Zero a zero isbn info stampa “Arriverà che fumo o che do l’acqua ai fiori, o che ti ho appena detto ‘Scendo, porto il cane fuori’, che avrò una mezza fetta di torta in bocca, o la saliva di un bacio appena dato, arriverà, lo farà così in fretta che non sarò neanche emozionato... Arriverà che dormo o sogno, o piscio o mentre sto guidando, la sentirò benissimo suonare mentre sbando, e non potrò confonderla con niente, perché ha un suono maledettamente eterno: e poi si sente quella volta sola la viola d’inverno.[...]” La viola d’inverno, Roberto Vecchioni STEFANO FONTANA TITOLO RACCONTO: il profumo della vita DATA DI NASCITA: 14 settembre 1984 INDIRIZZO: via della Viola n. 31 - 40131 Bologna TELEFONO: 3298861714 EMAIL: [email protected] Mi chiamo Stefano e sono originario della provincia di Brescia, ma vivo a Bologna da quattro anni. Qui mi sto laureando in scienze antropologiche. Anche se credo che non diventerò mai uno scrittore professionista scrivo. Scrivo perché è un buon modo per riempire una serata. Scrivo perché, a volte, è proprio difficile parlare guardandosi negli occhi. Scrivo perché spero che qualcuno mi legga, anche se saranno solo gli amici, è già qualcuno. Scrivo per dare un po’ di concretezza alla fantasia. Scrivo perché, in fondo, anche se tutto crolla, ci sarà sempre qualcosa da scrivere. Un saluto a tutti voi e buona lettura. SF 7 Scrivo perché è un buon modo per riempire una serata 8 Notte fonda 20.09.08 Notte fonda, pagine spalancate sulla testa, e una luce al neon che infastidisce la mente e gli occhi. Gusto dolceamaro di sconfitte famigliari sedimenta nella gola, lacrime straziate di pianto rimangono ferme e immobili, lobotomia o catatonia poca, nessuna differenza. Affondarsi in serate di birra gelida fino a sentire sedie accatastarsi, si spengono le luci nei pub, strade illuminate, desolazione, finalmente una casa, un materasso dove potersi abbandonare ad incubi accomodanti. Ricerca della realizzazione di un’utopia collettiva trovata in torrenti d’alcol e sperma con rabbia rovesciati sulla fredda superficie d’una coperta di solitudine. Un fiato zuccheroso accompagna disperate cadute nel sonno, un cuscino tenuto stretto come fosse una donna in una notte di pianti soffocati. Infine un grigio che squarcia i sogni, ore e noia ed una luce al neon, che non accenna a morire. 9 QUARANT’ANNI DOPO (Sessantotto) 23. 10.08 Bonheur fané, cheveux au vent, baisers volés, rêves mouvants que reste’t-il de tout cela? Dites-le-moi* (Que reste-t-il de nos amours, C. Trenet) Le stelle, le avevo già viste tante volte, ma restai a guardarle senza abbassare le veneziane dell’aula. Parevano giorni fondamentali quelli, c’era la crisi, ma cos’era la crisi se non una delle prove oggettive dell’agonia d’un sistema dai piedi d’argilla. C’era la guerra, ma cos’era la guerra se non l’estremo e ultimo sforzo che il sistema stava tentando per tenersi in vita. Erano giorni importanti quelli, che scolorivano veloci, e come in una gigantesca giostra giravamo tutti in preda all’ebrezza, mentre il reale, la realtà, perdeva i suoi lineamenti e noi correvamo oltre la linea fredda d’orizzonte. Erano giorni d’assemblee, musica, cortei e giornali dai titoli rossi, le scuole e gli atenei in rivolta. Anche gli operai erano con noi nella lotta, persino i sindacati erano al nostro fianco. Non potevano continuare ad ignorarci, e poi anche se i potenti, il governo, avessero continuato a non considerarci, a chi importava, “L’IMMAGINAZIONE AL POTERE” era scritto sulla lavagna dell’aulamagna. Si provavano esperienze di vita comunitarie e a casa ci si tornava sempre meno, si parlava di prendere autocoscienza sia in quanto individui, ma soprattutto in quanto classe, perché un proletariato senza coscienza era vuoto, come un banchetto senza invitati. Si discuteva di luoghi esotici lontani, dove gli yankee erano umiliati da giovani partigiani asiatici, che loro definivano terroristi. Birre economiche, fumo di sigarette e spinelli condivano i nostri sogni, e gli astri erano là, come sempre, ma il campo di stelle di quella sera non l’ho ancora dimenticato. C’erano ancora i tuoi sedici anni e un maglione blu che tanto tempo ho impiegato a sollevare, c’era il tuo sorriso di primo mattino, che aveva * Felicità sbiadita, capelli al vento, baci rubati, sogni volatili, che cosa resta di tutto questo, dillo a me. (nda) 10 contribuito a farmi innamorare. C’erano i “baci rubati” nell’oscuro di una sala cinematografica e il nostro giocare a sfiorarci. C’era da aspettare mattino insieme, senza il rimorso per tutte le cose che non saremmo riusciti a fare. C’erano le riflessioni sul socialismo, sugli amori necessari e contingenti e le parole strette in gola che non siamo mai riusciti a dirci. C’eravamo noi, che, ancora, non tenevamo conto di ciò che accadeva al di fuori, nel mondo reale. C’era la libertà, la rivoluzione, il Vietnam, la Cambogia... la realtà. 11 LOLLI La voce di Lolli negli auricolari può essere un modo per riempire il mercoledì notte, probabilmente non riuscirà a lavare via quest’ansia appiccicosa che non ne vuole sapere di scivolare via nonostante l’ora tarda. Approfitto di quest’insonnia per vedermi e rivedermi diversi film, stanotte ho rivisto “Manhattan” ho ancora in testa la battuta d’addio: “bisogna avere un po’ di fiducia sai nella gente..”, sarà il glen grant che scorre nelle vene ma ora mi sento anche quasi d’accordo, almeno fino a domani. Buonanotte 12 YEAH Alle sette di stasera mi sono ricordato della finale di Champions, o coppa campioni, come la chiamavo da bambino. Ho guardato la partita con lo stesso entusiasmo di quando ti fai una sega prima d’addormentarti, non per voglia, ma per consuetudine. Comunque anche grazie alle immancabili birrette e alla buona compagnia sono discretamente soddisfatto della serata. Il ventinove maggio 1968 un Manchester United, che schierava con il numero 7 un nordirlandese di nome giorgi best, conquistava in patria la sua prima coppa campioni. Quasi quarant’anni dopo, i reds si riportano nel north west il trofeo. Molto, troppo tempo è passato e la confusione sotto il cielo ha lasciato il posto a grandi file nei centri commerciali e ore spese davanti a un reality. Rimane comunque il pensiero di ragazzi come noi che in un anno, destinato a divenire mitico, hanno visto gli inglesi alzare al cielo per la prima volta l’ambito trofeo. In cinque minuti storici Best, Kidd e Charlton portarono il risultato sul quattro a uno e permisero alla coppa di rimanere sull’isola. Oggi la sospirata vittoria è arrivata dopo sette calci di rigore, forse, anche questo, è un segno dei tempi. Buona notte 13 SERIALI Una latta di birra gelata sotto un cielo cianotico la nota più musicale d’una giornata di gennaio inoltrato Vivere per morire o vivere tanto per vivere elucubrazioni paranoiche che non conquisterebbero nemmeno una ragazzina d’inizio liceo e intanto il quarto di secolo s’avvicina va beh buona notte va.. 14 RADIONOTTEFONDA II Qui ci è notte fonda è la temperatura è intorno agli 0 gradi, a santa cruz, in california, c’è il sole ed è una bella giornata per farsi un giro sulla spiaggia. Vorrei svegliarmi domani mattina andare in università in ciabatte e discorrere di post pensiero con james clifford e quando mi ha scassato i coglioni andare a farmi cullare tra le onde dell’oceano che non conosce inverni. Va beh buona notte. RADIOnoTTeFONDA VI Si dice che nel 1916, a Verdun ogni soldato avesse diritto a tre litri di vino al giorno, mi sento un po’ in colpa, io con le mie bottigliette di birretta a buon mercato non ho più la pretesa di difendere la mia città o tanto meno di vincere una guerra. Il dramma è che non ci sono più barricate da difendere e nessuno ha voglia di costruirne nuove. Credo mi stapperò un’altra birra. RADIONOTTEFONDA VII Ciao e buona notte a tutti, ore 3:52 è notte fonda, ed è questo il momento della giornata che preferisco. Non so se sia per le strade, finalmente deserte, per le tenui luci che rischiarano la città, per le nuvole di fumo blu, che riempiono il buio della mia stanza, per tutti quei pensieri, che solo nelle ore molto tarde si manifestano, per poi svanire ai primi bagliori, o per la quiete che si respira in queste ore, ore in cui non ci sono cose da fare, ed è piacevole rubare tempo al sonno con un libro, un film, un disco, una sincera buona notte a tutti coloro che sanno vivere la notte. 15 15.02.2008 Viaggiando nel profondo di questa notte, mi trovo così a creare dei ricordi di un passato, che forse non è poi così remoto ma a me appare lontanissimo. Così qualche volta passi fuori, a pochi metri dal cancello di quelle che furono le tue scuole medie, e non te ne frega un po’ un cazzo e hai giustamente altro a cui pensare. Ma altre volte, sarà capitato anche a voi, di star lì a guardare quell’edificio frequentato per anni e di cui rimango ora solo sbiaditi ricordi, la mia scuola ora è stata ridipinta di un color giallo merda, va beh quando andavo io era grigia con degli orribili disegni però era la mia cazzo. Abbiamo passato solo tre anni lì dentro, ma tre anni che ti segnano, prima d’entrare là dentro si prestava poca attenzione a una minigonna o a una pinta di birra, una volta usciti eran già diventati i principali argomenti di pensiero e discussione. Credo di essermi innamorato circa una decina di volte in quegl’anni: vicine di banco, ragazze dell’aula accanto, ragazze incrociate nel parchetto appena qua fuori. Bei tempi, in cui uno sguardo e qualche bacio rubato bastavano per far volare la fantasia, avevamo tutti le teste imbottite di sogni ancora interi, ora sembrano proprio dei tempi felici quei giorni in cui avevamo ancora gli anni in tasca. Quindi beccatevi questo pezzo, qualitativamente scandaloso, lo ammetto, presentato a san remo tredici anni fa, che però tanto mi ricorda quegli anni. Salùc 16 17 Scrivo perché, a volte, è proprio difficile parlare guardandosi negli occhi 18 RISVEGLIO DAL SOTTOSUOLO 12.10.2009 Troppo freddo per riuscire a vivere o dormire, i vetri ancora oscuri suggerivano un orario da sonno profondo come le quattro del mattino, ma una lucida insonnia indugiava a costruire immagini di finali esistenziali catastrofici. Premere un pulsante bianco per far piombare la propria urina in condotti, in segrete puzzolenti, celate agli occhi e agli olfatti del vivere civile. L’unica speranza rimane legata a questa magica legge gravitazionale in grado di trascinare ogni atto mancato, ogni bacio perduto, ogni lacrima, ogni sentimento sepolto, ogni angoscia insopprimibile, verso l’abisso, così che nessun ricordo possa tornare in superficie per ferire nuovamente, una volta che lo sciacquone sia stato tirato. Immaginare un reggipetto gonfiarsi d’illusioni per cercare d’afferrare in mano la situazione e seguire vie note per vincere la noia e ritrovare il sonno. Pochi minuti e nuovi schizzi notturni compariranno sui miei abiti come ferite a testimonianza delle mie fatiche. Rumore di auto e un treno, non dev’essere più troppo presto, qualcuno pare sia in viaggio, chi per un’officina, chi per un capannoncino, chi per un capannoncione, mentre io, steso su un lenzuolo troppo blu, agonizzo, e non mi sento troppo sfortunato, sarà quando sarò con loro là fuori che allora le cose andranno veramente male. Il campanello trilla, e i miei, rimasti rinchiusi fuori dalla porta al ritorno dal turno notturno, mi regalano una precisa cognizione temporale. Sono le sei e qualche minuto del mattino, cerco di ributtare giù la nausea, lo schifo, l’alito cattivo e i sensi di colpa mentre mi ributto addosso le lenzuola umidicce. Resto con un senso d’inettitudine che spero si lavi via con un po’ d’acqua quando riuscirò ad alzarmi. Una goccia, due gocce, tre gocce... riempio un piccolo bicchiere marchiato “Jameson”, frutto di un innocente furto adolescenziale in un pub, brindo al cielo che piano si sta arrossendo pensando che domani sarà un altro giorno, peccato sia già domani. 19 SGUAZZO NELLA MAGGIORANZA 26.12.07 Sguazzo nella maggioranza sono eterosessuale destro triste solo 20 dialogo fra me e un non so 28.05.07 -Vedi, ormai non è più possibile cambiare, una volta che ci sei dentro… Non è che un giorno ti puoi svegliare dicendo: “No, voglio cambiare gioco, torno indietro e cambio tutte le scelte che ho fatto…”-. Io avevo in mano una pinta di birra chiara, avevo in mano una pinta di birra chiara e bevevo, bevevo e non ascoltavo… Erano giorni un po’ strani, quelli. Ricordo che pioveva, pioveva molto e le mie scarpe erano sempre bagnate, ma forse, questo non è importante. Ricordo che dormivo molto, anche dodici, tredici ore al giorno, e pure se non stavo dormendo, non è che fossi proprio sveglio, vivevo in uno stato di perenne apatia, mi interessavo poco di ciò che accadeva intorno, e, qualsiasi cosa potesse accadere, per me era più o meno indifferente… Forse è così che si sentono le persone prima di suicidarsi, oppure molta gente vive quotidianamente questa situazione, e non si capisce perché non si suicidi… Boh, non capivo molte cose a quell’età, e non ero ancora riuscito a rispondere a domande come questa… - Capisci, la vita è preziosa e devi cercare di vivertela al meglio, cazzo, passi tutte le tue giornate a letto ?! Non devi lasciare che la vita ti scorra addosso, perché non ti trovi una ragazza? Io avevo in mano un pacchetto di sigarette, avevo in mano un pacchetto di sigarette e ne tirai fuori una, l’accesi e tirai la prima boccata, fumavo e non ascoltavo… Non avevo molti stimoli di vita, credevo ancora che il denaro, il matrimonio, il successo individuale, fossero dei miti piccolo borghesi da distruggere. La mia vita era un alternarsi di entusiasmanti voli d’utopia, e di vertiginose cadute nel nichilismo più plumbeo. Ricordo che, al tempo, ero spesso stanco, ero spesso stanco nonostante non facessi assolutamente nulla, se non spararmi qualche porno di tanto in tanto, non è facile essere infelici, pensavo… Non sopportavo molte cose, specialmente il sole d’agosto, la televisione, il governo e i politici in generale… Amavo invece perdermi nelle mie visioni oniriche, forse è per quello che dormivo sempre così tanto… Nei miei sogni accadevano sempre un sacco di cose interessanti, le identità non erano fisse, come nel mondo reale, e, in alcuni di questi, io riuscivo quasi ad essere contento… Una volta sognai d’innamorarmi di una ragazza, incontrata per caso, una notte, nel piazzale ovest della stazione centrale di bologna, mi sembrava quasi di vivere, peccato che poco dopo mi svegliai… 21 - Ora spero che tu abbia capito, perché non puoi andare avanti così, bisogna agire, essere protagonisti delle proprie esistenze…Io continuai a bere, senz’ascoltare. 22 COLOR ANICE Fumare una sigaretta riempirsi di nuovo il bicchiere accendere la luce affacciarsi alla finestra interrogarsi aprire il frigorifero scavare dentro di se uscire per strada scorrere la rubrica del telefono rileggere vecchi messaggi chiedersi perché starsene a fissare delle fotografie pensare e ripensare ai tuoi occhi cercare dei giorni felici parlare di tutto questo battere dei tasti su una tastiera tutto è inutile e piangere non serve a niente 23 I GHIACCIOLI I ghiaccioli azzurri rappresentano quelle cose, che possono rimanerti fisse in testa, tra gli scarsi ricordi, che permangono dall’infanzia. In realtà, non è che i ghiaccioli mi siano mai piaciuti un granché, ma li mangiavano tutti, e chi, dal mucchio, riusciva ad estrarre il pezzo di ghiaccio dello stesso colore del cielo pomeridiano, veniva tacitamente eletto la star del momento, almeno fino a quando avrebbe tenuto stretto in mano lo scettro celeste. Io, naturalmente,giungevo sempre tra gli ultimi al frigo dei gelati, e spesso, dovevo accontentarmi di un arancione, o di un rosso, mentre il fortunato assaporava tutto il gusto del momento. Più o meno in questo modo, in quelle prime calde estati degli anni novanta, si consumavano le mie prime sconfitte. Ma una volta, almeno una volta è accaduto lo ricordo, riuscii anch’io a pescare l’ambito azzurro in mezzo agli altri colori.. Ma quando fu ora di addentarlo percepii, un gusto strano, che definirei quasi sgradevole. All’incirca in questo modo conobbi il gusto amaro della vittoria. 24 I LECCALECCA Passati un po’ di anni i ghiaccioli lasciarono il posto ai leccalecca, ma questa volta era tutto più semplice, niente più corse selvagge nei bar, niente più stress da competizione, bisognava semplicemente stare seduti sulle panchine, impiantate nel parchetto fuori dalle scuole medie, e osservare le compagne di classe che gustavano i loro leccalecca, in un preadolescenziale gesto d’estremo erotismo, i commenti erano pesanti e gli sguardi intensi, e loro facevano a gara per chi riuscisse ad avere più occhi puntati addosso. A differenza dei ghiaccioli, quest’attività l’apprezzavo tantissimo. Noi fumavamo sigarette, un po’ comprate, un po’ rubate ai nostri genitori, e guardavamo, guardavamo, e loro si lasciavano guardare, tutto sembrava perfetto, e nessuno pensava alla campanella, che sarebbe suonata solo pochi minuti dopo, interrompendo la magia. Difficile a spiegarsi ma, la mia preferita, aveva sempre tra le labbra un leccalecca azzurro, e a me piaceva pensare che una porzione di cielo fosse scesa per farsi toccare dalla sua lingua, e io stavo lì a guardare, cercando di non farmi sfuggire nemmeno un secondo delle sublime visione, mentre la fantasia volava perdendosi nell’ azzurro di quei pomeriggi. Una volta mi capitò di riuscire a realizzare le mie fantasie con una ragazza, non era lei, però teneva tra le labbra lo stesso colore. Il gusto, non fu però quello che m’aspettavo, somigliava quasi al ghiacciolo ambito della mia infanzia,fu così che conobbi il gusto amaro dell’amore. 25 12-12-00 Parole usate come fucili su un freddo foglio bianco apparentemente innocue possono essere più devastanti di un raid nato aprono ferite che solo il tempo potrà forse un giorno guarire 26 6-7-2000 O NOTTE Io or ti canto Perché mi sono innamorato Del tuo oscuro manto Così buio ma Tu sei la compagna Più bella Che uno (si) possa desiderare Così bella (che) nessuno Può averti Ma tutti possono SOGNARTI Ma che belle le NOTTI Le notti d’estate Sotto il ciel sereno Ritrovarsi SOLI Con le sole stelle Per compagnia È bello cercare Di ritrovarsi Nel chiarore di queste COMPAGNE NOTTURNE Loro ci osservano E (ci) guidano VI PREGO NON ABBANDONATEMI ANCHE VOI 27 10-7-2000 O ALBA Così ancora oscura e misteriosa Fai solo intravedere I primi chiarori Sei forse ignara Delle angosce Che RISVEGLI? 28 30-1-01 Vedo un albatro volare prima di perdermi per sempre in un sonno senza sogni invidio la libertà attraverso le mie sbarre NON C’È NIENTE DI PEGGIO CHE VEDERE GLI ALTRI VOLARE mentre si sta 29 AFFOGANDO 20.10.2000 VAGO scalzo di ambizioni per strade di DOLORE e città D’INDIFFERENZA con la solitudine per compagna cercando una stella che forse NON ESISTE 30 Inutile Pianto 16.2.2000 Ormai la sera è calata e s’è tutto rasserenato il cielo ha smesso di piangere io NO 31 endegu du matin 26.10.2009 Mi ero svegliato controvoglia, di malumore, i vetri della finestra già rischiarati dal giorno facevano intendere che non sarebbe trascorso molto tempo da quel momento al rumore gracchiante che trasmetteva la mia radiosveglia d’allora, il motivo era dovuto al fatto che non avevo mai avuto l’iniziativa di sintonizzarla su alcuna stazione. Pensai: “Perché no?” di svegliarla, l’avevo conosciuta circa una settimana prima, in un’edicola fuori paese, nascosta tra pile di quotidiani e riviste scandalistiche. Portava i capelli di un colore rosso non suo, che le scendevano lievemente ondulati lungo la schiena. Gli occhi erano però verdi e autentici, il seno generoso e pure quello autentico. Cercavo il suo sguardo e quando lo trovai, provai un brivido che scacciò i residui del sonno. Portava una veste da notte color indaco, che le scendeva fino all’inizio delle cosce lasciandole le gambe quasi completamente scoperte, le fissai per un po’, aveva delle splendide ginocchia, non glielo dissi mai. In quell’istante mi sentii fortunato ad averla nella mia camera. Sarà stato l’orario strambo o il poco tempo disponibile, ma non durai molto, non era la prima volta, non fu l’ultima ne fu la più bella. Uno schizzo mattutino inusuale si versò su di me, mi pulii sommariamente la mano con un calzino usato, abbandonato provvidenzialmente accanto al letto. Restai per un po’ immobile, con gli occhi socchiusi senza la speranza di potermi riabbandonare al sonno che tanto avrei desiderato, quindi riposi in un angolo del comodino uno dei tanti giornaletti che mi facevano compagnia a quel tempo, avevo tredici anni e fu un periodo di grande scoperta di sé e del mondo. 32 la filosofia del mattino (ossia a proposito di quei 15 minuti che dividono i sogni dalla realtà) 12.08.07 L’aurora è orami alta nel cielo. Mentre la luce cala di nuovo su la mia stanza e su ciò che le sta intorno, il sapore del martini rosso, mischiato a qualche succo gastrico, mi risale per la gola, provocandomi una dolce sensazione di disgusto, l’aroma della festa finita. Sarebbe sufficiente anche solo quel po’ di forza necessaria per sollevare le lenzuola e sollevarsi in piedi, ma pensieri, paranoie e angosce mattutine mi tengono inchiodato. Mi rigiro e nella testa mi rimbalza il pensiero di lei, di me, di quanto ora lei possa star bene, di come quest’estate sia uguale a tutte le altre, di cosa accadrà quando giungerà l’autunno e ho quasi voglia che arrivi natale. Mi piace illudermi, nel pensare così a lungo termine, perché riesco ad autoconvincermi che nel giro di qualche mese dovrà pur accadere qualcosa, nonostante la mia tendenziale inerzia, il vento dovrà pur cambiare, almeno sono sicuro che cambierà il clima e questo, un po’, mi rincuora. Cerco di concentrarmi sulle occasioni che ipoteticamente potrei aver perso, giorni, mesi, anni, fa. Se ieri sera fossi riuscito a dirle qualcosa mentre era lì da sola con lo sguardo perso sulla folla, se ogni tanto mi fosse venuta la voglia di spendere 20 cent per inviare un fottuto essemmesse, se mi fossi fatto coraggio e avessi avuto la voglia di inventarmi una cazzata qualunque quel sabato, se quella volta mi fossi fermato qualche minuto di più fuori dall’università, se avessi preso quel treno, se fossi stato capace di dirle “ti amo” almeno una volta. Forse, tutto questo, rapprsenta solo un’attività sterile condita con un pizzico di masochismo, forse sto solo cercando di temporeggiare per evitare d’iniziare questa giornata, ma penso che questo non sia del tutto temo perso, al risveglio la mente è più lucida, meno appesantita dagli eventi, dalle persone che ci tocca incontrare. Al mattino, o pomeriggio a seconda dei punti di vista, appena sveglio credo di essere più sincero, intelligente, lucido, geniale, chiaro, peccato che nessuno possa ascoltarmi. Ora mi sa che mi alzo, ho bisogno di lavarmi i denti per togliermi di dosso questo schifo di sapore. 33 les sourires 29.09.07 Mieux vaut n’penser à rien que de penser à vous ça n’me vaut rien ça n’me vaut rien de tout mais comme si de rien n’était je pense à tous ces petits riens qui me venaient de vous serge gainsbourg “ces petits rien” (Ces petits riens, Serge Gainsbourg) Alle due di notte, i camerieri iniziano ad ammucchiare le sedie sui tavoli nei locali. Solitamente, a questo segnale inequivoco, mi alzo, e me ne torno a casa. Mi metto a letto, ed è lì che l’esistenza inizia a prendermi a morsi. Alla fine, sei sempre tu quella che ho in testa. Il tuo ricordo, lucidato dai troppi rifiuti, rende la tua immagine ancora più unica, pura, triste. Io ti penso e tu sorridi, come in quella fotografia. Io ti penso e tu mi sorridi. Io ti penso e tu starai pensando a tutt’altro. Io, chiuso in un angolo della tua mente, posso solo regalarti qualche dolce brivido di malinconia ogni tanto, e tu sei contenta così. Io, che forse vorrei reincontrarti, ma ho paura. Io che ho paura di non esser più capace di riuscire a farti sorridere. * Meglio pensare a niente, che pensare a te, questo non mi serve a niente, non mi serve affatto, ma come se niente fosse, penso a tutti, quei piccoli niente, che tu mi davi. (nda) 34 scusa se non ti parlo d’amore 30.08.07 -Magari poi quando torno ti chiamo che mi racconti.- Mi ha detto lei. -Sì certo, mi farebbe piacere.- Ho risposto io, non so se più per cortesia, o perché desideri d’incontrarla veramente. Cosa potrei raccontarti dei miei ultimi dieci, undici, dodici mesi. Le bottiglie vuote sparse per la stanza aumentano, e di tanto in tanto, mi tocca piegarmi per andare a recuperarle in ogni angolo, danno una visione più personalizzata dell’ambiente, ma dopo un po’ cominciano a puzzare, e è un casino. I pacchetti di sigarette che prosciugano il mio portafoglio, ogni tanto penso che potrei risparmiare quei soldi per comprarmi qualche vino di qualità, ma poi il richiamo, che definirei estetico, della sigaretta, finisce per sedurmi di nuovo, d’altronde, anche ora che sono qui a scrivere al computer, mi sembra di essere più serio con la paglia tra le dita, e poi il fumo che scorre davanti allo schermo è proprio bello. I libri sparsi un po’ ovunque, molti portano delle macchie di diverso colore: vino, birra, caffè, a me piace pensare che siano delle ferite di battaglia, e anche questo mi aiuta a sentirli un po’ più miei, odio i libri tenuti in maniera asettica, come se fossero ancora abbandonati, invenduti, sui banconi di qualche libreria, qualche giorno fa, Raymond Carver mi ha fatto quasi desiderare d’innamorarmi, ma poi tutto è passato, i suoi personaggi sono limitati alle sue pagine, credo. Do un paio di sorsate alla mia birretta doppio malto, per cercare di farmi venire in mente qualcosa di veramente importante che potrei raccontarti, non ci vediamo ormai da un anno, qualcosa d’interessante ce l’avrò pur da raccontarti, ma per quanto possa scavare nella mente, non riesco a trovare niente. Una tua fotografia ormai vecchia di quattro anni che custodisco ancora in un cassetto, l’immagine di un paio di orecchini che ti avevo regalato, un viaggio che non abbiamo mai fatto, un paio di poesie che ti avevo dedicato, qualche tuo sorriso ancora stampato nella mia mente e quei momenti in cui credevo di stare bene. Vorrei tanto che tu diventassi solo un bel ricordo, una parte di me, al pari di tutte quelle cose che sono riuscito a lasciarmi alle spalle. 35 UN BAISER S’IL VOUS PLAIT 04.02.09 “Certo così. Tutto è finito e tutto finisce... E io la bacerò sulla fronte, e tutto, per lei andrà per il meglio... (Michail Bulgakov) Forse anche lui, in quel pomeriggio del quattordicesimo giorno del mese primaverile di Nisan, avrebbe avuto bisogno di un bacio, di certo se lo sarebbe meritato, prima di vedere sprofondare il mondo sulla cima del monte Calvo. Forse avremmo bisogno tutti di un bacio prima di scaricare nello ieri tutto quanto c’è accaduto durante la giornata, scene di minuti poco memorabili scorrono nella testa nel mezzo di quest’altra nottata votata all’inquietudine. Immagini, ricostruzioni, relitti del passato, rubano al sonno questa notte. Il primo bacio, l’avrei tanto voluto immortalato nell’azzurro di un pomeriggio trascorso alle scuole medie, quando si andava alle prime feste e alla fine nessuno era sfigato, perché in fin dei conti nessuno aveva ancora combinato un cazzo, tempi in cui se quella che ti piaceva ti scambiava uno sguardo era già un successo da raccontare, e se poi non fosse comunque successo nulla, la vita era ancora così lunga che non c’era proprio di che preoccuparsi. Forse a quell’età il bacio l’ho perduto e lei s’era stancata proprio quando io avevo iniziato a pensarci. Stetti male credo due o tre giorni per quell’occasione mancata, e poi c’erano ancora i pomeriggi sul campo da calcio, le sere in sala giochi, e l’immaginazione su quei vent’anni, che apparivano lontani e splendidi. Ricordo di uno squallido parcheggio di fronte a uno di quei locali dove l’adolescenza sboccia in risse e litrate di birra per lenire le prime frustrazioni. I tempi erano più difficili, e se non avevi ancora combinato un cazzo allora iniziavi ad essere considerato se non uno sfigato per lo meno un diverso, venendo additato come “quello che ancora non aveva..”, lì non so se più per arsura o per disperazione avvenne. Io, che sul banco di scuola avevo fantasticato sulla vicenda di Paolo e Francesca, conquistai il mio primo bacio sulle scalinate di un disco-pub davanti a degli ubriachi fradici, che attendevano il loro turno. Nonostante tutto, ritornato a casa, ero felice, se non altro era stata una serata da poter ricordare. 36 Poi quel bacio finalmente reale alla persona che quando la pensi speri che anche lei ti stia dedicando almeno un pensiero, quella che in una notte come questa potrebbe anche solo con un bacio sulla fronte, spegnere per un po’ pianti, angosce, paranoie, e accompagnarti nel sonno profondo. Ricordi sbiaditi affiorano alla mente, ma se le immagini riescono ancora ad essere evocate, più difficile è ricostruire i suoni, gli odori, il tatto e il gusto di quei momenti, di quella mattina d’inverno che svegliandosi ti sorrise . Ma poi tutto è finito perché tutto finisce, e il solo ricordo di quei baci non può sortire lo stesso effetto. Rimangono così i volti ora vividi, ora sfocati, di tutti quei “avrei potuto..” ma poi non era di certo la situazione adatta; alla fine la conoscevo appena; avrà di sicuro altro per la testa; e poi chi sono io per osare un bacio. Penso ai volti, agli sguardi, alle labbra, ai baci che mi sono stati concessi, ma soprattutto a quelli che non ho osato dare, così rimorsi e inquietudine s’impossessano di questa lunga nottata, alla fine non mi pare di chiedere la Rivoluzione, ma soltanto un bacio per favore. 37 Una notte 02.04.07 Una notte, un mercoledì notte, un po’ di alcol per distendere i nervi, mi siedo sul mio divano e cerco di raggiungere l’atarassia, non pensare a niente, ne a me, ne ai libri, ne agli esami, ne a lei, ne lei. Lei oggi forse felice, lei che ha avuto l’audacia, o il coraggio, o la fortuna di aver saputo guardare oltre… I suoi messaggi di questa notte mi sono sembrati, colorati, vivi al contrario delle mie risposte che sono state grigie, ferme, immobili. Sarà perché è mercoledì notte, sarà perché sono di carattere freddo, sarà perché, dove sono nato io, non c’è il mare. Per fortuna so di avere un’altra birra fresca nel frigorifero, basta poco per sentirmi meglio. Forse, anziché starmene qui mezzo ubriaco, già a vent’anni a rimpiangere i miei ricordi dovrei reagire. Sì ma come? Andrò a dormire, sarà perché sono le sei del mattino, sarà perché ormai si è fatto giorno, sarà perché la bottiglia è vuota. 