: tra un esame e l'altro, quante corse abbiamo fatto io e i tuoi genitori.
Poi è arrivato l'esame istologico da Padova, allora non ci sono stati più dubbi: “tumore al
fegato e alle vie biliari ".
Cominciava allora una lotta contro il male più grande di noi, una lotta a cui tu non ti sei
mai tirato indietro, convinto fino all'ultimo di poter dominare e vincere ciò che forse era già
perso fin dall'inizio.
L’INTERVENTO A TRENTO
Chi dice che di fronte a questa malattia siamo impotenti si sbaglia di grosso.
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Dio aiuta i malati armandoli di una innocenza che se fossero sani mai avrebbero, o li carica
di una serenità che è disarmante perfino per chi gli sta accanto.
Quando Olindo stava bene, era un uomo dinamico e brillante, la malattia lo ha
trasformato in una sorta di bambino ingenuo e anche credulone. Con una innocenza
sconvolgente credeva e si fidava, mettendosi nelle mani dei medici, dei suoi familiari e
degli amici che non lo hanno abbandonato in quei 18 mesi di calvario.
E' così che Olindo è riuscito ad affrontare il primo grande intervento nell' ospedale di
Trento all'insaputa completa di quella che era la sua vera malattia e soprattutto della sua
gravità.
Eravamo a conoscenza di tutto solo io, mio suocero e mia sorella, vi potete quindi
immaginare, cosa voglia dire, cercare sempre davanti a lui di fare un viso sereno, un
atteggiamento sicuro, cercando di nascondere tutto ciò che avrebbe potuto insospettirlo, e
sentirsi spezzare dentro e non poter urlare il tuo dolore.
Poi purtroppo il Signore, non sempre da a tutti la carità cristiana, e certamente, quel
dottorino che il 20 ottobre 1998, mi ha chiamato nel·ripostiglio dell'ospedale per dirmi che
per Olindo, non c'era più niente da fare, tale era l'entità del suo male, non ne era
minimamente dotato.
Se si potesse chiedere un piacere a Dio, il mio sarebbe stato quello di andarmene con mio
marito, ma non era possibile e forse nemmeno giusto.
Potevamo solo pregare e per 45 giorni, che sono stati solo angoscia, io e Olindo,non
abbiamo fatto che quello: piangere e pregare assieme.
Lui in un letto di dolore, divorato dalla febbre, che lo tormentava ed io seduta su di una
sedia, cercando di sorridere, raccontando bugie, giocando a carte, mangiando panini con
la mortadella, guardando partite di pallone e conoscendo tanta sofferenza.
I VIAGGI DELLA SPERANZA
Non è stato facile spiegare a Olindo che aveva bisogno di un trapianto di fegato, credo che
non si sia mai reso conto del tutto della gravità del suo male. Gli amici, quelli sì, avevano
capito, non si sono mai arresi, nemmeno loro, cocciuti più di lui, ottimisti e speranzosi.
In testa a tutti c'era Francesco, il caro fraterno amico, il dottore, forse colui che dalla
malattia ha avuto la sconfitta più grossa: vedersi portare via un grande amico.
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Era lui che guidava le speranze e le armava; fino a che un giorno disse:"Si parte, venerdì
si va a Bruxelles per il trapianto".
Era arrivata la prima speranza concreta, così accompagnati da Dario siamo partiti per il
Belgio.
La nostra permanenza è durata tre giorni e non la posso ricordare che positivamente.
Olindo era uscito dal Santa Chiara dopo 45 giorni di inferno tra febbre e un intervento non
riuscito. Nonostante tutto a Bruxelles abbiamo mangiato pesce, girato la città in lungo e in
largo, parlato con primari e siamo tornati a casa con una risposta quasi negativa, ma con
un appuntamento per Innsbruck.
Di nuovo partenza, questa volta per l'Austria dopo una breve sosta a casa: era il 13
dicembre, il giorno di Santa Lucia.
L'ospedale austriaco con le sue strutture universitarie ci ha scioccato e l'efficienza dei
medici era impressionante.
