IL CORAGGIO DI FARSI ULTIMI CLAN LA FENICE – Gruppo Scout Gradisca 1 3 Ringraziamo : Innanzitutto tutti gli ospiti del C.A.R.A. per la loro disponibilità'; La Cooperativa “Connecting People”, nella persona della sua direttrice, gli psicologi, assistenti sociali, mediatori e operatori, per la loro collaborazione; La prefettura di Gorizia per i permessi; La Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia per aver finanziato con la legge per l'autonomia dei giovani, il progetto del Comitato Scout AGESCI "La Route del Coraggio" che ha contribuito alle spese della realizzazione del libretto; 4 INTRODUZIONE “Quando la strada non c'è, inventala!” Sono queste le parole di Baden Powell e noi scout del clan La Fenice di Gradisca abbiamo cercato di renderle nostre per vivere appieno la nostra “strada di coraggio”. Ma cos’è una strada di coraggio? Per capire il vero significato di questo termine bisogna partire dall’origine della nostra avventura, un’avventura svoltasi nel corso di un intero anno in preparazione della Route Nazionale. Quest’anno infatti tutti gli scout dei clan d’Italia si riuniranno a San Rossore in Toscana per vivere insieme cinque giorni in vero stile scout. Migliaia di ragazzi pronti a divertirsi e a condividere le loro esperienze, tracciate dal Capitolo Nazionale. Il capitolo è una straordinaria opportunità per superare e scardinare quei modi deboli con cui sempre di più ci si informa e si comprende la realtà. È il cammino esigente e serio di esplorazione e scoperta delle cose intorno a noi, di elaborazione della coscienza critica e di azione consapevole. L’argomento di questo capitolo è il coraggio, che non va inteso soltanto nel modo tradizionale, ma in tutte le sue sfaccettature, in tutte le sue strade. La nostra strada è, appunto, il coraggio di farsi ultimi e di trattare quindi su argomenti quale l’immigrazione. 5 Vivendo a Gradisca è molto semplice capire il motivo della nostra scelta. In questa cittadina si trova infatti il CIE, centro di permanenza temporanea per gli stranieri "sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera". All’interno si trova anche il C.A.R.A., centro di accoglienza per rifugiati politici, ed è proprio qui che si è svolta la nostra attività. Abbiamo infatti deciso di raccogliere le testimonianze degli stranieri accolti, di ascoltare le storie da loro vissute. È stato un tentativo, seppur piccolo, di eliminare i pregiudizi che purtroppo esistono attorno a queste persone. Abbiamo organizzato diversi incontri con loro, ci siamo presentati, abbiamo spiegato il nostro progetto e abbiamo chiesto di raccontarci a loro volta un pezzo della loro storia. La maggior parte di loro, curiosi, hanno acconsentito a questa bizzarra richiesta. Molte volte infatti ci limitiamo a giudicare da lontano persone che non conosciamo davvero, mentre bisognerebbe avere il coraggio di sapersi confrontare e accettare l’altro, il quale non è per nulla diverso. Così abbiamo deciso di raccogliere tutte queste diverse testimonianze in un libro, che sono state tradotte dall’inglese anche se gli ospiti del C.A.R.A. vengono da diversi paesi, quali l’Afghanistan, Turchia, Iraq, Pakistan, Mali, Guinea, Nigeria. Nella seconda parte di questo libro abbiamo invece unito le impressioni di noi ragazzi riguardo questa esperienza. Da tutte si capisce quanto, alla fine, siamo rimasti sorpresi anche noi da questo progetto. Se prima pensavamo di fare una semplice raccolta di racconti banali e ripetitivi, pian piano ci siamo resi conto di quanto invece questo progetto ci stesse coinvolgendo. 6 All’inizio la nostra azione di coraggio era quella di eliminare i pregiudizi degli abitanti di Gradisca e dintorni, ma poi ci siamo accorti che, prima di tutto, erano i nostri pregiudizi che stavamo combattendo. Abbiamo imparato ad accettare il prossimo, ma, soprattutto, a conoscerlo. Abbiamo creato inconsapevolmente la nostra strada di coraggio. Speriamo che questo libro possa, seppur in minima parte, trasmettere tutte le sensazioni che noi ragazzi abbiamo provato durante la nostra esperienza e, magari, lasciare il ricordo, in chi lo legge, che non sempre ciò che giudichiamo in un modo è tale. Clan La Fenice 7 INDICE pag 9 Interviste pag 18 Storie pag 33 Altre storie di immigrati pag 38 I nostri commenti 8 INTERVISTE Le interviste raccolte al C.A.R.A. durante la visita al centro da alcuni ospiti. 9 INTERVISTA 1 - Come ti chiami e quanti anni hai? Mi chiamo Kakal e ho 28 anni. - Da dove vieni? Vengo dall' Afghanistan. - Perché sei andato via dal tuo paese? Perché ho avuto problemi con il governo talebano . - Come sei arrivato fino a qui? Ho dovuto camminare per 2 mesi; durante il mio cammino ho avuto diversi problemi, quello più impresso nella mia mente è di aver dovuto pagare ai contrabbandieri 1000 dollari per poter varcare il confine turco e arrivare finalmente in territorio europeo. -Da quanto tempo sei in Italia, come sei stato trattato? Sono in Italia da 6 mesi e in generale sono stato trattato bene. -Hai lasciato famiglia in Afghanistan? Sì, una moglie e quattro figli. -Cosa facevi nel tuo paese e cosa vorresti fare adesso? Lavoravo per un ristorante e adesso il mio obiettivo è quello di guadagnare un minimo di soldi per poter mantenere la mia famiglia e un giorno sperare che mi raggiungano. 