38 39 Scrivo perché spero che qualcuno mi legga, anche se saranno solo gli amici, è già qualcuno 40 l’eterno ritorno 22.06.07 Finalmente mattina, mattina d’esami, mattina in cui, forse, anch’io credevo di fare qualcosa d’importante, mattina in cui, probabilmente credevo di vivere un momento simbolico, di essere nel presente cosciente di un mio giro di boa, forse non il più importante ma il primo, almeno. Mattina in cui, sicuramente, mi sentivo capace anch’io di sognare un mio domani, magari lontano, almeno abbastanza per dimenticare questi quattro squallidi muri, su cui ogni tanto ho pisciato, forse per un’adolescenziale gesto di derisione contro l’autorità, forse perché ero un po’ sbronzo, forse perché, alla fine a questo posto, mi ci sono affezionato, lo sento un po’ mio, gli voglio bene. E anche adesso, che tutto è finito da tempo, sono ancora qui, a pisciare su questo fottuto muro, a camminare un po’ qui, magari immaginandomi uno zaino in spalla… Un po’ vi invidio maturandi di oggi, coi vostri pacchi di sogni ancora intatti, magari ci ritroveremo, tra qualche anno, a pisciare su questo muro e a bere del buon vino rosso sul : “non volere crescere…”. 41 LA SCHIUMA DEI GIORNI Sopra un cielo verde petrolio giocavano a rincorrersi due arcobaleni, il gioco creava decine di nuovi colori, che si stagliavano nel cuore del cielo tardo pomeridiano. La sera ancora non si decideva ad arrivare, quel giorno, allungando così l’ora degli aperitivi. Sotto la volta multicolore le strade s’incontravano, più spensieratamente di qualche ora prima, il lavoro era finito, ed ora i tavoli dei caffè sul corso erano popolati di gente e sorrisi, i pub vendevano birra e i clienti erano contenti di gustarla in un clima ancora così luminoso, nonostante l’ora sempre più tarda. Finestre, che riflettevano tutti i colori del cielo, osservavano, come dei benevolenti, lo spettacolo quotidiano della coda del giorno. Nonostante il trambusto l’osservare la scena dava quella sensazione di calma e serenità, che può dare il mare calmo nei pomeriggi più azzurri. Ognuno sapeva che, solo dopo poche ore, il cielo sarebbe tornato di nuovo grigio, e gli autobus sarebbero stati di nuovo affollati di gente assonnata. Ma al momento tutti riuscivano a non pensarci, e i bicchieri continuavano ad alzarsi in fragorosi brindisi al tempo presente. Poco importa se l’esistenza appariva come una folle corsa in circolo senza significato, se ogni amore pareva destinato a morire e se la casa sarebbe divenuta sempre più piccola, fino a sparire. In fondo, alla fine di ogni giorno, nessuno poteva togliere quella felicità, che si genera, come la schiuma dall’onda, quando sta per riuscire, finalmente, a spegnersi sulla dorata superficie di qualche spiaggia. Arriva la notte, ma la schiuma dei giorni ha lasciato dei segni sulla sabbia, impossibili da dimenticare. 42 PRIGIONI Hasta siempre fratelli! Stavo leggendo il nuovo titolo del nostro organo di resistenza “prigioni”, titolo sicuramente duro ma che rispecchia in pieno la realtà. La realtà di una vita che è formata da tante prigioni, che limitano sempre di più la nostra libertà. Queste prigioni sono le leggi assurde e/o ingiuste, il realismo, il comportamento di massa, le mode, lo schiavismo, il colonialismo, e potrei procedere per parecchie pagine. La domanda che mi e voglio porre nella stesura di questo quaderno è la seguente: E’ possibile scappare da queste carceri quotidiane?. In base alla mia breve esperienza posso dire che finora mi è sembrato impossibile. Un albero che combatte da solo contro una tempesta, per quanto possa resistere, prima o poi verrà abbattuto. Mi sento costretto a guardare il mondo attraverso 4 sbarre, non mi sento veramente libero, vedo questa liberazione come un’utopia irragiungibile. La vita da carcerato non è facile, alzarsi al mattino sapendo di trovarsi davanti ad un altro giorno stronzo, è difficile trovare la forza per abbandonare i sogni e trovarsi sommersi nella merda della realtà. E’ difficile tirare avanti, ma bisogna riuscirci, non voglio arrendermi alla classe A, se dovrò morire lo farò con le armi in pugno, difendendo i miei pensieri, le mi UTOPIE W L’UTOPIA ABBASSO LA REALTà carcerato n°0000 (Stefano) 43 IMPRIGIONATI DA CARCERIERI SENZA CUORE Scrive il carcerato n°0000, scrive per urlare la sua rabbia verso lo stato di prigionia in cui è ridotto. Scrive per non piangere. Scrive per esprimere la sua incazzatura verso i carcerieri di questa sua prigione. Sì perchè la società è composta da un gran numero di carcerieri con le loro leggi e i loro comportamenti. Ci sono un gran numero di persone stronze e false. Una persona può dirsi tua amica e fingere di preoccuparsi per te, per poi abbandonarti quando pare. E’ una condizione disatrosa, come può una persona fingere di volere bene? Questi carcerieri, oltre ad essere molto stronzi, sono pure furbi, per farti soffrire di più si fingono tuoi amici per poi fregarti. Questa è la società moderna. Noi imprigionati in mille prigioni, da persone senza cuore, che compognogno gran parte della massa. BASTA voglio evadere, ma la mia prigione è un fosso senza fondo, ed io mi sto corrompendo finchè non mi distruggerò del tutto! (“prima di morire” Carcerato n°0000) 44 THE TIMES THEY’RE A CHANGING Hasta Siempre! Fratelli, purtroppo lo stress quotidiano scolastico ha ricominciato a torturarci, tra poco si riprenderà con interrogazioni, compiti in classe, ma NON PENSIAMOCI. Pensiamo a divertirci che è molto più meglio, per esempio sabato sera abbiamo assistito, a mio modo di vedere, a uno strabellissimo concerto, dove un gruppo, come la Gang, riesce a coniugare musica e parole, impegno militante e sentimento con grande stile. Devo assolutamente ringraziare Marino per aver dedicato il concerto agli ultimi comunisti, che però ha specificato saranno i primi di una lunga serie, speriamo! Dopo alcuni anni di ristagnazione politica, le cose stanno cambiando, c’è un nuovo forte movimento di contestazione che come nel ‘68, parte dai comunisti e dagli anarchici per arrivare ai cattolici e agli ecologisti, un movimento che inizia a far paura ai poteri forti, che sono costretti a fronteggiarlo con la repressione di piazza e diffamandolo attraverso i loro strumenti di disinformazione. Purtroppo con la spinta rivoluzionaria di cambiamento è arrivato anche il terrorismo, prima la bomba a Venezia, poi in una sede della Lega ed infine l’attentato spaventoso contro gli USA, come va tutta la mia solidarietà ai parenti delle vittime, va tutta la mia rabbia contro il potere occidentale che ha fatto di tutto per provocare quest’attentato, comportandosi da signore e padrone di tutto il mondo. Bush vuole cercare i responsabili dell’accaduto? Basta che si guardi allo specchio e poi volti lo sguardo verso i suoi predecessori, e verso gli alti piani delle sue forze armate (terroristi almeno quanto i fondamentalisti arabi) e dei suoi servizi segreti. Lui chiama l’occidente alla guerra, noi gli rispondiamo con un urlo di pace. Sono stanco di questi intuli silenzi, uno perchè neanche un minimo di questo atteggiamento è stato riservato a tutte le vittime delle sante guerre NATO, o per i palestinesi ed i civili israeliani, o per qualsiasi altra tragedia umanitaria, due perchè non voglio starmene in silenzio mentre i potenti per un’assurda quanto disastrosa, se si dovesse verificare, come sembra, vendetta. Non voglio vedere morire altri innocenti, non voglio vedere altri attentati terroristici che in caso di intervento USA si moltiplicheranno, io voglio la pace, voglio la pacifica esistenza tra i popoli, non voglio starmene in silenzio, voglio urlare: LA MIA LOTTA PER LA PACE Stefano 45 GENOVA LIBERA Venerdì 20 luglio 2001 torno da lavoro, mi addormento, appena mi sveglio la tv è sintonizzata sul tg3, si parla di Genova, sneto che si parla di un morto, mi precipito, il compagno Carlo Giuliani muore ucciso durante la grande manifestazione di Genova contro il G8, organo illegittimo che si permette di decidere le sorti della terra in base al volere delle multinazionali e di pochi altri potenti. Carlo si trovava in piazza a manifestare con i compagni in quella giornata e fu colpevole di cercare di difendere se stesso e le altre persone in piaza da una pistola puntata contro di loro. Ora non voglio colpevolizzare il carabiniere (militare di leva!) venutosi a trovare in una simile situazione, colpevolizzo chi ha organizzato la repressione genovese con il preciso ordine di intimidire ogni forma di dissenso. SABATO 21 Luglio 2001 ore 00.00 - Parto da Brescia con un gruppo di compagni, in treno, alla volta di Genova, nonostante i fatti della giornata appena trascorsa il morale è alto in treno, si ride, si scherza, si beve, si fuma e si spera che la giornata che ci aspetta non sia tanto tesa come quella trascorsa. ore 6.05 - Arrivo alla stazione di Quarto. Tempo di svegliarsi (chi cazzo ha dormito?) e partenza a piedi alla volta di Genova città dove si terrà la manifestazione. Ore 6.40 - Mentre siamo fermi su un marciapiede per la colazione sfrecciano 4-5 cellulari di sbirri, una di loro ci segna con il dito di andare affa... un’altro estrae addirittura un manganello sventolandocelo sotto gli occhi. Dalla nostra parte si leva un grido ASSASSINI, un urlo che ci accompagnerà per tutta la giornata. Ore 8.00 - Arriviamo in corso Italia e ci concediamo una mattina da turisti, senza troppe preoccupazioni Ore 12.00 - Inizia la manifestazione, gli socntri visti in tv del giorno prima sembrano distanti anni luce. Ore 14.00 - Fumi bianchi di lacrimogeni all’altezza del piazzale Kennedy bloccano il corteo che fino a quel momento era stato una festa, la tensione cresce, noi riusciamo a passare tra i lacrimogeni e raggiungere corso Torino, lì veniamo caricati diverse volte ma da lontano, molti lacrimogeni, ma viste le immagini c’è andata molto bene. 46 Ore 15.00 - Il corteo continua a sfilare per le vie di Genova, nonostante la tensione, si ha sempre voglia di cantare e di urlare i nostri slogan, fra tutti: GENOVA LIBERA Ringrazio tutti i genovesi che ci gettavano cibo e acqua per bere o per rinfrescare la giornata torrida e tutti coloro che hanno sventolato le loro mutande dai balconi davanti a Silvio e ai suoi Lord. Ore 16.30 - La manifestazione si conclude ma la città è piena di barricate e scontri, quindi radio gap invita tutti i manifestanti a ritrovarsi al Marassi giudicato un posto “tranquillo”. Ore 17.00 - Arrivo al Marassi, c’è molta gente che si sta riposando dopo la dura giornata, gente che mangia, che dorme, che chiacchiera, nessuna tensione, ma due elicotteri degli sbirri ci osservano dall’altro. Ore 17.05 - Arriva la celere, comincia la carica...una carica imprevista contro gente assolutamente pacifica che non stava nemmeno manifestando, molti scappano, altri si incazzano e organizzano una carica contro i polotti. Questa non è gente violenta, ma sono persone esasperate da una giornata sotto cariche e lacrimogeni, la stessa rabbia che aveva provocato gli scontri anche in piazza alimonda il giorno prima. La pula indietreggia leggermente, ma poi risponde e ci ritiriamo ancora, fortunatamente lo scontro finisce qui, si vede che eravamo in troppi e hanno avuto paura a massacrarci. Ore 18.00 - Decidiamo di arrivare nella riaperta stazione di Brignole, aspettiamo oerò un gruppo abbastanza folto perchè sono arrivate notizie di gruppetti che si stavano recando in stazione fermati e pestati dalla polizia. Ore 18.40 - Finalmente in stazione , dove dopo aver mangiato un po’ mi addormento. Ore 20.00 - Non si capisce quando cazzo dobbiamo partire, comunque alcuni treni sono già partiti e altri stanno partendo. Salutiamo i compagni in partenza tra sventolii di bandiere rosse e pugni chiusi, hasta siempre e appuntamento alla prossima. Ore 22.30 - Siamo in treno ma non partiamo, dobbiamo aspettare dei compagni di Milano. Nell’attesa arriva la notizia della presa fascista della scuola Diaz. Qualcuno vuole andare a sostenere i compagni, ma purtroppo mancano le forze. 47 Ore 00.00 - Partiamo da Genova Ore 4.10 - Arrivo a Brescia dove un coglione del parcheggio ci chiede se siamo andati a Genova e ci informa che abbiamo fatto una cosa inutile. Se non fossero le 4 e non fossi a pezzi lo prenderei a calci. Ore 5.10 - Arrivo a casa PS Mi scuso per l’approssimità degli orari, che vanno in base alla mia memoria. Questa è la Genova che ho vissuto io. Non voglio soffermarmi sui vari soprusi della polizia, già ampiamente dimostrati dai deputati di AN che giravano le caserme ad incitare gli sbirri ad essere il più spietati possibili. Voglio solo esprimere preoccupazioni per la democrazia ed il diritto a manifestare nel nostro paese, che questo governo sempre più di destra sta mettendo a repentaglio. LA LOTTA, LE BANDIERE ROSSE, I PUGNI CHIUSI DEI COMPAGNI, LE URLA DI RIVOLTA LA REPRESSIONE, LE CAMIONETTE BLU, LE LORO SIRENE, I MANGANELLI DI QUEGLI ANIMALI POI UNO SPARO BUM TU CADI A TERRA MA LA LOTTA CONTINUA E CON NOI ANCHE LA TUA VITA! 48 AVVENIMENTI Ciao Fratelli! Pare che la nostra classe B stia attraversando un momento difficile. Ma ricordatevi, è indispensabile toccare il fondo per tornare a galla, però non dobbiamo annegare, la resistenza è uno dei tanti pilastri che regge la classe B! Coraggio! Stiamo vivendo un grande buio dentro giorni tristi, ma non dobbiamo scoraggiarci, cerchiamo di portare i nostri ricordi nei momenti giusti dove stavamo bene, dove non abbiamo mai pianto, non dobbiamo illuderci che possano tornare, però potrebbero essere le fondamenta per la costruzione di una felicità che abbiamo perso in chissà quale idiozia televisiva, inutile voto, o lezione scolastica, in persone stronza alle quali non gli frega proprio un cazzo di noi! Capisco che possiamo sentirci stanchi, depressi, demotivati, abbattuti, ma non dobbiamo arrenderci, non renderemo mai le nostre armi (giustizia, eguaglianza, libertà) che pur non sparando sono più efficaci di un carro armato. Noi siamo la classe B e se dovremo morire, moriremo con le nostre armi in pugno, combattendo, finchè anche la più fioca speranza riuscirà ad illuminare i nostri abbattuti, ma vivi cuori. Fratelli, dobbiamo ricominciare da zero, affrontare situazioni che stancamente si ripeteranno senza tempo, a questo punto non dobbiamo mollare, qui la lotta si fa dura ma noi, se le prenderemo di santa ragione, dovremo insistere di più. Quando ci alziamo e ci sentiamo distrutti facciamoci forza e andiamo incontro al nostro giorno, coraggio fratelli, coraggio! Non spariamo cazzate citando don Abbondio (tutti noi conosciamo le capacità mentali del classe A, Manzoni, cfr “i promessi sposi”), tutti noi in quanto esseri viventi possediamo una certa dose di coraggio, ora possiamo decidere se questo coraggio vogliamo sopprimerlo, oppure urlarlo, sbatterlo in faccia a questa società di merda, vomitarlo sopra il capitale trionfante che vuole alienare le nostre menti. Fratelli, dobbiamo mantenere il coraggio di sognare. Almeno questo accanto a questo realismo del cazzo. Opponiamo i nostri sogni, ricordatevi: se un sogno è sognato da una persona sola rimane un sogno, se siamo in molti a sognarlo, è l’inizio di una nuova realtà. Difendiamo i nostri sogni, le nostre utopie, perchè: può essere chiamata vita, un’esistenza senza il sognare? Fratelli, dopo tutto questo buio, quando finalmente rivedremo la luce ci apparirà più bella, non c’è niente che sia per sempre, perciò se è da un po’ che stiamo così male ed il nostro diploma è il fallimento, dovremo conseguire una laurea per reagire. Resistere, resistere, questa parola dev’essere stampata nel nostro cuore. Fratelli, o resisteremo o moriremo, a voi la scelta! Per me ora la classe B non è più un gruppo di compagni di classe che ha voglia di sparare cazzate e prendere per il culo Kaos ecc. La classe B per me è un gruppo 49 di resistenza culturale, che ancora non si vuole piegare al comportamento della classe A, che equivale a quello della massa (non sto scherzando, davvero!). Ora non credete che io sia l’ottimista di turno che cerca di tirare su il morale con ragionamenti idioti. Io sto male, probabilmente sono anche più depresso di voi, ma nella mia depressione ho capito che la tristezza è un’arte, è il segreto dei poeti: essere tristi significa essere persone che pensano, che si interessano della realtà circostante, e che rendendosi conto dello schifo circostante non rimangono indifferenti, ma divengo tristi: solo le persone più sensibili si rattristano per la realtà. E noi siamo fortunati ad essere tristi, forse saremo in via d’estinzione, ma ci siamo ancora! Esistono ancora persone che pensano e si rattristano liberamente, questo dobbiamo urlarlo con tutta la nostra voce, su ogni ingiustizia commessa da chiunque in qualsiasi parte del mondo. Nello stesso tempo, nella mia depressione, ho anche capito che però non si può stare fermi a constatare la propria rovina, bisogna cercare di reagire, in certi momenti è veramente difficile, sembra quasi impossibile. In questi casi è indispensabile un aiuto esterno, fratelli non chiudiamo in noi stessi la nostra solitudine, diamole sfogo. La nostra tristezza deve servirci per reagire, non per rovinarci. CORAGGIO INSIEME RESISTEREMO 50 10-1-2009 Domani saranno passati dieci anni dalla morte di Fabrizio de Andrè. Dieci anni fa io ero in prima superiore, era il 1999 e quello fu un anno in qualche modo importante. In quell’anno in quella scuola ho conosciuto delle facce che m’hanno accompagnato per un po’ di tempo, e alcune, per fortuna o purtroppo, me le trovo spesso davanti anche in questo 2009 ed è stato in quel lontano anno in quella scuola che cominciai ad ascoltare i dischi di fabrizio, ricordo la cassetta duplicata da un compagno di classe che fece da colonna sonora a quelle vacanze natalizie di fine millennio, fu una scoperta importante, esistenziale, prima di quel periodo le mie conoscenze erano limitate a quelle quattro, cinque canzoni, che si susseguivano ininterrottamente negli interminabili viaggi verso quei quindici giorni sul Mar Adriatico, che per diversi anni anni sono state le mie vacanze. Credo di dovere molto di ciò che ho vissuto in questi dieci anni alle sue canzoni, la lotta collettiva sulle note della “canzone del maggio”, poi inevitabilmente ridotta a quella personale e soggettiva del bombarolo, il pacifismo per niente retorico di Piero, vittima di una guerra non sua, la simpatia per quel ebreo palestinese che “con un gesto soltanto fraterno una nuova indulgenza insegnò al Padre Eterno”. L’amore per la città di Genova, passeggiare oggi in via del Campo senza che lui fosse mai esistito non avrebbe lo stesso significato, sulla melodia della “canzone dell’amore perduto” ho capito come le passioni possano piano spegnersi e svanire e come s’invecchi anche a vent’anni. I rimorsi per “quelle cosce color madreperla, che rimasero forse un fiore non colto”. La voglia d’esistere del suonatore Jones “che con la vita avrebbe ancora giocato...” Sono certo che senza questi pezzi la mia vita fino ad ora sarebbe stata sicuramente più vuota, è questa la bella eredità che Fabrizio ci ha lasciato. Nell’assoluta indecisione sul pezzo da inserire vi propongo una canzone che mi ricorda quelle buie mattinate di dieci anni fa in cui il mio stereo mandava le canzoni di Fabrizio come sveglia. 51 Apriamo i cancelli degli asili, delle scuole, delle università e di tutte le altre prigioni … Un numero intorno al 6000, è la cosa che più mi ha colpito quando mi è stata consegnata la pagella di quinta superiore. quelle cifre indicavano il numero di ore che io avevo trascorso internato nel mio liceo. Per un attimo ho pensato a tutte le cose che avrei potuto fare in quell’incredibile massa di tempo, leggere tutti libri di Kafka, innamorarmi, imparare il tailandese, contare le stelle, bere fino a vomitare, dormire. Invece mi sono tornate alla mente le grigie mattinate, seduto a fissare il vuoto e la lancetta dei minuti. Le ore trascorrevano lente tra suoni di campanelle e segni sulle lavagne, tra assopimenti di prima mattina e lezioni soporifere, tra interrogazioni più o meno inaspettate e compiti in classe diversamente bestemmievoli, all’incirca in questo modo si è consumata la mia adolescenza. Gli insegnati non sono mai riuscito a classificarli, una posizione sempre altalenante tra il complice e la vittima. Adesso, dopo qualche anno che mi sono diplomato, penso d’aver compreso che anche loro erano vittime, forse in una condizione addirittura peggiore della mia. Ingabbiati in un luogo dove cultura si traduce in un sapere prettamente nozionistico da impartire agli studenti e formazione del cittadino significa educazione all’obbedienza dove ogni segnale di vivacità mentale viene soffocato in difesa della sacralità del piano didattico. Ripensando ai miei anni da liceale mi vengono in mente lezioni tediose, inutili numerini scritti su un libretto, minacce di bocciature e debiti formativi, non ricordo viaggi appassionanti nella scienza o nella letteratura, tra i banchi di scuola non sono mai riuscito a entusiasmarmi per uno scienziato, un filosofo, o un chimico, non perché non lo volessi ma perché l’ambiente era stato creato per sopprimere sul nascere ogni tipo di entusiasmo o di amore per il sapere. Voglio concludere questa breve riflessione esprimendo un po’ di disprezzo per chi siede sulle poltrone delle presidenze, per chi , in piena conformità con i dettami della scuola moderna, amministra la scuola in maniera fascistica e autoritaria, per chi mostra scarso interesse per i diritti degli studenti attraverso inutili ingerenze sulle assemblee d’istituto o negando senza motivo l’intervallo il primo giorno di scuola. buon anno scolastico a tutt* Quintiliano (scrittore latino) 52 breve riflessione in una notte di mezz’estate 30.12.06 La signorina estate filtra dalle finestre della mia stanza, dopo mesi è tornata ad accompagnare le mie giornate, la vedo in televisione, la sento nelle strade, la gente ha voglia di divertirsi, di sfogare un anno represso in fabbrica, a scuola o in ufficio. È estate cazzo! L’estate è arrivata e io avrei tanta voglia di scaricarle il mio vomito in faccia. Provo a cercare di ignorarli, di ignorarvi, di ignorarmi, con le loro stupide ferie programmate quando fuori dalla finestra ancora nevicava, con le loro stupide menti piene di illusioni da realizzarsi entro settembre, con la loro voglia di essere che ancora li tiene in vita. Qualche volta ho pensato di iniziare a drogarmi ma ci vuole troppo coraggio e determinazione, e poi forse non servirebbe a nulla, finirei per costruirmi un benessere artificiale non molto diverso da quello ricercato da chi pensa di sentirsi realizzato costruendo una famiglia, ottenendo un pezzo di carta con scritto “laurea”, scopandosi il maggior numero di tipe possibili e altre stronzate di questo genere. A volte ho pensato addirittura al suicidio ma poi capisco che è un gesto troppo stupido o intelligente per uno come me, questa fine è riservata solo ai cretini e agli eroi, e la mia mediocrità non mi consente di appartenere a nessuna delle due categorie. A volte mi ritrovo alle tre del mattino, in una nottata estiva, a bere vino e scrivere ciò che credo di essere. Forse per voi leggere queste righe sarà stato l’equivalente di un gran calcio nei coglioni ma a me è servito. Vi ringrazio per l’attenzione ora possiamo continuare a pensare all’Italia campione del mondo, alla settimana che passeremo al mare, alle tette di quella tipa che abbiamo visto l’altro giorno al lago e a quanto siamo fortunati ad avere vent’anni agli albori del millennio. Si è fatto tardi ora si va vivere o dormire, io spengo la luce e rimango a fissare il soffitto. 53 Le beatitudini... 26.05.07 Felicità, la felicità non esiste. O se esistesse io non l’ho mai conosciuta, non ne ho mai fatto esperienza. Provateci voi a spiegare cosa si prova ad andare a 200 Km\h in auto a un !kung del botswana… Quindi beati voi: Che avete una bella auto, e che magari riesce pure a farvi rimorchiare; Che avete una bella donna, che magari si sveglia pure prima di voi per prepararvi il caffè ogni mattina, Che avete un bel lavoro, un salario, una bella casa, degli amici simpatici e divertenti, un colore preferito, un numero fortunato, paura dei ladri, fiducia in voi stessi, una squadra del cuore, un dio, le immagini di padre Pio appese al muro, un politico preferito, molte certezze e pochi dubbi, le ferie prenotate, un albero di natale, tanti progetti da realizzare, fiducia per il futuro, un po’ di autostima, un diploma o una laurea, un bel paio di scarpe, un figlio, il frigo pieno, il letto caldo, tanti elettrodomestici, un’amante, tre televisori, molti vestiti, un armadio pieno di farmaci, i fiori sul balcone… Beati voi che siete stati così fortunati, non sapete quanto vi invidio… 54 QUANDO I NERI TORNANO AD UCCIDERE 08.05.08 Alla luce di questa primavera, finalmente sbocciata, i neri, incuranti della colorata stagione, tornano a farsi notare nelle strade. Che c’è di strano? Penserete voi. I neri oggi siedono tranquillamente tra i banchi di maggioranza in parlamento, alcuni di loro sono ministri, e il loro discusso duce ricopre la terza carica dello Stato. I neri tornano ad uccidere, quasi in sordina, un atto che alcuni definiscono “solo” di semplice bullismo. Credo anch’io che nelle teste di quei ragazzi non ci fosse la stessa volontà criminale di chi ha fatto esplodere stazioni e piazze, ma rimane il fatto che una persona ammazzata di botte per strada non può essere definita una “ragazzata”. Vuoti e addormentati paiono essere i pomeriggi veronesi, e forse qui va ricercata l’origine di una follia che molti definiscono, comodamente, inspiegabile. La totale assenza di prospettive, le scarse opportunità da cogliere, una noia difficile da scrollarsi di dosso gettano decine, centinaia di giovani tra le fauci della destra radicale. Non è, probabilmente, un caso che la tragedia sia avvenuta proprio all’ombra del balcone di Giulietta, da anni gli osservatori delle nuove destre stanno definendo la “situazione Verona” come un pericoloso laboratorio di neofascismo e intolleranza, ne è una sconcertante prova il comportamento dei suoi ultras,ma, almeno fino ad ora, sono rimasti inascoltati sia dalla società civile nazionale tanto più dai cittadini veronesi immersi totalmente in uno stagno colmo di razzismo e xenofobia, che si manifesta nelle facili battute contro chi ha un viso di un colorito un po’ diverso o in un voto per il sindaco Flavio Tosi, che oggi si sta riducendo ad estenuanti esercizi di plastica facciale per mostrare una città civile e tollerante che, purtroppo, non esiste. Non s’intenda che questo sia un problema solo del centro veneto, la soluzione sarebbe fin troppo semplice, sempre più gente, di ogni città, cade in questo stagno, ne è la prova il raddoppio dei consensi che la Lega ha ottenuto in Emilia Romagna. Troppo facile, oggi, prendersela, esclusivamente, con i cinque omicidi. “Ingabbiateli, e buttate via le chiavi.” Esclamano ora i loro ex-camerati augurandosi che dietro quelle sbarre rimanga intrappolato anche il loro senso di responsabilità. L’aumento di consensi, che fa lievitare la bolla dell’estremismo di destra è un problema di tutti da cui nessun democratico può considerarsi assolto. Bisognerebbe iniziare a indignarsi pubblicamente in ogni luogo e in ogni momento assistiamo ad un atteggiamento di più o meno celato razzismo. Si dovrebbe fare dell’antifascismo una pratica quotidiana e non ridurlo, come forse oggi, a uno slogan da scrivere sugli striscioni in manifestazione. La posta in gioco è altissima, perché è chiaro che più la destra amplierà i consensi più diminuiranno quegli spazi di democrazia e confronto, che hanno formato la “meglio gioventù” di questo paese. 55 sulla strada per la rivoluzione (o almeno così credevo...) 03.06.07 Forse in ritorno, da un viaggio già intrapreso, prima di oggi, di questo momento, di adesso.. Tra una strada che si inerpica tra i monti, e dio che si fa liquido per poi divenire sperma , che si liquefà nel mio lavandino, oggi, in questa tersa mattinata di giugno, voglio sentirmi libero di sognare, di sognare che dopo la notte di pioggia sorgerà sempre un’alba mielosa e splendida, di sognare che, dopo il lungo inverno, arriverà finalmente la rossa primavera, di sognare una festa della repubblica in cui ogni monarca verrà ghigliottinato in place de ... Immagino scende di giubilo alla caduta della testa della regina Elisabetta, mentre io sventolando la bandiera verde e brindando con vecchi repubblicani di Belfast potrei gridare “cornamuse e mitra son per sands”. Immagino folle festanti alla caduta della testa di Benedetto XVI, in piazza san pietro tra i bianchi e piangenti colonnati. Mentre io, sventolando il tricolore, insignito del berretto giacobino, potrei finalmente brindare alla libertà, all’ eguaglianza, alla fratellanza. In preda a uno spirito dionisiaco di rivoluzione, sogno di baccanti giungere, al ritmo della festa, nei nostri villaggi per re-insegnarci il senso della vita. Sogno di druidi e donne evocare vecchi dei, che forse un giorno vissero come floride sorgenti, sogno di un tempo che in fondo mi piace vivere ora, adesso… 56 57 Scrivo per dare un po’ di concretezza alla fantasia 58 LETTERA A MAXImIlIEN 29.01.09 Caro Maximilien, da quali pensieri eri tormentato durante quell’inverno di oltre due secoli fa. T’immagino che esci dal tuo circolo proprio mentre una sera gelida sta calando su tutta Parigi. A cosa pensavi per strada, immerso in una folla anonima e disperata, alla ricerca della via di casa, forse che poco lontano da quelle vie, quella stessa sera, in un gradevole tepore si sarebbe ballato per l’intera nottata sull’armonia di dolci sinfonie austriache. Cos’hai risposto al fornaio che, mentre ti porgeva il pane per la cena, t’ha domandato: - Cosa ne facciamo di questa Francia?