Qui abbiamo conosciuto molti italiani, malati tumorali in viaggio di speranza; per molti non
c'era niente da fare, ma per noi si parlava di un intervento unico in Europa che ci ridava la
possibilità di rivivere.
Prima di arrivare al vero e proprio intervento era necessaria l'embolizzazione della vena
porta, da farsi in anestesia locale.
Anche se breve, tutto ciò per Olindo è stato molto doloroso, ma ripensandoci, poco in
confronto a ciò che lo aspettava.
Sistemato questo pre-intervento preparatorio, la vigilia di Natale, senza che nessuno se lo
aspettava, ci hanno fatto andare a casa.
Eravamo carichi di nuove forze e fiduciosi nel futuro.
Abbiamo trascorso un Natale sereno e calmo e Olindo con gli amici Dario, Fausto e Luca
hanno programmato un pellegrinaggio al santuario di Padre Pio per una preghiera
particolare.
Padre Pio a cui Olindo era particolarmente devoto, non ha mai abbandonato mio marito,
neanche nei terribili momenti di sofferenza che ebbe negli ultimi giorni di vita; il suo
calvario è seguito dalla presenza del Santo Frate, partendo dai primi giorni di ospedale a
Trento fino agli ultimi giorni nella nostra casa di Quistello, sempre in compagnia del suo
Angelo.
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Nei momenti di grande dolore prendeva tra le mani la statuetta del Santo, se la portava
dove più forte si faceva sentire il male, la stringeva pregando con fede e speranza sicuro
in un miracolo che non è mai accaduto.
Ma forse il vero miracolo è stato dentro di lui, questa nuova fede che era assopita, si è
risvegliata e ha trasformato Olindo in un vero cristiano, senza dubbi e convinto di entrare
in una pace assoluta fatta di solo grande amore.
SPERANZA E RIPRESA
Il 22 gennaio 1999 si riparte per Innsbruck, ci attende il grosso intervento al fegato, siamo
fiduciosi e convinti di aver imboccato la strada giusta.
L’équipe guidata dal professor Konisnaider, con una nuova tecnica raffinata, staccherà da
Olindo la parte di fegato andata in necrosi, ricostruirà le vie biliari con le anse dell'intestino
e non so quant'altro.
E' un intervento che durerà 13 ore, definito all'avanguardia, ma visto la ricrescita del
fegato sano presentata da Olindo, parte sotto i migliori auspici.
Non me la sento però di affrontare da sola tutto ciò, per questo chiedo a mia sorella Mirca
di accompagnarmi e di parlare insieme con me ai professori.
A lei devo tanto, so che ha voluto molto bene a Olindo, un bene fatto solo di amore
sincero e grande tenerezza.
Abbiamo vissuto le ore dell'intervento con un solo respiro, in uno stato quasi di coma,
impacciate con la lingua, ma nessuno può farci dimenticare la vista della sua lettiga che
entrava nella sala rianimazione alla fine dell'intervento con la sua sciarpa del Toro, un
portafortuna che lo seguiva ovunque, attaccata vicino alla flebo.
Altri 30 giorni prima di tornare a casa, giorni lunghi fatti di dolore, conoscenza della
malattia e vista della morte.
Ma il primo marzo si ritorna a casa.
DONGO
A casa gli amici non mancano mai e tanta compagnia aiuta nei momenti tristi e di
angoscia, ma ciò che di più ci rallegra è l'arrivo di Dongo, un cucciolo di labrador, regalo di
mia madre per Olindo.
100
Sono sei mesi di felicità, fatta di piccole cose, di famiglia e quotidianità.
Lì interrompono i viaggi di controllo a Innsbruck e qualche piccolo imprevisto che sempre
si risolve però per il meglio e dove soprattutto la voglia di tornare a casa avanza su tutto.
IL CROLLO
Le valigie erano sempre pronte nel nostro appartamento, ma questa volta le avevo
preparate per una breve vacanza in Toscana, da amici del Prof. Fatti.