10 INTERVISTA 2 -Come ti chiami? Zabiullah Yousofi. -Quanti anni hai? 28. -Da dove vieni? Da Kunar in Afghanistan. -In Afghanistan lavoravi? Sì, quando sono arrivati gli americani ho trovato lavoro in una base militare. -Come mai sei dovuto scappare? Siccome lavoravo in una base USA ero visto come un nemico… -Eri visto come un nemico da tutto il villaggio? No, molti a Kunar lavoravano nella base USA; da quando gli americani hanno invaso il nostro paese aprire qualsiasi attività è un rischio e non c' è neanche la certezza di riuscire a portare il pane a casa... Non so se mi spiego. -Cioè a Kunar non ci sono bar o negozi? Certo che ci sono, ma può capitare che se hai avuto come clienti dei militari stranieri il giorno dopo ti ritrovi il negozio distrutto dai talebani. -Quindi sono i talebani il pericolo? I talebani sono imprevedibili, sapevano che lavoravo per gli americani e quindi mi volevano morto, ma non sai quando ti prendono a volte può capitare di incontrali per strada e ti fissano soltanto... non ti senti al sicuro da nessuna parte e quindi l'unica alternativa è scappare. 11 INTERVISTA 3 -Come ti chiami e quanti anni hai? Mi chiamo Haji Ullah ed ho 26 anni; -Da dove vieni? Vengo dal Pakistan; -Perché hai dovuto lasciare il paese? Perché ho avuto problemi con i talebani; -Che tipo di problemi hai avuto? Avevo un business di trasporto di petrolio dal Pakistan all'Afghanistan; i talebani pensando che io aiutassi il governo degli U.S.A. hanno bloccato i miei camion, bloccando il mio lavoro e minacciando di morte tutti i miei familiari, per questo sono stato costretto a mettermi in salvo, dato che lasciando il mio paese avrebbero lasciato in pace la mia famiglia; 12 INTERVISTA 4 -Come ti chiami e quanti anni hai? Mi chiamo Sekandi-Takoradi; -Da dove vieni ? Dal Ghana; -Da quanto tempo sei in Italia? Sono arrivato 4 mesi fa; -Perché te ne sei dovuto andare dal tuo paese? Ho avuto problemi con il nuovo governo perché ero un oppositore politico. Prima mi sono rifugiato in Costa d'Avorio dove ho capito che dovevo andarmene definitivamente dall'Africa che era diventata troppo pericolosa per me; -Come sei arrivato fino a qua? Ho dovuto attraversare il deserto e ci ho messo 5 giorni, mi ricordo che eravamo in 27 ma solo 19 hanno raggiunto la costa. 13 INTERVISTA 5 -Come ti chiami e quanti anni hai? Mi chiamo Muhammad Shooib e ho 24 anni; -Da dove vieni? Vengo dal Pakistan; -Da quanto tempo sei qui? Da 9 mesi; -Sei venuto direttamente in Italia? No, sono stato prima in Belgio; -Cosa facevi nel tuo paese? Ero un giocatore di Cricket professionista; -Cosa pensi di fare dopo? Ho degli amici a Milano che mi ospiteranno ma il mio sogno è quello di andare a lavorare in Svezia; 14 INTERVISTA 6 -Come ti chiami? Gulzar Ali Shali. -Quanti anni hai? 21. -Da dove vieni? Bajur Agency in Pakistan. -Lavoravi nel tuo paese? Lavoravo in un negozio di alimentari. -Perché sei dovuto andare via? Il nostro paese sta venendo destabilizzato da violente ribellioni. -Chi vuole il potere? I talebani. -Ma i talebani sono in lotta con l' esercito regolare? I talebani sono in minoranza e quindi non attaccano direttamente l' esercito ma vanno nei villaggi e se ne prendono il controllo. -E cosa fanno? A volte non fanno niente, altre invece sono capaci di fare atrocità, rapiscono gruppi di persone li portano lontano dal villaggio e poi non tornano più; mia madre mi diceva che i prigionieri prima di ucciderli li torturavano. 15 -Tu eri contro di loro? Io sono un cittadino pakistano, volevo vivere in tranquillità la mia vita ma questi non te lo permettono, sono criminali che si nascondono dietro la religione islamica. -Tu sei musulmano? Sì certo ma non vado in giro per i villaggi a sparare alla gente, è sbagliato e lo dice anche la mia religione come la tua, se non sbaglio anche nel Cristianesimo uccidere è peccato. -Sì è così. Ecco vedi quindi questi sono criminali perché neanche la mia religione me lo permette! Io vorrei solo poter vivere la mia vita e poter giocare a cricket in pace! -A cricket? Sì in Pakistan è lo sport nazionale, qui invece? -Qui si gioca soprattutto a calcio. Anche in Pakistan c'è il calcio ma non è troppo popolare, cioè per le strade ci giocano in tanti ma se chiedi tutti diranno che preferiscono il cricket! 