Mariano Fresta Le tradizioni orali cantate della Toscana meridionale Affrontando il problema del canto popolare in Italia, Roberto Leydi fa notare che nelle province centrali, e soprattutto in Toscana, «sono riconoscibili alcuni tratti abbastanza caratteristici e relativamente costanti, in concomitanza con altri che paiono sbordare dalle aree contermini, soprattutto da quella settentrionale». Per quanto riguarda l'impianto musicale, l'etnomusicologo aggiunge che quello dell'Italia centrale «è di tipo prettamente melodico e assai forte è la disposizione, fino al virtuosismo, alla decorazione e allo sviluppo melismatico. Il tipo dominante di esecuzione è solistico…con sul [versante] tirrenico la presenza (Monte Amiata) di una polivocalità a imitazione strumentale (bei) … La emissione vocale è abbastanza varia e passa gradatamente da modelli settentrionali a modelli meridionali. Le strutture ritmiche sono sia rigide che libere, il metro dominante è l'endecasillabo. Per quanto riguarda il repertorio testuale il fondo è decisamente "lirico" (… strambotto e stornello), ma non inconsistente è il materiale narrativo, sia di tipo ballata, sia di tipo "storia", in endecasillabi»1. La lunga citazione di Leydi, da cui sono state omesse le parti non riguardanti direttamente la Toscana, ci serve per esaminare meglio la situazione dei canti tradizionali della Val d'Orcia. L'esperienza di alcuni anni di ricerca sul campo conferma quanto affermato da Leydi a proposito della presenza sia di elementi contenutistici settentrionali e contemporaneamente di modelli meridionali di emissione di voce, sia delle caratteristiche melismatiche e solistiche del canto, sia, infine, dell'ampia diffusione di canti narrativi di tipo "storia", provenienti dai repertori dei cantastorie. Mentre per i canti narrativi in endecasillabi si può parlare di una presenza diffusa in tutta la Val d'Orcia, gli altri generi di canto tradizionale sono presenti quasi esclusivamente nell'area delle colline che sovrasta ad ovest la vallata e che è contigua con le zone montane dell'Amiata. La presenza di villaggi, come San Quirico e Castiglione d'Orcia - dove risiedevano stabilmente piccoli proprietari e mezzaioli, cioè piccolissimi proprietari che lavoravano a regime mezzadrile anche i poderi di altri - ha determinato situazioni di vita collettiva in cui potevano attecchire sia il canto a gara degli stornelli, sia l'esecuzione corale di certi canti di origine settentrionale o militaresca. Del tutto assente, da quanto risulta dalle ricerche degli ultimi trent'anni, è lo strambotto, il canto lirico e solistico per eccellenza della Toscana. Lo stornello presente in Val d'Orcia è leggermente diverso nella struttura rispetto a quello più conosciuto dell'area fiorentina; quest'ultimo è costituito da un quinario più due endecasillabi, il primo dei quali ripetuto due volte; quello della Val d'Orcia ha invece quattro endecasillabi, con generalmente la ripetizione del secondo, così come quello dell'area grossetana, dalla quale può essere arrivato attraverso le migrazioni di pastori e mietitori che stagionalmente si recavano a lavorare in Maremma. Gli stornelli possono essere «a dispetto», come il seguente che è tra l'altro diffuso in tutta la Toscana: Ho fatto testamento nella stalla e a testimonio c'era la cavalla, e a testimonio c'era la cavalla: ti sposo solo se la bestia balla! 