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Fabrizio
Migliorati
gennaio 26, 2014
Cœur de chien di Alexander Raskatov è il racconto visivo e
surreale del disastroso tentativo, nella Russia rivoluzionaria, di
umanizzare un povero cane. L’Opéra di Lione accoglie questa
commissione della Nederlandse Opera di Amsterdam, su
libretto del grande direttore artistico Cesare Mazzonis.
Un’opera spettacolare nella messa in scena di Simon McBurney e con la
direzione musicale di Martyn Brabbins.
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Mikhaïl Bulgakov scrive il racconto Cuore di cane nel 1925, ma la
temibile polizia segreta sovietica GPU mise immediatamente all’indice
questo testo, considerato come “controrivoluzionaro” e apertamente
critico nei confronti del proletariato ma, soprattutto, verso il potere
centrale che informava le coscienze dell’epoca. Pubblicato all’estero da
qualche studente emigrato nel 1968, il testo dovrà attendere il 1987 prima
di essere pubblicato in URSS. Cuore di cane è un testo straordinario,
crudo, estremamente critico verso la società e l’uomo stesso. Bulgakov
ebbe un’esistenza breve e sofferente, sia a livello fisico che lavorativo.
Amatissimo dal pubblico, lo scrittore dovette sottostare agli ordini di Stalin
stesso, sacrificandosi in impieghi che non risultavano certamente alla sua
altezza. Il successo mondiale dello scrittore è stato soprattutto postumo
(ricordiamo che Bulgakov muore nel 1940, a soli 48 anni) e la fama che lo
raggiunse troppo tardi fa di lui uno dei più grandi scrittori russi della prima
metà del Novecento.
Il 9 marzo 1953 si concludono le celebrazioni per la morte di Iosif
Vissarionovič Džugašvili, passato alla storia come Iosif Stalin. Lo stesso
giorno, sempre a Mosca, nasce Alexander Mikhailovich Raskatov. Nessun
simbolismo dietro a questa coincidenza, certo, ma una curiosa
sovrapposizione temporale che rende ancora più suggestiva la portata
poetica di questo grande compositore russo. Raskatov sceglie l’opera di
Bulgakov e fa tradurre in russo il libretto scritto da Cesare Mazzonis. Il
risultato è straordinario: la prima versione operistica di Cuore di cane. La
partizione della parte vocale richiama certamente il trillo monteverdiano,
ma anche il colorismo rossiniano, fino a spingersi verso un vocalismo
violentato, futurista. E la ricchezza dell’apparato vocale riecheggia anche
nella composizione musicale, dove Raskatov strizza l’occhio, in più di
un’occasione, al grande Shostakovich, ma in molti frangenti la musica si
spinge su versanti più sperimentali, vicini alla ricerca tonale di Karlheinz
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Stockhausen, al rumorismo futurista e alla contemporaneità più ricercata.
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La storia dell’opera è anch’essa un grande collage di riferimenti letterari e
non provenienti dalla cultura europea. Il chirurgo di fama internazionale
Filip Filippovitch Probrajenski (uno straordinario Sergei Leiferkus),
raccoglie per strada Charik, un povero cane le cui sembianze sono
direttamente tratte dall’opera plastica Il cane di Alberto Giacometti.