-. Sapevi già forse, che mentre cenavi nella solitudine del tuo salotto, appena fuori dalla tua porta, in certi cafè, altre persone davano voce a concetti simili ai tuoi pensieri. Ti è mai sfiorata l’idea di tornartene ad Arras a fare l’avvocato al posto che dedicarti anima e corpo a quel sogno bello quanto assurdo, ricordi quel giorno che rinunciasti alla carriera di giudice per non affidare al boia nessun cittadino. Che libro leggesti quella notte Maximilien prima d’abbandonarti al sonno? Una notte nuvolosa e gelida strinse in una morsa l’intera capitale, su una rupe poco lontana dalla riva sinistra della Senna, due giovani studenti s’ubriacavano di vino rosso e fissavano il fiume, che continuava a scorrere esattamente nello stesso modo in cui erano abituati a vederlo, almeno nei diciotto anni che avevano vissuto fino a quel momento. Dici che riusciremo mai a vivere in modo diverso? Voglio dire meglio di ora, e non solo noi, ma pure quelli che stanotte stanno battendo i denti per il freddo e per la fame.Non lo so amico mio, la vita dei parigini pare scorrere esattamente uguale ogni giorno proprio come l’acqua di questo fiume, forse c’è troppa miseria e disperazione perché qualcosa cambi..Se penso che oltre questo fiume proprio stasera un pugno di uomini ben vestiti stanno ballando, bevendo e ingozzandosi fino alla nausea.. Maledetto sia il re e pure quella crucca che si porta a letto.Bisognerebbe tagliare la testa a quei due, te lo dico io, amico mio, ma chissà che anche noi alla fine non ci adegueremo al placido scorrere di questo fiume.Magari no, e un giorno sulla costa di questa acque potranno passeggiare dei cittadini e non più dei sudditi, in fondo il ricordo della Comune è ancora vivoVive la commune!La commune n’est pas morte!- 59 Una luce di color indaco illuminò di nuovo la capitale, le prime voci cominciarono a riempire i vicoli e le strade mentre venivano aperte le porte delle botteghe e delle officine. Poco lontano da lì, nel giardino della reggia, alcuni invitati al gala della sera precedente stavano assistendo un gentiluomo che stava vomitando, una dopo l’altra, tutte le portate dello sfarzoso banchetto, mentre in un cespuglio vicino, i bagliori dell’alba sorpresero una coppia di giovani innamorati, che stavano facendo l’amore. Il re e la regina s’erano rinchiusi nelle loro stanze ormai da qualche ora, e la servitù aveva un bel da fare per ripulire il salone, servitori uscivano da palazzo con sacchi colmi di avanzi e si avviavano verso le regali stalle. Nel frattempo l’invitato aveva finito di vomitare e disse: Ora sto bene ma avrei fame..E ti credo, e come se non avessi cenato, brioches fresche?Vada per le brioches..A cosa pensavi quel mattino Maximilien mentre eri seduto al tavolo per la colazione e guardavi un altro giorno nascere fuori dalla finestra, cos’hai pensato quando hai incrociato quei due giovani studenti, evidentemente ebbri, che non sazi bevevano ancora a mattino fatto e parlavano a voce alta della comune. Ti consolava il fatto che nel giro di qualche mese il caldo avrebbe scacciato via quel lungo inverno, ma quali progetti avevi per quell’estate che doveva venire, Maximilien? (1789-2009) aux armes, citoyens... 60 lo strano viaggio di pastore tedesco e pera cotta 19.04.07 Era una notte buia e senza luna, il mare in tempesta agitava la povera barca “Occidente” dove, loro malgrado, si trovavano Pastore Tedesco e Pera Cotta. L’oscurità del cielo e il mare agitato sembravano aver fatto smarrire ai poveri navigatori il senso dell’orientamento, nessuno dei due voleva azzardarsi a prevedere dove sarebbe finita la loro povera “Occidente”, dispersa in mare aperto, presa a schiaffi dalle onde, lontana da quei porti che, fino a poco tempo prima, l’avevano fatta apparire come un mezzo sicuro per navigare verso il progresso in mari sempre più aperti. La tempesta infuriò per tutta la notte e soltanto al sorgere dell’alba, l’imbarcazione andò alla deriva lungo una spiaggia lontana diverse miglia dai sicuri porti dove “Occidente” era solita attraccare, inutile sottolineare il senso di sconcerto e disorientamento che prese immediatamente Pastore Tedesco e Pera Cotta appena riuscirono, finalmente, a provare di nuovo quella piacevole sensazione che provoca il sentire della terra sotto i propri piedi. -Sapevo che Dio non ci avrebbe abbandonato...Disse Pastore Tedesco, convinto di essere ancora in vita grazie alle preghiere recitate durante la notte. -L’esperienza insegna che non bisogna mai perdere la fede, nemmeno nei momenti in cui la grazia divina sembra averci abbandonato. Ieri sembravamo destinati a non rivedere mai più la luce del sole, ed invece eccoci qui a poter ammirare nuovamente lo splendore del sole appena sorto...- Aggiunse. Intanto Pera Cotta continuava a rivoltarsi, in maniera sempre più nervosa, le tasche dei suoi pantaloni completamente fradici. -Perchè ti affacendi in maniera tanto nervosa?- Chiese Pastore Tedesco. -Temo di aver smarrito in mare tutti i miei denari...- Rispose Pera Cotta con un tono combattuto tra l’adirato e lo sconsolato. -Non ti affliggere..- Lo rassicurò Pastore Tedesco, -Molto probabilmente i tuoi denari sarebbero stati comunque inutili nel luogo in cui ci troviamo...-Cosa intendi dire?!?Domandò Pera Cotta in un modo non più adirato ma che svelava forte inquietudine e preoccupazione. -Credo semplicemente che i tuoi denari, in questo luogo, siano semplicemente dei pezzetti di carta senza alcun valore...- Rispose pazientemente Pastore Tedesco. -E come si acquistano le cose qui??? Che cosa bisognerà dare alle casse dei centri 61 commerciali??- incalzò Pera Cotta sempre più spaesato. -Ma come ti vengono queste domande? Non sappiamo ancora se questa terra sia abitata e tu pensi ai centri commerciali, che forse, qui, devono ancora essere costruiti...- spiegò Pastore Tedesco, -Dove diavolo siamo finiti!?- Disse tra il disperato e il piangente Pera Cotta quando cominciò a capire di essere naufragato su un territorio molto lontano dalla propria casa. -Probabilmente, saremo molte miglia lontani da casa, non mi pare proprio che questo luogo sia già stato raggiunto dalla civiltà..- Constatò Pastore Tedesco. Appena udite queste parole Pera Cotta impallidì e svenì. Dopo alcuni istanti e qualche schiaffo Pera Cotta rinvenì, ma ora la preoccupazione aveva lasciato spazio a un vago senso di terrore. -Riusciremo mai a tornare a casa? Chissà quale popolo abiterà queste zone, probabilmente dei selvaggi senza un minimo di senso civile, magari saranno anche cannibali...- Pera Cotta continuava a fare queste tragiche previsioni mentre il suo volto si trasformava sempre di più in una smorfia di terrore. -Non dobbiamo preoccuparci.- Cercò di rassicurarlo Pastore Tedesco. -Ieri notte ho pregato Dio perchè non ci accadesse nulla di male, e Lui mi ha assicurato che non solo saremmo tornati vivi a casa ma ha anche detto che ha grandi progetti per noi due...- Aggiunse con tono rassicurante. -Significa che riuscirò a fare carriera in politica?- Domandò con un barlume di ritornata speranza, Pera Cotta. -Chissà, non mi ha detto quali saranno i nostri compiti, comunque ricorda: l’importante è credere e avere fede nell’Unico e Vero Dio, solo in questo modo una vita è degna di essere vissuta indipendentemente dal fatto che tu sia Pontefice, Presidente del Senato, operaio o contadino.- Pastore Tedesco sorrise, soddisfatto della sua predica. In quel momento apparve sulla spiaggia uno stravagante personaggio, piuttosto scuro di pelle era praticamente nudo, infatti, portava esclusivamente una specie di cintura di pelle allacciata in vita, tra l’incuriosito e l’allertato si avvicinò ai due. -E ora che facciamo?- Disse spaventatissimo Pera Cotta. -Se solo avessimo con noi delle pistole.- Aggiunse. -Quanto sei stolto figliolo...- Lo ammonì Pastore Tedesco. -Non lo sai che è peccato sparare, senza una ragione, ad una creatura del Signore per quanto bizzarra possa essere.Ormai l’indigeno si trovava a pochi metri da loro, ma tra l’insospettito e il diffidente non osava avvicinarsi troppo, un po’ come quei cani selvatici, che non abituati a vivere con l’uomo, diffidano a prima vista degli esseri umani. Data la situazione, fu Pastore Tedesco ad avvicinarsi di un passo verso l’indigeno 62 tentando di parlargli: -Riesci a capirmi.- disse. Dalla reazione completamente spaesata e quasi spaventata dell’interlocutore, Pastore Tedesco dedusse che la lingua propria delle popolazioni civili era ancora sconosciuta in quella terra. Ridottosi così al linguaggio primitivo dei gesti Pastore Tedesco cercò di far capire che erano affamati e assetati. L’indigeno osservò attentamente i gesti di Pastore Tedesco, e fece segno ai due di seguirlo. -Facciamo bene a fidarci di lui?- Domandò Pera Cotta. -Non sappiamo nemmeno dove abbia lasciato i suoi vestiti.- Aggiunse. -Suppongo che questo sia il modo di abbigliarsi di queste genti che, povere loro, non sono ancora state illuminate dalla luce di Dio.- Sentenziò Pastore Tedesco. Ascoltate queste parole, Pera Cotta, assalito dallo sconforto, cominciò a strillare fortissimo e scoppiò in un pianto quasi infantile, e, al tentativo d’abbraccio di Pastore Tedesco, si divincolò cominciando a correre, trotterellando in maniera scomposta per la spiaggia, alla fine cadde inciampando su un granchio che, per sua sfortuna, stava passeggiando sulla banchigia proprio in quel momento. l ragazzo indigeno faceva molta fatica a comprendere il comportamento dello stravagante personaggio che era sbarcato nei pressi del suo villaggio. Intanto Pera Cotta si era rialzato e con gesti goffi e ridicoli tentava di scrollarsi di dosso la sabbia che si era introffulata sotto i vestiti. -Gente che ha un gusto così rozzo nel vestirsi, non sarà di certo più evoluta dal punto di vista alimentare, saranno sicuramente cannibali, dobbiamo scappare!!Disse, tra i sospiri, Pera Cotta a Pastore Tedesco che, dopo la caduta l’aveva raggiunto. -Ora basta! Non posso credere che Nostro Signore abbia riservato una fine tanto orrenda a due buone pecorelle come noi. Seguiamo quel selvaggio e, con l’aiuto del Buon Dio, magari riusciremo a rimediare qualcosa per i nostri stomaci.Dopo aver, in questo modo, persuaso Pera Cotta, Pastore Tedesco si avvicinò al ragazzo indigeno facendogli capire che erano intenzionati a seguirlo. I tre si avviarono verso la boscaglia, una serpe color verde-blu sbucò dai cespugli e fece una linguaccia a Pera Cotta che sobbalzò spaventatissimo e si ribagnò i pantaloni che nel frattempo erano quasi asciugati. Più passava il tempo e più si addentravano nella boscaglia, più il ragazzo indigeno si chiedeva chi fossero i suoi due ospiti: terrorizzati da ogni animale della foresta, vestiti in quella maniera così ridicola che copriva quasi completamente il corpo, erano così diversi da tutti gli esseri umani che gli era capitato di vedere fino ad allora. Dopo alcuni minuti di cammino raggiunsero un piccolo corso d’acqua, dove Pastore 63 Tedesco e Pera Cotta poterono dissetarsi. Un piccolo pesce, che soleva passare le proprie giornate in quel punto esatto del fiume, si sentì infastidito dall’arrivo dei due e infilzò i propri denti nella carne di Pera Cotta che emise un urlo talmente forte da spaventare lo stesso animale che con un balzo riscomparve tra le acque. -Sapevo che qui sarei stato considerato una specie di pietanza, cosa importa se da uomini o da animali, in fondo quest’uomo cresciuto senza Dio sembra più simile alle bestie che a noi. – Esclamò al colpo dell’esasperazione Pera Cotta. L’indigeno, abituato ai dispetti dei pesci di fiume, porse al ferito un po’ d’erba raccolta poco lontana, indicandogli di passarsela sulla ferita. Il dolore passò quasi immediatamente e Pera Cotta fu presto in grado di riprendere il cammino. Dopo pochi minuti raggiunsero il villaggio indigeno. L’insediamento era composto da poche capanne, tutte uguali, disposte a cerchio intorno a uno spiazzo completamente vuoto. -Almeno si sono sforzati di costruire delle capanne.- Constatò Pera Cotta. -Dove pensavi che vivessero? Sotto gli alberi?- Chiese Pastore Tedesco. -Dato il loro abbigliamento non mi sarei stupito se avessimo visto questa gente dormire a fianco di lupi e altre bestie nel cuore della foresta.- Spiegò, un po’ stizzito Pera Cotta. Quando furono vicinissimi alle abitazioni il ragazzo fece segno ai due di sedersi per terra, intanto egli si addentrò in una delle capanne. -Probabilmente il selvaggio sarà andato ad avvisare il capo villaggio della nostra presenza, probabilmente non saremo i primi uomini occidentali ad aver naufragato su queste coste.- Disse Pastore Tedesco. -Speriamo di fargli una buona impressione, d’altronde saremo pure sporchi e affamati ma rimaniamo comunque persone di un certo rispetto, non potrà non notarlo.- Disse Pera Cotta. Il sole, ora, era alto e cominciava a fare sempre più caldo, la luce intensa del giorno faceva brillare il verde della foresta, i due si addormentarono. Furono svegliati al ritorno dell’indigeno che gli porse due recipienti contenenti una sostanza giallastra. Pera Cotta sorrise al ragazzo, ma pareva più un sorriso di cortesia. -Non è proprio simile a un piatto di spaghetti, erò sono troppo affamato per rifiutare.- Affermò Pera Cotta senza celare un po’ di allegria per il trattamento amichevole che i selvaggi stavano tenendo verso di loro. -Non si direbbe proprio uguale ad un piatto di wusterl e crauti, ma lo mangerò lo stesso.- Disse ridendo Pastore Tedesco, anche l’indigeno sorrise e rimase con loro mentre questi si sfamavano. -Sarà stata la fame, ma non è stato poi così difficile ingoiarlo tutto.- Sentenziò Pera Cotta a fine pranzo. -Ora non ci resta che riparare la barca e ripartire.- Disse Pera Cotta. 64 Pastore Tedesco non rispose, sembrava che un pensiero di enorme importanza gli si fosse introffulato nella mente passando di prepotenza dall’orecchio durante il pasto. -Non so..- Disse con aria pensante, con lo sguardo ancora un po’ perso. -Non sai cosa? Domandò Pera Cotta che cominciava già a spazientirsi...-Credo che non sia stato un caso il nostro naufragare in questa terra, selvaggia, lontana dalla luce divina. Probabilmente Dio ha scatenato la tempesta di ieri notte per permetterci di arrivare in questo e luogo e portare così, anche tra questa gente, la sua Parola.- Esclamò tra l’eccitato e il commosso Pastore Tedesco. -Certo, se così fosse tutto tornerebbe ad essere logico e razionale. Certo sarà un problema evangelizzare questa gente che non conosce il linguaggio dei popoli civili. Ma noi potremmo cominciare a dargli una prima infarinatura, poi chiameremo qualche squadra di missionari, che sono bravissimi con i selvaggi, per iniziarli definitivamente entro il cammino della Fede. Benissimo, Pera Cotta tu occupati di rendere più civili i costumi mentre io tenterò di occuparmi della parte spirituale.Inutili dire che Pera Cotta si sentiva fortemente disorientato, proprio non sapeva come iniziare a rendere più civili quei selvaggi nudi e senza dio. Ritenne che la questione dell’abbigliamento potesse essere un buon inizio per iniziare quella mandria di persone alla Civiltà. Come fare però a produrre dei vestiti? Egli non aveva mai lavorato un giorno in vita sua, non aveva quindi la minima idea di come si potesse fabbricare un indumento. Pensò che, per iniziare, potevano bastare delle foglie che andassero almeno a coprire le parti più intime. Quindi, felice della soluzione trovata si diresse verso il bosco per raccogliere le foglie. Il primo albero comprese immediatamente le intenzioni di Pera Cotta e appena questi si avvicinò sollevò immediatamente tutti i rami alzando ogni foglia a un’altezza irraggiungibile. Avvisati dal gesto del primo, tutti gli altri alberi ne seguirono l’esempio, impedendo così a Pera Cotta d’iniziare la sua opera di civilizzazione. Dopo aver vagato in mezzo a centinaia di alberi tutti con i rami protesi verso il cielo, egli trovò una vecchia piantaccia, malaticcia, forse già morta, ma che aveva ancora i rami rilassati. Entusiasta per l’ormai insperata scoperta Pera Cotta corse verso il vegetale che al suo arrivò tentò disperatamente d’innalzare i suoi rami, ma ogni sforzo fu vano, alla fine si piegò su se stessa e permise all’uomo di violentarla strappandole ogni singola foglia. Le foglie raccolte da Pera Cotta erano tutte un po’ gialle, rinsecchite e facevano un po’ schifo, ma lui ritenne che potevano comunque andar bene come primo indumento per dei selvaggi come quelli Soddisfatto del bottino raccolto si riavviò verso il villaggio, il viaggio di ritorno fu sicuramente più complicato in quanto gli alberi avevano abbassato i loro rami più del naturale, come se volessero ostacolare il passaggio di Pera Cotta. 65 Il ritorno al villaggio non era certo l’impresa più ardua che l’attendeva, infatti ora che era in prossimità delle capanne doveva inventarsi un modo per riuscire a convincere quella gente a coprirsi con quelle foglie gialle e rinsecchite che egli aveva raccolto per loro. La situazione di Pastore Tedesco non era certo migliore, perso in molteplici speculazioni teologiche sul come far conoscere Dio a quella massa di “quasiuomini”, non riusciva concepire alcun idea concreta per riuscire nel suo intento. Passeggiava assorto intorno alle capanne tra gli sguardi incuriositi degli indigeni. Il ritorno dei cacciatori gli permise d’avere l’illuminazione geniale o divina, che dir si voglia. Quei selvaggi avevano infatti dei lunghi bastoni di legno, simile a delle lance, che Pastore Tedesco ritenne utili al suo scopo. Seguì i cacciatori e appena scoprì dove andavano a riporre le armi, si impadronì di un paio di quelle lunghe aste. Nel frattempo, il progetto d’apprendimento di buon costume iniziato da Pera Cotta non stava dando alcun risultato utile, se non quello di far divertire un mondo gli abitanti del villaggio. Infatti egli si era spogliato di tutti i suoi vestiti e s’era vestito soltanto di una delle foglie che aveva raccolto, questo per cercar di fare d’esempio per tutti i selvaggi. Ma gli indigeni, non riuscendo ad afferrare l’intento civilizzatore continuavano solo a deriderlo, persino le nuvole del cielo ai aprivano in grandi risa per lo spettacolo che si stava svolgendo sotto di loro. Pastore Tedesco vide la scena e scosse la testa, poi sentenziò: -È impossibile civilizzare i costumi di un popolo, quando questo brancola ancora nel buio dato dall’assenza di Dio, è necessario portare prima il Vero Messaggio, poi tutto il resto sarà necessariamente più semplice.Quindi egli prese le due lance, e legandone una con l’altra cercò di ottenerne una croce. Poi andò a piantar l’oggetto appena fabbricato nello spazio vuoto, intorno al quale si disponevano le capanne. Subito dopo aver posto la nuova croce Pastore Tedesco s’inginocchio e cominciò a pregare. Un indigeno vide la sua lancia piantata in mezzo al prato, e tra lo scocciato e l’adirato, andò a riprendersela. Pastore Tedesco abbandonò il suo momento mistico e cominciò a inveire contro il selvaggio blasfemo e senza Dio. A quel punto anche gli indigeni che stavano osservando il divertente spettacolo di Pera Cotta, sentirono le urla di Pastore Tedesco e andarono a vedere cosa stava succedendo. Arrivati sul luogo, videro Pastore Tedesco che, come un indemoniato, gridava contro l’uomo che era venuto a riprendersi la propria lancia. E, appena accortosi dell’arrivo di altri selvaggi cominciò a inveire anche contro di loro: 66 -Razza bastarda, perché non volete accettare l’Amore di Dio, grave sarà la pena per chi rifiuta la Vera Fede…Data la situazione, gli indigeni abbandonarono il loro atteggiamento amichevole e, pur non essendo a conoscenza di nessun linguaggio civile, riuscirono a far capire ai due “missionari” che la loro presenza non era più gradita. Pera Cotta si tolse la foglia e si rivestì in tutta fretta, mentre Pastore Tedesco continuava a inveire e a lanciare strane maledizioni contro tutto il villaggio. Alla fine, spaventato dalle urla che qualche giovane indigeno stava rivolgendo nei suoi confronti, si avviò anche lui quasi di corsa verso il bosco. Dopo ore di cammino, aiutati un po’ dalla fortuna, un po’ dal buon Dio i due riuscirono a ritrovare la costa e videro, non molto distante da loro, la loro imbarcazione abbandonata. Appena riportata la cara vecchia “Occidente in mare” era ormai sera e il sole si stava per tuffarsi tra le acque rosse del mare, così Pastore Tedesco virò l’imbarcazione verso il tramonto, e si diresse, come sempre conviene, verso ovest. 67 AUTUNNO Chiusa la porta numero 36 di via Trieste poteva dirsi, quasi soddisfatto, se non contento almeno in pace con se stesso. Era venerdì, il cielo si stava rabbuiando, al lavoro era stata una settimana di quelle che verranno ricordate come dure, o da scordare bel giro di qualche tempo, e quindi si era convinto di meritarsi quel relax un po’ fuori dagli schemi che s’era appena concesso. Le foglie bagnate dalla pioggia scrosciante, che cadeva incessantemente avevano creato una politiglia giallo marrognola morbida da calpestare, anche se la sensazione che se ne aveva non era proprio piacevole, pareva di camminare su qualcosa di sporco, sudicio. Ancor meno piacevole fu levare quella poltiglia dal parabrezza dell’auto, cercò un fazzoletto, non lo trovò, si pulì sommariamente con l’interno della maglietta bianca, che teneva sotto la camicia e si sedette sul sedile del guidatore, non fece un buon lavoro le sue mani ancora sporche e appiccicose si posarono sul volante, cercò di non pensarci, mise in moto, inserì la retro, e si avviò verso casa dei genitori, giocando con la fantasia sulle possibili pietanze che sua madre gli avrebbe cucinato, in quel momento fu assalito da un intenso appetito per gli gnocchi di pane. Lei lavava i piatti, lasciati ad accumularsi da qualche giorno, non amava quell’attività, non l’aveva mai gradita, ed ora che s’era trovata a vivere da sola, quell’atto era uno dei compiti che più le pesava più dello stirare, del passare l’aspirapolvere, del tenere una casa da donna, per quei pochi uomini, che si portava a casa, più o meno interessati all’arredo e all’igiene domestico. Era stata una giornata piatta, si consolò che sarebbe stata presto dimenticata, fuori pioveva e l’autunno inoltrato aveva perso quella vivacità nei colori, che lo avevano caratterizzato soltanto fino a pochi giorni prima. Fu nel momento in cui stava cercando di scrostare una caparbia macchia di grasso che squillò il telefono, così gettò la spugna, si levò i guanti e compì quei pochi passi che la separavano dall’apparecchio. Nulla d’interessante, era il fratello, che chiedeva curiosamente di chiamare la madre per chiederle se avesse già deciso cosa cucinare per la cena programmata per la sera stessa, e in caso non avesse ancora scelto, la pregava di domandarle di preparare degli gnocchi di pane, di cui gli era venuta una voglia improvvisa. Ma non poteva chiamare lui? Protestò lei prontamente ma lui si scusò dicendo che il suo era il primo numero tra le chiamate, e guidando nel traffico non voleva distrarsi oltremodo scorrendo la rubrica. Lei poggiò il ricevitore, per poi riprenderlo e comporre quel numero che fino a qualche tempo fa era stato anche di casa sua. Perché aveva poi deciso di andarsene, la novità della completa indipendenza sfiorì in poco tempo, e pensava che tenere una casa e lavorare al contempo non fosse appagante nemmeno per una donna, che voleva mostrarsi emancipata come lei, inoltre se fosse rimasta a casa 68 non avrebbe avuto tutte quelle stoviglie da lavare, che rimanevano impilate accanto al lavello dimenticato acceso. Il telefono squillò svegliandola da un sonno leggero preso davanti al televisore, il padre nell’occasione fu salvato dalla sua sordità che pareva farsi sempre più grave, ma alla quale lui pareva non dare troppa importanza, basta alzare un po’ la voce e sento anch’io, lamentava nel mezzo di un discorso, quando i suoni venivano da lui percepiti troppo lievi, non troppo dissimili a dei confusi bisbiglii. In realtà la madre pensava a qualcosa di più elaborato per la cena programmata con i figli, e si sentì come sollevata dalla curiosa richiesta degli gnocchi di pane. Ripose il cellulare e tornò in salotto, afferrato il telecomando abbassò di qualche decibel il volume del televisore, tanto che l’unico rumore chiaramente percepibile nell’ambiente era il russare regolare del padre, sdraiato supino sul divano da ormai più di un’ora. Un attimo di malinconia, data forse dalla presa di coscienza del “nido vuoto”, la prese, soffriva sempre di questi momenti ogni volta, che riuniva entrambi i figli a casa, andò in bagno ad asciugarsi le lacrime, che le stavano calando lungo il viso, e poi si diresse verso la cucina. La radio stava gracchiando mentre lui si dirigeva direttamente verso la casa dei genitori, ma lui pareva non accorgersene: il gracchiare dell’autoradio, le mani unte, sembravano problemi secondari rispetto a ciò che stava pensando in quel momento. Innamorarsi di una prostituta? Lui che da anni frequentava il numero 38 di via Trieste e ne aveva visti parecchi rovinarsi per una scemenza simile, più volte si era ripromesso di non commettere una sciocchezza simile, ma era un dato di fatto che le sue visite alla casa erano diventate notevolmente più frequenti in quegli ultimi mesi, e che quel viso non occupava i suoi pensieri solo nei momenti passati tra le lenzuola. E’ colpa della solitudine passerà, sarà questo lungo periodo trascorso senza aver avuto delle “storie serie”, che mi sta mettendo in testa queste sciocchezze, ma passato il Natale il lavoro sarà più leggero, ed allora potrò aver ancora una vita sociale migliore e chissà magari incontrare quella giusta senza fissarmi su queste puttanate, pensava mentre il pomeriggio diventava sera e un’auto proveniente dal lato opposto gli segnalava d’accendere gli anabbaglianti. Superata la questione piatti, lei si mise un attimo stesa sul divano, dalla scomodità era facilmente deducibile l’economicità pensò, aveva posizionato sulle poche mensole che circondavano il televisore delle fotografie, tutte di famiglia, una foto scattata probabilmente dal padre mentre lei ed il fratello erano intenti nella costruzione di un complesso castello che, ricordò, un’onda improvvisa si portò via ad opera non ancora ultimata, poi immagini più recenti qualcuna scattata all’aperto e qualcuna in quella fu la loro casa, una in particolare attirava la sua 69 attenzione, un’immagine che li ritraeva tutti e quattro mentre erano intenti a scoprire le funzionalità dell’autoscatto, era una brutta fotografia, mal messa a fuoco e il padre occupava giusto un’estremità della superficie come se fosse entrato solo per fortuna, mentre un vasto spazio vuoto era visibile dall’altro lato. Nonostante tutto era affezionata a quell’immagine, la fissò qualche minuto con un cuscino stretto intorno al ventre prima di correre in bagno a scatenare una crisi di pianto. Il suono familiare ma allo stesso tempo forte ed intenso del campanello di casa svegliò il padre,che s’alzò dal divano e si diresse verso la porta d’entrata, era la figlia: truccata pettinata con una torta gelato confezionata in mano, alla vista dell’uomo gli schioccò immediatamente un bacio sulla guancia in forma di saluto, lui ricambiò e scherzò sulla sua perfetta puntualità che faceva da contrappeso alla patologica tendenza al ritardo del fratello, di cui infatti nessuno si stava preoccupando, anche la madre uscì dalla cucina e sorrise d’un sorriso sincero alla figlia scherzando sulla strana scelta della pietanza ordinata, si spiegarono che era una delle tante bizzarre richieste del fratello e il discorso fu smorzato da una serena risata. Nessuno prestava attenzione al televisore che a volume bassissimo mostrava le immagini di alcune auto in fiamme proprio su una delle tangenziali cittadine che il figlio avrebbe dovuto percorrere per raggiungerli, nel tanto che queste scorrevano, i tre si recarono in cucina per un aperitivo a base di prosecco alla salute del cronico ritardatario. Le quattro frecce accese da un auto immobile lo costrinsero ad una frenata improvvisa che lasciò diversi centimetri di pneumatico sull’asfalto, assorto nell’assurdità di quel pensiero non s’era accorto di come il traffico s’era d’un tratto immobilizzato, tanto che finì a rischiare di tamponare l’auto lussuosa che lo precedeva, qualche centesimo di secondo lo salvò dall’impatto, e se la cavò con qualche palpitazione ed un po’ di spavento, i minuti passavano e niente cambiava, le auto con tutte le frecce in azione lo irritavano, pensò di chiamare casa per avvisare del suo ritardo, ma la breve telefonata alla sorella aveva prosciugato l’energia residua della sua batteria, e non fece in tempo a visualizzare nemmeno il numero che il telefono si spense, trasformandosi di colpo in un apparecchio di plastica inutile, lo scaraventò con rabbia sul sedile posteriore, prima di sporgersi al di fuori dal finestrino, nel freddo della serata tardo autunnale per cercare di capire cosa fosse successo. Dalle luci blu dei lampeggianti poteva intuire che fosse qualcosa di grave, ma dagli altri automobilisti giungevano le notizie più disparate, che variavano tranquillamente dal “niente di grave” alla “decina di morti”, sconsolato rientrò nell’abitacolo cercò uno dei suoi cd preferiti, lo inserì nell’autoradio, ed infine appoggiò la testa al finestrino chiuso e freddo quasi assopendosi. 