16 INTERVISTA 7 -Dimmi qualcosa di te. Mi chiamo Abdullah. Vengo dall' Afghanistan, dove lavoravo, con mio fratello, come traduttore per le forze armate statunitensi. Ho dovuto lasciare il mio Paese per le continue minacce di morte ricevute da parte dei talebani e lasciare là la mia famiglia. Mio fratello non ha voluto smettere di lavorare per gli americani e i talebani lo hanno ucciso. - Dove sei andato? Dopo un periodo nel deserto, sono arrivato in Siria e, successivamente, in Turchia, dove ho lavorato per qualche mese. Dopo di che ho pagato 5000 dollari a dei trafficanti per andare in Grecia e da lì venire in Italia. - Mi puoi descrivere come si è svolto il viaggio? Sul barcone c'erano 30 persone, ma solo 25 salvagenti. Poco a largo delle coste turche, il barcone è affondato e 5 persone sono annegate. Siamo stati soccorsi dalla Marina Militare turca che ci mandò in Siria. -Successivamente cosa hai fatto? Sono ritornato in Turchia e da lì sono arrivato in Italia. -Vuoi rimanere in Italia? Sì, sto bene. Vorrei rifarmi una vita qui; trovarmi un lavoro, una casa e riuscire a far venire la mia famiglia che ho lasciato in Afghanistan. 17 STORIE Storie di giovani immigranti raccolte al C.A.R.A. Testi scritti durante la visita al centro da alcuni ospiti e tradotti. 18 19 Traduzione: Rammatullah, Afghanistan Ho ventinove anni e sono afgano. Provengo da Jalalabad, la quale è una regione di guerra in Afghanistan. Lavoravo come meccanico in un’officina e quando ho avuto dei problemi ho lasciato l’Afghanistan e sono venuto qui in Italia per vivere in uno stato pacifico e sicuro. 20 21 22 Traduzione: Ahmad, Afghanistan Il mio nome è Ahmad. Provengo dall’Afghanistan, dove studiavo e aiutavo la mia famiglia nei lavori di casa. Ho terminato gli studi superiori e, a causa di problemi che ho avuto più tardi, non ho più potuto continuare a studiare. Lo scopo del mio viaggio è di continuare a studiare e vivere una vita in pace e felice, in modo tale da aiutare altre persone che vivono in pericolo e non possono vivere come esseri umani. Molte persone arrivano in questo stato in modi veramente pericolosi. Alcune camminando per ore e ore, con l’auto, con la barca e molte di queste persone perdono la vita in questo modo perché non c’è né cibo, né acqua, né un riparo durante il viaggio. Il tempo più breve per raggiungere questo o un altro stato è circa cinque mesi, minimo. Ci sono anche persone che viaggiano più di un anno per arrivare in un stato sicuro per trovare una vita migliore. 23 24 25 Traduzione: Abdoulie, Gambia Prima di tutto colgo l’occasione per salutarvi e ringraziarvi per la visita che avete fatto al C.A.R.A. di Gradisca d’Isonzo. Siamo stati molto felici di ricevervi come ospiti e speriamo di accogliervi di nuovo. Io definisco il coraggio la qualità della mente o dello spirito che permette ad una persona di affrontare le difficoltà, il dolore, il pericolo senza paura. Penso che gli esseri umani non possono forzare o nulla può accadere a chiunque, senza la volontà di Dio e tutto ciò che perseguita l'uomo o è perseguito dall'uomo o è stato Dio a decidere che sarebbe stato così. Quindi quando stavo per intraprendere questo viaggio, ho pensato a tutti pericoli possibili che mi sarebbero potuti accadere e ai rischi che stavo per incontrare. All’improvviso mi venne in mente il pensiero che non potevo ritornare a casa a causa del grave rischio davanti a cui andavo incontro se avessi fatto così. Poi ho avuto coraggio, come se niente fosse possibile senza Dio e tutto ciò che ha detto così deve accadere che a me piaccia o no. Così l’ho scelto come mio salvatore e riposto tutta la mia fiducia in lui. Ho attraversato molti stati prima di arrivare in Italia, infatti ci ho messo molti mesi, sei. Gli stati che ho attraversato sono Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Libia e finalmente l’Italia. Le difficoltà che ho incontrato non possono essere sopravvalutate, per superarle grazie alla forza e la fatica. Il viaggio dal mio paese alla Libia è stato folle: ho dormito molti giorni sulla strada, lasciato i miei soldi e i miei effetti personali, ho affrontato la fame e la fortuna. Ma la vera 26 difficoltà l’ho incontrata nel percorso dal Niger alla Libia, dove sono stato sei giorni nel deserto. Qui non ci sono alberi, intendo niente che ti faccia sentire a tuo agio. Sfortunatamente il quinto giorno tutto il nostro cibo e tutta l’acqua erano finiti. Niente cibo, niente acqua, nessun’ombra e nemmeno un uccello che vola. Tristemente, inoltre, abbiamo perso cinque persone a bordo e li abbiamo lasciati nel deserto. Io stesso sono quasi morto per la mancanza di acqua e di cibo. L’unica cosa che abbiamo dovuto fare in modo tale da salvarci è stato nient’altro che bere la nostra urina altrimenti saremo morti. All’arrivo al primo controllo doganale della Libia, ci hanno obbligato a dare tutti i nostri soldi altrimenti ci avrebbero ucciso; dati i nostri soldi ci hanno punito e torturato severamente. Per terminare: non ho mai voluto lasciare il mio stato per un altro perché amo il mio paese. È dove vive mia madre e la mia famiglia, una famiglia veramente affettuosa. A causa di un grave pericolo che mi stava attendendo nel mio paese sono stato costretto all'esilio. So che troverò la pace da qualche parte, ma non sono sicuro dove. Dio mi ha portato qui, ma voglio stare con la mia famiglia nel mio paese. Grazie mille al governo italiano e ai suoi abitanti per aver liberato le nostre vite e provvede a un rifugio, vestiti e molto altro per noi. Grazie. 