Questo animale viene mosso da quattro marionettisti che ingombrano la
scheletrica struttura canina al punto da farsi involucro silenzioso che
accompagna ogni suo movimento. Charik possiede due voci che ne
illustrano i pensieri: quella “sgradevole” (Elena Vassilieva),
eminentemente cagnesca, che graffia la scena con le paure e le sensazioni
più corporali, e quella “gradevole”, elegiaca (Andrew Watts) che entra con
grazia, sollevando il cane dall’animalità per collocarlo in un idilliaco mondo
di sogni e di desideri. Il cane viene accolto negli appartamenti del
professore, vivendo per settimane nell’abbondanza e nei piaceri culinari,
ignaro della vera motivazione che gli ha aperto queste porte. Il professor
Filippovitch, insieme all’assistente Bormenthal (Ville Rusanen), preparano
la povera bestia per un esperimento che farà avanzare la scienza:
innestare nel corpo del cane l’ipofisi e i testicoli di un uomo deceduto
qualche ora prima in una bagarre. L’operazione è lunga e complicata, e il
cane sembra non uscirne vivo. Dopo qualche settimana di intense cure,
Charik inizia a dare segni di un profondo mutamento corporale, oltre che di
una ripresa vitalità. La coda cade, i peli si fanno più radi, il muso diventa
viso e il cane assume la posizione eretta. Questi straordinari mutamenti
sono solamente propedeutici all’umanizzazione quasi totale che avviene
poco dopo. Charik inizia a parlare, ma le sue sono soprattutto scurrilità
oscene, e il suo comportamento è sgraziato, volgare. Il professore cerca di
educare questa sua creatura, medita di portarlo a teatro, fargli leggere i
capolavori della letteratura. Ma Charik si oppone, ostinatamente. Egli
vuole uscire, vedere come è il mondo, scoprirne e assaporarne le ghiotte
bellezze. Siamo a cavallo tra il 1924 e il 1925, Stalin ha già assunto il
pieno potere eliminando Trockij, Zinovev, Kamenev, Bucharin e Lenin è
deceduto da pochi mesi. L’Unione Sovietica inizia la sua grande
riorganizzazione e nelle strade sfilano proletari innalzanti canti del nuovo
ideale. Charik viene a contatto con alcune personalità di questo mondo, e
sente che la sua umanizzazione non è ancora completa: gli manca
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un’identità, assicurata da documenti. Assume quindi il nome di Poligraf
Poligrafovitch, trova un lavoro, ironia del caso, come responsabile
dell’igiene pubblica, e perfino una fidanzata. In questa radicale
trasformazione, il cane Charik non diviene semplicemente un uomo. Charik
scompare totalmente, lasciando spazio a un assembramento dei peggiori
vizi e tratti dei quali solo l’uomo può farsi portatore. Poligraf è un essere
immondo, volgare, ma in lui non vi è più nemmeno un briciolo di animalità.
L’animalità di Charik è scomparsa per accogliere la bassezza più
vomitevole dell’umano: la sua bestialità. Come afferma Gilles Deleuze,
l’uomo possiede una propria bestialità che non ha nulla a che vedere con
l’animale. L’animale possiede delle forme specifiche che gli impediscono di
essere stupido. L’uomo, invece, può giungere alla stupidità, alla bêtise.
Poligraf è la concretizzazione della bête. Egli segue i propri istinti più bassi,
cercando costantemente la violenza fisica, lo stato ebbro, denunciando il
proprio creatore alla polizia segreta sovietica. La critica di Bulgakov non è
direzionata verso il proletariato e le sue doverose richieste, ma verso la
strumentalizzazione che fa di questo proletariato un mezzo per fini
violenti. La critica dell’autore de Il Maestro e Margherita è direzionata
chiaramente verso la stupidità umana, quella di Poligraf senza dubbio, ma
anche quella dell’arcigno Schwonder (Vasily Efimov), capo proletario
intenzionato a espropriare luoghi e cose, utilizzato a sua volta come
strumento del potere. Il potere è per Bulgakov qualche cosa di
estremamente palpabile, visibile, insito nella vita umana. Non è una forza
invisibile che aleggia e che irrompe nella vita come cosa inspiegabile e
macchinosa, come nei racconti di Kafka, ma esiste e si imprime nella vita
reale a causa di quelle persone che lo portano sulle loro spalle.
La conclusione della storia propone un’inversione di marcia per il
ristabilimento della “normalità” iniziale. Filippovitch opera nuovamente la
sua creatura, ristabilendo la totale animalità del cane. Il processo di
ritorno-animale è repentino e getta scompiglio nella popolazione e nel
capo della polizia che sono giunti negli appartamenti del professore per
denunciare l’omicidio e l’occultamento di cadavere di Poligraf. Il chirurgo
scampa alla condanna, accusando il malvagio Schwonder della stupida
raccomandazione di Poligraf. Il capo della polizia sviene e Poligraf ritorna a
essere Charik, semplice cane conscio dell’orrendo pericolo scampato e
della sua fortunata condizione.