70 Venti minuti, in fondo era passato solamente poco più di un quarto d’ora dal ritardo, che la famiglia aveva preventivato, e il citofono suonò. Il primogenito fu salutato dai soliti calorosi saluti di routine poi riuscirono a mettersi a tavola. Una cena di media intensità, sia riguardo alle pietanze che ai discorsi, mentre gli gnocchi di pane perdevano lentamente forma, triturati in piccoli bocconi e fatti scendere nei rispettivi quattro stomaci, le quattro bocche emanavano suoni, che divenivano parole, che cercavano di dare forma a un qualcosa di simile ad un dialogo, una mole imponente di parole, impossibili da ricordare tutte, i discorsi, stretti nell’incomunicabilità, svanivano così com’erano nati, mentre i minuti passavano e la serata di ritrovo familiare s’avviava verso il termine scontato, una serata tranquilla, che sarebbe stata dimenticata nel giro di qualche settimana. Questi erano più o meno i pensieri del primogenito quando il padre cominciò a sentire un lieve dolore al braccio destro, lieve, ma non abbastanza dall’esonerarlo dai lamenti e dal costringerlo ad abbandonare la tavola. D’un tratto le parole ripresero consistenza e i discorsi restarono nella stanza. Non c’era nulla di cui preoccuparsi cercavano di convincersi, ma la prolungata esposizione a serial-tv d’argomento medico con soggetti più o meno scientifici aveva lasciato delle tracce nelle menti dei quattro. Quattro linee di pensiero, quattro binari che s’incontravano in un nodo che l’inquietava, anche se nessuno aveva il coraggio di parlarne apertamente. Nel frattempo una pioggia di foglie multicolore a cui nessuno stava badando si stava abbattendo su tutto ciò che stava intorno. La figlia lasciò la stanza e si recò automaticamente, quasi senza accorgersene in quella che fu la sua stanza. C’era ancora quai tutto, salvo i manifesti appiccicati alle pareti, levati per permettere al padre di ritinteggiare la stanza, ricordi, gioie e malinconie lottavano per riaffiorare alla memoria, ma non era, di certo quello, il momento più indicato, li scacciò con un gesto nervoso e si mise a cercare nervosamente sulla rubrica del cellulare il numero di un amico medico, lo trovò, attese qualche istante, una gentile voce registrata l’avvisò che il cliente da lei chiamato non era al momento raggiungibile, “riprovi più tardi”, le suggerì ancora la voce registrata, stizzita chiuse la comunicazione, e tornò dai tre. Il padre stava bene, ma il dolore non era passato allora fu il turno della madre che lasciò la stanza per recarsi in camera da letto, dove i due tenevano una vecchia enciclopedia medica acquistata poco dopo il matrimonio e quasi mai consultata. Le dita nervose sembravano cercare con sicurezza, ed infatti, soltanto pochi istanti dopo, una delle stesse dita era intenta a scorrere le seguenti parole: “... un 20 per cento circa di pazienti riferisce il dolore solamente a livello del braccio destro o della metà destra del torace oppure con caratteristiche diverse da quelle classiche sopradescritte...”, chiuse il libro lo ripose con cura, e tornò con aria visibilmente più preoccupata. Un suono di sirene giunse dall’esterno, evidentemente la pioggia intensa stava creando dei disagi là di fuori, i quattro non sembravano però prestare 71 la minima attenzione a tutto ciò. Quando fu il turno del primogenito, egli si diresse con una frettolosa sicurezza verso il bagno. Una volta entrato fece girare la chiave nella porta, gesto che risultò fastidioso alla sorella. Si diresse verso la tazza del cesso, chiuse la tavoletta e si fermò, finalmente solo alcuni secondi a riflettere. Sempre seduto si mise a frugare con la maggior calma possibile nelle tasche dei pantaloni e ne tirò fuori una busta di polvere bianca. Si mise in ginocchio e disegnò una striscia di valore medio alto nella sua scala di misurazione personale, poi tirò tutto do in colpo. La sua prima preoccupazione fu quella di pulire senza lasciare nemmeno la minima traccia, era un compito a cui era abituato, dato che il gesto appena compiuto gli ricordava diversi inizi di serate, quando ancora abitava con i suoi. Quando poi gli inizi di serate iniziarono a divenire partenze di pomeriggi, o integrazioni di colazioni mattutine iniziò realmente a meditare sulla possibilità d’andarsene. Si diresse poi quasi automaticamente allo specchio, si pulì con del cotone che trovò sempre al solito posto ed infine si concesse qualche secondo per farsi coraggio. Aprì la porta ed irruppe nella stanza, nella quale navigava un inquieto silenzio. -Prendiamo l’auto e andiamo in ospedale, in caso lì ci diranno che non c’è nulla di cui preoccuparsi e che abbiamo sopravvalutato la situazione, sicuramente sarà più utili che restarcene rinchiusi in quest’agonia L’auto partì sfrenata in direzione dell’ospedale che si trovava circa ad un 1 km dal luogo dove l’auto andò a schiantarsi. 1 morto e 3 feriti lievi titolò il giornale del giorno dopo, la lamiera del paracarro aveva tagliato l’autista della vettura come pane fresco, morì così senza alcuna tenerezza. Quando furono in ospedale furono tutti sottoposti alle analisi di routine, seppero così che nessun infarto era in corso mentre sommessamente s’avviavano verso la camera mortuaria dell’ospedale. 72 UNA NUOVA VITA La terra non era mai stata così lontana dalla sua stella, erano i primi mesi dell’anno, il vento era fastidiosamente freddo, e la miglior cosa che si poteva pensare di fare era starsene a letto tutto il tempo e dormire il più possibile. Mi alzai dal letto circa alle due del pomeriggio, il grigio si spargeva sulle pareti, era lì ormai da giorni ed era difficile farci caso, sembrava che fosse sempre stato così, perciò non c’era motivo per intristirsene. Lessi la frase: “Bisogna cominciare con il cancellare tutti i ricordi per poter cambiare davvero”, l’avevo scritta circa un anno fa con un pennarello rosso sulle mattonelle azzurre del bagno, non so se ne ero ancora convinto, ero però sicuro che, cercando di non ricordare, si potesse,almeno, smettere di soffrire, ciò mi consolava. Cercai il telefono e provai a chiamare Anna, il suono regolare, che segnala il libero, accompagnava quei giorni. Il telefono era sempre acceso ma lei era altrove, o forse non aveva voglia di parlare, o forse non aveva voglia di sentirmi. A una certa ora mi pareva più valida una di queste tre ipotesi, a un’altra ora un’altra, e poi quell’altra, il dubbio mi privava della possibilità di pensare ad altro e il tempo scorreva, incurante di me. L’ultima volta che la incontrai splendeva una luce arancione e avevamo passeggiato e chiacchierato in un tardo pomeriggio. I pochi ricordi, che avevo di lei, si mischiavano alla fantasia, un incontro in un comune bar del centro si trasformava in un tramonto purpureo sulle alpi marittime. Giorni celesti prendevano forma nella mia mente, momenti da vivere s’appropriavano di un immagine e dolci sensazioni riaffioravano dalle onde dei ricordi. Annoiato dal grigio dell’inverno creavo una nuova vita, fatta di abbracci e momenti, pensieri ed emozioni, che per tante persone, incrociate per strada, pareva essere banale quotidianità. Questo desiderio di rinascita s’infrangeva però contro le finestre chiuse della stanza, rifugio e prigione di una solitudine respirata quotidianamente. Notai, sul pavimento, un libro con un etichetta della biblioteca, era da riconsegnare entro la settimana precedente. Dalla finestra vedevo soltanto muri gelati e pioggia incolore, ma un po’ d’aria fresca nei polmoni non poteva farmi male, quindi raccolsi il libro, la giacca, aprii la porta e scesi in strada. Era da più di settantadue ore che non uscivo. Giunto in università mi trovai circondato da tante facce giovani e sconosciute: chi studiava, chi fumava, chi sorrideva e parlava, io dovevo consegnare il mio libro, poi me ne sarei tornato a casa. Mentre camminavo mi pareva di sentire un rumore provenire dalle mie tasche, c’infilai la mano e tentai di capire cosa potesse essere, non il fazzoletto sporco, non le carte che pubblicizzavano non so quale festa, non gli scontrini, erano delle monete, probabilmente frutto di qualche resto, le estrassi per contarle, sono sufficienti per passare in vineria pensai. Entrai nel locale con l’intenzione di comprarmi una bottiglia per bermela a casa, come sempre, ma sentii una voce che mi salutava da 73 un tavolo vicino alla parete, era Paolo, un coglione, ma non troppo, un ragazzo che conoscevo perché c’eravamo scambiati qualche appunto per un esame e poco di più, ogni volta che lo incontravo parlavamo quasi esclusivamente di università, libri ed esami. Mi invitò a sedere con lui e mi ordinò un bicchiere. - Scusami ma non ho molto tempo, dovrei essere a casa a studiare ora..- Ah sì? Cosa stai preparando adesso?- Filosofia contemporanea, sono sceso a comprare il vino perché così forse riesco a concentrarmi meglio..Paolo sorrise in modo strano, sembrava turbato, ma non avevo ne la confidenza ne la voglia per approfondire l’argomento. Mi ricordai che anche lui conosceva Anna, quindi gli chiesi se avesse avuto sue notizie, lui sospirò e mi guardò un po’ storto, capii che dovevo aver toccato qualche tasto particolare. - Perché? L’hai sentita recentemente?- mi chiese. - No, volevo invitarla al cinema, ma è una settimana che non mi risponde al telefono, mi sto pure un po’ preoccupando.-È da molto che non la vedi?- Sarà da qualche settimana prima di Natale..- Quindi non può avverti raccontato niente di noi..- Di che?- Di noi, io e Anna siamo andati insieme ai mercatini di Natale, mi pare l’antivigilia, giusto il giorno prima che lei partisse..Paolo mi raccontò che quel giorno erano stati insieme per i vicoli del centro, poi tra una bancarella e qualche bicchiere di vin brulè si trovarono, all’oscuro, nello stesso letto. Lui era poi sceso da lei per passare il capo d’anno nella sua casa al mare, e avevano trascorso dei bei giorni insieme. Poi lui era ripartito e, una volta tornato in città per studiare, aveva provato a chiamarla, ma il telefono suonava sempre libero e lei non rispondeva. Anche lui aveva cominciato a preoccuparsi, un po’ come me. - Alla fine ho deciso di presentarmi a casa sua, non per essere invadente, solo per capire perché non volesse vedermi.- E sei riuscito a trovarla?- Sì era qui già da diversi giorni..- E cosa ti ha detto come sta?Fu così che Paolo scoprì che Chiara era rimasta incinta. Turbato dal discorso mi affrettai a finire il mio bicchiere e mi congedai, sapevo di non essermi comportato da amico, ma, in fondo, amici non eravamo mai stati. Arrivato a casa aprii la bottiglia e provai ad aprire i libri, inutilmente. Con il bicchiere in mano mi affacciai alla finestra, salutai il vicino, seduto solo davanti a un bicchiere, mi rispose con un lieve accenno del capo. Guardai il cielo e cercai di sprofondare nel buio della sera che stava calando. 74 IL PROFUMO DELLA VITA La palazzina era gialla e posta nei pressi del centro della città, un grazioso luogo vicino ad un piccolo parco con un laghetto e alcuni viali da passeggiare. Dalla loro finestra si potevano intravedere i colli, che permettevano allo sguardo di fuggire oltre case, vite metropolitane consumate, ed enormi palazzoni alti come grattacieli. L’appartamento sembrava essersi rivelato un affare, se non fosse stato per quello strano odore che, da qualche tempo, pareva trasudasse dalle pareti. All’inizio avevano pensato fosse stata colpa del capretto, lasciato a decomporsi sulla grande tavolata buia e vuota, il giorno dopo pasqua, insieme alla torta al cioccolato e allo spumante che minuto dopo minuto lasciava andare il suo gusto frizzantino, ma anche dopo averlo portato via, l’odore si era sì affievolito, ma non svanito del tutto. -Sarà l’anima del capretto che si sta vendicando..- Diceva lui, un po’per scherzo, un po’ per smorzare l’angoscia, che cresceva ad ogni giorno che trascorreva, senza che l’odore smettesse di aleggiargli nelle narici. -O della torta al cioccolato, con tutto il tempo che ho impiegato per prepararla, e tu non hai voluto nemmeno assaggiarla. - Gli replicava lei, non senza un tocco d’affetto e acidità. Avevano provato anche a far le cose più assurde, pur di riuscire a far cessare quel particolare odore, sgradevole ma lieve, quasi da sottofondo, che non li abbandonava nemmeno per un attimo, nemmeno quando, nell’oscurità, si godevano i loro minuti d’intimità quasi quotidiana. Si curavano di andare a fumare vicino alle grandi finestre, che, comunque, venivano lasciate aperte per gran parte della giornata. Ormai, qualsiasi cosa si trovava in casa, veniva considerata come potenziale responsabile dello sgradevole odore. Lui portava via la spazzatura ogni mattino, prima di andare al lavoro, non lasciarono più avanzi di cibo sul tavolo, lei ribaltò tutti i cassetti e gli armadi, nella ricerca della fonte del problema. Fu tutto inutile, l’odore continuava a torturare i loro olfatti ormai stanchi, e dava l’impressione quasi d’aumentare. Lui, esasperato, cominciò a parlare di traslocare. Lei si incupiva ogni giorno di più, e persino i suoi grandi occhi blu, quegli stessi occhi che l’avevano fatto innamorare, sembravano non aver più lo stesso colore. -Questa cazzo di puzza ci sta togliendo la primavera..- Disse lei, in una mattina un po’disperata. Lui ingoiò il caffè in un colpo, senza rispondere. Gli amici cominciarono ad evitare i loro inviti, e sparirono le cene e quell’allegria che avevano da sempre caratterizzato l’appartamento, lui si faceva ogni giorno più triste e a lei capitava di scoppiare in lacrime a qualsiasi ora del giorno, sempre più spesso. Intanto l’odore rimaneva lì, e cominciava a impregnare i piatti, le lenzuola, i cuscini, le fotografie e i ricordi. -Amore, questa è puzza di morte..- Disse lei nel mezzo dell’azzurro di un pomeriggio. La mattina seguente era domenica, lui stava andando a raccogliere dal cestino il sacco semivuoto di spazzatura, e vide dalla finestra, che era rimasta spalancata per tutta la notte, diverse 75 auto tra polizia e carabinieri. -Strano –. Pensò, -Qui non accade mai nulla-. Scese le scale con il suo sacco nero e leggero, e s’avvicinò ad un agente, che stava fumando, vicino al portone della palazzina, per chiedere il motivo di un tale dispiegamento di mezzi. -Pare ci sia un tizio morto da prima di pasqua nell’appartamento del secondo piano, non so come abbiate fatto a vivere qui fino a questo momento, quando siamo arrivati, abbiamo sentito la puzza dalle scale.- -Permesso, mi scusi signore..- Sentì dire lui alle sue spalle, e vide un ragazzo in tuta arancione. Dalla porta uscì il giovane, un collega vestito nell’identico modo, e una barella, dove giacevano un sacco, simile al suo ma più colmo e pesante, e un lenzuolo bianco messo su un po’ alla buona. Un’ambulanza, che si allontanava a sirene spente, portò via l’odore di quei giorni. Quando lui tornò a casa, lei stava cucinando. -Aveva sessantuno anni-. Gli disse. -Ho sentito..-. Rispose lui distrattamente, mentre il telegiornale cominciava a sciorinare i titoli delle proprie notizie, la loro vicenda era al terzultimo posto, appena prima della sezione sportiva, dedicata al campionato di calcio. -Era pieno di telecamere qui stamattina. - Gli disse. -Le ho viste, probabilmente avranno inquadrato la nostra finestra. - Rispose lui. Nel frattempo, l’odore del cibo, dei vestiti già indossati e di quelli ancora puliti, delle lattine di birra lasciate a metà, del posacenere semipieno di mozziconi, dei fondi di whiskey nei bicchieri, dei giornali accatastati vicino al divano, si stava riprendendo possesso della casa. Lei lo abbracciò e disse: -Ho paura di morire, di morire da sola. Anch’io-. Rispose lui, tenendola stretta. 76 FINO ALLO SCOLORIRE DEL GIORNO M’ero svegliato pochi minuti prima dell’alba, forse per veder giungere i colori del giorno con dolcezza, senza il pugno celeste delle ore più calde. L’estate metteva irrequietezza la vita la fuori faceva un tale trambusto da togliere la voglia di continuare a sonnecchiare. Un grigio vaporoso veniva trattenuto e sapevo che tra poco si sarebbe dissolto svelando lo sguardo fino al lago. Uscire fino a raggiungere la riva, non ci sarebbe voluto molto, un quarto d’ora, venti minuti al massimo, e gettarsi nel grigio azzurro di quelle prime ore. Ma la brezza pungente o il rimorso per un sogno interrotto frutto di compensazioni che solo l’immagine poteva rievocare mi tenne inchiodato alla finestra, la giornata era ancora lunga quindi niente impediva di continuare a tormentarsi ancora un po’ tra ricordi e rimorsi. Le ore del mattino sembrano migliori per chi non è abituato a viverle, a quel tempo mi trascinavo di nottata in nottata e spesso arrivavo all’alba esausto di fumo e di alcol tanto da non riuscire a finire il bicchiere mentre il posacenere traboccante mi rigettava sul volto vecchi filtri già baciati. Così non ero abituato al piacere che può dare una colazione gustata a quell’ora, scendere in uno di quei bar con i tavolini all’aperto, magari dare un’occhiata al giornale e fissare con la coda dello sguardo donne, ragazze e ragazzine nei loro abiti estivi, fumare una sigaretta e riuscire a godersi qualche minuto di noia, senza sentirsi in colpa. L’accenno di un debole mal di testa mi trattenne, in fondo una colazione avrei potuto consumarla anche in casa, presi una tazza e mi rimisi alla finestra ad osservare il giorno che avanzava, sapevo che rimanevano ancora molte ore per provare a viversi quella giornata e il pensiero mi riempì per un momento la mente di progetti. Prendere la macchina e guidare a casaccio senza la preoccupazione d’arrivare da qualche parte, farsi un giro a piedi,correre, telefonare a qualcuno, rimettersi a dormire. Rimasi ancora per un po’ a fissare l’orizzonte che si faceva più abbagliante, rimettersi a letto dopo essersi alzati così di buon ora sarebbe stato un peccato e poi l’angoscia della scelta mi avrebbe tenuto sveglio. Quand’ero costretto ad andare a scuola, a quel tempo sì che il mattino aveva un suo senso, la sveglia, che non poteva essere ignorata, l’incontro con le solite facce note, la campanella. In quel momento persino interrogazioni e compiti in classe mi sembrarono acquisire un certo fascino, la vita poteva scorrere tranquillamente su binari solidi e rassicuranti. Così mi trovai a pensare su quanto gradi di libertà e felicità siano completamente indipendenti tra loro. Ne conclusi che il pensiero democratico maturato e applicato nel mondo occidentale non fosse un concetto da gettare nella spazzatura ma forse s’era concentrato troppo sulla dimensione della libertà dell’individuo. Decisi di rimandare la mia uscita per mezzogiorno a quell’ora, al prezzo di sopportare la calura, i colori sono più sgargianti e sarebbe stato un peccato restare rinchiusi mentre fuori la vita ruggiva. 77 Presi un libro di poesie francesi, un regalo mai consegnato, sfogliandolo mi ricordai che non doveva essere un pensiero tra tanti, doveva avere l’aspetto di un oggetto volutamente pensato, erano infatti numerose le sottolineature, molte farcite da parole e romanticherie che mi regalarono qualche sorriso. Perché poi, dopo tutto quel lavoro, non le avevo più dato quel libro? Ricordo che aspettavo l’occasione adatta, anche mentre ci stavamo allontanando, e infine l’occasione non arrivò mai e il libro sottolineato con dedica rimase nella mia libreria, se qualcuno, per caso, l’avesse preso avrebbe potuto pensare che mi dedicassi i libri da solo. Ma perché non sfruttare quella giornata per portare a termine quel progetto telefonarle, rivedersi, dopo tanto tempo, e consegnarle ciò che da tempo era stato pensato per lei. Poi rileggendo quelle frasi mi parve di capire che quel regalo consegnatole in quel giorno non avrebbe più avuto senso, le parole pensate per essere emozionante evocavano oggi solo un intenso sentimento nostalgico, e non era in questo modo che avrei voluto ripresentarmi a lei. I sentimenti sono certamente instabili perennemente esposti alle dinamiche temporali, ma sono solo i sentimenti a variare o anche le persone, non ero sicuro che lei fosse ancora in grado di comprendere quelle frasi, non per stupido risentimento nei suoi confronti, ma perché mi rendevo conto che anche per me, che pure le avevo scritte, suonavano come estranee, riposi il libro nella libreria e capii che il momento era passato per sempre e forse solamente per il fatto che io non l’avevo fatto succedere. Assorto nella lettura non notai l’aria fresca, che filtrava dalla finestra invadendo l’intera stanza, il cielo metà azzurro e metà grigio faceva sempre più spazio alle nubi e tuoni intermittenti rombavano nell’atmosfera, pochi minuti dopo l’asfalto della strada cambiò colore colpito da una fitta pioggia. Il temporale mi dissuase dall’uscire ma non mi preoccupai, normalmente a quell’ora stavo ancora dormendo, mi sedetti alla finestra fissando le gocce precipitare in attesa che spiovesse. Mentre osservavo pozzanghere formarsi, riempirsi e straripare pensai a come il pomeriggio fosse un momento spesso sottovalutato nella giornata, spesso inteso come un inevitabile preambolo della serata, ne conclusi che le ore dopo il mezzogiorno fossero quelle ideali per innamorarsi. E’ forse nel chiarore pomeridiano, quando i malumori mattutini si dissolvono, che viene messa in luce la bellezza, probabilmente l’oscurità serale aiuta l’attrazione, ma ho sempre amato di più fissare gli occhi altrui nell’azzurro di un pomeriggio che nelle luci diffuse di un posto rumorosamente affollato. Sarà forse perché il pomeriggio mi ricorda i primi assaggi di quei sentimenti amorosi gustati quando ancora alle scuole medie si stava seduti sulle panchine impiantate fuori dalle scuole medie ad osservare le compagne di classe che gustavano i loro leccalecca, in un preadolescenziale gesto d’estremo erotismo, ricordo i commenti pesanti e gli sguardi intensi, e il loro fare a gara per chi riuscisse ad avere più occhi puntati addosso. Tempi in cui se quella che 78 ti piaceva ti scambiava uno sguardo era già un successo da raccontare, e se poi non fosse comunque successo nulla, la vita era ancora così lunga che non c’era proprio di che preoccuparsi. La pioggia terminò liberando un cielo ancora azzurro, era ancora presto. Rimasi alla finestra ad osservare ancora per un po’ di tempo, fino a vedere lo scolorire del giorno. 79 SETTEMBRE 06.10.08 Che si fa?- chiese lei. - Non so, magari anche niente.- rispose lui - E oggi cosa c'è?- Questo grigio non accenna a scolorire.- E tu facci l'abitudine.- Sarà che è settembre e il mondo sembra morire più in fretta..- Settembre è finito da giorni..- È il tempo che non si ferma un attimo per non smettere di fregarci, nemmeno t'accorgi e sei subito lì a strappare pagine di calendario, fogli di carta uguali, che si confondono ai giorni che hai vissuto..- Adesso smettila, calmati, usciamo un po' ci farà bene, ti va di andare al cinema..- Oggi è domenica ci sarà fila, non mi va d'asfissiare tra una folla che cerca d'ammazzare in qualche modo il suo unico giorno di riposo..- Sempre meglio che trascorrerlo in casa come stiamo facendo noi..- Almeno qui ci si può fermare un po' e pensare..- Perché là fuori non si può pensare?- Si potrebbe, ma è più difficile, quelle strade non ci appartengono più..- E quando sarebbero state nostre?- In maggio.- In primavera non stavi meglio di adesso..- No, è vero, ma c'era la possibilità che la strada potesse entrare nella stanza, ora invece..- Usciamo, e vediamo cosa succede, male che vada ce ne torniamo qui..- A me non va di fare niente.- E se ce ne andassimo sul corso a non fare nulla?- Va bene.Varcata la soglia di casa dovettero schivare alcuni oggetti d'arredamento, che ostruivano parzialmente il marciapiede: un divano, dei materassi, qualche armadio e, nella flebile nebbia, si riusciva persino a scorgere una cucina quasi completa, appartenuta, con ogni probabilità, a un altro mutuario inadempiente. Attraverso quel mobilio, abbandonato lì a caso, si riuscivano ancora ad immaginare quelle case arredate e i sogni ancora intatti di quella gente costretta ad andarsene. Sarà stato per il freddo o per la crisi, ma, nonostante la giornata festiva, poca gente passeggiava per il corso lungo i viali lastricati di foglie dai colori lugubri. Qualcosa stava morendo intorno a loro, ma non riuscivano ad identificare cosa, il sistema stava collassando, ma i ricchi non erano mai stati così ricchi, il governo continuava 80 a lanciare messaggi ottimisti, la televisione aveva sempre qualcosa da trasmettere, le vetrine venivano sempre e comunque riempite e i supermercati straripavano, in maniera a volte nauseante, d'ogni genere alimentare, tutto sembrava come anestetizzato dai sorrisi dei cartelli pubblicitari e poco interesse suscitavano i volti pallidi dei senzacasa costretti ora a vivere nelle palestre o in dormitori, che fiorivano come viole. - Forse non è stata una buona idea.- Disse lei, davanti a un rosso fast food affollato di ragazzini esuberanti d'adolescenza e stupidità nei loro abiti in voga.- D'accordo, l'aria aperta comincia a stancarmi, e poi questo cielo grigio è opprimente, preferisco il soffitto di casa nostra.Invertirono il passo e tornarono verso casa. - Credi d'amarmi?- Gli chiese lei. - Perché questa domanda?- Rispondi e basta!- Beh.. sì credo di sì..- E allora perché non me lo dici mai?- Beh.. non sono cose per cui occorrono le parole, si capiscono e basta..- I pensieri non sono scindibili dal linguaggio, i sentimenti non esisterebbero senza le parole che li possono descrivere..- E quindi io non ti amerei?- Te ne stai sempre zitto, e noi non parliamo mai.- Abbracciami per favore..- Le disse. - Dai non piangere, volevo solo chiarire la nostra relazione, non era di certo mia intenzione ferirti..- Gli disse lei, stringendolo a se. - Scusami..- Diceva lui cercando d'asciugarsi le lacrime nel maglione di lei. - Dai, ti cucino una buona cenetta e tutto andrà meglio.. Che ne dici?- Va bene, mi dispiace..Lei si mise ai fornelli mentre lui seguiva, con scarsa attenzione, un programma sportivo sulla giornata di campionato di calcio appena disputata. - Ti va d'aprire il vino amore?- Certo, quale vuoi?.- Ho voglia di Bordeaux..- Intendi quello da 20 euro?- Sì proprio quello..- Va beh, vada per il Bordeaux..Mangiarono sul divano, come piaceva a lui, tra poche parole e qualche sorriso, poi lei lo prese di sorpresa chinandosi su di lui. A lui piaceva intravedere il movimento delle labbra socchiuse semicoperte dai capelli che le cascavano sul volto. A lei piaceva succhiarglielo, ma la conversazione del pomeriggio l'aveva scossa, finì sputando tutto nel piatto sporco della cena appena consumata. 81 DAL DIARIO DI UN MILITE IGNOTO Un altro sole straniero mi da il buongiorno, sono ormai passati due mesi da quando mi sono fatto sbattere quaggiù.. Da allora quante notti mi sono interrogato sulle mie azioni e sulla mia funzione in questo paese. Da alcuni giorni siamo immersi in una tranquillità quasi surreale ma nessuno ha il coraggio di abbandonare le nostre posizioni. Gli abitanti della città ci sono chiaramente ostili, i soldati della resistenza locale trovano asilo nelle loro case e il pericolo di un attacco nei nostri confronti è sempre alto, dietro qualsiasi civile può nascondersi un combattente nemico e noi siamo letteralmente terrorizzati. Mentre mangio qualcosa per colazione ripenso al mio bar dove ogni mattina mi recavo a far colazione, all’odore dei cornetti appena sfornati, ma due esplosioni, udite in lontananza mi riportano alla realtà della guerra, parola che ho spesso letto sui giornali, o sentito in televisione, senza mai comprenderne realmente il significato. Arriva un amico che mi saluta sorridente, è incredibile come, anche in guerra, i gesti quotidiani rimangano sempre identici. Ormai si sono fatte le otto, termino la mia scarsa colazione e corro a prendere il fucile per recarmi alla postazione. Osservo la città che piano si sveglia, alcune donne camminano per la strada principale. Cerco di immaginare come sarebbe stato il panorama se questa stupida guerra non avesse mai avuto inizio, le macerie si ricompongono sotto i miei occhi e tornano ad essere case, scuole, ospedali.. Sento un’altra esplosione, tutto fa presagire che la nostra tranquillità stia per finire, d’altronde non posso lamentarmi più di tanto, rimango pur sempre un soldato volontario. Alcuni aerei sorvolano le nostre postazioni, un altro giorno di guerra sta per avere inizio. L’orologio segna le dieci, sono scontento per le ore che ancora mi separano dal pranzo, pensieri banali mi aiutano a staccare la mente dalla situazione che sto vivendo… Cullato dai miei pensierini sto quasi per assopire, quando un assordante boato fa tremare la terra. Cado dalla mia postazione, rialzatomi cerco di capire cosa sia successo, un missile è esploso a pochi metri da noi, questione di metri e qualcuno di noi sarebbe tornato a casa avvolto nella bandiera. Comincio a provare di nuovo quell’orribile sensazione, che ti prende quando capisci che la tua vita è veramente a rischio, e sai che forse non potrai più tornare a guardare il cielo. Accendo una sigaretta e mi preparo al peggio. Dall’altra parte dei ponti, vicino alla città, compaiono alcuni uomini armati che si avvicinano a noi, neanche il tempo di rendersi contadi cosa stia accadendo che una raffica di colpi si infrange contro le nostre postazioni, cazzo ci risiamo, penso, nello stesso istante mi assicuro che la mia arma sia carica. Cominciano a fischiare i primi colpi dalle nostre file, sento urlare: - L’ ho colpito quel bastardo-. Riesco a vedere il corpo di un uomo a terra, muove la testa, è ancora vivo… Alcuni ragazzi alla mia destra gridano:-Annichiliamolo quello stronzo-, qualcuno di loro comincia a 82 sparare, e subito viene seguito dagli altri, credo l’abbiano ucciso. Sento il capitano urlare: -Ragazzi non facciamo cazzate, basta sprecare munizioni!- Ora dall’altra parte del fiume compaiono alcuni piccoli gruppi di uomini che si avvicinano con cautela.. Pochi secondi e si scatena l’inferno, il frastuono dei nostri colpi si mischia a quello del nemico, anch’io sparo cercando di mirare il gruppetto riparatosi dietro una baracca… Dopo un tempo in quantificabile sia noi che loro cessiamo il fuoco. Osservo alcuni dei miei compagni, sono eccitatissimi e sembrano quasi felici, si congratulano tra loro alla vista dei corpi umani rimasti a terra di fronte a noi, Speriamo siano tutti morti..-Commenta un ragazzo appostato di fianco a me. Sono stordito, sento le mie gambe che tremano, continuo a ripetermi nella mente: “sono pagato per fare la guerra” e così cerco una legittimazione al mio comportamento. L’attacco sembra terminato, com’era prevedibile siamo ancora tutti vivi, mi chiedo cosa spinga quegli uomini a tentare queste azioni disperate che, fortunatamente per noi, raramente ci infliggono qualche perdita. Calmatasi la situazione riesco a seguire un telegiornale italiano, un giovane seduto davanti a me commenta eccitato:- Ai miei verrà un colpo quando sapranno di questa battaglia-. So che nelle nostre città parlano di noi come se fossimo in questo paese per portare la pace, per esportare la democrazia, per difendere la popolazione locale.. Quando disgraziatamente qualcuno di noi viene ucciso, in patria viene considerato un eroe, e magari gli vengono intitolate vie e piazze. Un sorriso amaro mi compare sul viso, penso a quando tornerò a casa, come potrò essere lo stesso con la mia famiglia, con i miei amici, ora che sono diventato un assassino. 83 IL GRANDE SALTO 15.02.08 A poco a poco il cielo si fece di un indaco intenso, le strisce d’aria, fino a pochi minuti prima deserte, cominciavano ad essere battute da qualche volatile, uno di loro si posò su una finestra e cominciò ad intonare “la marsigliese”, all’interno della camera una donna, infastidita dal suono tanto dal destarsi esclamò: -Ma perché non te ne vai in Francia a fare questi versi?L’uccello se ne andò un po’ scocciato borbottando tra se tipiche bestemmie da pennuti. - Che fai già sveglia? Dai sarà ancora prestissimo..Chiese lui tra una parola e qualche sbadiglio. - E’colpa di quel pennuto, che mi fa da sveglia, da qualche giorno dev’essergli saltata qualche rotella, si presenta sempre agli orari sbagliati e canta musiche che non ho mai richiesto, se non si da una regolata può scordarsi la razione di mangime.- Su dai viviamo in una metropoli, chissà quanta gente dovrà svegliare, è normale fare un po’ di confusione, qui tutti i palazzi sono uguali.