1 Leydi R., Il canto popolare, in Storia d'Italia, vol. V I Documenti, Torino, Einaudi 1973; in particolare p. 1211 e sgg.. Ci sono poi quelli a tema spiccatamente amoroso, come il seguente: Ho fatto un altarino in fondo al cuore al posto delle cose mie più care, al posto delle cose mie più care: mi chiameranno donna dell'amore. Altri invece rimandano al genere della satira; in quello successivo, per esempio, i primi tre versi sembrano riproporre il solito tema amoroso, ma l'ultimo, con il frizzo finale, sorprende l'uditorio, provocando la risata generale: E dindirindindin c'era il postino e il sangue me lo fece un ruzzolone! Credevo fosse la posta del mio morino e invece era il rincaro della pigione.2 Il motivo musicale di base dello stornello, su cui ogni cantore sviluppa, a seconda delle capacità personali, variazioni melismatiche, è il seguente: Molto conosciuti ed apprezzati nell'area collinare sono tutti quei canti che permettono un'esecuzione corale; si tratta di un repertorio eterogeneo che va dalle canzoni epico-narrative come la famosissima La pastora e il lupo, a quelle prodotte dai cantastorie, a quelle di origine militaresca, o a quelle da osteria caratterizzate da allusioni sessuali più o meno velate, come le seguenti: a) Solo Coro 2 Uccellino, mio bell'uccellin, uccellino mio bell'uccellin, se vuoi venire si va in gabbiola, Il terzo verso è fuori misura, cosa che può succedere quando si improvvisa o quando non si ricordano bene i versi; tutti e tre gli stornelli sono stati ripresi da una registrazione dal vivo a Castiglione d'Orcia, per la quale si rimanda al disco FONIT CETRA, Toscana 1, Grosseto Siena, collana «I Suoni», a cura di D. Carpitella. zumpalarillalera, zumpalarillalà. In gabbiola io ci verrò, in gabbiola io ci verrò purché la gabbia la sia nova zumpalarillalera, zumpalarillalà. Se unn' è nova la famo innovà Se unn'è nova la famo innovà, prima di dentro e poi di fora, zumpalarillalera, zumpalarillalà. b) Il ventinove giugno quando si matura il grano- trullalà è nata una bambina con una rosa in mano Non era paesana e nemmeno cittadina: - trullalà è nata in quel boschetto vicino alla marina. Vicino alla marina dov'è più bello stare,- trullalà si vedon bastimenti a galleggiar sul mare. A galleggiar sul mare e ci vole le barchette - trullalà; a far l'amor di sera ci vol le ragazzette. Le ragazzette belle che l'amor non sanno fare - trullalà noi altri giovanotti glielo farem 'mparare. [2 volte] Glielo farem 'mparare, glielo farem sentire - trullalà la sera dopo cena quando si va a dormire. Qualche canto proviene dal repertorio dei minatori del Monte Amiata, ma è eseguito senza l'accompagnamento «a bei», tipico di alcune zone amiatine, che cerca di riprodurre vocalmente il suono degli strumenti di accompagnamento; uno di questi canti, conosciuto anche in altre aree della Toscana, è La Lisa del Santino, alla quale non piace "l'orologio" del marito perché ha il moto troppo piccolo, battere non lo sento. Lo voglio bello e grosso come la Filomena; e tutto filettato e d'oro la catena … ecc. ecc. Accanto ai brani corali, ci sono anche quelli da eseguire solisticamente; vediamo adesso, per restare ancora nell'atmosfera degli equivoci sessuali e della satira delle donne, un brano comico ed allusivo: Era una sera di carnevale: conobbi un tipo originale che, ricamata sulla vestaglia, avea grande carta d'Italia: ed io, per mia curiosità, cercai in lei le diverse città… Ma le mie mani eran ricolme nel palpeggiar le sue belle forme… Ora son lieto di avere trovato anche il paese dove son nato! Nella famiglia mezzadrile, costituita da più nuclei e in cui spesso si raggiungevano le venti unità, i canti tradizionali erano però quelli in cui si raccontavano "storie" tratte dalla leggenda, dalla cronaca nera o dalla biografia di certi briganti che avevano con le loro gesta accesa la fantasia popolare3. Generalmente si trattava di composizioni dovute a cantastorie ed imparate a memoria frequentando fiere e mercati; l'esecuzione era affidata ad una sola persona che intratteneva, durante le lunghe sere invernali, tutta la famiglia e coloro che erano venuti "a veglia". Lo schema metrico che in Toscana è stato usato per queste lunghe narrazioni è la stanza costituita da otto versi endecasillabi con rima ABABABCC. Si tratta dell'antico schema dei cantari medievali, ripreso successivamente per la poesia epica anche da autori illustri delle letteratura italiana come il