I MITI, LE FESTE RELIGIOSE, I RITI
DELL’ALBA DI ROMA
Le origini della religione romana sono controverse. In generale si tende a far
coincidere le divinità romane con quelle greche, semplicemente ribattezzate,
ma i culti più antichi sono propri dei Romani e hanno una differente genesi. Il
rapporto tra gli antichi romani e le varie divinità ha sempre un carattere
prevalentemente pratico. Alla base del sentimento religioso sono in ogni caso i
riti religiosi, che sopravvivono nella sostanza quasi inalterati per secoli in una
sequela di norme ben definite in cui l'unico interesse evidente è quello di
mantenere la cosiddetta "pax deorum", cioè il favore degli Dei.
La religione è per molto tempo una questione prevalentemente
comunitaria, che esula dalla ricerca intima e personale di
ciascuno. E' tutta la città ad esserne coinvolta; è l'intera famiglia,
schiavi compresi, la cellula di base dove vengono svolti i riti
privati officiati dal pater familias. Anche una semplice
trasgressione individuale coinvolge tutta la comunità che viene
perciò chiamata ad intervenire e a porvi rimedio. Per il romano
antico non esiste un "sentimento" religioso intimamente vissuto.
L'uomo "pius" è, dal punto di vista religioso, semplicemente colui
che sa rispettare alla lettera le tante prescrizioni rituali.
Dotati soprattutto di grande capacità organizzativa e
generalmente poco interessati alla speculazione filosofica,
i romani attribuiscono qualsiasi aspetto della vita ad una
specifica divinità, aumentando il numero dei numina ( i
poteri divini) a dismisura, siano essi maschili, femminili o
ermafroditi. Molto spesso ad un unico dio vengono
attribuiti vari epiteti a seconda di una sua particolare
"specializzazione".
Per gli uomini antichi è fondamentale sapere bene ciò che è
necessario fare per purificarsi e ristabilire l'armonia con il mondo
divino dopo essere stati contaminati. Ciò che maggiormente può
rendere impuri è il contatto con la morte e con il delitto e la possibilità
che questo accada, anche accidentalmente, è ineluttabile.
L'esperienza insegna che chiunque può correre un tale pericolo,
anche colui che più incarna doti di coraggio, forza, lealtà e saggezza.
E' illuminante, per chiarire questo concetto, ciò che ci viene
tramandato attraverso alcuni miti antichi. A questo proposito, bello e
significativo è l'episodio che vede come protagonista Enea, eroe per
eccellenza, durante il suo vagabondare alla ricerca del Lazio.
Virgilio ci racconta infatti che un giorno Enea approda sulla
costa tracia. Volendo fondare qui una città comincia a porne le
fondamenta e, per ingraziarsi gli dei, decide di offrire loro un
sacrificio augurale. Per ornare l'altare strappa le fronde di un
mirto e di un corniolo ma, non appena ha reciso la prima
foglia, da questa inizia a sgorgare del sangue nero e immondo
che gocciola a lordare il terreno. Strappa una seconda foglia e
una terza, ma lo stesso prodigio di ripete fino a che una voce
flebile e spaventosa si leva da sotto terra.
E' Polidoro, figlio di Priamo, inviato dal padre durante l'assedio
di Troia presso il re di TraciaPolimestore con un prezioso carico
d'oro. Violando ogni regola dell'ospitalità, Polimestore si è
impadronito delle ricchezze di Polidoro facendolo assassinare
senza nemmeno dare al cadavere una degna sepoltura. Il corpo
del giovane viene abbandonato sul terreno e dalle frecce che gli
sono ancora conficcate addosso nasce la pianta dalla quale
Enea cerca di strappare i rami. La terra che nasconde l'orrendo
delitto è ora maledetta e lo stesso inconsapevole Enea ne è
stato contaminato, sebbene i suoi gesti siano stati dettati dalle
migliori intenzioni (offrire agli dei un sacrificio).
I MITI DELLE ORIGINI
Enea, Romolo e Remo.