27 28 29 Traduzione: Emmanuel, Nigeria, 20 anni Sono Emmanuel, la ragione per la quale ho lasciato il mio paese è la morte di mio padre. È stato ucciso nello stato di Kaduna in Nigeria, invece noi e mia madre vivevamo nello stato di Edo, in Nigeria. Dopo le cose sono diventate molto difficili per noi e non potevamo più andare a scuola. Vivevo nel mio villaggio a Uroni, mio fratello andò a Benisi, ma un giorno ebbe un incidente e morì, mia madre aveva anche un problema di cuore e perì: io e mia sorella eravamo rimasti soli al mondo. Volevo vivere in Nigeria, ma in qualsiasi altro paese avrei potuto vivere una vita piacevole, così sono andato in Liberia, dove lavoravo in un lavaggio auto. L’uomo per cui stavo lavorando mi chiese se avevo un posto in cui andare e io risposi che non sapevo dove andare. Ero sulla strada aspettando qualsiasi persona che potesse aiutarmi e due uomini arrivarono e mi chiesero di andare con loro e lavorare per loro. Andai con loro lavorando come addetto alle pulizie. Dopo il giorno di lavoro mi chiesero di vivere con loro, e quella sera mi chiesero di dormire con loro, io dissi di no e loro mi puntarono alla testa una pistola. Io dissi che volevo il mio letto, e decisi di correre via da loro per salvarmi la vita. Un uomo venne verso di me e mi chiese dove stavo andando e risposi che non avevo nessun luogo dove andare. Lui mi disse di andare con lui e lo seguii a casa sua e mi diede un luogo dove dormire e cibo. Il secondo giorno mi chiese che tipo di lavoro facevo nel mio paese, gli dissi che ero un elettricista, 30 così lui mi disse che aveva un amico che poteva trovarmi un lavoro. Dissi che mi andava bene. Lui mi portò dal suo amico, scesi dall’auto e trovai persone che piangevano. Ci dissero di andare verso la riva e ci guidarono verso una barca. Così arrivai in Italia. Abdualgaden, Eritrea, 26 anni Ho parlato con Abdualgaden, ragazzo di ventisei anni proveniente dall’Eritrea, stato situato ad Est nell’Africa e confinante con il Sudan e con l’Etiopia e che mi ha raccontato le esperienze che ha dovuto affrontare nella sua vita. Appena nato è dovuto fuggire con la famiglia in Sudan per scappare dalle sanguinose guerre che colpivano il paese. Mi ha raccontato che quando aveva due anni il papà è sparito e lui non ne ha mai saputo il destino. Infatti aveva abbandonato lo Stato e ciò è considerato illegale, quindi era stato rapito per ritorsione dall’esercito governativo. Lui poi ha continuato a vivere da profugo nel Sudan con la madre e, dopo aver frequentato le scuole, ha svolto numerosi lavori tra i quali il falegname ed il muratore. Sentendosi in pericolo poiché anche lui correva il rischio di essere rapito dal governo eritreo in quanto fuoriuscito illegalmente dallo Stato, e poiché anche in Sudan la situazione andava progressivamente degenerando a causa della guerra 31 civile tra etnie, un giorno ha deciso di tentare la fuga verso l’Italia. Ha affermato di essersi affidato a trafficanti che lo hanno portato in pochi giorni in Tunisia. Da qui con un gommone è arrivato a Lampedusa da dove pochi giorni dopo è stato trasferito a Gradisca d’Isonzo. Mi ha raccontato di essere ospite del Cara ormai da cinque mesi e di essere attualmente impegnato a frequentare un corso per apprendere la lingua italiana. Ha confessato di trovarsi bene nel nostro paese e che spera di rimanerci a lungo, di trovare un lavoro e di formarsi una famiglia. 32 ALTRE STORIE DI IMMIGRATI Tarik, Tunisia,27 anni In Tunisia per trovare un'occupazione bisogna avere degli agganci ed io non ne avevo; quando si perdono le speranze nel proprio paese, si incomincia a guardare altrove, dove c'è il benessere. L'Italia o la Francia erano le uniche destinazioni alla nostra portata: prezzo e distanza non erano eccessivi. Allo scoppio delle rivolte in Tunisia, l'attenzione delle autorità pubbliche era tutta volta alla sicurezza dello Stato e in particolare a quella del presidente Ben Ali, e alla frontiera tunisina-libica. Pensai tra me e me: "Quale momento migliore per tentare il viaggio che cambierà la mia vita?". Ci siamo fatti un'idea dell'Italia tramite racconti di amici che vivono già là. Ma per poter emigrare non bastano i soldi e il coraggio di attraversare il mare su una scialuppa ma anche e soprattutto la conoscenza di uno scafista affidabile. Fortunatamente mio zio era a conoscenza di quasi tutti gli scafisti della zona, ma purtroppo non aveva nessuna intenzione di accompagnarci anche se, in realtà, dopo una breve insistenza e l'augurio di nostro padre ci portò da uno di loro. Dopo una contrattazione di un paio d'ore siamo riusciti a farci stabilire una tariffa di settecentocinquanta euro. L'indomani ricevemmo una telefonata