Boccaccio, l'Ariosto e il Tasso, oltre che da una miriade di verseggiatori più o meno popolari. Tra le storie più famose in tutta la Toscana, e quindi anche nella zona di cui ci stiamo occupando, è quella di Pia dei Tolomei. I sette enigmatici versi che Dante dedica, alla fine del V canto del Purgatorio, ad un fatto di cronaca nera della Siena del 3 Sui banditi delle società rurali, visti come eroi e vendicatori delle ingiustizie sociali, si veda Eric J. Hobsbawm, Bandits, Weidenfeld and Nicolson, London 1969; trad. in Italiano, I banditi, Torino, Einaudi 1971. XIII secolo, furono nei secoli successivi la base di una leggenda che ebbe particolare successo anche presso le popolazioni contadine. Specialmente tra la fine del '700 e gli inizi dell'800 la leggenda ebbe una diffusione notevole; di essa si impadronirono poeti e verseggiatori, librettisti d'opera e cantastorie, fino a quando un cantastorie dalle modestissime capacità versificatorie, tale Giuseppe Moroni, detto il Nìccheri, ne fece una sintesi in una cinquantina di ottave 4. Nonostante le oscurità di senso, la rozza psicologia dei personaggi e il lessico non sempre appropriato (il Niccheri, ad esempio, usa criniera al posto di chioma), il poemetto ha acquistato fama presso le classi popolari, specie contadine. Nella zona da noi presa in esame la storia della Pia è notissima e molti anziani sanno cantarne almeno qualche ottava. Si tratta di una storia di amore e gelosia, come nella vicenda più famosa di Otello; anche qui ci sono tre personaggi: Nello, il marito che va alla guerra, Pia, la moglie che viene inutilmente corteggiata da Ghino, e quest'ultimo amico del marito e traditore, il quale, per vendicarsi del rifiuto che Pia gli oppone, la calunnia, accusandola di adulterio. Pia viene relegata in un castello solitario della Maremma, dove muore di stenti e di dolore. Per dare un'idea di come procede la versificazione del Moroni e del tono della narrazione, si riportano qui tre strofe, la prima, che introduce il presunto quadro storico, e le ultime due, col funerale della Pia e il pentimento di Nello: Negli anni che de' Guelfi e Ghibellini Repubbliche a que' tempi costumava, batteano i Cortonesi e gli Aretini, specie d'ogni partito guerreggiava: i Pisani battean coi Fiorentini, Siena con le Maremme contrastava; e Chiusi combattea contro Volterra … non vi era posto che 'un facesse guerra. …………………………………………… Nello riparte con il genitore a gran carriera, come fosse gara. Si avvicinano là, dov'è l'albore: di lumi contornata vede una bara… Disse Nello: «Fermate, per favore, che dentro qua c'è la mia gioia cara!» Alza la coltre alla bara per via, e vede morta la innocente Pia. Allor l'abbraccia e dice: « Moglie mia, chi sa quanto fu lungo il tuo dolore! L'anima tua alla sant'ara sia in braccio dell'Eterno Creatore». Poi quella si ricuopre e vanno via … Nello si sviene e piange il genitore. Termino il canto e chiudo i versi miei della dolente Pia de' Tolomei. Lo schema dell'ottava sta anche alla base del contrasto, uno dei generi più popolari e più amati, anche perché in certe zone della Toscana si trovano i cosiddetti "poeti a braccio" capaci di 4 Si veda M. Fresta, Tradizione scritta, rielaborazione e trasmissione orale nei testi del teatro popolare, in Vecchie segate ed alberi di maggio, a cura di M. Fresta, Montepulciano 1983, pp. 177-78. improvvisare su temi suggeriti dagli astanti. Il contrasto si chiama così perché presuppone due antagonisti, due personaggi o due entità elementari (contadino vs padrone; ricco vs povero; rosa vs viola; nuora vs suocera; Usa vs URSS, ecc.), che affrontano, improvvisando, una tenzone poetica, assumendo posizioni contrapposte. La difficoltà non sta solo nel saper dare la risposta al proponente, ma anche nel fatto che i due "contendenti" sono obbligati a riprendere nel primo, nel terzo e nel quinto verso la rima proposta dall'avversario nel distico finale