Il mito di Enea è antico, tanto che le prime versioni sono già note
in Etruria prima del VI secolo a.C. e in Grecia nel V secolo e
farebbero derivare il nome di "Roma" da quello di una donna
troiana con il significato di "forza".
Enea è figlio di Anchise, un mortale, e della dea Venere. Regna
sui Dardani, alle falde del monte Ida nella Troade e partecipa
solo alla fase finale della guerra di Troia in aiuto di Priamo, con il
quale è imparentato avendone sposato la figlia Creusa. Non
essendo un troiano, Enea piace particolarmente ai Romani
quale capostipite perché consente loro di affondare le radici in
una civiltà dal fulgido passato e nel contempo di distinguersi dai
Greci senza esserne i più fieri antagonisti.
Eratostene di Cirene si accorge tuttavia che, poiché la
data della caduta di Troia doveva essere all'incirca il
1184 a.C., né Enea né i suoi più diretti discendenti
possono aver fondato Roma, tradizionalmente sorta
nel 754 a.C.
A rendere plausibile la storia pensa Catone il Censore
con un'abile invenzione. Secondo la sua versione,
accettata poi come definitiva, Enea fugge da Troia
portando in salvo il vecchio padre Anchise e il
figlio Ascanio e perdendo Creusa tra le fiamme della
città devastata. Giunge poi nel Lazio.
Dopo aver sposato Lavinia, figlia di Latino, un re locale, avrebbe
poi fondato Lavinium. Ascanio, noto anche col nome di Julo, è
invece il fondatore di AlbaLonga e i suoi successori danno origine
alla dinastia dalla quale, dopo varie generazioni, nasceranno
Romolo e Remo e in seguito la gens Julia, con Giulio Cesare e il
primo imperatore Augusto.
Virgilio ci dà una versione avventurosa del viaggio di Enea fino
alle coste italiane, al quale sono dedicati tutti i primi sei libri
dell'Eneide. Ovviamente le traversie del nostro eroe non sono
immuni dall'intromissione di forze divine. Giunone non ha ancora
dimenticato l'umiliazione per non essere stata scelta da Paride
come la più bella dell'Olimpo in quello che tutti ricordano come
l'antefatto della guerra di Troia e cova ancora rancore nei
confronti di Venere, incoronata a dea della bellezza con la
consegna del famoso pomo d'oro. Non le par vero, quindi, di
ostacolare in tutti i modi Enea, figlio della sua rivale, nel lungo
viaggio alla ricerca del Lazio.
Con qualche acrobazia cronologica
Virgilio dà un'ulteriore motivazione alle ire
della dea nei confronti di Enea. Giunone
sarebbe infatti anche la divinità protettrice
di Cartagine, l'acerrima nemica di Roma.
Presupponendo erroneamente l'esistenza
di Cartagine già ai tempi di Enea (le
origini di Cartagine e di Roma sono infatti
più o meno contemporanee), Virgilio
spiega che Giunone si accanisce tanto
contro Enea per non consentirgli di
raggiungere il Lazio dove è predestinato a
dare
origine
alla
progenie
che
porterà Cartagine alla rovina.
Viaggio di Enea secondo Virgilio (linea verde) e Dionigi di Alicarnasso (linea rossa)
E' proprio a Cartagine che Enea vive una intensa e drammatica storia
d'amore con la regina Didone. Giunone guarda con benevolenza ai due
amanti sperando che Enea, vinto dalla passione, decida di mettere fine al
suo vagabondare. Giove, tuttavia, invia Mercurio a sollecitare Enea alla
partenza e questi obbedisce, abbandonando Didone. Disperata, la bella
regina si suicida lanciando strali di maledizione contro Enea e la sua
progenie e Virgilio ci regala in proposito pagine di commovente levatura
poetica. Nel girovagare di Enea non manca nemmeno una capatina negli
inferi, perché prima di giungere nel Lazio, l'eroe viene accompagnato dalla
Sibilla di Cuma in un mondo dei morti, dove incontra il padre Anchise che
gli profetizza la futura grandezza di Roma.