-Sono discorsi di questo genere che mandano a rotoli la nostra società e poi.. poi il problema, forse, non è nemmeno quel maledetto uccello, è che oggi sono nervosa, spero tu mi comprenda..All’incirca in questo modo arrivò il 23 del mese e lei, che per comodità chiameremo Giulia, aveva cerchiato con un lapis rosso il numero nero sul calendario, come per assicurarsi di ricordare una data di cui non si sarebbe sicuramente scordata, infatti per quel giorno erano stati fissati i provini per un piccolo ruolo in un film, che sarebbe stato girato in città e lei vedeva la possibilità, o forse la fugace illusione, di poter credere, almeno per un po’, di veder realizzato il suo grande sogno. Lui, che per comodità chiameremo Luca, era il suo compagno, non era sicuro d’amarla, però era certo di volerle bene, fatto sta che, probabilmente per la gran quantità di bevanda rubina ingurgitata soltanto fino a poche ore prima, quel mattino proprio non ne aveva voglia di svegliarsi, si sentiva come quella volta che i carri cannonati avevano fatto irruzione nell’università, e lui, disteso sopra una pila di vecchi quotidiani, proprio non ne voleva sapere di svegliarsi, vinto tra il dovere di destarsi e il fascino irresistibile del sonno. Gli elettrodomestici della casa furono messi in funzione e, tra tutti quanti, facevano un vero baccano infernale, solamente il tostapane se ne stava lì mogio e calmo, irradiando la superficie, su cui era posto, di una flebile luce bordeaux, Luca gli si sentì riconoscente mentre cominciava ad odiare intensamente gli altri rumorosi aggeggi domestici. - Potevamo stare a letto ancora un po’ no? Mancano ancora più di due ore..- Son sicura che non sarei più riuscita ad addormentarmi, e poi la lavatrice aveva bisogno d’essere ricaricata..- 84 - A volte mi chiedo se tutte queste invenzioni spaccatimpani siano più utili per renderci liberi o schiavi..- Sei libero o schiavo di bere la colazione che il frullatore ha appena finito di preparare se vuoi..- Sicuramente m’aiuterà a svegliarmi..Giulia voleva ripassare la parte, che aveva preparato, e gli chiese di starla a sentire, lui annuì, ma dopo pochi attimi s’assopì sul divano, lei si arrabbiò e gridò molto, a lui passò ogni traccia di sonno. Ora erano in auto, strumenti che alternavano luci colorate comandavano a tutta quella folla di uomini e motori quando e come procedere. Il traffico fluiva lentamente, e Luca poté notare il viso di una ragazza apparso su un enorme manifesto, affisso alle impalcature di un palazzo in costruzione. Quel volto aveva veramente un sorriso perfetto, e anche il colore degli occhi era splendido, perse qualche minuto a fissare quei lineamenti piegati in quel gesto, soltanto lievemente erotico, del portarsi una bibita marrognola alle labbra dolcemente socchiuse intorno all’imboccatura della bottiglietta. Un carosello di clacson e grida lo riportò a prestare attenzione ai comandi delle luci colorate, mentre Giulia, come estraniata, continuava a ripetere ossessivamente quelle cinque frasi, che apparivano ormai solo come vuote parole senza significato, rappresentavano soltanto il mezzo per poter effettuare quel grande salto, che era il suo sogno fin da bambina, poter fare del cinema. Parcheggiarono poco distanti dagli studi, dove si sarebbero tenuti i provini. Nella grande stanza, adibita ad una sorta d’enorme sala d’attesa, l’aria era pesante fruscii di parole si ripetevano insistentemente, e, anche per chi l’avrebbe desiderato, star tranquilli era impossibile. Nel tempo che la separò dal suo turno Giulia ebbe: una crisi isterica, due vuoti di memoria, un attacco di fame, una crisi di sconforto e uno sfogo di rabbia contro una donna casualmente seduta vicina a lei. Appena chiamarono il suo nome, Luca uscì dalla stanza in cerca di un po’ di quiete. Gli studi cinematografici si trovavano in un’altra zona della città rispetto a dove vivevano loro, ma, in fin dei conti, lui notò che tutto era molto simile. Stormi di uccelli cantavano sui davanzali per svegliare gli ultimi ritardatari, pareva che ognuno cinguettasse un motivo diverso, e il risultato era quel trambusto di musica e armonia, tipico della tarda mattinata. A Luca sfuggì un timido sorriso, il primo della giornata, si accese una sigaretta e cominciò a passeggiare lungo il marciapiede semi deserto, creò dei pensieri, ma nessuno di questi sfiorava il provino che Giulia stava sostenendo. Aveva da poco girato un angolo quando udì un suono, simile a un botto attutito, si voltò e vide una macchia rossa scorrere lungo l’asfalto e un corpo disteso, inerme. Alcune grida e i primi soccorritori celarono alla sua vista la visione, che, comunque, rimaneva fissa nella sua mente. Luca si inginocchiò preso da un irrefrenabile senso di nausea, cercò di trattenersi e rientrò nella sala d’attesa in cerca dei bagni. Vomitò colazione e qualcosa che dava l’impressione d’essere parte della cena. Quando tornò nella grande stanza riuscì a vedere, dalle grandi vetrate, un’ambulanza che s’allontanava a sirene spente, si sedette e aspettò che lei uscisse dalla stanza dei provini. 85 L’ODIO 01.11.07 La luce bianca s’infiltrava dagli spiragli della persiana, e andò a infilarsi direttamente nei suoi occhi, così si svegliò. Un’altra volta mattina pensò, guardandosi attorno, la stanza: quella di sempre, i soliti quadri appesi ai muri, le solite fotografie disposte in fila sul comodino, e persino i muri avevano ancora lo stesso colore di sempre. Guardò l’orologio, quasi le nove e mezza, tra pochi minuti sarebbe entrata sua madre con la colazione, e poi avrebbe dovuto cercare nuovi pensieri per occupare una nuova giornata. Uscire, andare al cinema, un giro al parco, leggersi un libro, trovare qualcuno con cui parlare, partire per andare lontano, sicuramente sarebbe rimasto a letto. La porta s’aprì e, puntuale, entrò la madre con la colazione, posò il vassoio sul comodino e poi aprì le persiane, il cielo era grigio e l’inverno stava scalzando l’autunno con energia. “Questi vetri sono da pulire..” pensò tra se, senza dire nulla. Poi spostò la vecchia sedia vicino al letto e cominciò ad imboccare la brioche fresca al figlio. Erano passati nove mesi e quattordici giorni dalla notte che le aveva sconvolto la vita. “Solita strage del sabato sera.” Titolava in grande la pagina del giornale locale, erano in quattro quella sera, suo figlio era l’unico ad essere sopravissuto, ma era rimasto quasi totalmente paralizzato e le speranze di recupero erano solo pallidi lumi, che ogni giorno divenivano sempre più flebili. Fino ad allora la vita le aveva riservato un matrimonio stanco che era riuscita a lasciarsi alle spalle, un buon lavoro e qualche motivo per cercare di essere felice. Finì d’imboccarlo e notò che l’unghia dell’indice destro era molto più corta rispetto alle altre, “me la sarò mangiata nel sonno”, pensò e si promise di appuntarlo sul blocnotes bianco, che teneva nella giacca, era un modo per ricordarsi tutti i fatti da raccontare allo psicanalista, vi erano annotate un sacco di cose inutili, ma lui diceva che tutto era fondamentale per comprendere e superare la situazione, e lei aveva finito per credergli, più per disperazione che per fiducia. Si alzò, -Torno tra dieci minuti con il giornale.- Disse, sforzando un sorriso senza convinzione, -Ti voglio bene..- Aggiunse. Chiuse la porta e lo sentì piangere. Indugiò qualche attimo davanti allo specchio, quattro capelli bianchi avevano fatto capolino appena sopra l’orecchio destro, cercò di nasconderli alla meglio, e uscì. Era appena scesa in strada, dove le foglie giocano a rincorrersi, quando capì che stava iniziando ad odiarlo. 86 LOVE AFFAIRS 27.07.08 Eravamo nel mezzo di un’estate afosa di quelle che ti fanno appiccicare i vestiti in auto e puoi sentire in ogni momento il gusto salato del sudore che scivola da ogni parte del corpo. La rinuncia a qualche giro di whisky in serata valeva forse bene un giro nel motel vicino alla tangenziale. Era da qualche tempo che mi vedevo con Carla, una tizia conosciuta quasi per caso tra tavoli e bicchieri ancora semipieni. La storia era da un po’ che girava male, c’era troppa disperazione e pochi soldi perché potesse andar meglio. Ricordo che quel giorno non avevo ancora mangiato, il denaro risparmiato con le prostitute non riusciva, in ogni caso, a garantirmi un pasto al giorno. Quindi affamato e accaldato passai a prendere la mia donna d’allora per fare quattro salti sul primo squallido letto lasciato libero. Non c’era traffico a quell’ora, e la mia vecchia Ford scivolò facilmente lungo nuove e vecchie periferie , che svanivano piano più ci si spingeva verso ovest. Quando svoltai e parcheggiai tra qualche camion, era ormai il tramonto. La portinaia ci salutò con un sorriso guasto, ma sincero, poi c’indirizzò verso una camera, posta al secondo piano. Pareva una serata tranquilla lungo le scale si sentiva soltanto russare e qualche insetto, che svolazzava. Appena dentro la stanza chiusi le persiane, senza troppa attenzione sull’ordine e la pulizia dell’ambiente. Carla era proprio una bella tipa con i seni sodi e una bocca generosa, che mise subito al lavoro, così io non pensai più a tutti i dissapori che, tuttavia, restavano tra noi. Aveva una belle testa bionda, un viso cosparso di lentiggini e gli occhi di un azzurro spento, che ora non riuscivo a vedere. Dopo qualche minuto, m’era venuta voglia di infilarglielo dietro, così, dopo averle fatto prendere la posizione, la penetrai con un colpo secco. Lei emise un urlo tanto intenso da provocare delle lamentele dal primo piano. Non era di certo la prima volta, che lo prendeva in questo modo, ma quella sera sembrava stranamente insofferente. Ad ogni modo io, incurante delle sue lacrime e dei suoi lamenti, ed anzi incoraggiato dalla situazione non diedi accenno a smettere mentre lei , così piegata,sembrava darsi per vinta. Alla fine venni sul suo viso e sui suoi occhi serrati. Mentre mi rivestivo, l’osservai mentre si ripuliva, e, nonostante tutto , pensai che era bellissima e che era stata una fortuna averla incontrata. Ci separammo, come di consueto, a notte inoltrata. Malgrado frequentassimo i peggiori luoghi della città lei non ne voleva sapere di venire a dormire nella mia stanza, che, a suo dire, aveva il frigo sempre vuoto e puzzava troppo di piscio. Fu la volta seguente che ci recammo in quello stesso motel, che lei tentò di tagliarmi la gola con una lametta per la depilazione. 87 NINA TI TE RICORDI 10.09.08 Amarse no xe no un pecato, ma ancuo el xe un lusso de pochi (Gualtiero Bertelli) Saranno state le cinque e mezza quando finii il lavoro giù in segheria, m’ero sbrigato abbastanza presto, rispetto al solito, ero contento perché fuori c’era un bel sole e la giornata di lavoro era passata via bene. Era primavera inoltrata o forse già estate, son sicuro che era giugno, ma non ricordo di preciso il giorno, mi ricordo solo d’aver preso la bicicletta e d’essere corso a casa per lavarmi un po’ e togliermi di dosso tutta quella polvere e quella segatura che ti s’infila dappertutto sotto i vestiti, tra i capelli, dal naso fino giù nei polmoni. Ho tirato fuori il vestito buono, mi son fatto un po’ , non diciamo bello, direi presentabile e sono andato a casa della Ninetta. Ero sicuro che le avrei fatto una bella sorpresa, non avrebbe mai pensato che sarei arrivato da lei così presto, e così in tiro per di più. Quando arrivai sulla porta però sua madre m’avvisò che lei era uscita a fare delle compere con un’amica nel paese vicino. -Dai su ti preparo un caffè e puoi aspettarla qui, è uscita ormai da due ore, rientrerà a momenti e poi sa che vieni sempre finito il lavoro, figurati se non arriva, è innamorata la bambina..Mi disse la donna. Erano ormai diversi mesi che io e la Ninetta ci vedevamo. Era nato tutto, quasi per gioco, in febbraio alla festa del paese. Io con lei c’ero cresciuto, me la ricordo bambina, che faceva delle strisce giù in terra per giocare a quel gioco che di solito giocavano sempre le femmine. Capitava che giocassi anch’io con loro, alla fine era divertente, però poi tutti i miei amici mi prendevano in giro, perciò spesso finivo col rifiutare i suoi inviti. Questo per dire che sì, la Ninetta m’era sempre piaciuta, con lei stavo bene, ma non avevo mai pensato a niente di più. Invece il giorno della festa, l’ho vista davanti a un banchetto, che vendeva collanine, braccialetti, orecchini e altre cianfrusaglie così, tutta roba da poche lire. Sarà che quel giorno s’era truccata proprio bene, di solito non lo faceva mai, sarà stato il momento o non lo so, ma prima d’andare a salutarla sono stato lì un bel momento a guardarla, le fissavo il viso, i capelli. Mentre guardavo le labbra, esaltate da un pizzico di rossetto, m’era venuta voglia di baciarla, e lì ho capito che, da quel momento, qualcosa sarebbe cambiato, in bene o in male s’intende, non sono mai stato uno di quelli che si fa i conti in tasca prima del giorno di paga. Poi mi sono avvicinato per salutarla, e lei in tutta risposta s’avvicinò alla mia guancia per 88 darmi un bacino, non era la prima volta che lo faceva, anzi era una cosa,che faceva spesso, però era la prima volta che averla così vicino mi faceva venire un calore che scendeva giù per la schiena. A sera quando si accesero le luci e l’orchestrina cominciò a suonare ci siamo tenuti stretti, stavo proprio quasi bene, ricordo che fissavo l’orologio per cercare di fermare la lancetta dei secondi, prolungare per sempre quel momento e tenere lontano il lunedì, la polvere sul vestito da lavoro. Il suo odore, la sua voce, i capelli e le mani, riempivano tutto e sembrava non esserci più spazio nemmeno per gli amici e i tavoli al bar. Quando le musiche e i cori finirono e ormai non era rimasto più nessuno, l’accompagnai a casa e ricordo ancora i suoi occhi mentre la baciavo sotto le scale di casa, quelle stesse scale che avrei fatto ogni giorno come se fosse quasi casa mia. Proprio da quei gradini la sentii salire anche quel pomeriggio, canticchiava qualcosa e mi salutò con il sorriso di sempre: -Ciao amore, scusa se ti ho fatto aspettare, al negozio mi sono persa un po’, però ho comprato questa gonna.. ti piace? Dovrai aspettare un giorno di festa per vedermela addosso però, se no la mamma inizia a brontolare-Mica vorrai venire in chiesa con quella roba spero..- La apostrofò la madre, -E dai mamma se ne vedono pure di più corte oggi per strada..Le rispose la Ninetta. -Spero che appena vi sposerete la finirai finalmente con questi discorsi da ragazzina, e penserai finalmente alle cose importanti-. Concluse la madre tirando ancora una volta in ballo la faccenda del matrimonio. In paese cominciavano a riconoscerci tutti come morosi, e sembrava ormai scontato che prima o poi dovessimo sposarci per forza. Tramontarono ancora molti giorni prima che accadesse, trascorsero ancora cinque anni da quel tardo pomeriggio in casa sua, prima che io e la Nina ci sposassimo. Avevo cercato di risparmiare molto in tutto quel tempo di fidanzamento, cercando di riempire con qualche libro le serate che gli amici passavano all’osteria. Quei soldi risparmiati, alla fine, bastarono a malapena per comprare la cucina e quei quattro mobili essenziali per vivere. I primi tempi da sposati non andarono neanche troppo male, lavoravo tanto, ma di lavoro ce n’era e con gli straordinari si poteva pensare di riuscire a comprare una cameretta e un qualche futuro ad un possibile figlio, ma bastarono pochi istanti per tranciare la mia mano e quel futuro. Quando rimasi incastrato nella sega e mi vidi schizzare il sangue in faccia pensai che stavo per morire, o qualcosa del genere, svenni dopo pochi secondi. Quando mi svegliai, ero steso in un letto d’ospedale con la faccia pulita e una mano sola. Ricordo anche che la prima cosa che vidi, appena aperti gli occhi, fu la faccia della Ninetta, che piangeva e cercava di sorridere e, non so perchè, provai un brivido di felicità. 89 ROBE DA MATTI 03.07.08 Si risvegliò un po’ più presto quella mattina, dalla finestra vedeva l’indaco del mattino e qualche sporadica auto sullo stradone, in direzione della città. Fosse stato nel suo buco d’appartamento, probabilmente, si sarebbe scolato un paio di bicchieri di vino dolce, tecnica utile per riconciliare il sonno. Ma, purtroppo, nella sua attuale condizione, tutto ciò non era possibile. Cercò consolazione nelle fosche immagini del sogno, che aveva accompagnato i suoi ultimi minuti: un prato in primavera e qualche bacio rubato. Pur senza aver mai letto quasi nulla in materia d’interpretazione onirica, attribuiva a quelle visioni un deciso desiderio di libertà. Sarebbe passata ancora qualche ora, prima che qualcuno irrompesse nella stanza per turbare la sua quiete. Cercò quindi di distendere i nervi, magari inventando qualche ricordo. Rifletté per un attimo su come il passato fosse sempre costruito in funzione del presente, una tragica ovvietà. Si ricordò di quegli occhi scuri e di quei dolci abbracci di quella donna per la quale, forse, lui aveva significato qualcosa. Si stupì di trovarsi a pensarla in quel momento con un’intensità e un sentimento, che forse non aveva mai provato. In quella notte, spalancandole la portiera dell’auto, le aveva consigliato di non cercarlo mai più, e così fu. Non era troppo dispiaciuto per questo, era piuttosto sicuro che la sua proiezione di lei d’un tempo, fosse comunque migliore di tutto ciò che poteva essere diventata. La campana d’una chiesetta lì vicino suonò le sette del mattino, quei sette colpi gli ricordarono i tempi in cui a quell’ora si svegliava per andare a scuola, l’odore del caffè e il suo posto in ultima fila, vicino alla porta, i minuti passati alla fermata di un autobus, i primi commenti sulle ragazze dai seni prosperosi, i brividi da interrogazione e tutti quei discorsi incantati e stupidi, che faceva allora. Il sonno era, ormai, completamente svanito, scostò le lenzuola per andare ad affacciarsi alla finestra. Oltre il vetro, scorse della gente, che si recava, così di buon ora, verso la chiesetta per la prima funzione della giornata. “Robe da matti...” pensò tra se. Camminò verso il bagno, dove s’accese la prima sigaretta della giornata, dall’oblò posizionato sopra il cesso, intravedeva tutto lo squallore del luogo, che lo circondava. Si rimise a letto, si stava per riassopire quando qualcuno entrò nella stanza. Si trattava di un volto nuovo, una giovane donna, con dei seni degni d’essere accostati con quelli evocati solo poco prima. Lo salutò con un entusiasmo tanto piacevole e sincero a sentirsi, che lì per lì a lui parve fuori luogo, poi gli domandò: Sono arrivata con la colazione: gradisce caffè, latte, the o cioccolata?Bah.. caffè, ma giusto un goccio, le giuro che ci provo ad abituarmi a quel saporaccio, ma ancora non ci sono riuscito..- 90 Lei sorrise, dedicandogli così, il primo sorriso della sua giornata. E' da molto che si trova qui?- Gli chiese poi. Bah.. ad essere sinceri nemmeno ricordo..Beh, saprà più o meno da quanti giorni..Diversi giorni, molti giorni..Si trova qui da qualche settimana?Mesi credo..Alla risposta, la donna si morse un labbro, in un espressione, che sembrava essere dispiaciuta, poi disse: -Vedrà che prima o poi uscirà, solamente la morte è per sempre...Lui cercò d'abbozzare un sorriso, il primo che faceva ad una persona da non riusciva a ricordare quanto tempo, poi le disse: - Sa, lei somiglia ad una ragazza, che vidi una volta sola, a Parigi. Era scesa da casa per portarmi qualcosa di colazione, dopo una notte trascorsa per strada, sotto il suo portone, ricordo che mi portò una briosche e una tazza di caffè-. Alors, voilà le votre cafè , monsieur..- Disse lei, porgendogli una tazza bollente e accenando ad un timido sorriso. Merci beaucoup. - Rispose lui in tono quai divertito. Bei giorni andati, guardi, invece, come sono finito adesso...- Aggiunse poi. Su, non si disperi, uscirà, qusto è certo. Poi è ancora giovane, ha ancora tutta la vita davanti.. Nel frattempo s'immagini che questa sia la camera di un albergo nella città che più ama-. Lui finì con evidenti espressioni di sforzo il caffè, poi s'alzò dal letto. Venga.. s'avvicini- Le disse indicandogli il punto vicino alla finestra, dove si era spostato. Voglio farle vedere uno dei migliori panorami di Parigi.- Aggiunse. Oltre il vetro, si vedeva la vecchia superstrada, una chiesa, le poche case, che componevano il paese e le alte montagne, dalle quali il sole doveva ancora emergere. Mentre tentava un timido abbraccio lui le disse: - Spero non mi prenderà matto ora...I due scoppiarono in una lunga e sentita risata. Ci sono giorni, parole e sorrisi anche dentro un ospedale psichiatrico. 91 ROMANITC RAPE (LAST KISS) 26.02.09 Frammenti di vetro si trovavano sparsi a terra, i rimanenti erano rimasti sulla superficie lignea sistemata poco lontana dallo spazioso letto a due piazze. Tutto era in disordine: il copri materasso sollevato lasciava vedere le greche ricamate sulla superficie dello stesso, e una vistosa chiazza giallognola, comparsa di un momento indefinito in quei giorni. Un calzino era andato a posarsi proprio sopra la lampada, regalando così all’ambiente un’innaturale luce soffusa. Steso sul letto lui stava piangendo. La fotografia era comunque rimasta al suo posto nel portaritratti in cui era stata sistemata, incurante dell’esplosione che aveva frammentato il vetro che la proteggeva, una fotografia scattata in estate, un momento rubato al fluire temporale, quel volto, quello sguardo, quegli occhi, quelle labbra gli sarebbero rimaste, nonostante tutto. Proprio questo l’aveva fatto esplodere di rabbia pochi istanti prima di frantumare quel vetro in una raffica di dolore. Che sera sarebbe stata quella che stava calando, come l’avrebbe fatta passare, quanta birra gli era rimasta a freddare in frigorifero, e cosa davano in televisione.. Uscì di casa nel mezzo del telegiornale delle venti, al rosso del semaforo si fermò a fissare le automobili che gli scorrevano davanti, fugaci immagini di coppie, chiacchericci e programmi per quella stessa serata, che lui non sapeva proprio come riempire. Si guardò a destra, poi a sinistra, infine si voltò, era solo. La strada non era poi così cambiata, le luci del corso accendevano i colori, l’aria era respirabile. Era solo il suo mondo ad essere finito in frantumi. Si fermò ad un distributore di sigarette, acquistò un pacchetto e meccanicamente se ne accese una poi, come tante altre volte, s’incamminò lungo la via per poi svoltare a destra fino alla piazzetta con la chiesa e poi il vicolo sotto il portico, la casa era dove passava la vecchia ferrovia, così gli aveva spiegato la strada la prima volta che andò da lei, quella stessa strada battuta e ribattuta tra i mucchi di neve e nei torridi gradi d’agosto. Fece i primi passi nella consueta direzione, poi si ricordò che tutto era finito. Da quel pomeriggio la sua vita s’era come frantumata, com’era successo al portaritratti in camera sua, una morte nel pomeriggio per la quale ancora non era riuscito a farsi una ragione. Ricordava però ancora vivido il loro ultimo bacio frettoloso, dato e ricevuto senza avere potuto assaporare il gusto dell’addio, rivedeva le sue labbra e i suoi occhi serrati nella luce cianotica d’un parcheggio notturno. Ciao.Ciao, buonanotte.- Dovevano essersi detti lasciandosi. Ma s'era veramente consumato in quel modo il loro ultimo bacio? 92 Ciò che è conveniente nel ricordare è la possibilità d'inventare i propri ricordi come meglio ci fanno sentire in relazione al momento vissuto. Quindi lei c'era ancora, presente nella sua auto quella sera, e davanti a lui in un'estate sorridente, come nella fotografia ormai priva della protezione vitrea, che ancora gli restava. Lei era morta. In quello stesso momento lei forse stava terminando di cenare, poi si sarebbe messa a lavare i piatti, come sempre, alla fine del telegiornale, e poi lui.. E poi a lui non era più permesso stare vicino a lei, e poi chissà a cosa o a chi stesse pensando in quel momento e magari non era nemmeno sola. Non fu per razionalità e forse nemmeno per amore, che si presentò a casa sua, lei sorpresa e turbata non avrebbe potuto serrargli la porta in faccia come avrebbe voluto, quindi lo fece entrare. Qualcosa da bere doveva esserle rimasto, ma aveva poi senso dargliene? Poi lui si mise a piangere, appoggiandosi ad una spalla, prevedibile, come un copione riletto fino alla nausea. Ma, quella sera, un colpo di scena, lui divenne violento, come lei non si sarebbe mai immaginata, la spogliò e la prese di forza lì dove si trovavano, lei poteva osservarsi mentre piangeva nello specchio. Poi, alla fine, quel bacio rapinato, che aveva il sapore dell'addio, anche se forse non era l'ultimo bacio, che entrambi avrebbero voluto. Poi il ritorno a casa, come tante altre volte, la piazzetta con la chiesa, il corso illuminato e la via di casa, il tempo d'una sigaretta e una quarantina di passi. Nulla sembrava cambiato, i colori del corso, l'odore dell'aria, la sua stessa camera in disordine,il calzino sempre posto sulla lampada,l'immagine sorridente di lei nella fotografia, ma lui continuava a sentire in bocca il sapore di quell'ultimo bacio. 93 TELEVISIONE 12.05.08 Erano i giorni in cui si vedevano ancora i fiori bianchi, poco prima d’essere feriti a sangue dai venti roventi provenienti da sud. Ricordava d’averla incontrata nei pressi del porto di La Rochelle, al tramonto, quando, finalmente, la calma era scesa in terra e in mare lasciando i surfisti a sbevacchiare nei diversi bar sparsi per la spiaggia. Ricordava d’aver notato prima i suoi capelli biondi, mossi da una fresca brezza atlantica, poi gli occhi blu, che non potevano passare inosservati ed infine quelle due o tre espressioni del viso di cui era estremamente difficile non innamorarsi. Ora se ne stava seduta, di fronte a lui, i capelli, gli occhi e anche le espressioni erano le stesse della prima volta. Poi, d’un tratto, si lasciò andare a quei minuti che trascorrevano identici ogni giorno, lei si chinò sul suo ventre e lui si concentrò alla ricerca di quella soddisfazione mista di sfogo e piacere. Era sicuro di non amarla, in fondo sapeva di non conoscerla, ma, in cuor suo, nemmeno lui sapeva se sarebbe riuscito a rinunciare a quegli incontri. Azioni,posizioni e suoni si ripetevano nella stessa tediosa sicurezza, che lui era quasi certo di conoscere ormai a memoria. Diverse volte aveva pensato di dedicarle delle poesie o qualche riga anche se di dubbia qualità, ma aveva sempre finito col pensare che si trattasse d’una cosa profondamente stupida e lasciò perdere l’idea, d’altronde ogni giorno che l’andasse a cercare lei pareva disponibile. Nessuno dei suoi amici era al corrente di quella sua relazione, che lui viveva nella più assoluta solitudine e intimità. In quel momento venne sorpreso dai morsi della fame e s’allontanò dalla stanza alla ricerca di un pacchetto di cracker o qualcosa del genere. Quando, dopo qualche minuto, tornò nella stanza la trovò nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata, con gli stessi capelli, gli stessi occhi e la stessa espressione. Sedata la fame, trovò il ritmo giusto e venne con lo sguardo rivolto altrove. Giunto al termine della notte si pulì con un fazzoletto e spense il teleschermo. Il bel viso dai capelli biondi e dagli occhi blu svanì in un istante. Spense la luce si mise sotto le coperte e cercò di rilassare perfettamente ossa, muscoli e giunture del corpo alla ricerca del sonno che confidava sarebbe arrivato. 94 95 Scrivo perché, in fondo, anche se tutto crolla... 96 DESERTIFICAZIONE 19.01.09 Un’enorme duna di sabbia, che a tratti brillava come fosse dorata, s’ergeva nel centro della piazza cittadina. Il tempio doveva ancora trovarsi sommerso lì sotto, navate, cripte e persino la piccola sacrestia erano colme di microscopici granelli. K fissava quel luogo e nella sua mente vedeva ancora il tempio. ergersi nel centro abitato, fu proprio in quel luogo che conobbe dio in un lontano anno della sua infanzia. Se pur da molto tempo non frequentasse più quel posto un po’ gli dispiacque quando l’ultimo frammento si posò sulla punta estrema della costruzione celandola così completamente. Intanto c’era gente ben più disperata di lui, il vecchio sacerdote, da quando non aveva più un altare da dove predicare, s’era rinchiuso nella canonica, da quel giorno nessuno l’aveva più visto, i primi giorni qualcuno se ne preoccupò, poi fu dimenticato. I fedeli si dividevano in diverse fazioni: alcuni leggevano in quella pioggia un chiaro segno dell’ira divina che si stava scatenando, quindi presero a pregare, lodare, adorare dio più di quanto avessero fatto prima, e non avendo più un luogo predisposto per le suddette azioni, si ritrovavano a diverse ore della giornata, a volte pure della notte, davanti alla montagna di sabbia, le scene potevano essere strazianti chi urlava, chi piangeva qualcuno arrivava a lacerarsi le carni implorando perdono. Altri pensavano che questi comportamenti fossero il frutto di stupide superstizioni, retaggio di epoche passate. Secondo loro la causa di tutto sarebbe stata da imputare a delle industrie d’oriente che, scaricando nell’atmosfera i loro gas inquinanti, avevano provocato diversi sconvolgimenti climatici tra i quali le piogge di sabbia erano solo un esempio. Questi si sforzarono di continuare, nonostante tutto, la loro vita di sempre confidando che presto quella pioggia maledetta avrebbe cessato di cadere. Altri ancora presero l’evento come un segno dell’abbandono divino, in quanto solo chi non tiene alla propria dimora permetterebbe che questa possa riempirsi di sabbia, quindi divennero atei. La religione aveva smesso d’interessare K da tempo e quell’evento gli lasciò un po’ di malinconia per ciò che era stato perduto ma niente di più. Ciò che angosciava più K era però quella flebile pioggerellina giallognola, che non accennava a smettere e chissà cos’altro avrebbe potuto ancora cancellare. Alzò lo sguardo verso lo scolorire del giorno e vide dei fili di sabbia, che andarono a depositarsi sulle sue scarpe, affrettò il passo e tornò verso casa. K soffriva spesso d’insonnia, mentre si rigirava sentiva che fuori stava soffiando un forte vento, ciò gli ricordò quella notte in cui il tempio fu sepolto. Si svegliò e capì che era ormai passato mezzogiorno si vestì e iniziò a pensare a come occupare il pomeriggio, restare chiuso in casa avrebbe solo aumentato il suo malumore, uscì, aprì l’ombrello, per ripararsi dalla sabbia, e andò a vedere cosa proiettavano al cinema. La strada passava vicino all’università, K non 97 poté non notare che la costruzione, un imponente edificio d’oltre cinque piani, era per metà ricoperta di sabbia. K si fermo per un po’ ad osservare gli studenti che si servivano delle finestre per scivolare fuori dall’edificio. L’università rappresentava uno dei pochi centri d’opposizione al governo e quella maledetta pioggia lo stava cancellando. Alla pari dei fedeli religiosi, anche gli studenti si dividevano nelle considerazioni sull’evento. I catastrofisti vedevano nella pioggia di sabbia la morte dei movimenti e l’impossibilità della costruzione di una qualsiasi alternativa, altri, al contrario, sostenevano che l’inagibilità dell’università poteva essere un’occasione per acquistare visibilità all’esterno, altri ancora temevano che l’evento avrebbe causato la chiusura dell’università costringendoli così a trovarsi un lavoro, erano però in molti a divertirsi quel pomeriggio giocando a scivolare sull’enorme cumulo di sabbia che s’era accumulato nella notte. Ad ogni modo K aveva spento la sua passione politica, gli era rimasta soltanto una profonda e sincera antipatia per qualunque figura ricoprisse un qualsiasi ruolo d’autorità dal poliziotto al presidente dello Stato. Quindi il fatto che anche l’università potesse rimanere sepolta, non lo preoccupava più di tanto. Quando i discorsi degli studenti iniziarono ad annoiarlo, riprese il passo in direzione del cinema. Prese posto nelle prime file, sullo schermo apparirono immagini di un vecchio film ambientato in una capitale straniera, K già le conosceva, ma le stava rivedendo volentieri. Quand’era circa a meta film una cascata di capelli castano chiaro gli cascarono su una spalla fino a solleticargli una guancia, appartenevano a una ragazza seduta accanto. L’aveva notata arrivare a film iniziato e fu piacevolmente stupito quando venne a sedersi accanto a lui, nonostante i numerosi posti vuoti della sala semi deserta, ma questo forse non aveva importanza. K non prestava più attenzione al film ma i suoi pensieri erano tutti per la testa di quella sconosciuta appoggiata sulla sua spalla. Quando le luci si accesero lei si svegliò alzò il capo e gli sorrise quasi per scusarsi, lui la invitò a fumare una sigaretta. I suoi occhi, ora aperti, brillavano d’azzurro e K era come felice, lei doveva andare nell’ufficio della casa editrice per la quale lavorava, K disse che poteva accompagnarla dato che doveva fare la stessa strada, mentì, lei sorrise. K aprì l’ombrello e la invitò a ripararsi con lui. Mentre camminavano alcune raffiche di vento cominciarono a prenderli a bersaglio, le folate diventarono poi un unico soffio che si trasformò in tempesta, la sabbia cominciò a scendere copiosa sui due e l’ombrello era ormai inutile, K lo abbandonò e questo volò via come fosse una piuma. Con le braccia, ora entrambe libere, abbracciò la ragazza cercando di tenerla stretta, non ci riuscì e la ragazza volò via allo stesso modo dell’ombrello. K arrancava cercando di coprirsi il viso come poteva mentre la sabbia si mischiava alle lacrime infangandogli il viso, difficile calcolare quanto durò il tutto, ma quando egli poté riaprire gli occhi vide sopra di se l’azzurro. La pioggia di sabbia era terminata e K non era che un piccolo punto nero tra il cielo e il deserto. 