dell'ottava precedente. Uno dei contrasti più famosi è quello tra Pasquino e il padrone, composto da un certo Giovanni Fantoni, di Ponte a Buriano (oggi in provincia di Arezzo) che, mentre girava, alla fine dell'Ottocento, per i mercati e le fiere per vendere le sue botti e le sue bigonce da lui stesso fabbricate, trovava anche il modo di comporre delle storie di briganti o dei contrasti, che stampati su fogli volanti erano venduti al pubblico di contadini5. In questo contrasto è possibile leggere, a dispetto delle stereotipie indotte dalla formalizzazione, molte informazioni sulle condizioni di vita dei mezzadri e sul rapporto tra il contadino e il proprietario della terra. Pasquino rappresenta il giovane mezzadro che rivendica per sé e per la propria famiglia un tenore di vita migliore e più libertà individuali, mentre il padrone difende ad oltranza i suoi interessi, ora suggerendo soluzioni inaccettabili (l'invito ad emigrare), ora minacciando il licenziamento. Ne riportiamo qui alcune ottave a titolo esemplificativo: Pasquino Mi bolle il sangue come una fornace, non so' come mio padre che ha paura: gli prende il grano e acconsentisce e tace e tutta l'uva quando l'è matura. E ben che il vino a me molto mi piace, non mi curo di un fiasco di strettura6: lei pensi al mangiare, io penso al bere e attendo le faccende del podere. Padrone Che bella forza, metterti a sedere; per sete vi è fonti fiumi e mare, mentre per fame le famiglie intere fori d'Italia vanno a lavorare. Te puoi partire e gli altri rimanere e regolatti di molto nel mangiare: solo una volta al giorno e acqua e pane, pe' spedire una somma a chi rimane. …………………………………………. Pasquino Ed io di fame non voglio morire: venderò vacche, bovi ed altri armenti; con quelle quattro o cinquemila lire mi caverò la ruggine dai denti. Sì che lo voglio il portafogli empire e di padroni, amici e di parenti, e così me la passo la paura: 5 Su Giovanni Fantoni si veda la ricerca di Gradassi, Lisi, Frosini, Rossi, Giovanni Fantoni, poeta popolare di Ponte Buriano, Amministrazione di Arezzo, 1981. 6 Il significato di questi due versi è il seguente: benché mi piaccia il vino buono, mi accontento anche del vino di "strettura", ottenuto cioè passando al torchio (strettoio) ciò che rimane della vinaccia dopo la svinatura. padrone arrivederci a battitura! Padrone Pasquino, tu farai triste figura! Senza di me non vender bestie in fiera: ti mando la disdetta in iscrittura, tu passerai da ladro e vai in galera. Pòrtati bene e un po' di vagliatura te la prometto in questa primavera; quando nel colmo sarai delle faccende io ti darò un quintale di molende7. ……………………………………… Pasquino Pensi, nel mondo siam tutti fratelli! Ama più l'animali che i cristiani: che fa di dieci gatti e quattro agnelli, otto cavalli e venticinque cani, tre gufi, sei civette e mille uccelli, dame, spie, scrocconi e mangiapani; tra ministri, ruffiani, cani e gatti tiene in cucina cento leccapiatti. Padrone Pasquino, bada ben come tu tratti! Prima dei cani moia i contadini, così non tengo tanti libri imbratti8 e vado a caccia e giro i miei confini. Non t'avvezzare a riguardarmi i fatti, mi fruttan piano costa ed appennini, benché peggio di te porti la vesta, degno sarei di una corona in testa. Pasquino e il padrone (trascrizione musicale)9 7 La vagliatura è ciò che si ottiene passando al vaglio il grano misto ad altri semi; le molende sono ciò che rimane dopo la vagliatura, cioè semi vari e molto amari. 8 Imbratti: imbrattati, sporchi d'inchiostro; sono i libri contabili dell'amministrazione dei poderi. 