Sempre secondo la leggenda, dopo quattro anni di
regno, Enea sarebbe stato assunto in cielo tra lampi
e tuoni durante una battaglia contro gli Etruschi nelle
vicinanze del fiume Numicio e ricevuto nell'Olimpo
insieme agli dei. E' interessante notare che anche a
Romolo viene decretata la stessa fine, per cui, a
buon titolo poterono successivamente essere deificati
anche Giulio Cesare e Augusto, suoi lontani
discendenti. Comunque la si metta, le origini divine
dei fondatori di Roma sono incontrovertibili. Infatti, se
si accetta Enea quale capostipite, si trova Venere
come primigenia madre; se si dà un'occhiata alle più
arcaiche leggende si incontra il solo Romolo figlio di
Zeus, senza la presenza del fratello; se si valutano le
successive elaborazioni, Romolo e Remo sarebbero i
gemelli figli di Marte e Rea Silvia, altro personaggio
universalmente noto.
Secondo una versione della leggenda
Rea Silvia sarebbe una figlia di Enea e
si sarebbe anche chiamata Ilia, forse
per ricordare il collegamento di Roma
con Troia ("Ilio" in greco). Più
conosciuta, invece, la versione secondo
la quale Rea Silvia sarebbe la vestale
figlia di Numitore e nipote di Amulio,
entrambi discendenti di Ascanio.
Costretta a prendere i voti dal malvagio
zio, interessato a che il fratello
detronizzato
non
potesse
avere
discendenti maschi, Rea Silvia conosce
l'amore di Marte, ma il fatto di portare in
grembo un frutto divino non le consente
di scampare alla punizione prevista per
una vestale che abbia infranto il voto di
castità.
La poveretta viene imprigionata a mandata a morte
dopo la nascita dei due bambini, anche se il dio del
fiume Aniene, nel quale è stato buttato il cadavere
della giovane, impietosito, le restituisce la vita. I due
gemelli, semplicemente abbandonati in una cesta
alla corrente del fiume, vengono lasciati dal turbinio
delle acque ai piedi del fico "Ruminale" e allattati
dalla famosa lupa. Trovati dal pastore Faustolo,
vengono cresciuti da lui e da sua moglie,
Acca Larenzia
A questo proposito, attribuendo a Faustolo una consorte poco virtuosa, qualcuno
ipotizza anche che la lupa possa essere la stessa Acca Larenzia ("lupa" è uno dei
nomi per indicare una prostituta, da cui il temine "lupanare").
Comunque sia, i gemelli vengono allevati fino a che, divenuti grandi, non riescono
a vendicare il nonno spodestando il traditore Amulio.
Romolo e Remo, i due fratelli stabiliscono di
fondare una nuova città e qui la leggenda si
riempie di presagi. Decidono di osservare i
"segni" degli dei, guardando il volo degli uccelli e
si appostano rispettivamente sul Palatino e
sull'Aventino. Remo avvista per primo sei
avvoltoi. Romolo, successivamente al fratello, ne
scorge dodici. Segue una mortale disputa su
quale dei due presagi abbia maggior valore, se il
primo in ordine di tempo o quello con un più
elevato numero di uccelli e Remo ha, come tutti
sanno, la peggio. Secondo un'altra versione i due
fratelli litigano perché Remo, volendo deridere e
oltraggiare il fratello, oltrepassa armato il confine
delle mura che Romolo sta tracciando con un
aratro. Il risultato è comunque, anche in questo
caso, l'uccisione di Remo da parte di Romolo. Il
rituale di fondazione della città compiuto da
Romolo fa parte della tradizione romana più
antica e in seguito viene ripetuto ogniqualvolta
deve essere fondata una nuova città, sia in
epoca repubblicana che imperiale.
I fondatori di una città aggiogavano un toro a destra
e una vacca dalla parte interna. Cinti alla maniera
di Gabii, (vestiti alla maniera dei sacerdoti durante
una cerimonia religiosa) e cioè con il capo coperto
da un lembo della toga rimboccata, essi tenevano il
manico dell'aratro piegato in modo da far ricadere le
zolle all'interno. E nel tracciare il solco in questo
modo essi segnavano il luogo delle porte, sollevando
l'aratro
in
corrispondenza
delle
mura".