98 SPERIAMO NEVICHI 27.05.08 y: -Allora com’è andata la serata?x: -Mah.. niente, le ho offerto da bere e.. niente..y: -Va beh dai, ti sarai almeno fatto dare il numero.x: -Sì, ma non so se me ne farò qualcosa, fossero sufficienti i numeri di cellulare, ne ho la rubrica piena..-. y: -Dai non t’abbattere.. c’è l’ho io la soluzione adatta, che dici, andiamo a farci un paio di colpi?x: -Non saprei.. è ancora prestissimo..y: -Su, guarda che sta roba ti carica meglio della brioche e caffé del baretto..x: -Va beh dai, una striscettina, facciamo in fretta però.y: -Senti: sta roba l’ho pagata un botto, ma è buona, la chiamano: “la roba d’Agnelli”..x: -Fossi un Agnelli me ne starei a letto a quest’ora, non di certo qui..y: -Fossi io un Agnelli boh, forse non sarei più su questo mondo, ma di certo me la sarei divertita, alla grande poi..x: -Dai abbassa la tavoletta del cesso e sbrigati a farla giù, che è tardi..y: -Oh un attimo, queste cose vanno fatte con calma e precisione d’artista, poi mica morirai dalla voglia di tornare di là, spero..x: -Non vorrei altri casini, tutto qui. Hai visto anche tu che per loro ogni stronzata è un appiglio per romperti i coglioni..y: -Che botta.. sta roba..x: -Sì..y: -Ma non ci sei più passato dal sindacato poi?x: -Bah, quelli sono degli stronzi, pare che per loro conti poco più d’una tessera. Non hanno veramente idea di cosa cazzo significhi stare qui dentro.y: -Sei tu che ancora voti sinistra..x: - Non serve che mi ricordi d’essere un coglione, comunque dai, andiamo.In quel momento suonò la sirena che dava inizio al primo turno. S’udì subito un rumore forte e intenso, ogni macchinario era rientrato in funzione. I tappi nelle orecchie davano una sensazione ovattata, un po’ come il risveglio in quelle mattine, quando ha nevicato per tutta la notte. Un altro giorno era stato timbrato. c: -Ehi, voi due..- Era l’inconfondibile vociare del capo. c: -Ci sarebbe tutta questa merda da far sparire entro le otto..-Disse indicando un mucchio di materiale di scarto, che giaceva in un angolo del capannone. 99 c: -So che fuori sta piovigginando, ma due gocce d’acqua non spaventeranno dei giovani gagliardi come voi.. Su al lavoro, meglio gioventù..Appena fuori li immerse una pioggia continua e intensa, nel giro di pochi minuti, le tute blu dei giovani operai erano già del tutto fradice. x: -Che bel lavoro di merda! Proprio quello che ci voleva per iniziare la giornata..y: -Beh se non stesse piovendo non sarebbe così male, almeno da qui si può vedere il cielo..x: -Piove sempre sulla classe operaia.y: -Beh, allora speriamo nevichi.- 100 IL CASTELLO 13.05.07 Era una bella giornata di primavera inoltrata, il sole brillava alto in cielo scaldando le piante, le rocce e gli animali, che si godevano, finalmente, la stagione degli amori. Quella mattina B. si svegliò di buon’ora, era una giornata molto importante per lui, infatti di lì a poco si sarebbe recato al Castello per essere nominato Presidente della Camera di Comando. Era proprio una bella giornata di primavera inoltrata. Dopo aver effettuato con una calma da tartaruga i cerimoniali del primo mattino, B. avvertì il suo autista di passarlo a prendere. Immediatamente un’auto Rossa giunse sotto casa per accompagnarlo al Castello. B. scese le scale in maniera eccessivamente frettolosa, infatti, saltando due o tre scalini per volta, inciampò contro un dalmata che aveva scambiato l’atrio del palazzo con la propria toilette personale. B. diede una carezza distratta al dalmata, come per scusarsi, e si precipitò nell’auto, che l’attendeva. Pur non essendo assolutamente in ritardo B. era stranamente nervoso, l’autista comprese la situazione e pigiò sull’acceleratore per giungere a destinazione prima dell’impossibile. L’auto Rossa sfrecciò a tutta velocità verso quella nuvola grigia all’orizzonte che segnalava l’inizio della Città. Dopo alcuni minuti di viaggio, l’aria cominciava già a farsi più grigia e poco gradevole all’olfatto tanto che B., con suo sommo dispiacere, dovette rinunciare a tenere i finestrini abbassati e rassegnarsi all’aria condizionata. Trascorse ancora un po’ di tempo e il grigiore tipico della Città inghiottì l’auto Rossa, dai finestrini era possibile scorgere qualche operaio e molte fabbriche. Era l’inizio di via del Popolo, arteria principale del quartiere popolare della città. All’osservazione di B. emergeva un’atmosfera tranquilla, monotona. I pochi operai si stavano avviando insonnoliti, annoiati e tristi verso il proprio lavoro. Non c’era nessuno a volantinare, nessun picchetto davanti ai cancelli, B. si compiacque della pace sociale conquistata, lontano era il ricordo di quell’Autunno, quand’egli stesso, davanti ai cancelli della sua fabbrica, sobillava e aizzava i colleghi contro il padronato e il Sistema. Ora l’auto cercava di farsi prepotentemente strada nel mezzo del traffico mattutino, B, nell’attesa, cercava distrazione spiando fuori dal suo finestrino dai vetri oscurati. Intravide della gente in un mercato all’aperto, alcuni ragazzini davanti a una scuola, un gatto che cercava disperatamente un topo a cui dare la caccia e la sua vecchia casa, dov’era nato e cresciuto. Una scossa e un rumore, come da incidente, lo riportarono alla realtà della mattina, il suo autista, aveva urtato violentemente uno scooter scaraventando a terra il ragazzo alla guida. B. si voltò un attimo per osservare l’accaduto, vide un ragazzo, 101 accasciato immobile a terra, con indosso una tuta blu da operaio. Nel frattempo, sotto al corpo del malcapitato, cominciava ad espandersi una chiazza rossa che, con il grigio dell’asfalto, creava un contrasto piuttosto particolare. -Mi devo fermare?- Domandò l’autista. -Non ora, sono il primo ad essere preoccupato per la salute di quel ragazzo , ma adesso dobbiamo correre al Castello, poi quando sarò Presidente della Camera di Comando, cercherò di risolvere i problemi del traffico di modo che questi incidenti non si verifichino più..- Rispose agitatamente B. -Come preferisce.- Assentì l’autista, che incurante dell’incidente provocato pigiò con ancor più decisione l’acceleratore. A poco, a poco, guardando verso l’alto, si riusciva a intravedere, nel grigio prodotto dall’aria viziata, l’ombra del Promontorio: la parte alta della Città, dove aveva sede il Castello. Nonostante questa visione dovesse risultare ormai familiare a B., quella mattina non riuscì a trattenere un brivido che gli percorse tutta la schiena. Finalmente, l’auto riuscì a svoltare verso i quartieri alti della città lasciandosi alle spalle il quartiere operaio,la sua confusione e le sue nebbie. Appena imboccato Corso Borghese, pareva di entrare in un altro mondo. Ora, dai finestrini dell’auto, si potevano osservare gentili signori e signore ben vestiti che passeggiavano lungo i marciapiedi. La confusione, il disordine di via del Popolo avevano lasciato lo spazio alla tranquilla operosità dei quartieri borghesi. -Qui l’aria sembra più pulita..- disse B. quasi come per rompere la tensione. L’autista assentì distrattamente e svoltò per via della Repubblica, una lunga strada alberata in salita, che portava direttamente al Castello. Dopo aver percorso qualche decina di metri comparve un posto di blocco composto da diverse camionette e decine di Guardie armate. La zona intorno al castello era presidiata da centinaia di Guardie pronte a reprimere un’eventuale manifestazione dei Movimenti. Alla vista dell’auto Rossa lo schieramento si aprì immediatamente per permettere il passaggio. L’auto proseguì e accostò proprio davanti all’entrata principale del Castello, lì il cielo era terso e l’aria era piacevole da respirare, bisognava sforzarsi di abbassare lo sguardo per scorgere la nube nero-grigiastra che avvolgeva i quartieri operai. B. entrò nel Castello. Percorse quasi di fretta gli ampi lussuosi saloni, un tempo dimora di re, principi e principesse, poi riadattati per divenire dei comodi salotti per i Signori della Repubblica, tutti lo salutavano cortesemente, qualcuno gli faceva gli auguri e qualcun altro gli augurava buon lavoro facendo le corna dietro alla schiena. Finalmente B. entrò nella camera e si sedette nel suo solito vecchio posto, intanto continuava a ripassare mentalmente il suo discorso. L’aula continuava a riempirsi, arrivò F., sempre più magro, accompagnato da R., 102 che esponeva, tutto fiero, una bella margherita nel proprio taschino di sinistra, la loro convivenza ancora non si decideva a iniziare, scatenando così i pettegolezzi di tutto il Castello. Entrò poi P., che non salutò nessuno, perché era assorto nella recita del rosario, che portava sempre con se insieme al panino alla mortadella ben visibile dalla forma della tasca. Comparve anche D’A., bello come sempre, metteva in mostra i suoi nuovi baffi neri comprati per l’occasione, sicuro e impettito com’era si notava che era sicuro di ottenere almeno un Ministero. Nella folla, che ormai occupava l’intera aula si riuscivano a intravedere Rosy B. e M., che si tenevano la mano come due fidanzatini, nonostante la loro età e il loro aspetto non proprio incantevole, facevano comunque molta tenerezza. L’odore di vino a buon mercato anticipò l’arrivo ci C., visibilmente ubriaco, a stento riuscì a scendere le scale della sala, appesi ai suoi pantaloni pendevano alcuni scalpi strappati ad alcuni immigrati clandestini, o scambiati per tali, e un formaggio, ormai ammuffito, proveniente dalle vallate del Nord. Erano orami tutti accomodati e la seduta stava per avere inizio quando entrò lui, Silvio, accompagnato da quattro danzatrici, che si esibivano a seno scoperto. Sotto gli occhi incantati dell’intera sala andò a prendere posto senza dimenticare di mostrare a tutti il suo nuovo sorriso, di ultima generazione, che aveva fatto arrivare direttamente dall’America. La sala era gremita, i ritardatari, dato che le sedie erano state tutte occupate dovettero sedersi sulle scale o in ogni buco libero dell’aula. Dopo i soliti convenevoli ebbe inizio l’elezione che sancì la nomina di B. alla presidenza della Camera di Comando. Tra applausi, fischi, e qualche pernacchia, B. si diresse verso il Trono riservato al Presidente, durante il cammino gli capitò di schiacciare qualche collega che si era accomodato sulle scale, e si udirono già le prime lamentele contro il suo operare, giunto in prossimità dello scranno, iniziò il suo discorso. Senza nascondere un tocco d’emozione B. cominciò a parlare: -Care colleghe, cari colleghi, in questo giorno così importante per me e per la nostra Repubblica vorrei ricordare tutti coloro, che forse non hanno nemmeno mai visto questo Castello, se non dalle nebbie dei quartieri bassi. Tutti quegli uomini e quelle donne, che quotidianamente lavorano faticosamente per almeno otto ore al giorno, mentre noi in questi salotti, tra qualche bicchiere di vino e un buon sigaro discutiamo a proposito del bene della Repubblica. Voglio quindi dedicare questa mia elezione a loro, a tutti i proletari della nostra Nazione, perché anch’io, anche se ormai molto tempo fa, sono stato uno di loro.B. allontanò la bocca dal microfono si commosse. Intanto nell’aula scoppiò un gran casino, chi applaudiva, chi fischiava, chi rivolgeva le proprie natiche al nuovo Presidente, qualcuno ne approfittò per scambiarsi 103 qualche gesto affettuoso con il proprio vicino di banco, R. prese la mano di F. stringendola con affetto, e Rosy B. e M. iniziarono a limonare come due liceali al parco. La situazione si calmò quando le quattro danzatrici in topless si esibirono in uno spettacolino mozzafiato al centro dell’aula, per una volta si sentì un applauso generale provenire dall’intera assemblea. Solo alcune vetero-femministe, reduci del secolo scorso, non accettarono lo spettacolo e abbandonarono stizzite il proprio posto. Così, in quella bella giornata di primavera inoltrata si diede avvio alla nuova Legislatura guidata da una maggioranza diversa alla precedente, che aveva governato per ben cinque anni. Ma, nei quartieri bassi, pare che nessuno notò la differenza. 104 Il formicaio 12.10.2009 Allo schiarire, una mattina, una bella mattinata di quelle vissute, lucide nonostante la nottata trascorsa ad ingerire alcol ad intermittenza. L’ultimo brindisi al cielo, prima di gettare la bottiglia vuota, che come per risposta arrossisce facendo mostra delle nubi che porta con se. Camminare, osservare gli alberi e la prima luce rossa e tiepida filtrare, ci si sente come baciati da un bacio trattenuto sulle labbra. Una ricerca che non può essere soddisfatta, un passo ne richiama un altro e lo sguardo quasi folgorato cerca di rasserenare il cuore. Un inciampo, uno sbaglio, e un masso che si sposta scivolando sull’erba bagnata. Sotto gli occhi, molto al di sotto, pare scatenarsi un putiferio, una metropoli, composta da una moltitudine d’esserini terrorizzati, sembra come subire un bombardamento aereo, corrono alla arinfusa, probabilmente non sospettavano che le loro abitazioni avrebbero potuto in un istante perdere tetto e fondamenta. Lo spettacolo è raccapricciante diviene tutto un correre lungo il masso spostato verso le foglie bagnate o un dirupo che precipita a poca distanza, lo smarrimento è tale che ogni direzione pare essere indifferente. Alcune cercano d’arrampicarsi lungo le mie scarpe e oltre fino ad arrivare a contatto con la pelle, le sento grattare con le zampe mentre tentanto di risalire, cerco di divincolarmi, le scanso con la mano, ma sono troppe, talmente tante che scrollarle sarebbe inutile. Basterebbe un mio passo forse due o tre per ammazzare l’intera combriccola e ritrovare serenità, ma rimango paralizzato, mentre ciò che pareva essere la regina degli esserini emerge dal sottosuolo gonfia da vomitare, ne provo sincero disgusto, non sarei mai in grado di spappolare le budella ad una cosa così grossa, goffa, brutta. Diventano sempre di più sembrano moltiplicarsi ad ogni istante, inquantificabili punti neri che ormai occupano ogni spazio dalla cima del masso al ciglio del dirupo, rimango fermo, inetto, immobile terrorizzato, ma qualcosa mi fa capire che sarebbe il momento d’agire. Ricordavo d’aver letto o studiato su qualche manuale di storia che l’orario preferito per le esecuzioni fosse proprio il primo albeggiare. Una lama di ghigliottina gelida e pesante, già destinata a più nobili usi, questione di secondi e tutto cade in un cestello di vimini inzuppati di sangue greve della propria testa. Un colpo di fucile, magari ricevuto da un plotone di un esercito regolare con la divisa pulita, al “fuoco” del comandante non riesco a quantificare quanti organi vitali possano contemporaneamente distruggersi prima che il corpo possa cadere a peso morto nella grande fosse già predestinata. Farsi mettere una corda al collo di fronte a sguardi incuriositi ed eccitati, che 105 indugiano sui movimenti e sulla meticolosità del boia. Il minuto concesso di un’ultima sigaretta, e il mondo cade a pezzi,in maniera definitiva, serve fin sperare che qualcosa si rompa per risparmiarsi l’onore d’esalare un coscienzioso ultimo respiro. Una lunga processione primaverile affronta la salita d’un colle poco fuori le mura della città, per assistere a coloro che saranno inchiodati su una croce, esposti nella loro nudità e fragilità umana fino a quando la compassione d’una punta di lancia nemica possa far ripiombare il cosmo nell’oscurità. Sterminare ogni punto nero, renderlo immobile nel suo ultimo gesto, che si trovi su una roccia, su una foglia o su un fiore fa poca importanza. Ma il formicaio sa il fatto suo ed ha a disposizione migliaia d’unità e mezzi di trasporto: auto, autobus, filobus, metrobus, treni, e aereoplani in grado di volare, oltre che ogni tipi d’armamento: coltelli, rivoltelle, fucili, bazooka, mitragliatrici, bombe, cacciabombardieri in grado di volare, inutile tentare, non possono che vincere loro, la mia sconfitta, il mio fallimento è segnato, scontato, ovvio. Li vedo muoversi con solerzia, la metropoli è già stata ricostruita, ristoranti, bar, centri commerciali, strade e autostrade brulicano ancora come un tempo, e il mio passaggio è già stato dimenticato, come se non fossi mai passato da quel sentiero. Umiliato cerco d’adeguarmi ai gusti dei vincitori, che vivono sotto il sasso, che lavorano, guadagnano, producono e consumano e non gli pare di subire violenza nello svegliarsi quando un tempo imposto lo decide. Che agiscono e si muovono con i loro scopi, che s’incontarno alle luci psichedeliche di una pista da ballo e si ritrovano, rinchiusi in un auto, mezzi nudi, lungo una strada sterrata e deserta, a scambiarsi gridolini verosimilmente orgasmici nel silenzio della campagna. Nuvole di fumo, gioco a spezzarle con le dita, prima che si disperdano nell’aria, esalo speranze. Il disco solare è ormai ridotto ad una minuscola sfera che ad ovest tramonta. La sera mi dà sollievo pare che per un po’ la vita s’interrompa, così che io possa rimanere ad ascoltare l’oscurità e il silenzio ritmicamente rotto da un transitare d’auto. 106 PIOGGIA SU TAIWAN 20.05.08 “dovevamo fare un fim duro sui precari, non su questi trentenni soli e confusi..” (Dal film “riprendimi” di Anna Negri) Giovedì pomeriggio, il centro commerciale splendeva, illuminato dagli ultimi raggi d’un sole primaverile. Il più era fatto, ancora pochi secondi e la sua carta di credito sarebbe strisciata su quel coso, che dissolveva i soldi senza colpo ferire. Uno dei sogni della sua vita, almeno uno, sarebbe stato semplicemente realtà. Si stava per portare a casa un mega televisore con teleschermo ultra piatto d’ultima generazione, doubly surround e tutte quelle altre cose che vanno di moda al giorno d’oggi. Inoltre, per l’acquisto, aveva potuto usufruire di un ultra sconto della durata di un anno per poter vedere in chiaro centinaia di canali da ogni angolo del globo. Superfluo dire che era euforica come, da tempo, non riusciva a ricordare, un apparecchio simile l’avrebbe sognato nella sua camera di bambina e che invidia avrebbe suscitato in Maria e Silvia, le sue più strette amiche d’infanzia. Silvia di certo non avrebbe mai potuto godere di quella visione, era morta poco tempo prima, dopo un pugno d’anni molto randagi, passati tra le periferie di qualche grande città del nord. Non fu mai chiarito se ad ucciderla fosse stata la cattiva sorte d’una dose tagliata male o il cinismo dell’ex fidanzato, spacciatore, a cui pareva dovesse ancora diverso denaro. Ora di lei rimaneva soltanto una foto sul lago Maggiore scattata in una calda primavera, durante una gita scolastica, quando ancora frequentavano la terza media. La vedeva sorridere sotto il cielo azzurro di quel pomeriggio, e di certo preferiva ricordarla così, e non in quella cassa grigia come la pioggia, che aveva accompagnato i funerali. Di Maria conservava qualche mail e il ricordo di un estate di due anni precedenti, quando l’amica era riuscita a liberarsi dal lavoro per una settimana, e si erano riviste dopo molto tempo. Quello stesso lavoro, che le aveva impedito d’essere presente ai funerali di Silvia e aveva mandato quel telegramma idiota, che lei stessa aveva dovuto consegnare alla madre. Durante la processione ogni cestino le faceva venire la tentazione di liberarsi di quel pezzo di carta, che le pesava nella tasca, ma poi l’aveva consegnato direttamente nelle mani della donna, che l’aveva baciata e ringraziata con le lacrime che rigavano un viso non più giovane e non pronto alla morte d’una figlia. Nuvole plumbee preannunciavano un temporale scontato, lei s’infilò in macchina ansiosa d’arrivare a casa. Dopo la laurea s’era trasferita da sola in un piccolo bilocale in centro, non aveva ancora avuto tempo di sistemarla in maniera accogliente, su un muro bianco sporco campeggiava una vecchia stampa d’un quadro di Van Gogh, ricordo d’un regalo dei tempi del liceo. A terra giacevano dei libri e alcune bottiglie vuote, prove 107 d’un vizio che non riusciva più a nascondere e che col tempo le interessava sempre meno. Terminati i piatti puliti si cibava direttamente dalle pentole e se di notte rimaneva senza sigarette sfruttava gli ultimi due tre tiri dei mozziconi schiacciati nel posacenere, le bollette appese al frigorifero scandivano il trascorrere del tempo. Atmosfere d’una solitudine intervallata solo da una breve storia con un sindacalista abortita sul punto di nascere. Sentimenti e affetti le sembravano precari come il suo lavoro. Arrivò a casa allo scolorire del giorno, impaziente, s’adoperò per mettere in funzione il suo nuovo acquisto. Solo qualche ora più tardi se ne stava seduta sul divano con un fresco bloody mary al suo fianco. L’enorme schermo illuminava la stanza d’ una luce flebile e azzurra, il televisore era sintonizzato su un’emittente, dove una donna, dal volto asiatico, annunciava le previsioni del meteo, era prevista pioggia su tutta le regione di Taiwan. 108 RAGGI DI SOLE 09.10.07 -Pronto.-Ehi, ciao,ma come mai questa voce?.-No.. no.. dai.. non scherzare.-No.. ma come? Quando? E tu come lo sai?-Cazzo.. no.. non avrei mai immaginato.. no..-E ora? Tu chi hai sentito? Devo chiamare qualcuno? -Sì, e tu come stai?-Va bene dai più tardi ci vediamo.-Promesso, passerò io, ciao.Quattro o cinque raggi di sole picchiettavano insistentemente contro i vetri della finestra, creavano così degli strani riflessi che si spandevano lungo le superfici trasparenti. I raggi erano luminosissimi e avevano il colore dei giorni felici. Lei si sedette, lasciò che qualche lacrima le posasse un po’ di rimmel sull’orlo delle labbra, poi riafferrò il telefono e pigiò qualche tasto numerato, non curandosi minimamente dei raggi colorati, che continuavano ad agitarsi a soli pochi metri da lei. -Pronto.-Sì ciao, sono Anita.-Sì, io bene, cioè non proprio..-Insomma, ti ho chiamato per dirti che Michele è morto.-L’hanno trovato stamattina tardi, la sua auto era poco fuori paese con il tubo di scarico collegato all’interno della macchina, e..-Ancora non ci credo, non vorrei crederci, cazzo no..-Ma perché proprio ora, che credevo di potermi godere un po’ di felicità, deve succedere tutto questo? Lo sto chiedendo a te: perché? non doveva, non avrebbe dovuto farmi questo, non me lo merito, questo no.-Sì, forse, spero che tu abbia ragione, in fondo torturarsi con i pensieri non ha senso.-Va bene dai, sentiamo gli altri che magari potremmo compragli dei fiori, da parte di tutti noi, no?-Sì poi credo di uscire, con questo sole, a stasera allora, no neanch’io ho voglia di restare sola. Ciao, e grazie.Ora i raggi di sole sembravano essersi moltiplicati,oppure, più semplicemente,si muovevano solo con un po’ più d’animosità, dando così l’impressione d’essere molti di più. Giocavano a puntare i loro fasci di calore colorato dritti contro il suo volto, sperando forse d’ottenere anche solo un po’ delle sue attenzioni. 109 Ma Anita pareva altrove e non prestava alcun attenzione alla finestra, anche se era a soli pochi metri da lei. Prese un libro, lesse qualche riga, ma poi lo richiuse e sembrò che si stesse per addormentare. Gli aloni luminosi sui vetri si fecero sempre più splendidi e brillanti, i raggi stavano dando sfogo a tutta la loro energia pomeridiana per ottenere quest’effetto, ma Anita aveva gli occhi chiusi e vedeva solo nero. Il libro cadde e Anita aprì gli occhi per osservare u po’ il cielo terso, se non tutto almeno quella porzione visibile dalla sua finestra, i raggi se n’erano andati, lasciando la stanza in un bianco cupore. La luce colorata si era spostata in un parco lì vicino, dove alcuni bambini stavano giocando a “girotondo”, tutto come se niente fosse successo, e i raggi si divertirono a danzare con loro fino al crepuscolo. 