Mai avrei immaginato che il male potesse ritornare con tanta ferocia, una T.A.C. e la
terribile sentenza: ci sono tre macchie di dubbia gravità, che necessitano di una radio
frequenza, intervento semplice di sicuro effetto.
Da questo momento e siamo ad agosto, il cammino si fa veramente faticoso e sofferto,
fatto di febbri continue, molto alte, ricoveri in vari ospedali e tanta straziante angoscia.
Odio il termometro e quei brividi così forti, il sudore e l'angoscia di poter fare poco o nulla.
Si riparte per Innsbruck non so quante volte forse altre tre.
I medici dopo la seconda radio non sanno più cosa fare, Olindo continua ad avere febbre e
tremori, perde peso in continuazione, il suo fisico è a terra quanto il suo morale. Ascessi e
infezioni sono all'ordine del giorno.
Solo l'amico Francesco capisce che forse tutto deriva da una endocardite, ma è già
novembre, io non posso più ritornare al lavoro, devo stare costantemente al fianco di mio
marito e con lui passo da un ospedale all' altro.
Il nostro medico di famiglia segue giorno per giorno la malattia di Olindo e gli affianca un
altro medico oncologo, tra loro si instaura un rapporto di amicizia.
Le infermiere che giornalmente offrono il loro aiuto, diventano ben presto persone di
famiglia e la nostra camera da letto si trasforma in camera d' ospedale con materiale
medico sempre pronto.
C'è sempre molta gente che viene a trovarci, se Olindo è in grado si instaurano discussioni
e chiacchiere di ogni genere . E' ancora molto pronto e vivace, scattante nella risposta: mi
chiedo spesso come faccia a non capire di essere alla fine della partita.
Parla del suo futuro, fa programmi di lavoro e prepara schemi di gioco per le partite di
calcio della squadra amatori di cui è il titolare allenatore.
Sono convinta che non abbia mai rinunciato a vivere nemmeno quando il dolore era così
forte da renderlo quasi aggressivo.
101
E' di questo periodo la dolce amicizia allacciata con mia madre, fatta di silenzi, strette di
mano e dolci abbracci.
Lei era capace di stargli vicino come fosse un figlio e credo che lui lo abbia potuto capire;
sono certa che aiuterà mia mamma nei momenti pericolosi o di difficoltà, se lo troverà
vicino e sentirà la sua mano tra le sue, come lei era abituata a fare con lui.
Un'altra persona a cui devo tanto è Italo, l'amico fraterno di Olindo, compagno di tante
avventure, dai banchi di scuola alle partite a briscola. Fratello, non amico, ad un amico si
racconta, con un fratello basta guardarsi negli occhi per capire e Italo ha sempre saputo,
mai chiesto, ha dato senza mai chiedere nulla in cambio; ogni sera una barzelletta nuova,
una
cassetta,
una
pizza
da
dividere
assieme
e
infine
tanti
ricordi
da
portare dentro e non dimenticare mai.
Olindo ha potuto godere di varie soddisfazioni prima di lasciarci, una di queste è stato il
primo esame universitario di nostra figlia Francesca: il risultato è stato ottimo e lui ne ha
gioito come sempre, decantando le qualità della figlia ad amici e parenti.
Tutte le volte che Francesca affronta un esame, lei ha la certezza che il padre la
accompagni e la guidi, quindi la certezza di fare bene perché guidata da uno speciale
angelo custode.
Nel grande dolore che ha portato questa malattia c'è stata anche una grazia di Dio: Olindo
che nella sua vita prima di ammalarsi era un semplice cristiano, praticante si, ma forse
adagiato come tanti, ha avuto la fortuna di riscoprire una vera fede.
E' facile penserete voi, in questi momenti ci si aggrappa spesso a Dio; non è vero, non è
facile, a volte ti verrebbe voglia di respingerlo completamente, di arrabbiarti con Lui per la
prova chiesta.
Olindo si è lasciato guidare spiritualmente da persone molto brave, come Don Fausto, che
lo ha preparato, con tutti i conforti religiosi compresa confessione e comunione ad
avvicinarsi a Dio con il passo giusto.