Le zolle rovesciate all'interno nel tracciare il
solco primigenius (che delimita la città e sul quale
sorgeranno le mura) ricoprono una parte di terreno
che viene detta pomerium. Quest'area, che non
verrà edificata, è una sorta di "zona franca" tra la
città vera e propria, nella quale è sacrilego entrare
armati, e le mura.
E' solo qui che i soldati possono ritrovarsi e
combattere per difendere l'abitato dai nemici.
Come il pomerium, anche le porte, nel tracciare il
cui limite l'aratro viene simbolicamente sollevato
dal terreno, non rientrano nella zona sacra della
città. Esse rappresentano infatti il collegamento
con l'esterno, da esse è necessario poter entrare
e, soprattutto, poter far uscire tutto ciò che
potrebbe contaminare l'abitato, come i morti. Alla
luce di tanta sacralità nei confronti dei confini, si
può ben comprendere quale scompiglio possa
aver destato Cesare nel suo passaggio armato
del Rubicone, il limite che, in tarda età
repubblicana, non poteva essere superato da
nessun esercito in armi.
La fondazione della città presuppone
anche un altro momento ricco di
significati
religiosi:
l'escavazione
del mundus, una sorta di pozzo al
centro della città. E' dal suo nome che
deriva il nostro termine "mondo" ed
esso rappresenta per gli antichi il
luogo di congiunzione tra la vita e la
morte, tra il cielo e la terra.
Il mundus mette in comunicazione
l'esterno della terra con le sue stesse
viscere e con gli esseri infernali che le
abitano, oltre che con il mondo degli
dei che risiedono in cielo
Nel momento della fondazione della città
vengono gettate nel mundus delle zolle di terra
provenienti dai diversi luoghi di origine dei nuovi
abitanti, dopo di che esso viene rigorosamente
tenuto chiuso tranne che il 24 agosto, il 5
ottobre e l'8 novembre di ogni del
"mundus patet" ( il mundus è aperto) durante il
quale le anime dei defunti possono ritornare nel
mondo dei vivi e aggirarsi a loro piacimento per
la città.
Qualunque sia l'origine di Romolo e
Remo, il motivo per cui i fondatori siano
due (a parte una prima versione che,
come abbiamo visto, prevedeva solo
Romolo) è ancora denso di interrogativi.
Le spiegazioni possibili paiono diverse a
secondo che si voglia vedere in esse un
risvolto religioso o politico. Nel primo caso
infatti si tende a trovare nella duplicità un
collegamento
con
la
mitologia
indoeuropea della creazione, mentre altre
teorie indicano nei due fratelli il riscontro
di due diverse comunità originarie del
Palatino e del Quirinale, poi unitesi.
L'imbarazzo derivante dalla morte di
Remo e dalla presunta pratica di
sacrifici umani, considerati una pura
barbarie dai romani impegnati nei
secoli successivi a scrivere la
propria storia, sarebbe quindi,
secondo alcuni storici, il motivo per
cui
vennero
successivamente
inserite nel mito altre versioni dei
fatti,
tese
a
mitigare
le
responsabilità di Romolo. Viene
infatti anche raccontato dalle fonti
che Remo sarebbe morto durante
una scaramuccia per mano di
qualcuno che non era certo il
fratello.
Rimane però inquietante, sempre a proposito
di sacrifici umani, la presenza degli antichi riti
della devotio e degli "Argei". I romani vi
ricorrevano in momenti critici e in essi si
esprime pienamente la loro stessa psicologia
religiosa. Il rito della devotio risale a un'epoca
nella quale si praticavano sacrifici umani,
divenuti rarissimi in epoca storica. I momenti
drammatici che Roma visse al momento
dell'avanzata vittoriosa di Annibale in Italia
riportarono eccezionalmente alla luce questa
pratica selvaggia. I Romani non conoscevano
ormai altro che sacrifici sostitutivi, il più noto
dei quali era quello degli Argei.
Ogni anno, il 15 maggio, Pontefici e Vestali lanciavano nel Tevere, dal
Ponte Sublicio, ventisette o trenta manichini di giunco, detti Argei.
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