110 RACCONTO DI NATALE 21.02.2010 Venerdì 25 dicembre 2009 ore 2:21 Nella penombra di un soggiorno, immerso nel silenzio di una notte d’inverno, delle minuscole luci colorate si ravvivano e morivano ad intermittenza, illuminando lievemente un modesto angolo della stanza. Le piccole lampadine erano come attorcigliate ad un modesto albero plastificato, che occupava la remota zona del soggiorno. Ai suoi piedi, nella penombra, una busta di carta lucida rossa luccicava nella penombra. Poco distante, un foglio di calendario inchiodato al muro riportava stampato il numero 24. In posizione quasi fetale, raggomitolato tra coperte e lenzuola X dormiva immerso in un sonno inquieto, soltanto lievemente illuminato dalla luce vagamene azzurra emanata del piccolo televisore 16 pollici, rimasto acceso a vegliare in modalità muta trasmettendo un vecchio capolavoro del cinema sovietico. Angoscia e paura tinteggiavano i suoi sogni, costringendolo a continui risvegli dettati dall’inquietudine e dalla tachicardia. Saranno state le quattro del mattino quando X riuscì ad addormentarsi profondamente, solo le campane a festa della piccola chiesa, che s’ergeva poco distante dalla sua finestra, riuscirono a svegliarlo. X era ancora assonnato, la notte appena passata gli aveva lasciato il gusto d’un pizzico di malumore, si buttò completamente sotto le coperte alla ricerca del sogno interrotto. Passarono cinque minuti, poi altri cinque e poi cinque ancora, il quarto d’ora si trasformò presto in una mezz’ora e questa in un’ora, fu allora che X, ormai completamente sveglio, realizzò che era il giorno di Natale, così recuperato qualche pensiero, calzini e pantofole s’alzò dal letto. Lunedì 21 dicembre 2009 ore 13:00 Era certamente l’orario peggiore per recarsi alla mensa. Ogni tavolo era almeno parzialmente occupato. Nemmeno spostandosi verso i lati estremi della sala, quelli più lontani dalle casse e dalle corsie dei self-service, posti prediletti da X per consumare i propri pasti, era possibile trovare un posto tutto per sé. Fu quindi costretto a condividere, minuti, sguardi, rumori di forchette e mastichii con dei perfetti sconosciuti, le cui facce sarebbero facilmente scivolate via dalla sua memoria in compagnia del caffè. Mancavano pochi giorni al Natale e i gestori della mensa avevano pensato bene di consegnare ai clienti, come pensiero, un piatto di discreto antipasto, una fetta di panettone e un bicchiere di spumante. X si servì d’un piatto di tagliatelle ed una porzione d’antipasto, giunto infine di fronte alla giovane dipendente, che gli offriva col fare gentile, che sembra colpire, come un’influenza, gran parte delle persone 111 negli ultimi giorni dell’anno solare il dolce e lo spumante, X stava per allungare le mani, quando pensò alla tristezza d’un unico bicchiere, inutile anche per un solo brindisi, rifiutò quindi cortesemente e s’avviò col vassoio traballante tra le mani al suo posto. Gli altoparlanti, sparsi in diversi punti della sala, sciorinavano nel frattempo un vergognosa scaletta di pezzi dedicati al periodo. X inghiottì la prima oliva, che componeva l’antipasto, sulle note di jingle bells, seguirono, a random, senza un istante d’interruzione: Venite Adoremus, Tu scendi dalle stelle, We Wish You a Merry Christmas, Astro del ciel... Terminato di pranzare, come un qualsiasi altro giorno, X utilizzò il piccolo tovagliolo di carta per pulirsi le labbra, s’alzò, andò a posare il vassoio su un nastro rotante, che immaginava portasse alle cucine, prese un caffè al distributore automatico e uscì sul viale gelido. Lunedì 21 dicembre 2009 ore 19:00 Il buio serale era già calato da un pezzo, X semi avvolto in un cappotto mal allacciato e in una sciarpa stretta di fretta, s’avviava verso casa. Erano i momenti in cui il traffico sulla strada e sui marciapiedi aumentava a dismisura, le auto immobili suonavano claxon ad intermittenza, creando dei fastidiosi caroselli, la gente sui marciapiedi s’affettava quasi correndo, i vetri di un supermercato lasciavano intravedere file di gente in coda alle casse in attesa di poter pagare ed andarsene a casa ad inghiottire frigoriferi e dispense varie. Nell’anfratto di un portone aveva trovato riparo un cane raggrinzito, in sua compagnia un signore di mezz’età, infagottato in un piumino troppo corto, elemosinava qualche spicciolo e regalava auguri ai passanti. X non diede troppa attenzione a questi scampoli di quotidianità, la serale routine della città che spegnava le luci dei luoghi di lavoro per illuminare cucine, cucinini, corridoi, soggiorni, bagni, cessi e camere da letto. D’un tratto però qualcosa attirò il suo sguardo spento, sospeso fino a quel momento tra il vuoto e il suolo, un sorriso, scorto oltre la vetrina trasparente d’un negozio d’abbigliamento, quel sorriso era sulla bocca di una giovane commessa. Per qualche secondo X rimase immobile, stava per andarsene e riprendere il cammino, quando entrò nel negozio. S’aggirava smarrito tra scaffali zeppi di tessuti ed etichette che sbucavano da ogni parte. X udì una voce femminile provenire dalle sue spalle “Signore, posso aiutarla?” La voce era gradevole, il viso grazioso, la posizione del corpo ricalcava quell’idiota idea d’accoglienza, che viene impartita ad ogni nuova, ma non era lei. 112 “No, no, stavo solo dando così.. un’occhiata..” Tagliò corto X, imbarazzato dal luogo, dai presenti, e dalla situazione non programmata in cui s’era maldestramente infilato. “Come preferisce, se sta cercando degli abiti da uomo sono laggiù in fondo sulla destra, dovrà cercare di affrettarsi, perché, sfortunatamente, tra mezz’ora chiudiamo,oppure sarò felice di poterla aiutare un altro giorno, quando lo desidera”. Disse lei col medesimo tono cortese della prima battuta e sorridendogli lievemente s’allontanò, in caccia d’altri potenziali clienti più propensi agli acquisti. X si trovava curiosamente in quel negozio, fino ad allora notato solo distrattamente, per cercare lei c la trovava, la vedeva, la riperdeva, persa tra le labirintiche corsie volteggiava tra i diversi reparti, parlando e servendo sorrisi ad altri clienti. Fu solo grazie ad un attento studio dei suoi movimenti, aiutato da un po’ di fortuna, che i due s’incontrarono faccia a faccia in una corsia delimitata da due scaffali sui quali erano impilati decine di maglioni da uomo. Lei stava per parlargli: “Posso aiutalra?” disse lei sorridendo, con il medesimo tono impostato della commessa precedente. X non s’era ingannato avrebbe voluto che quel movimento facciale standard e programmaticamente appreso durante le giornate di prova fosse caldo e sincero, esattamente come quello che s’era immaginato pochi minuta, dopo averlo intravisto dalla vetrina, ed ora quella dentatura bianca e curata in mostra era per lui. Emozionato, imbarazzato, X rispose: “Beh.. stavo vedendo questi maglioni..” Lei appoggiò lievemente la mano sui capi accatastati quasi accarezzandoli, ora non era più affannata tra i diversi punti del negozio, ma ferma e con aria serena lo stava guardando, poi chiese: “Bene, sta cercando un’idea per un regalo, o è per lei?” X fu scosso dai suoi pensieri, non era pronto a rispondere in quel momento, quindi farfugliò qualcosa confusamente: “Regalo? No, no, è per me, sa questo freddo m’ha preso un po’ alla sprovvista e mi sono trovato senza nulla d’adatto da indossare.. uno si vive l’estate e non ci pensa.. che dovrà arrivare un’altra volta l’inverno..” Lei gli sorrise poi aggiunse: “Oh.. anch’io adoro l’estate, ma facendo questo lavoro vede.. I vestiti non riescono a uscirmi dalla testa, così ho degli armadi, che strabordano di roba, utile per tutte e quattro le stagioni, e pure per qualcuna in più, se dovesse essere inventata..” Lei rise, forse sinceramente, nello stesso modo con cui probabilmente aveva riso già mille volte in compagnia degli amici o in intimità con un uomo, a lui parve, come per un momento, di sentirsi felice in quella situazione inattesa, in una sera che presentava tutte le premesse per qualificarsi come insignificante.. Svanita la breve risata lei tornò nel suo ruolo di venditrice e disse: “Bene, con il freddo di questi giorni.. quello che ci vorrebbe sarebbe proprio un bel maglione di lana...” Lui non sapeva bene cosa rispondere, era uscito da lavoro con l’intenzione d’andare 113 verso casa e non certo con quella di mettersi a fare acquisti, rispose cercando un tono convincente che non trovò: “Sì, la lana pare anche a me l’idea migliore” “E quali colori preferisce?” X stentava ora a nascondere l’emozione e per lo più doveva partecipare a quel discorso che per lui non aveva, più o meno, alcuna importanza, disorientato, tra le pile di maglioni e lo sguardo di lei, il taglio dei suoi occhi, riuscì ad affermare: “Non saprei, non sono abituato ad uscire per fare compere da solo..” Poi egli azzardò un minuscolo passo verso di lei chiedendole: “Cosa mi consiglia, secondo lei cosa mi starebbe meglio?” Lei sorrise di nuovo, e lui risentì quei brividi alla schiena, che da tempo non provava. “Allora si fida di me?” Un nuovo sorriso comparve sul suo viso, lui godeva di quel dolce smarrimento mentale che quel momento gli stava regalando. Lei continuò: “Io adoro questi due modelli.. e come colore.. vediamo... che potrebbero andarle ho questo nero ed un blu scuro, sono ottimi capi come vede, li tasti pure, pura lana, io le consiglierei di provarli entrambi..” X li prese entrambi le mani gli tremavano un po’ ma cercò comunque di sfiorarle leggermente le dita, nel contatto, che doveva apparire come accidentale, riuscì a carpirne un po’ del calore sui suoi polpastrelli. I loro sguardi s’incrociarono di nuovo, qualche attimo di silenzio che lei interruppe dicendo: “Vada pure a provarli nei camerini, sono là in fondo, li vede?” Lui annuì e si chiuse nel camerino. Una volta tirata la tenda, solo davanti allo specchio, si fissò negli occhi per qualche secondo, soltanto in seguito ebbe il coraggio di sbirciare i prezzi, erano entrambi molto costosi, decisamente al di sopra della cifra che solitamente spendeva per vestirsi. Attese qualche minuto e ritirò la tenda senza nemmeno averli indossarti, era sua intenzione uscire da quel negozio senza acquistare nulla e senza un saluto, sarebbe di certo stato meglio così, ne era certo. Uscì dal camerino, attraversò due lunghe corsie e nell’istante in cui stava riponendo gli abiti sullo scaffale, lei riapparve. Lo guardò con aria interrogativa, ma cortese: “Non le piacciono? Ne abbiamo altri se vuole.. diverse qualità, diversi colori...” X si trovò così con le spalle al muro, fallito il suo piano di fuga rispose: “Al contrario, sono entrambi molto belli, ma non riesco a scegliere da solo, prometto di tornare nei prossimi giorni, magari con un’amica, sa io credo che in questo campo le donne sappiano decidere con più gusto..” Lei s’aprì d’un sorriso divertito e disse: “Ma sono una donna anch’io! non se n’è forse accorto? Potrà sfruttare i miei consigli se vorrà, su torni e se li riprovi entrambi, e mi raccomando si faccia vedere..” 114 X testa bassa e capi in mano tornò nei camerini, tirò la tenda e si ritrovò nuovamente solo davanti allo specchio, lo sguardo era lo stesso di prima forse condito da un pizzico in più di disperazione mista all’emozione di rivederla.Li provò osservando distrattamente la sua immagine riflessa. Dopo le due prove lei, che era rimasta ad attenderlo a pochi metri dalla tenda del camerino per tutto il tempo sentenziò: “Direi quello blu, le sta meglio, il nero la incupisce un po’ troppo a mio parere..” X imbarazzato, emozionato, cercava di guardarla negli occhi, cosa che gli riuscì per qualche secondo, infine con lo sguardo perso a misurare le piastrelle, che componevano il pavimento disse: “Mi fido di lei lo prendo!” Lei gli sorrise e avvicinandosi un poco gli confidò d’aver appena concluso un ottimo acquisto, dopo avergli chiesto se avesse desiderato dell’altro, l’invitò a seguirlo alla cassa. Lei portava una gonna abbastanza corta da poterle intravedere le ginocchia. Mentre camminavano insieme verso l’uscita, di tanto in tanto, lui abbassava lo sguardo per osservare quella parte di gamba coperta solamente dalle calze. Ora si trovavano ai lati opposti del bancone, lui gli passò la carta di credito con le dita tremati e lei fece scattare lo scontrino, poi disse: “Sia pure certo d’aver scelto un capo che vale ogni centesimo del prezzo”. X pensò qualche secondo ai sacrifici, alle interminabili ore di straordinari, agli occhi che cominciano a cedere alla stanchezza mentre indugiano tra cifre ormai incomprensibili e le lancette inesorabili di un brutto orologio posto al centro dell’ufficio. Questo era stato il prezzo di quei risparmi, che aveva visto da poco svanire, lei ripose l’acquisto in una busta di un colore rosso luccicante e infine esclamò: “Allora buona serata, le auguro di cuore un felice Natale!” X, non senza qualche titubanza, prese la busta, si voltò con incerta decisione e si diresse verso l’uscita, poi un sussulto, cambiò direzione e tornò verso il bancone, con voce spezzata si rivolse, nuovamente verso di lei: “Auguri anche a lei, e arrivederci..” Lei lo guardò un po’ sorpresa, ma poi sorrise e ricambiò il saluto: “Arrivederci” Lui, che si credeva ormai compromesso dal brusco cambiamento di direzione le disse: “Magari ci si potrà reincontrare, lei lavora sempre qui?” Lei sempre più sorpresa dal prolungarsi di un discorso, che aveva pensato chiuso rispose: “Ma no, vuole scherzare? Io sono ancora una studentessa, sono stata assunta giusto per il periodo delle feste... Ad ogni modo se ripassa in questi giorni dovrebbe trovarmi, magari le viene in mente qualche regalo per qualcuno o ancora per lei, probabilmente se lo merita..” X arrossì un poco, e prima di uscire colse il suo ultimo sorriso. 115 THANK YOU AMERICA (I) 12.11.07 Novembre era un mese grigio, ma la fabbrica lo era sicuramente di più, alla fine delle otto ore le lancette avevano appena terminato di compiere il loro estenuante, quotidiano, viaggio, e Frank poteva, finalmente, tornarsene a casa. Accese la radio e lasciò scivolare l’auto sulla scia grigia, che si stendeva davanti a lui fino a casa, una piccola villetta che sarebbe stata, finalmente, sua tra una decina d’anni più o meno. Dentro c’era Kate, la sua compagna, davanti al televisore, lo salutò e gli ricordò che sarebbero dovuti andare al supermercato, perché il giorno dopo sarebbe stato il giorno del ringraziamento. Lui sbuffò e andò a cambiarsi. -Allora, andiamo?- disse lui, tornandosene in salotto. -Dieci minuti che finisce il telefilm.- Rispose lei, senza distogliere lo sguardo dal televisore. Decine di auto rombavano rumorosamente, nella disperata lotta per posteggiarsi, ma il mezzo di Frank era un vecchio modello Ford, senza pretese, motore di scarse prestazioni, e pochi cavalli da mettere in mostra, quindi andò, mestamente, a parcheggiarsi lontano, dove il centro commerciale pareva solo un grande scatolone grigio, e le persone tante formiche al lavoro. Le grandi porte automatiche dell’ipermercato inghiottivano e vomitavano gente senza sosta, carrelli stracolmi si urtavano nel delirio generale, uno spettacolo nauseante, Frank avrebbe almeno voluto opporre una strenua resistenza ma, alla fine, le grandi porte lo aspirarono, e si trovò gettato tra una moltitudine di corpi, che si aggiravano istericamente tra scaffali colmi di cibo. A Frank girava la testa, la musica, il rumore, i sorrisi stampati sui manifesti, le grida felici, tutto era mal costruito e la situazione gli parve tanto grottesca, quanto insopportabile, avrebbe voluto correre, uscire e fiondarsi in tangenziale, ma l’indomani sarebbero arrivati i genitori, il fratello con la nuova fidanzata e la sorella con la nipote che non vedeva da mesi, al pensiero Frank progettò, celermente, una partenza notturna per il Messico, ma poi, la voce di Kate, riportò la sua attenzione sugli scaffali. -Ehi tesoro, ma aiutami, questo dici che può mangiarlo tuo padre, certo che è proprio una disgrazia il diabete, proprio a lui poi, che a tavola si è sempre divertito così tanto. -Tanto tra mica tanto muore. - Rispose lui, mascherando una finta indifferenza. -Cretino! Mi inquieti quando dici queste cose, sono pur sempre i tuoi genitori! Dovresti comunque essergli riconoscente. -Io non gli ho mai chiesto nulla. - Le disse dirigendosi verso il reparto dei vini, sperava che lei non lo seguisse, ma in pochi secondi, se la trovò di nuovo al fianco. 116 Sembrava un naufrago nel mezzo di una tempesta di luci e colori, disperatamente aggrappato al proprio carrello, come se fosse l’unica cosa che lo teneva a galla, si lasciava trascinare con la vana speranza di una spiaggia, che sapeva non esserci. Il carrello, che, ormai, trascinava, forse, da ore, si faceva a ogni passo più pesante, sembrava che tutto potesse cadere da un momento all’altro, ma lei riusciva a trovare sempre uno spazio libero per nuovi acquisti e tutto rimaneva, miracolosamente, in equilibrio, lui era annoiato e fissava delle facce stampate sulle confezioni. Ora erano in fila davanti alle casse, i secondi scorrevano lentissimi ma tutto stava per terminare. -La wild rice, l’ho finita per cucinare ieri sera, tesoro hai voglia di andare tu?Lui si voltò e tornò a conquistare spazi tra corpi, carrelli, scaffali, alla ricerca del banco delle spezie, non senza fatica riuscì a trovarlo, poi tornò alle casse. Salito in auto non gli parve vero, si sentiva rilassato, quasi bene, aveva anche voglia di parlare, di sorridere un po’, ma lei si addormentò, solo pochi minuti dopo essere riusciti ad uscire dall’ingorgo di mezzi metallici, che occupavano l’intero parcheggio. Lui accese la radio e cercò di pensare a qualcosa, un qualcosa di non troppo impegnativo però, la giornata era stata pesante, e il domani sarebbe stato forse anche peggio, si sentiva estremamente stanco, vedeva la scia grigia toccare il cielo, che si stava piano incupendo, mentre le luci della notte s’illuminavano. Cenarono leggero, quella sera, per fare spazio al pranzo di domani disse lei, lui aveva davvero fame, ma non disse nulla, acconsentì in silenzio, e si preparò un sandwich, non appena lei andò in camera da letto. -Non mi raggiungi a letto tesoro?- Gli aveva chiesto lei, non senza un tocco di malizia. -Più tardi, ho ancora delle cose da sbrigare. - Rispose lui, pensando che aveva una fame più urgente da sfamare, prima, e poi non è che avesse nemmeno tanta voglia di stare con lei, il giorno del ringraziamento l’aveva sempre messo di malumore. Aprì il frigorifero, era completamente otturato dal tacchino, rinunciò presto a cercare ciò di cui aveva voglia, e si accontentò delle prime cose che gli capitarono sotto mano, sedato lo stomaco, accese il televisore, lo schermo nero lascio spaziò a uno speciale su come le varie città, nelle diverse zone dell’America, si preparavano al grande giorno. Sì era un po’ masochista, ma lo era stato fin da bambino, sempre a concentrarsi sulle cose che lo rendevano infelice, quando aveva avuto la fortuna di nascere negli States, prima terra al mondo che sancì, per costituzione, il diritto alla felicità per i propri cittadini. Il documentario era noioso e l’ora tarda, Frank pensò che fosse arrivato il momento di concludere nel sonno un’altra giornata da dimenticare, forse un po’ più delle altre. In bagno si soffermò qualche istante senza fare nulla, solo guardando il suo volto nello specchio, qualche lineamento, il naso e il taglio degli occhi, evocavano ancora, vagamente, le sue origini di pellerossa. 117 Si fissò dritto negli occhi, cercando d’immaginare praterie sconfinate, una terra dove il verde si sposava con l’azzurro, dove uomini e bisonti convivevano senza alternarne la bellezza. Vedeva villaggi, persone raccolte, allegramente, intorno a un fuoco, e i suoi avi che ballavano e cantavano nel cuore della notte, vedeva i suoi bis o tris nonni giocare a rincorrersi sotto un cielo scuro e stellato, che le luci della metropoli avevano cancellato per sempre. Una lacrima gli rigò il viso, era una goccia del Sand Creek. La luce a intermittenza del neon lo riportò in se, si lavò, spense la luce e andò a letto, domani sarebbe stato il suo quarantesimo giorno del ringraziamento. 118 THANK YOU AMERICA (Ii) 18.11.07 - Io continuo a dire che preferisco viaggiare in taxi.-Ma sei sempre il solito brontolone, cosa ti cambia, dobbiamo prendere solo il 32, che ferma qui vicino, senza nemmeno cambiare, e poi lungo la strada c’è anche una pasticceria, magari mi fermo a prendere qualcosa, una torta o che ne so..-E a me cosa me ne importa? Tanto non posso mangiarla.. Il diabete mi ha tolto ogni piacere che non mi era già stato portato via dall’età..-Senti, adesso mi hai proprio stufato, però vedi di sfogare tutto adesso, perché guai a te se t’azzardi a tediarci domani con questi discorsi, che ci sarà anche Katrine, lei ha ancora molto da vivere senz’ascoltare le tue fesserie sull’esistenza.Katrine era la loro nipote, la loro unica nipote, a loro piaceva chiamarla “nipotina”, ma ormai aveva già quindici anni e sempre meno tempo da passare con i loro nonni, però questo rendeva ancora più speciali le poche occasioni, che avevano per vedersi. La fermata dell’autobus 32 era appena dietro l’isolato, non era un posto tranquillo, ma in pieno giorno, i rischi erano certamente inferiori, che nelle ore notturne. La gente sull’autobus 32 era più o meno la stessa che si vedeva su ogni altro autobus della città,stessi giornali, stessi odori, stessi silenzi. Ma a John, ormai da diversi anni, da quando, all’incirca, aveva scoperto di essere vecchio, non piaceva più prendere l’autobus. Tutto a un tratto cominciò a sentirsi osservato, la gente cominciava a chiedergli se avesse desiderato sedersi, e poi i vecchi sugli autobus puzzano, l’aveva sempre pensato, da giovane aveva persino ipotizzato dei mezzi riservati alle persone, diciamo anziane, altro che neri, il problema erano i vecchi: con le loro facce consumate, i loro acciacchi, le loro dentiere, i loro capelli e il loro odore insopportabile. Di certo non gli andava di parlare di questo con Jane, la moglie, sicuramente avrebbero litigato e, soprattutto a una certa età, litigare è dannoso, il fisico non regge più, non è più possibile, come una volta, dopo una bella litigata, cominciare a fare l’amore per dimenticare tutto, semplicemente, si teneva il broncio per un po’ e lo sfogo poteva essere una passeggiata in solitudine per l’isolato. E poi, in fondo, era una vecchia anche lei, lo scoprì quel giorno stesso in cui sull’autobus, per la prima volta, una ragazzina un po’ svampita gli chiese se avesse desiderato il suo posto. “Ragazzina ho ancora forza per montarti tutta la notte, fino a quando non sarai tu a dirmi di smettere.” Avrebbe voluto rispondere, si limitò, invece, a rifiutare azzardando, inoltre, un tiepido sorriso. Sceso dall’autobus la rabbia gli montava nella testa, “ma come si sarà permessa quella ragazzina, non poteva starsene ad ascoltare il suo aipod”, pensava, mentre camminava sul viale di casa, poi aprì la porta di casa e vide la moglie, intenta nel tagliare la verdura, era 119 diventata vecchia, fu la prima volta che la vide in quel modo. Jane aveva altro per la testa, lei la sua età era riuscita più o meno ad accettarla, anche perché, dopo il terzo figlio, si era resa conto che avrebbe potuto fermarsi, e sognava una vecchiaia, ricca di nipoti e di tavole apparecchiate per tante persone. Il futuro era stato decisamente più avaro, i tre figlioli li vedeva raramente, e di nipoti ne era arrivata solo una, però infondo era felice, almeno una persona la chiamava nonna e ciò le bastava. Domani l’avrebbe vista, ed era contenta, ovviamente, le faceva, anche, un piacere immenso vedere tutti riuniti i suoi tre ragazzi, aveva sognato una scena del genere per ogni domenica, ma ci si poteva accontentare. E poi aveva proprio bisogno d’uscire di casa, e passare un po’ di tempo in compagnia. John stava diventando insopportabile, borbottava spesso tra se, e ripeteva di essere diventato vecchio, inoltre gli era venuta la mania della pulizia, arrivava a farsi anche due docce al giorno, “l’uomo con cui ho trascorso la mia vita sta impazzendo”, pensava, ogni tanto intristita, e lei non capiva il perché e non sapeva cosa fare. Questa storia del non prendere l’autobus poi, la stava esasperando, non perché le rincrescessero i soldi per il taxi, ma perché non le andava di dargliela vinta così, senza un motivo, sarebbe significato trattarlo come un pazzo, e lei non voleva, non avrebbe voluto. Vecchie fotografie li guardavano dai muri, i loro figli all’asilo, le prime comunioni, il matrimonio della figlia accanto al loro, i giorni felici, tutto ben visibile, tutto per sincerarsi del fatto d’avere vissuto. 120 THANK YOU AMERICA (Iii) 03.12.07 La luce bianca che si rifletteva sul muro, la stessa canzone risuonava nella stanza ormai da mezz’ora, steso sul letto Nick schiacciava la sua faccia contro il cuscino. Le auto, che transitavano fuori, sempre più rade, annunciavano l’arrivo della sera. Quanti cadaveri di tacchini, bottiglie di vino e discorsi sul domani stavano riempiendo quei veicoli, Nick non poteva sentirli, ma il solo pensiero lo nauseava. Nonostante la situazione, le lancette dell’orologio a muro continuavano, incuranti, a girare, il rumore era angosciante segno del tempo che passa e del non poterci fare niente. Tra poco il televisore avrebbe trasmesso il notiziario e lui se ne stava ancora disteso sul letto, con il respiro soffocato dal cuscino e gli occhi chiusi. Il telefono squillò, si alzò per rispondere, con poca speranza, appena rispose sentì riattaccare. Da mesi non vedeva aprirsi nuove prospettive, e chissà forse uno squillo del telefono. Poteva essere un editore che, dopo più spedizioni, s’era deciso a dare una possibilità a ciò che aveva scritto, poteva essere un’amica, che non vedeva da tempo e aveva voglia di stare con lui, poteva essere una ragazza, che conosceva, e che si era decisa a lasciare il marito per correre alla sua porta. Nessuno lo cercava mai per questi motivi, il meglio che poteva sperare era un qualche sondaggio di mercato, così per poter parlare un po’ di se. Ormai, visto che si era alzato, andò in cucina, la fame gli rimembrava d’essere vivo. Il frigorifero pareva un’opera minimalista, erano rimaste due birre e del burro. Si accontentò pensando che domani avrebbe, almeno, mangiato come si deve. A pranzo dal fratello giusto, il fratello che aveva saputo trovare un lavoro, una donna, e per il quale la vita sembrava più semplice. Nick non sapeva se provava più disprezzo o odio per lui, che aveva trovato la felicità nei più banali traguardi piccolo borghesi. Lui che aveva rinunciato al college per aver da subito i soldi per costruirsi una casa, lui che era rimasto insieme alla ragazza conosciuta a scuola, lui che ogni giorno si alzava per andare in fabbrica, lui che, comunque sia, aveva qualcuno che gli stava accanto a tavola e nel letto prima di addormentarsi. Mentre lui si era iscritto alla facoltà di antropologia sociale, per continuare a studiare e ricercare le sue origini pellerossa, lui che nelle riserve aveva trovato solo povertà, alcolismo e le stesse disillusioni, che poteva osservare dalla sua finestra di periferia. Lui che per non sfigurare tra il fratello e la sorella, all’ultimo pranzo con i genitori aveva inventato d’avere una nuova fidanzata: bella, bianca e bionda, giusto per avere un po’ d’attenzione, e per vedere sorridere la mamma, era contento d’averla fatta un po’ felice, ma doveva pensare a come giustificare il posto apparecchiato in eccesso alla tavolata sell’indomani. Ora non aveva voglia di pensarci, stappò la birra e spalmò il burro su qualche crackers, fissò per un attimo la libreria stracolma, ne dovrei comprare una più grande, pensò, poi si mise a piangere, in silenzio, quasi da sottofondo alla sera, che stava calando sulla città. 121 ANNI 00 Immagini di tragedie colorate evocatrici di luoghi esotici e lontani, volti disperati investiti, come un ciclone, da un senso di paura collettiva. Un televisore che, dall’altra parte di una vetrina, trasmette colori nel grigiore distratto del pomeriggio. Frammenti di vita riflessa che scivolano via di notizia in notizia, appare una donna, in abiti tipicamente casalinghi, che regala un sorriso e parla a proposito di come i nuovi gnocchetti surgelati combinino in modo, fino a quest’epoca impensabile, rapidità, facilità e comodità, le immagini vanno poi ad indugiare sul bacio con spontaneità concesso ad un uomo, che aveva fatto ingresso nella scena, l’ultimo fotogramma di felicità si spegne per lasciar spazio alla reclame di un’auto nerissima e costosissima impensabile da permettersi. Riorientare lo sguardo sulla realtà, i colori piena di vita di un fast food, corpi rifugiati nei propri cappotti si disperdono in ogni direzione, il tonfo d’un uccello caduto al suolo, dopo essersi schiantato contro i fili dell’alta tensione, vedere una nuvola di polvere alzarsi sopra il suo corpo smaterializzato, ciò che ne rimane sarà, probabilmente, stato raccolto da un netturbino dall’accento creolo, di certo frequentatore di una di quelle bettole, che stanno fiornedo nella periferia ovest, dove puoi ancora permetterti sollevare bicchieri fino ad ubriacarsi con i pochi soldi rimasti in tasca. Sullo sfondo ciminiere spente, che da tempo non avevano più di che fumare, 122 IL MURO 02.12.08 Il panorama immobile, fotografico, del primo mattino, fisso in una tristezza artica, data da un cielo azzurro, gelido e terso, e da palazzoni semi-addormentati nelle loro tapparelle ancora mezze sollevate. Odore di colazioni, caffè, biscotti, pani tostati, coperte fatte ricadere su letti sfatti, sogni interrotti e sonno. Non aveva nevicato quella notte e probabilmente non avrebbe nevicato nemmeno per l’intera settimana, magari la neve si sarebbe fatta attendere, senza arrivare, per l’intero inverno. G. sentì la sveglia al primo trillo, restò a letto ancora quei soliti venti minuti, avvolto in quell’inquieto tepore mattutino e assillato dal timore di riassopirsi, il pensiero di ciò che l’attendeva durante la giornata lo angosciava, progettò di chiamare in cantiere per comunicare che non si sentiva molto bene e che, per quel giorno, non si sarebbe presentato al lavoro, ma gli scrupoli di coscienza cominciarono a prenderlo a morsi, allora pensò di tentare a provarsi la febbre, nella vana speranza di veder salire la colonnina di mercurio blu, poi levò le coperte facendole ricadere nella parte vuota del suo letto a due piazze, in cui dormiva da solo. Immediatamente un’ aria fredda cominciò a pungerlo in ogni centimetro di pelle. Con gli occhi ancora chiusi, cercò di vestirsi, trovò quasi immediatamente i jeans da lavoro, che portava ormai da quattro giorni, ma giorno più giorno meno, non aveva voglia di cercarne un paio puliti, poi colse un calzino, ma l’altro, dove poteva essersi cacciato, G. fu costretto ad alzare la palpebre, una luce violentemente indaca si faceva beffe della spossatezza che, spesso, lo prendeva nei primi minuti di veglia. Recuperò, non senza fatica, il calzino mancante tra la polvere, che da settimane usava depositarsi nella zona sottostante al letto. Con il senso visivo ormai riacquistato, finì di vestirsi e andò in bagno, una sciacquata alla faccia e una spazzolata sommaria potevano essere sufficienti, non voleva fare tardi al lavoro, già sapeva che la giornata sarebbe stata dura e pesante, senza il bisogno d’aggiungere l’inutile e irritante lamentare del capo per pochi minuti di ritardo, come se fossero quei cinque minuti a determinare il ritardo di consegna del lavoro rispetto al progetto. Fatta girare la chiave nella serratura, l’alito pesante in bocca gli ricordò d’essersi scordato di lavarsi i denti, una smorfia e rimandò il tutto alla sera, che, comunque, sarebbe arrivata. Giunto al cantiere incrociò gli sguardi tristi dei compagni e il solito caffè condito da due chiacchere, poi indossare i guanti e lavorare. G. era impegnato nella costruzione di una piccola struttura vicino all’edificio principale, che, secondo i progetti, sarebbe stata utilizzata come “garage e taverna esterna”. Il progetto era di certo modesto sia per utilità che per dimensioni, rispetto all’abitazione, che stava sorgendo proprio al 123 suo fianco, ma stava venendo piuttosto bene e G. era soddisfatto, ci stava lavorando da diverso tempo e, piano piano, iniziava a somigliare, anche se solo vagamente, all’immagine che s’era creato, dopo che il capo cantiere gli aveva spiegato il progetto. Proprio il capo passò in quel momento, salutò G. senza aggiungere nulla, significava quindi che stava andando tutto bene. Certo l’immagine iniziale che aveva avuto del suo lavoro finito aveva dovuto sempre più adattarsi ai parametri della realtà, ma era innegabile che qualcosa era sorto, che qualcosa aveva costruito, e questo qualcosa era davanti ai suoi occhi, fosse pure una semplice “taverna più garage”, era pur sempre una prova della propria capacità e d’utilità del proprio agire. Era ormai mezzogiorno, G. già pensava al sapore del panino che s’era preparato la sera precedente, e alle parole che avrebbe finalmente potuto scambiare coi compagni di lavoro, a passar tutti i giorni in solitudine finiva con il parlare da solo, o con gli attrezzi da lavoro, con il secchio, con il martello.. Mentre si trovava seduto, al caldo della baracca-cucina, a discorrere di donne e sbornie da amarcord, si sentì un gran frastuono provenire dall’esterno, G. uscì con i compagni per capire cosa stesse succedendo, e non poté non guardare, non notare la nube che s’alzava proprio nel luogo dove lui stava lavorando. Può essere stato un cedimento del terreno, non potevi saperlo, non è colpa tua, non te la prendere, hai fatto quello che dovevi fare, alla fine certe cose succedono e basta, ma figurati se ti licenziano..Cercavano di consolarlo i compagni. La piccola struttura “garage più taverna” era diventata polvere nel tempo di due morsi di panino, la struttura s’era disgregata come un castello di carte, e giaceva ai piedi di G., che condì con le proprie lacrime quella massa di sassi disposti ormai a caso, che si spargevano sotto i suoi piedi. S’inginocchiò e cerco di rimettere insieme quei mattoni, quei frammenti di sé che con tanta fatica aveva cercato d’unire coerentemente nell’obiettivo di dare una forma coerente alla propria esistenza, un senso logico alle proprie azioni, ai suoi pensieri, ai ricordi e alle aspirazioni, e cercava di capacitarsi di come tutto era crollato proprio nel momento in cui gli appariva assumere una certa solidità. Ritrovava, tra le macerie, pezzi frantumati della sua vita. L’adesivo appicicato sul suo armadietto rosso dell’asilo, i profumi di una cantina, l’odore inconfondibile di un’aula di scuola, la chiesa il giorno della sua prima comunione, la luce dei pomeriggi trascorsi nel parco antistante alle scuole medie, le gare di corsa nel mezzo dei campi di granoturco, volti e sorrisi di bambine, ragazze e donne su cui per ore la mente aveva indugiato, le prime sigarette aspirate di nascosto, il sapore dei ghiaccioli all’anice, la prima sbronza, il primo bacio, canne buttate e fumate, i discorsi con il suo cane, bandiere rosse e pomeriggi collettivi. 