da parte dello scafista che ci diede un indirizzo a cui avremmo trovato alcuni suoi amici fidati che, a loro volta, ci avrebbero accompagnato all'imbarcazione. Il peschereccio con cui ho intrapreso il viaggio aveva a bordo 260 profughi ma era 33 abbastanza grande e i motori erano potenti, infatti non abbiamo riscontrato problemi ad attraversare il mare. Il nostro viaggio ebbe la durata di 14 ore con partenza alle 02:00 di notte e arrivo alle 16:00 del giorno successivo a Lampedusa. Durante la traversata consumavamo pane, datteri, latte e acqua, il necessario per sopravvivere. Faiza e Mewhi , Pakistan Siamo due sorelle di nome Faiza e Mewhi, i nostri genitori sono emigrati dal Pakistan diciassette anni fa. Nel 1981, infatti nostro padre, che lavorava su una petroliera è sbarcato in Italia, pronto per partire per la Grecia. Mentre si trovava alla stazione Termini per prendere il treno diretto a Livorno, è stato derubato di tutto ciò che possedeva. All’improvviso si è trovato solo, in una città straniera, senza soldi e senza documenti. Per fortuna non si è perso d’animo ed è riuscito a raggiungere suo fratello che abita ad Orvieto. Ha vissuto con lui e la sua famiglia, tutti residenti in Italia dal 1979. Dopo poche ricerche, ha trovato un impiego presso una ricca famiglia. Si è trasferito in un appartamento del loro palazzo e ha cominciato a guadagnare i primi stipendi. Appena ha avuto abbastanza soldi, è tornato in Pakistan a prendere nostra madre. Dopo aver salutato tutti gli amici e i parenti, sono arrivati in Italia pronti ad affrontare insieme una nuova vita. Nel 1984 sono nata io, Faiza, la sorella maggiore, e mia madre ha cominciato ad avere molto da fare, e sempre di più ne ha avuto con la nascita di Mewhi. In generale la nostra è una famiglia unita e per fortuna siamo riusciti ad inserirci in questo paese senza tante difficoltà. Non 34 abbiamo mai incontrato atteggiamenti di rifiuto e di discriminazione nei nostri confronti, a parte qualche raro episodio in cui i nostri compagni di scuola si sono divertiti a prenderci in giro a causa del colore della nostra pelle. Quello che alcuni italiani pensano degli stranieri lo sappiamo bene, siamo tutte persone disoneste, che rubano lavoro agli italiani o che commettono reati se non hanno voglia di lavorare. Ma sappiamo anche che non è così, c’è chi emigra in buona fede, pronto a lavorare e a guadagnarsi da vivere onestamente. Conosciamo molti pakistani che come noi vivono in Italia e con i quali ci incontriamo spesso, fra di loro c’è chi fa il commerciante, chi il portiere, chi l’impiegato e cosi via. Anche se i nostri genitori si sono trovati bene in Italia hanno mantenuto contatti con il Pakistan, abbiamo fatto vari viaggi insieme durante i quali abbiamo conosciuto i nostri parenti e i luoghi in cui vivono. Abbiamo capito che il Pakistan è un paese povero, con abitudini di vita diverse e antiquate, le donne sono sottomesse al volere degli uomini, devono imparare i lavori domestici, più importanti dell’istruzione, devono portare vestiti che lasciano scoperto solo il viso e soprattutto devono assecondare le decisioni del marito. Di fronte a questa realtà ci siamo sentite fortunate a nascere in Italia dove nessuno ha negato i nostri diritti e la nostra libertà. Non pensiamo di tornare in Pakistan e cercheremo, appena sarà il momento, di trovare un lavoro, e costruirci una famiglia qui in Italia. 35 Humer, Bangladesh Non tutti hanno gli stessi motivi per emigrare, ma una persona decide di lasciare il proprio paese quando veramente ha qualcosa che causa gravi problemi, il motivo può essere politico, di lavoro o per vivere meglio in paesi che offrono maggiori possibilità di studio, di cure mediche, ecc... Tutti gli emigranti pensano di trascorrere la vita più serenamente che nel passato, nessuno però ha il piacere di trovarsi in un paese straniero, perché cambiare le proprie usanze, le tradizioni, gli amici mi sembra una delle cose più “soffocanti” che esistano, e anch’io ho avuto questa sensazione, mi sembrava di stare nel buio. Papà aveva deciso di lasciare il Bangladesh, anche se si stava molto bene economicamente in quel periodo, e assicurava a noi figli un futuro più tranquillo. Io avevo 5 anni e non mi ricordo bene, ma mi sembra che non avevo proprio capito che ci stava lasciando: però, dopo, sentendo la sua voce per telefono capivo che ci mancava; non solo io, ma tutte le persone che hanno un familiare all’estero ne sentono la mancanza, è come una mutilazione. Papà era stato un paio di anni in Germania, dopo si trasferì in Italia dove pensò di far venire mamma per qualche tempo, mamma non era d’accordo per niente, perché non voleva stare lontana dai figli e così dopo qualche tempo papà decise di far venire anche noi quattro bambini .Io non capivo ancora cosa si intendeva per cambiamento di paese; avevo solo nove anni e credevo che tutto il mondo fosse uguale e che quel villaggio fosse come quando andavamo a