Pensandoci bene lui era pronto, chi non era pronta ero io; non mi sono mai arresa,
nemmeno davanti all'evidenza, nemmeno l'ultima sera passata con lui; ho sempre sperato
in un recupero, in un miracolo; ho tanto pregato, pianto da consumarmi gli occhi e piango
ancora quando ricordo quelle lunghe notti e angosciosi giorni.
Io e i miei figli avremo un ricordo solo nostro di quel terribile periodo, nessuno potrà mai
togliercelo dal cuore.
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L'ultima settimana, dopo aver passato tre giorni a Innsbruck per essere più che convinti
che nulla era più possibile tentare e per portarlo alla fine con il meno dolore fisico
possibile, Olindo l'ha passata nella sua casa, tra le cose di sempre, circondato da tutti noi
e altri ancora.
Al suo capezzale si sono alternati amici vecchi e nuovi, parenti cari e soprattutto i suo figli,
principalmente Francesca che lo ha imboccato fino all'ultimo giorno.
Lui li ha abbracciati più di una volta, di un amore eterno, grande e indimenticabile, come
se non volesse staccarsi da loro; li ha voluti vicino e loro sono stati lì, anche se costava
tanta fatica.
Io ho abbandonato solo momentaneamente Olindo, vivo lentamente e con tanta fatica e
aspetto di rivederlo presto, spero che Dio mi possa accontentare.
Quello che faccio tutti i giorni, dal lavoro al riposo notturno ha poco senso per me; ho
conosciuto mio marito all'età di 17 anni, mi sono sposata a 22 e da allora tutto è ruotato
intorno a lui e alla mia famiglia.
Non ho mai chiesto, nelle mie preghiere di avere una vita tranquilla o di possedere una
bella casa: ho chiesto a Dio di darmi una famiglia serena e tanto lavoro per tutti noi.
Mia sorella mi proibisce di pensare che dietro la malattia di Olindo ci sia la punizione per
qualche peccato fatto; sarebbe ben misero dice pensare che un Dio sia così piccolo da
rimandarci punizioni corporali per ciò che abbiamo sbagliato; voglio pensare che ci sia un
ben più grande disegno divino e che comunque Olindo gode della sua presenza prima di
noi e prega preparandoci la strada.
Un grazie di cuore a tutti quelli che ci sono stati vicini e hanno condiviso con Olindo
momenti di gioia, lacrime, tante corse tra un ospedale e l'altro e le ultime giornate attorno
al suo capezzale.
Amici, parenti, medici ed infermiere, i ragazzi del pallone, i vicini di casa, i compagni di
partito, la zia massaggiatrice, la mamma materna, i suoi genitori a cui spetta un futuro
certamente pesante, i compagni di scuola dei miei figli e non per ultima la comunità di
Quistello.
A loro devo molto, per non aver lasciato solo Olindo, per non averlo mai dimenticato e
aver condiviso con tutta la famiglia il dolore per la sua perdita. Mio marito mi ha lasciato la
domenica mattina alle ore 10 del 23 gennaio 2000 all'età di 45 anni.
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Sono veramente pochi per uno spirito libero come era lui, ha amato la vita fino all'ultima
sua ora, ha coltivato la sua rosa, anzi è il tempo che ha perduto per la sua rosa che l'ha
resa così importante.
Così “IL PICCOLO PRINCIPE” gli ha insegnato a vedere non con gli occhi ma con il cuore,
perché l'essenziale è invisibile agli occhi.
Così come dice lui: "quando guarderò il cielo, la notte, alzerò lo sguardo alle stelle, in una
di quelle troverò il tuo sorriso, avrò voglia di ridere e sarò contenta di averlo conosciuto.
Sarai sempre mio amico, e gli altri saranno stupiti di vedermi ridere guardando il cielo.
Allora dirò: si le stelle mi fanno sempre ridere e mi crederanno pazza."
A Olindo, al bambino che questa grande persona è stato: tutti i grandi sono stati bambini
una volta (ma pochi di essi se ne ricordano).
LA TUA LOREDANA
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Testimonianze ed esperienze