124 Lei con cui aveva condiviso appuntamenti, sere d’aprile, baci rubati, pensieri, esperienze, sogni, paure e aspirazioni. Sguardi azzurri e marroni, le sbornie di vino al mattino, pomeriggi di dura crisi, la fuga agognata da quella valle, le disillusioni e l’angoscia, una partita a pallone in piazza grande, la prima coscienza del tempo perduto. Il suo mondo in polvere si disperdeva tra le sue dita, un’altra volta. Forse sarebbe riuscito ancora a ricominciare a costruire, a superare il disgusto del ricominciare che provava in quel momento. 125 Riprendetevi i vostri Pezzetti di carta A me non servono! Quali ideali Quali sentimenti Posso ottenere Con le vostre sudice cartacce Vorrei Incendiare tutto il denaro Del mondo E i suoi seguaci 126 PADRONE 18.8.2000 Questa vuota parola Sinonimo di ingiustizia Mi immobilizza le membra Mi assorda le orecchie Mi offusca gli occhi Mi trapana la mente MI SPEZZA IL CUORE 127 forse potrei... 26.05.07 Cazzo, mi gira un po’ la testa, ma non credo sia la birra, probabilmente è il mondo che ha iniziato a girare troppo velocemente, o sono io che me ne accorgo soltanto adesso... Le ore passano e io me ne sto disteso sul letto senza riuscire a fare un beato cazzo, le paranoie mi assalgono, e io un po’ tento di respingerle, ma poi lascio che mi penetrino nella testa, e mi abbandono al mio dolce star male… Ma, mi chiedo, è veramente così difficile essere felici, o almeno cercare di esserlo? Forse mi piacerebbe svegliarmi contento, forse riuscirei a fare un sacco di cose, forse potrei sentirmi un minimo realizzato, forse potrei essere felice. Boh.. Non è questo il momento per cercare di cambiare l’esistenza, vado a dormire… E domani, e domani, domani… che schifo…. 128 la teoria delle 5 della tarda 19.12.06 Come ogni altro giorno, anche oggi, la luce fastidiosa delle due di pomeriggio mi costringe ad abbandonare coperte e cuscino per rientrare nel mondo. Un gusto schifo-amarognolo in bocca mi da il buongiorno mentre stancamente muovo i primi passi verso il bagno. Una sciacquata alla faccia non è sufficiente per togliere il sonno e l’intontimento dovuto forse al troppo vino. Barcollando e sbadigliando faccio ingresso in cucina, mi concentro per resistere all’odore della spazzatura che, vomitata dal bidone, giace sul pavimento, e mi siedo sul divano. Il risveglio è decisamente il momento più tragico della giornata. Con il pensiero cerco di recuperare il sogno interrotto, ma la vista del lavello invaso dai piatti sporchi mi riporta alla realtà. Ho fame ma sono ancora troppo stanco per mangiare, accendo la televisione. Penso che passare il tempo a fissare carte di snack e lattine schiacciate riversate sotto i miei piedi sia un’attività più interessante che fissare il teleschermo. Mi viene in mente di accendermi una paglia e ne convengo che sia una buona idea, aiuterà a schiarirmi le idee sulla giornata. Guardo l’orologio, ormai si sono fatte le tre e sento il mio stomaco prendermi a morsi, comincio a valutare seriamente l’ipotesi di dover mangiare. Dopo una lunga e sofferta battaglia riesco a scrostare una padella, un piatto e una forchetta. Sono le quattro quando mi siedo davanti al mio piatto di spaghetti conditi con il fondo di un vasetto di pesto, forse andato a male, e a un ottimo bicchiere di acqua lattiginosa sputata dal mio rubinetto. Sedato l’istinto del nutrimento, mi accendo soddisfatto una paglia, i torpori del sonno si stanno levando, l’intontimento sta passando e il mondo reale sta divenendo più nitido. Squilla il cellulare, guardo l’orologio, sono ormai le cinque, ed è in questo preciso momento che mi chiedo: cosa mi ha spinto ad alzarmi dal letto anche oggi??? 129 PANINO AL PROSCIUTTO 27.09.2009 La luce flebile del mezzogiorno giocava un incontro di pugilato con l’intenso biancore d’un neon lasciato a brillare incollato al soffitto. Davanti ad un finestrone due donne malvolentieri infilate in una divisa d’un azzurro fastidioso se ne stavano goffamente appoggiate a ciò che potrebbe essere definito come un inutile davanzale interno, parevano intente ad ammazzare quella che poteva sembrare una pausa pranzo da concludersi con la solita bevanda giallo-marrognola generosamente dispensata da quelle macchinette, che da almeno vent’anni se ne stavano inchiodate all’identico muro. Silenziose indugiavano con lo sguardo all’esterno, gli occhi spenti osservavano particolari apparentemente scontati e privi d’interesse: un cielo fissamente grigiazzurro, un complesso di palazzi popolari bianchi e nudi, che parevano suggerire il fatto che non fosse più il tempo d’appendere bandiere al vento. Le due donne se ne stavano per lo più silenziose, come gran parte della gente presente, solo una voce femminile alta e fastidiosa squarciò ad un tratto l’angosciosa tesa quiete del posto. - Capisci, la sto vivendo male, forse non sarà una questione di colpa, magari non l’avrà fatto apposta, ma sento che anche questo giorno sarà un disastro, sento che in questo periodo sta andando tutto storto... no sarà una cosa da niente, sarò io che sto uscendo pazza ma a me pare così.. La donna dalla voce acuta e irritante se ne stava in piedi praticamente al centro della sala con il telefonino ben ancorato sull’orecchio, camminava nervosamente avanti e indietro a destra e a sinistra sotto gli occhi annoiati delle altre persone sedute. Nonostante la conversazione fosse evidentemente personale e fin troppo banale pareva attirare distrattamente l’attenzione dei presenti, sorpresi da un fare così rumoroso nei silenzi di quel nascente pomeriggio vagamente autunnale. La donna non accennava comunque a calmarsi e la sua faccia si era lievemente arrossata, discuteva,s’agitava, tanto da slacciarsi il bottone estremo della camicia. - Non è questa la questione, è che io vivo tutte queste mancanze come un impoverimento dell’affetto, del bene che ci legava capisci? Comprendo che possano sembrare sottigliezze ma sommando, sommando... Io ho cercato sempre d’accontentarlo in tutto, anche a letto, credo d’aver assecondato le sue perversioni più fantasiose, e ora, ora sembra che non gli interessi più, e questi comportamenti sono sintomatici, sono sicura..- 130 A un certo punto riagganciò nervosamente e si fiondò verso le scale come se avesse avvertito un impellente bisogno di fumare o qualcosa del genere. La sala ripiombò d’un tratto nel consueto silenzio angoscioso, rotto da qualche mormorio, dallo sfregare dei fogli di giornale, dai passi leggeri dei passanti e, di tanto in tanto, da qualche singhiozzo o pianto soffocato. All’improvviso l’avvicinarsi di un’ambulanza a sirene spente squarciò i minuti, velocemente, ma come senza fretta, venne scaricata una barella, su cui giaceva un corpo inerme completamente ricoperto da un telo blu, che sparì presto dietro una porta contrassegnata da un enorme divieto d’ingresso, dietro al mezzo di soccorso giunsero poi due macchine della polizia che mettevano un po’ d’inquietudine anche se in fondo di individui in divisa in un ospedale se ne vede fin troppo spesso. Poi iniziarono a susseguirsi gli strazianti arrivi di coloro che dovevano essere i famigliari e gli amici del corpo da poco arrivato, qualcuno piangeva, altri s’abbracciavano, ma i più se ne stavano fermi, quasi calmi, in uno stato di catatonica incredulità. Il corpo era stato ritrovato dalla sorella nella cantina appeso ad un chiodo, non era lì da molto, era ancora molto caldo, doveva essere successo nella mattina. Probabilmente ognuno s’interrogava su cosa avesse fatto quella mattinata, in quale modo stupido avesse occupato il proprio tempo, che se magari gli fosse venuto in mente di chiamarlo tutto questo non sarebbe successo, ed ora lui ci sarebbe ancora, magari triste e crucciato, ma vivo. Ma in fondo sarebbe dovuto succedere proprio quella mattina e quel giorno, forse aveva già deciso di andarsene in un’alba di flebile sole autunnale, forse aveva pensato che proprio quello era il momento migliore per salutare. Era trascorso un lasso di tempo difficilmente quantificabile quando la donna dalla voce alta riapparve in sala, era ancora impegnata in una fitta conversazione al telefono. -Non è che voglia farne una tragedia, ma è giusto ammettere che siamo in crisi, questo dev’essere il peggior periodo della mia vita, va beh aspettando tempi migliori andrò al bar a farmi un panino al prosciutto...-. 131 Requiem for a dream Se l’ URSS è andata a fuoco perché non bruciamo anche noi? (Evtusenko, poeta sovietico) La stanza è illuminata solo dalla fioca luce della lampada, mi siedo e comincio a scrivere queste righe dal baratro in cui sono precipitato con la speranza di servirvi da monito. Nella mia mente si confondono i ricordi di una famiglia a cui volevo bene, gli amici con cui mi divertivo, di una ragazza che amavo, di una vita catalogabile più o meno come normale. Solo in questo momento, solo con me stesso, al limite del baratro, riesco a rendermi conto dei lunghi discorsi di mia madre o di Don Fausto quando ancora frequentavo l’oratorio: “state molto attenti quando attraverserete gli anni turbolenti dell’adolescenza..” Mi rendo conto come solamente ora queste parole acquistino significato. Noi, giovani, in paese non avevamo niente da fare, passavamo il nostro tempo a rincorrere i gatti e a collezionare due di picche dalle sorelle dei nostri amici, intanto la sede del partito comunista se ne stava lì, situata nel centro della della piazza centrale del paese,sempre sotto u nostri occhi come un vero e proprio demonio tentatore. Ricordo ancora perfettamente, come se fossero trascorsi appena pochi minuti, l’esatto, maledetto, instante in cui varcai laa soglia del partito. La prima volta fu bellissima e indimenticabile, dentro quelle mura mi senti inondato da un’energia vitale e credetti, realmente, che la rivoluzione potesse essere possibile se on l’indomani almeno entro la fine del mese. All’uscita del circolo, però, mi aspettava puntuale il “ritorno alla realtà”, in maniera lenta ma inesorabile mi prese un senso di inquietudine e depressione, fu un momento talmente orribile da essere ancora stampato nitidamente nella mia memoria. Ricordo he appena riuscii ad arrivare a casa dovetti spararmi due puntate di “blob” registrate e leggermi qualche pagina del “manifesto”per riprendermi dal down e riuscire un po’ a tranquillizzarmi e addormentarmi. Come molti, o forse tutti (?), ero convinto di riuscire ad autocontrollarmi: “mi basta una riunione a settimana e qualche volantinaggio di tanto in tanto” pensavo, e pensando tentavo di convincermi. Cominciai a farmi qualche lettura leggera, promettendo, però, a me stesso che non sarei andato oltre, le mi giornate le trascorrevo in casa a leggere “il manifesto del partito comunista”, alcune biografie di Che Guevara, i diari di mia nonna, ex-staffetta partigiana, e così cominciai a dimenticare la scuola, la compagnia, la famiglia. 132 Nel giro di pochissimo tempo, quasi senza rendermene conto, aumentai da una a tre le sere al circolo e anche i miei libri che avevo non mi bastavano più, con i soldi delle paghette e delle mance che riuscivo a raccattare mi comprai: “Salario, prezzo e profitto” di Marx, “L’imperialismo fase suprema del capitalismo” di Lenin, gli “scritti scelti” del Che, e “L’uomo a una dimensione” di Marcuse, non riuscivo a smettere di leggere, una pagina tirava l’altra, anche perché conoscevo l’immenso vuoto che mi avrebbe preso subito dopo aver chiuso i libri. Comincia a dormire con il “Libretto Rosso” di Mao Tse Tung sotto il cuscino in caso di crisi durante la notte, ancora adesso non riesco a farne a meno. Mia mamma, forse comprensibilmente, tendeva a minimizzare e ad autoconvincersi che suo figlio era solo un giovane un po’ ribelle, ma che col tempo tutto si sarebbe sistemato. Un avvenimento la costrinse ad aprire gli occhi: un pomeriggio ero in crisi nera, mi ero fatto tutti i libri che avevo in casa e i compagni non si sarebbero riuniti fino alla sera seguente, sconvolto dallo sconforto mi addentrai nella camera di mia madre, nella disperata ricerca di denaro, trovai i soldi destinati all’affitto, senza pensarci troppo, li presi e li infilai nella tasca de mio eskimo e, finalmente felice, mi precipitai in libreria. Acquistai l’edizione più costosa del”capitale” di Marx, tutte le opere di Lenin, con i soldi avanzati comprai inoltre: l’archivio completo dei “quaderni piacentini” e un poster raffigurante lo storico incontro tra il Che e Mao. Tutto questo mi avrebbe regalato qualche momento di tranquillità e di una quasi speranzosa felicità. Quando camminavo per la strada sentivo su di me gli sguardi della gente, un po’ mi infastidivano ma in fondo li capivo io ero così diverso da loro, così più brutto di loro e non potevo certo sperare si passare inosservato. Anch’io mi accorgevo di essere cambiato, mi ero ridotto a frequentare esclusivamente i compagni del circolo, i miei amici di una volta non esistevano più, quando non ero in riunione, a volantinare, o attaccare manifesti, passavo il mio tempo rinchiuso in camera a leggere, ascoltare dischi di musica popolare e a guardarmi vecchie edizioni registrate del tg3. Da ta la situazione mia madre fu costretta ad intervenire, e cercò di aiutarmi a disintossicarmi convincendomi a partecipare alle riunioni con i ragazzi della Sinistra Giovanile. Il programma di disintossicazione fu un disastro, nel circolo dell’Sg respiravo un grande vuoto, l’eliminata passione comunista era stata sostituita con slogan banali, stupidi nel migliore dei casi tendevano, infatti, a copiare gli schemi, le idee, e il modo di porsi della borghesia. Ne uscii quasi in uno stato d’ansia, non tornai più in quel luogo e sono convinto che nessun vero comunista sia riuscito a redimersi in questo modo. 133 Intanto continuavo a trascinare la mia esistenza tra volantinaggi all’alba, cortei e riunioni: ogni tanto riuscivo ancora a chiedermi: per quanto riuscirò a vivere ancora in questo modo? Capivo che il mondo comunista che mi ero costruito era totalmente in antitesi con la realtà in cui stavo vivendo, ed ero totalmente incapace di confrontarsi con questa realtà, cercavo sempre rifugio nelle mie letture nei miei film, ogni volta che ero assalito da questi pensieri. Per cercare di accettare la realtà in cui vivevo continuavo a costruire utopiche speranze, speravo in una presa di coscienza di tutti gli sfruttati da questo sistema: dai lavoratori sempre più precari agli studenti, speravo che, finalmente,le persone si sentissero abbastanza felicita non aver più bisogno di costruirsi un dio, speravo di vivere in un mondo dove la guerra fosse solo una cosa noiosa da studiare sui libri di storia. Fosse permesso di sperare , pensai, fosse possibile sperare, ma la speranza era un difetto nel mondo ormai così perfetto. 134 tanto fuori piove Lunedì notte di un agosto 2007 Schiaccio qualche tasto tanto per non dormire tanto per non pensare. Poter leggere qualcosa di pseudo-intellettualoide tanto per cercare di ammaliare qualche ragazzina tanto per costruire un’identità sicuramente più interessante di quella fottuta che mi ritrovo continuamente in preda a crisi di panico assurde rischiare di cadere nel vuoto e poi un appiglio spesso senza significato che presto svanisce e tutto ricomincia risveglio sole nuvole e noia voglia che tutto finisca giramenti di testa puzza di vomito e voglia di piangere forse paura timore e proprio per questo non riuscire a interrompere ogni cosa bloccare l’aria che scende nei polmoni e far dissolvere finalmente una mente stanca. tanto fuori piove (II) 21.08.07 Luce e rumore mi riconsegnano alla quotidianità. Voler far qualcosa ma non potere urlare piangere vomitare tutto appare inutile accendere un computer e scrivere quattro stronzate giusto per sentirsi almeno un po’ vivi convincersi di star facendo qualcosa e sperare di auto compiacersi perché magari almeno qualcuno leggerà leggere parole buttate giù a caso in una mattina di un giorno cominciato aspettando che finisca con l’ultimo sogno lasciato sotto il cuscino sperando che non evapori ma probabilmente fa troppo freddo Svegliarsi mangiare cagare respirare grigia quotidianità che si ripete ciclicamente e disperati tentativi di rendere almeno qualche cosa unica interessante nostra che si possa dire che valga la pena di essere vissuta costruire illusioni per cercare di essere un po’ felici ma credere di essere amati significa essere molto presuntuosi e anche un po’ imbecilli. Comunque buon giorno 135 la naissance d’un amour 14.09.2009 “Dio di misericordia il tuo bel paradiso l’hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso...” (Fabrizio De Andrè) Un giorno piovoso d’inizio autunno, quando l’aria fresca invita i gestori dei bar a smantellate i tavoli esterni e alle persone torna il gusto di ricominciare ad apprezzare il tiepido tepore domestico, un giorno che regala il sentimento di un nuovo inizio, come un primo giorno di scuola, un giorno quasi onirico che da la sensazione del già visto, un giorno ideale per un addio. Ero stato pettinato, un lusso che non mi ero permesso molte volte prima di quel giorno, una camicia grigia dello stesso colore di quel cielo tardo settembrino, una sciarpa ben avvolta intorno al collo, che nascondeva tutto, tanto che chi ancora non sapeva non avrebbe potuto capire come fosse successo. La folla di visitatori iniziò a giungere fin dalle prime ore del mattino, per un po’ mia madre s’era data da fare per accogliere tutti sulla porta offrendo caffè e biscotti a chi ne avesse avuta la voglia, alcuni accettavano altri no, qualcuno che aveva rifiutato s’era subito pentito ma ormai era troppo tardi. Dopo alcune ore però lei si stancò dei “Benvenuti” e dei “Grazie d’essere venuti”, scomparve senza farsi più rivedere fino a tarda serata. Alcuni volti erano conosciuti, altri vaghi, alcuni conosciutissimi altri ancora del tutto ignoti, tanto da domandarsi cosa stessero lì a fare in quel momento. Ho visto occhi gonfi, traditori di sguardi che avrebbero voluto essere più indifferenti, che avrebbero voluto dimostrarsi più all’altezza della situazione, ho visto volti sereni divenire sconvolti per poi tornare tranquilli e ricadere nuovamente nella disperazione. Molte persone arrivavano altre se ne andavano garantendo un ricambio tranquillo che perdurò per l’intera giornata, erano veramente pochi quelli che restavano, chi pareva più afflitto o indifferente non riusciva a passare più di pochi minuti consecutivi nella stanza. Sembrava inoltre che all’interno non fosse permesso fumare e ciò andava ad aumentare la silenziosa confusione che s’era venuta a creare. Ricordo passi volutamente troppo leggeri, voci, sussurrii interminabili, timide risate e impulsi di vita, che svanivano nella penombra della stanza. Ricordo risate e pianti repressi, silenzi imbarazzanti tanto che avrei voluto dire qualcosa se le parole non mi si fossero strozzate in gola. Un amico, in ricordo di qualche nostra vecchia idea, appoggiò un drappo rosso accanto al mio braccio sinistro, lo ringraziai silenziosamente, un’amica s’avvicinò 136 tenendo stretto un pezzo di carta che andò a finire sopra il drappo colorato, sembrava una lettera, sperai d’amore, ma, ad ogni modo, non avrei avuto il tempo di leggerla. Ricordo d’aver avvertito il suo odore quando s’avvicinò, i capelli, il trucco leggero, i denti che tormentavano il labbro inferiore, qualche smorfia del viso, le lacrime che le rigavano il volto, le ginocchia scoperte, che avrei voluto sfiorare, solo lievemente illuminate nella penombra, la mano che pareva destinata a trasformarsi in carezza ed, invece, si fermò a pochi centimetri da me, un bacio ancora una volta mancato. Domani tutto sarà finito mi solleveranno da qui e mi verseranno addosso qualche chilogrammo di terra consacrata, la corda che ho utilizzato giace in qualche ufficio giudiziario, gettata in una scatola come una qualsiasi cosa di nessuna importanza, arriverà il giorno che non si penserà più a ciò che è accaduto e verrà gettata via anche lei. Anche questa stanza vivrà giorni più luminosi, la primavera seguirà l’inverno e i caldi raggi solari prenderanno il posto della penombra regnante, mi spiace solo di non poter rivedere quelle ginocchia quando saranno illuminate dal primo sole di primavera. 137 ...ci sarà sempre qualcosa da scrivere... 138 STEFANO FONTANA È MORTO IL 9 AGOSTO 2011 139 Indice Stefano Fontana................................................................................................................ 5 Scrivo perché è un buon modo per riempire una serata Notte fonda........................................................................................................................ 8 Quarant’anni dopo (Sessantotto).................................................................................... 9 Lolli.................................................................................................................................. 11 Yeah.................................................................................................................................. 12 Seriali............................................................................................................................... 13 RADIONOTTEFONDA II........................................................................................... 14 RADIOnoTTeFONDA VI............................................................................................. 14 RADIONOTTEFONDA VII........................................................................................ 14 15.02.2008........................................................................................................................ 15 Scrivo perché, a volte, è proprio difficile parlare guardandosi negli occhi Risveglio dal sottosuolo................................................................................................. 18 Sguazzo nella maggioranza .......................................................................................... 19 26.12.07............................................................................................................................ 19 Dialogo fra me e un non so........................................................................................... 20 Color anice...................................................................................................................... 22 I ghiaccioli....................................................................................................................... 23 I leccalecca....................................................................................................................... 24 12-12-00........................................................................................................................... 25 6-7-2000........................................................................................................................... 26 10-7-2000......................................................................................................................... 27 30-1-01............................................................................................................................. 28 Affogando........................................................................................................................ 29 Inutile Pianto .................................................................................................................. 30 Endegu du matin ........................................................................................................... 31 La filosofia del mattino (ossia a proposito di quei 15 minuti che dividono i sogni dalla realtà).................. 32 Les sourires...................................................................................................................... 33 Scusa se non ti parlo d’amore........................................................................................ 34 Un baiser s’il vous plait.................................................................................................. 35 Una notte......................................................................................................................... 37 140 Scrivo perché spero che qualcuno mi legga, anche se saranno solo gli amici, è già qualcuno L’ eterno ritorno.............................................................................................................. 40 La schiuma dei giorni.................................................................................................... 41 Prigioni............................................................................................................................ 42 Imprigionati da carcerieri senza cuore........................................................................ 43 The times they’re a changing......................................................................................... 44 Genova libera.................................................................................................................. 45 Avvenimenti.................................................................................................................... 48 10.1.2009.......................................................................................................................... 50 (Senza titolo)................................................................................................................... 51 Breve riflessione in una notte di mezz’estate............................................................... 52 Le beatitudini.................................................................................................................. 53 Quando i neri tornano ad uccidere.............................................................................. 54 Sulla strada per la rivoluzione (o almeno così credevo...)......................................... 55 Scrivo per dare un po’ di concretezza alla fantasia Lettera a Maximilien...................................................................................................... 59 Lo strano viaggio di Pastore Tedesco e Pera Cotta.................................................... 61 Autunno........................................................................................................................... 68 Una nuova vita................................................................................................................ 73 Il profumo della vita....................................................................................................... 75 Fino allo scolorire del giorno........................................................................................ 77 Settembre......................................................................................................................... 80 Dal diario di un milite ignoto....................................................................................... 82 Il grande salto.................................................................................................................. 84 L’odio................................................................................................................................ 86 Love affairs...................................................................................................................... 87 Nina ti te ricordi............................................................................................................. 88 Robe da matti.................................................................................................................. 90 Romanitc rape (last kiss)............................................................................................... 92 Televisione....................................................................................................................... 94 Scrivo perché, in fondo, anche se tutto crolla... Desertificazione.............................................................................................................. 96 Speriamo nevichi............................................................................................................ 98 Il castello .......................................................................................................................100 Il formicaio....................................................................................................................104 Pioggia su Taiwan.........................................................................................................106 141 Raggi di sole.................................................................................................................. 108 Racconto di Natale....................................................................................................... 110 Thank you America (I)................................................................................................ 115 Thank you America (Ii)............................................................................................... 118 Thank you America (Iii).............................................................................................. 120 (Senza titolo)................................................................................................................. 125 Padrone.......................................................................................................................... 126 Forse potrei... ................................................................................................................ 127 La teoria delle 5 della tarda......................................................................................... 128 Panino al prosciutto..................................................................................................... 129 Requiem for a dream................................................................................................... 131 Tanto fuori piove.......................................................................................................... 134 Tanto fuori piove (II)................................................................................................... 134 La naissance d’un amour ............................................................................................ 135 ...ci sarà sempre qualcosa da scrivere... 142 143 144