9 La melodia del contrasto è costituita da quattro frasi musicali che vengono ripetute due volte, essendo la stanza composta da quattro versi. La trascrizione è del tutto indicativa: ogni cantore vi apporta il suo stile personale, le sue caratteristiche vocali, la sua interpretazione della storia. La base musicale di questo contrasto è applicabile a tutte le strutture metriche formate da endecasillabi (quartine, sestine, ottave) e quindi anche alla storia della Pia dei Tolomei, e al successivo contrasto tra Suocera e nuora. Il contrasto finisce sempre con la pacificazione fra i due contendenti; anche tra Pasquino e il padrone alla fine c'è la pace, ma con un patto che a noi oggi appare umiliante: il padrone concederà ciò che Pasquino richiede, purché questi prenda in moglie l'Annina che dovrà servire padrone e marito. Ma questo finale ci appare più accettabile se pensiamo che è stato dettato sia dalla necessità richiesta dal contrasto di finire lo scontro in parità, sia da quello spirito satirico antifemminile di cui sono conditi molti canti popolari. Un altro contrasto, in cui la satira contro le donne è più manifesta, è quello tra Suocera e nuora, una composizione dello stesso Fantoni, che sfrutta tutti i tradizionali luoghi comuni relativi ai rapporti tra le due donne, la madre e la moglie del figlio. La satira è così pungente che lo stesso Fantoni, in un'altra sua composizione, confessa di essere stato burlato, per punizione, da alcune donne inferocite per le volgarità a loro attribuite nel contrasto. Anche di questa composizione, raccolta da un informatore di San Quirico d'Orcia, si citano qui di seguito alcune ottave: Suocera Nuora Era il contrasto di due donne brave: combatteva la suocera e la nuora; la vecchia, che non rode più le fave10, sta tanto bene a lingua e non si scora: «Tu credi ben che al porto sia la nave11: potresti schiantar te prima ch'io mora! Noi siamo due che si fa coppia e paio, se tu sei la lima io sarò l'acciaio!» «Io credo che ben colmo sia lo staio, con più di settant'anni nella groppa! Mettiti nel cantone, al cineraio, contenta di filare un po' di stoppa. Tu mi sembri un bastone da pollaio, tu sei tisica, sorda, gobba e zoppa, e quando avrai ceduto il mestolino l'altre parti l'aggiusterà il becchino». ……………………………………….. Narratore Allora chiappa quella vecchia ardita e gli fa fare il giro della rotella; quando tutte e due in terra furno ite gli si rovescia in capo la gonnella. E l'una e l'altra da quanto eran pulite io non so dir chi fosse la più bella; e il mio parlar qui or si conclude: che brutte bestie son le donne nude! Con quest'ottica satirica talora veniva presentato anche il matrimonio; c'è, infatti, una specie di riflessione in ottava rima, opera sempre di un cantastorie, in cui l'istituzione familiare viene giudicata con occhio addirittura misogino; di essa si riporta, per esemplificazione, una sola stanza, che presenta qualche verso non perfettamente a posto: Così l'omo che ha moglie va a finire: 10 11 E' una metafora che rimanda ad un'immagine oscena. "Tu credi che la mia vita sia giunta al termine". passa la vita sua tra pene e doglie; da quella vita a volte vuole uscire ma ha sempre gli occhi addosso della moglie. Così la vita sua va a finire e dell'uscita ne varca le soglie; e poi viene la sua triste sorte, ed a levallo lo viene la morte. Questi atteggiamenti satirici e "maschilisti", accettati senza recriminazioni apparenti anche dalle donne, e tutte le metafore eufemistiche relative al sesso femminile (boschetto, vigna, giardino, roseto, ecc.) non costituiscono i soli temi dei canti eseguibili coralmente e che rimandano ad occasioni festose e alla voglia di passare il poco tempo libero in allegria, perché il repertorio dei cantastorie, al quale si attingeva a piene mani, offriva molti racconti in versi di fatti di cronaca nera, riguardanti l'amore, la gelosia, i tradimenti. Si trattava, molto spesso, di vicende non necessariamente accadute nella realtà, in quanto la loro trama era infarcita di topoi che si ripetevano da una generazione all'altra dei cantastorie, ma erano credute vere12. Tuttavia queste storie, pur nella loro minima credibilità, sono veicolo di notizie riguardanti condizioni materiali di vita simili a quelle dei fruitori. E' il