trovare nonna. Il giorno in cui dovevamo partire fu molto faticoso ,eravamo tutti occupati a fare qualcosa ed i parenti stavano intorno a noi come se li dovessimo lasciare per sempre, era la prima volta 36 che eravamo così uniti. Non immaginavamo proprio di essere in Italia il giorno seguente, ma era vero, stavo sull’aereo quando capii che ormai non potevo più ritornare e andavo in un paese che non sapevo neanche dove si trovava. Arrivato in Italia, mi trovai in un mondo tutto diverso dal mio, la verità è che mi sembrava di essere nato allora e di dover apprendere tutto come un neonato che non sa niente del mondo che vede per la prima volta. Non capivo gli altri quando parlavano, non riuscivo a farmi capire dagli altri bambini, dovevo vestire in modo diverso sia per il clima sia per sembrare “uguale”, avevamo cambiato il modo di mangiare, perché il nostro cibo non si trovava, avevamo difficoltà a rispettare le nostre ricorrenze religiose perché non erano le stesse degli italiani. Con cultura, lingua, religione diverse sicuramente si incontrano difficoltà, solo che qualcuno riesce a superarle facilmente, invece qualcuno no. A questo proposito mi viene subito da pensare a tutte quelle persone straniere in Italia che non hanno con loro la propria famiglia e a quanto faticano per trovare un lavoro, e non tutti sono fortunati, ognuno non vede l’ora di tornare nel proprio paese. Forse è falso, però devo dire che è molto difficile, all’età mia (oggi ho 17 anni),avere amici tra i coetanei perché dopo otto anni non ho ancora capito il modo di pensare degli italiani. Certo ognuno di noi è “diverso”, ma siamo anche tutti “uguali”. Spesso sento dire così, però non si riesce a trovare l’uguaglianza tra uomini. 37 I NOSTRI COMMENTI L’anno appena trascorso, penso che ci abbia aiutato molto, a crescere e a pensare, senza seguire l’opinione comune. Il tutto è iniziato come un compito da svolgere, almeno dal mio punto di vista, poi è diventato un piacere informarsi e approfondire le nostre conoscenze. All’inizio è stato strano ma anche interessante avere un vero contatto con queste persone, conoscerle, discuterci, parlarci: è stato utile per togliere dei pregiudizi, innati o meno, che tutti noi italiani abbiamo nei loro confronti. Per noi, che abitiamo in un contesto piccolo, è strano vedere persone di nazionalità diversa per la strada e nei negozi: siamo nati e cresciuti in un contesto monoculturale, in paesi e città dove tutti conoscono tutti: è stato difficile i primi tempi, perché i pregiudizi si erano venuti a creare immediatamente. Proprio per questo è stato interessante e utile per noi che ora stiamo cercando di abbattere questi muri che si alzano di giorno in giorno nella nostra comunità. Gattina Chiacchierona 38 L’esperienza vissuta al C.A.R.A. mi ha reso possibile comprendere i problemi che affrontano quotidianamente gli ospiti del centro di accoglienza, ma anche quelli in cui vivono gli abitanti del nostro territorio. Tuttora sono convinto che la nostra cittadina non sia pronta a vivere in un contesto internazionale sia per questioni economiche sia per la caratteristica mentalità italiana: non tutti sono pronti psicologicamente a vivere in un contesto pluriculturale, poiché la maggior parte di noi ha sempre vissuto in un cittadina o paese piccolo, in cui tutte le persone si conoscono e sono nate e cresciute assieme. Penso che comunque sia stato interessante come esperienza personale, poiché alcuni pregiudizi che avevo nei confronti degli ospiti del C.A.R.A. sono stati attenuati dalla conoscenza degli stessi. Criceto Giocherellone L'esperienza al C.A.R.A è stata per me molto importante. Infatti, parlando con gli ospiti del centro di accoglienza, ho capito le difficoltà che hanno vissuto e che vivono tuttora, oltre ad aver compreso meglio le loro culture. Inoltre mi ha permesso di capire che la comunità, oggi giorno, non è ancora pronta ad accogliere gli ospiti del centro di accoglienza e a vivere questo contesto internazionale, sia dal lato economico sia culturale. Infatti ho capito quanto i pregiudizi e i limiti della comunità, del tutto infondati, in particolare quelle piccole, dove tutti, bene o male, si conoscono, impediscono l' integrazione. Infine questa visita mi ha permesso di capire i miei pregiudizi e ad attenuarli. Gufo Maestro 39 Credo che l' esperienza maturata quest'anno non sia servita solo ad un arricchimento culturale personale ma a dare un contributo anche alla comunità di Gradisca. Il gesto, di aver conosciuto in prima persona gli ospiti del C.A.R.A, è stato più forte delle tante manifestazioni di carattere politicopropagandistico che hanno occupato le pagine dei media nei mesi passati. Con l'azione di oltrepassare il muro della ex caserma che attualmente accoglie il C.A.R.A, abbiamo oltrepassato anche il muro del pregiudizio e della diffidenza nei confronti dello straniero. Il nostro contributo è questo piccolo libro, che spero sia d' aiuto per