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Bulgakov, che si rifà alla letteratura fantastica dell’Ottocento e a opere
come Frankenstein o Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor
Hyde, riflette sulle ricerche e sui limiti della scienza, certamente, ma
soprattutto sulla ricerca umana, ideologica e politica, della creazione di un
uomo nuovo, perfetto, capace di unire l’altezza umana e le caratteristiche
migliori dell’animalità. Il risultato non è solo una cocente delusione, ma
una drammatica condanna delle velleità universali umane. Bulgakov salva
l’animale e la sua animalità, condannando senza possibilità di redenzione
la bestialità. Quella è solo appannaggio dell’uomo.
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Non un affresco, ma un’opera che si avvicina maggiormente al medium
dell’incisione, sia come potenza del gesto che come materialità necessaria
alla realizzazione. Steve McBurney ha realizzato delle scenografie
eccezionali, che risultano essere un concentrato di tutta la storia dell’arte
e della cultura visuale del Novecento: dall’Espressionismo più violento dei
tratti umani e fisici delle figure, al Futurismo e al Raggismo del comparto
visivo che carica gli slogan e le azioni collettive, al Surrealismo insito nel
mancato equilibrio delle forme, ma anche gli studi sul movimento dei corpi
di Etienne Marey.
Un universo che la versione operistica in russo propone con una forza
straordinaria.
Le déferlant Cœur de chien d’Alexander Raskatov a bouleversé la
scène de l’Opéra de Lyon. Un conte dramatique où la recherche de
l’homme nouveau parvient à un résultat désagréable florissant
d’ordures grossières et dépourvu de la plus basique éducation. Un
conte politique, engagé, censuré, qui montre que l’homme est la
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seule créature capable de se baisser à la bêtise la plus obscène.
L’animal, le chien dans ce cas particulier, recèle des qualités que le
savant ne peut maitriser. L’homme et l’animal se placent sur deux
univers parallèles, voisins, mais l’expérimentation croisée amène à
des résultats catastrophiques.
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Lo spettacolo continua:
Opéra de Lyon
1, Place de la Comédie – Lione (Francia)
fino a giovedì 30 gennaio 2014
orari: da lunedì a venerdì ore 20.00, domenica ore 16.00 (martedì e
sabato riposo)
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L’Opéra de Lyon, la De Nederlandse Opera di Amsterdam, in
collaborazione con compagnia Complicite di Londra presentano
Cœur de chien
di Alexander Raskatov
dal libro Cuore di cane di Mikhaïl Bulgakov
su libretto di Cesare Mazzonis
direzione musicale Martyn Brabbins
messa in scena Simon McBurney
scenografia Michael Levine
costumi Christina Cunningham
luci Paul Anderson
video Finn Ross
marionette Blind Summit Theatre, Mark Down, Nick Barnes
coreografie Toby Sedgwick
direttore dei cori Gianluca Capuano
Orchestra dell’Opéra de Lyon
Ensemble vocale Il Canto di Orfeo
Sergei Leiferkus (Filip Filippovitch Probrajenski)
Ville Rusanen (Ivan Arnoldovitch Bormenthal)
Peter Hoare (Charikov)
Elena Vassilieva (Daria Petrovna, “voce sgradevole“ del cane Charik)
Nancy Allen Lundy (Zina)
Andrew Watts (Viazemskaia, “voce gradevole“ del cane Charik)
Vasily Efimov (Schwonder)
Gennady Bezzubenkov (Capo della polizia / Il portiere / Il venditore di
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giornali)
Sophie Desmars (La fidanzata di Charikov / Una proletaria)
Robert Wörle (Un provocatore / Un paziente)
Annett Andriesen (Un paziente)
Piotr Micinski (Un proletario / Il détective)
Josie Daxter, Robin Beer, Robin Guiver, Jack Parker (Marionnettistes)
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