caso della storia di una ragazza, certamente di famiglia contadina, che, messasi ad amoreggiare con il suo "damo", si dimentica di levare il pane dal forno: …….. Il padre arriva ed apre il forno e vide il pane: sembrava carbone, e lui prese un forcone e sua figlia volerla 'nfilà. «Perdono, perdono, mio padre, Per una volta sarà mal di poco». Allora il padre ne prende più foco e con un colpo sua figlia gettò. Il delitto del padre ci sembra, oltre che efferato e snaturato, anche assurdo, ma altrettanto feroce doveva essere la miseria che non permetteva che nemmeno per una volta sola l'infornata del pane potesse andare perduta. Un'altra storia tragica e disperata è quella raccontata nella Canzone dell'Isabella, raccolta a San Quirico: Forte io ve la canto la canzone dell'Isabella: padre e madre e una sorella che per amore lei trucidò. Avea l'età di quindici anni e con Narciso facea all'amore, si sentiva strappare il cuore, 12 Sempre in Val d'Orcia ho ritrovato un foglio volante, a firma di un tale Giuseppe Bracali e stampato a Foligno nel 1948; nel recto era narrata in versi la tragedia della squadra di calcio del Torino, perita in un incidente aereo; nel verso c'era la storia del giovane soldato che, dopo la seconda guerra mondiale, tornando da un campo di prigionia tedesco, arriva a casa di notte. Il padre, scambiandolo per un ladro, lo uccide con una fucilata. Questa storia è anche il tema di un Maggio drammatico, un genere di teatro molto vivo ancora nella zona settentrionale della Toscana, risalente alla fine della prima guerra mondiale; ma il D'Ancona, nelle sue Origini del teatro italiano, l'aveva trovata in un Maggio più antico e, facendo opportune ricerche, in un libretto pubblicato nel 1732. ma i genitori dicean così: «Isa nostra, pensaci bene, tu sei troppo giovanina e Narciso è la tua rovina e guarda bene non ci pàrla più». E lei rispose: «Tanto lo voglio; madre mia e padre mio, voi non volete, lo voglio io e poi peggio per voi sarà!» «Ti si ripete, o cara figlia, non vogliamo, no di certo!» Ora lei se ne andiede a letto e sentite poi cosa fa. A mezzanotte lei va in cucina, quella figlia iniqua e fella, e si armò di una coltella: il proprio padre lei l'ammazzò. La madre grida: «O Dio del cielo!» Ma lei volle compì un macello ed a colpi di coltella la propria madre lei l'ammazzò. La sorella di dieci anni si svegliò e forte gridava, ed anch'essa la trucidava e poi via se ne fuggì. Rispetto alle donne rappresentate negli altri canti, la giovane Isabella appare come una novità straordinaria. Questa figura di giovane donna può essere variamente interpretata: essa, infatti, può simboleggiare la protesta e la contestazione della donna contro l'autoritarismo della famiglia patriarcale che la vuole sottomessa alla volontà dei genitori; ma poiché questa contestazione avviene solo mediante una strage, la vicenda può anche voler dire che la protesta di Isabella contro la famiglia equivale ad un atroce delitto, come quello di uccidere padre, madre e sorella: si tratta, dunque, di una difesa dello status quo. Oppure, più sottilmente, la canzone ci insegna che non ci possono essere emancipazione e liberazione senza profondi e dilaceranti sovvertimenti. In questo caso la Canzone dell'Isabella ci testimonia che oltre a saper presentare l'Amore nella sua forza più selvaggia e terribile, la cultura folklorica non è, come si può pensare e talora si dice, priva di complessità e sottigliezza. Bibliografia Carpitella D., Musica contadina nell'Aretino, Roma 1973 Fresta M., Spira aprile e maggio nasce, Grotte di Castro 1997 Leydi R., I canti popolari italiani, Milano 1973 Leydi R., La canzone popolare, in Storia d'Italia, vol. V/2, I caratteri originali, Torino, 1973 Priore D., Canti popolari della valle dell'Arno, Firenze 1978 (Tratto da M. Fresta (a cura di), La Val d’Orcia di Iris. Storia, vita e cultura dei mezzadri, Editrice Le Balze, Montepulciano 2003)