chi lo legge, per comprendere che dietro a queste storie ci sono uomini come noi, che desiderano vivere una vita tranquilla lontano da guerre, violenze e discriminazioni. Sicuramente il nostro libro non servirà a vincere definitivamente il razzismo o ad abbattere il muro fisico ed ideologico del C.A.R.A ma a mio modesto parere è più utile di retoriche scritte sui muri. Stregatto Golosone L’esperienza di quest’anno mi ha aiutata molto nell’eliminare i numerosi pregiudizi che purtroppo dilagano nell’intera Italia. Gli immigrati sono visti come una realtà a parte e distante da noi, ma non ci rendiamo conto invece di quanto sia vicina e concreta. Ho potuto conoscere le storie di queste persone, leggerle e capire che situazioni difficili abbiano vissuto. Ho imparato una nuova forma di coraggio, che è quello di farsi ultimi. Il coraggio infatti non è solo quello di affrontare di petto una paura, ma è anche quello di capire e imparare a conoscere chi consideriamo troppo diverso da noi. Leoncino Teatrale 40 Questa esperienza al Cara che abbiamo affrontato quest'anno mi ha permesso di conoscere più da vicino questi ragazzi che hanno deciso di venire in Italia per fuggire da condizioni di vita molto difficili che hanno vissuto nel loro paese di origine. Incontrare gente proveniente da mondi e culture diverse non è mai facile perché vivendo in un contesto piccolo come il nostro esistono molti pregiudizi nei loro confronti. Inizialmente dopo avere superato un po' di titubanza mi sono reso conto che la conoscenza più approfondita di questi ragazzi mi ha aiutato a capire realtà che non conoscevo. Infatti anche se per la nostra cittadina potrebbe essere difficile integrare ed accogliere queste persone credo che con una maggior conoscenza reciproca il percorso potrebbe essere facilitato. Lemure Premuroso Credo che questa strada di coraggio rispecchi pienamente la situazione della nostra cittadina che si ritrova a convivere con una realtà che inizialmente può far paura o mettere a disagio. Ogni volta che viene nominata la struttura del C.A.R.A., infatti, si aprono infinite discussioni sul pro o sul contro. Tuttavia il lavoro del nostro libro e le storie di coraggio raccolte spiegano come persone di cui molte volte si diffida o si gira alla larga hanno il diritto di essere ascoltate e rispettate proprio perché persone in quanto tali. Suricata Chiacchierona 41 Ammetto di essere stato scettico quando, all'inizio dell'anno, abbiamo deciso di intraprendere questa “azione di coraggio”. Non riuscivo a vedere uno scopo, un'utilità per questo gesto. Col passare dei mesi tuttavia, la nostra azione di coraggio è cresciuta, e con essa anche le nostre idee. La prima serata al C.A.R.A., abbiamo presentato il nostro progetto di coraggio e ripreso le immagini per presentare la nostra azione alle altre comunità scout. La seconda volta abbiamo raccolto le storie degli ospiti, e seppure non abbia potuto essere presente in questa occasione, ho iniziato a capire il senso di questo cammino: far conoscere i racconti, le esperienze, di persone che vivono nel nostro stesso paese, persone che spesso evitiamo o facciamo finta di non vedere anche se partecipano alla vita comunitaria. Questa esperienza mi ha fatto conoscere più a fondo una situazione, che secondo me, anche gli abitanti di Gradisca conoscono poco. Spero che con la pubblicazione e la diffusione di questo libretto riusciremo a rendere un po' più partecipe e consapevole la comunità di Gradisca di questa situazione, a noi così tanto vicina eppure così lontana. Mosquito Digitale 42 E' strano, nella società odierna nella quale prevalgono certi pregiudizi, entrare in “contatto” con delle persone culturalmente diverse da noi. Ma, grazie al tema della route nazionale, abbiamo avuta la possibilità di entrare al C.A.R.A e poter parlare tranquillamente con i suoi ospiti. Tramite questi incontri ho potuto scoprire, i veri motivi per cui tutte quelle persone hanno lasciato le loro case per venire fino a qui; e comprendere anche tutto quello che hanno affrontato e stanno tuttora affrontando. Grazie a tutto ciò sono riuscita ad eliminare quegli aspetti negativi che, anche non volendo, sono entrati a far parte del mio pensiero. Del resto, come diceva Martin Luther King, “Se riusciremo a vivere la non violenza, nelle azioni e nel pensiero, sorgerà una società interrazziale fondata sulla libertà di tutti”. Spero che questo libricino possa, anche se in minima parte, cambiare il modo di pensare delle persone in modo tale da poter convivere tutti più serenamente anche nel nostro piccolo. Capretta Russa & Volpe Laboriosa Essere a Gradisca e non scegliere come capitolo la strada "del coraggio di farsi ultimi" era pressoché impossibile. Nella nostra cittadina è collocata una struttura chiamata CIE-C.A.R.A., destinata a ospitare gli immigrati, sia richiedenti asilo, che clandestini in attesa di rimpatrio. La struttura del CIE alla fine 43 di ottobre dell'anno scorso, è stata momentaneamente chiusa per impraticabilità, dopo l'incendio che gli ospiti hanno appiccato per protesta. Rimane aperta invece la sezione per l’accoglienza degli immigrati richiedenti asilo, che sono arrivati in Italia in maniera rocambolesca, fuggendo da guerre o per motivi politici, e che possono dimostrare validi motivi per una richiesta di asilo. Le storie che abbiamo raccolto esprimono il tema della nostra Route nazionale: "il coraggio". Il coraggio di lasciare il proprio paese di origine, per cercare senza nessuna certezza un futuro migliore e una vita dignitosa in un altro paese. Dopo avere ottenuto i permessi previsti dalla legge dalla Prefettura di Gorizia, siamo entrati come clan in questa struttura. Il primo incontro è stato soprattutto un momento di di conoscenza con gli ospiti; abbiamo presentato loro la nostra associazione, creando in loro un certo interesse. Successivamente, abbiamo ascoltato e raccolto le loro storie, lasciando a ciascuno una cartellina con dei fogli dove potevano scrivere liberamente la loro storia e i motivi per i quali avevano dovuto abbandonare il loro paese. L'effetto non è stato dei migliori, chiaramente gli ospiti non sono contenti di ricordare i momenti dolorosi che hanno passato, allora siamo passati ad una specie di intervista che ha ottenuto risultati migliori. Tutte le storie e le interviste raccolte sono confluite poi in questo libretto. Dopo questa esperienza, alla luce anche del mio impegno lavorativo nell’ambito della struttura del C.A.R.A., come capo scout e come cristiano devo affermare che l'uomo è stato creato da Dio che gli ha dato una terra senza confini, dove vivere in pace ed in comunione con tutti. L'uomo ha creato i confini, le 44 barriere territoriali, con una lingua che li distingue, con una religione diversa anche se tante volte il Dio è lo stesso. In conclusione io credo in un uomo che deve vivere libero, con il dovere di rispettare l’altro uomo. Orsetto Giocherellone Lo straniero, l’immigrato: ogni giorno ne sentiamo parlare, vediamo approdare alle nostre coste barconi stracarichi di donne e uomini che fuggono dai loro paesi e arrivano alle porte delle nostre città. Il nostro rapporto con loro, con questi uomini e donne, è diventato ineludibile; le migrazioni sono divenute ormai un fenomeno strutturale della nostra società e il dibattito politico e sociale non possono trascurarlo, né ignorarlo. Anche noi come cristiani, esperti in umanità, sappiamo di essere anche esperti in “stranierità” e in accoglienza, perché durante la nostra storia ci siamo per lungo tempo chiamati e sentiti “stranieri”, abbiamo avuto sempre al centro l’etica dell’accoglienza dello straniero, del pellegrino, del viandante secondo quanto ci è stato insegnato da Gesù: “Ero straniero e mi avete ospitato” (Mt 25,35). Dolci e dure queste parole di Gesù, dolci per il sentimento di accoglienza e comprensione che sanno suscitare, dure per coloro i quali questa ospitalità la vorrebbero evitare… Certo, il valutare i fenomeni sociali e trovare le soluzioni più giuste è compito della politica; il nostro compito come cristiani, ma prima ancora come uomini, è quello di osservare, 45 di valutare e se necessario saper aprire la mano al fratello in difficoltà. Il merito principale di questo lavoro consiste proprio in questo; nell’avere osservato, nell’aver ascoltato, nell’aver stretto delle mani, nell’aver oltrepassato quella soglia del C.A.R.A. che non è solo una frontiera della legalità ma ancora di più una barriera “umana”: il diaframma della diversità. Ascoltare le storie di guerra e di miseria dei rifugiati al C.A.R.A., guardare le loro ferite, fissare lo sguardo nei loro occhi e dare loro la mano, significa restituire loro la dignità umana che tanti avevano perduto lungo la traversata del Mediterraneo. Non si tratta di trovare facili soluzioni a problemi che sono “più grandi di noi”; quanto piuttosto di contribuire a stabilire dei ponti, delle relazioni, dei rapporti umani. Questo sì dipende da noi… Quando comprendiamo che dietro a ogni immigrato c’è una storia, un nome, una vita, degli occhi e delle mani, allora potremmo decidere in modo più consapevole, offrendo il nostro contributo di “umanità” anche a livello politico, sociale, culturale, ecc. La storia del popolo d’Israele è, in definitiva, la storia di un grande esodo nel quale il popolo si è trovato sempre “straniero” fra altri popoli; e Gesù Bambino è stato egli stesso “straniero” e rifugiato in Egitto (Mt 2,13). Sappiamo anche che, quando chiederemo al Signore: “Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto?”; Lui ci risponderà: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40) e guardando Lui, vedremo tanti altri sguardi, tanti quanti gli occhi che abbiamo incrociato… AE Giulio 46 47 www.gradisca1.it 48 Ecco, io sto alla porta e busso, se qualcuno ode la mia voce ed apre la porta, io entrerò da lui, e cenerò con lui ed egli con me". Ap 3,20 49