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Paolo Scottini
L’ultima
orchidea
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Iniziativa personale edita nel: ottobre 2011.
Questo libro è opera di fantasia.
Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto
dell’immaginazione dell’Autore o sono usati in modo fittizio.
Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone reali, viventi o
scomparse, è puramente casuale.
[email protected]
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A Martina,
il mio fiore più bello
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Premessa dell’autore
Rovereto, ottobre 2011
Era stato quel caldo pomeriggio d’estate che
sentii la chiamata. L’estate del 2008. Era
successo in biblioteca, dopo aver restituito
all’addetta alcuni libri presi in prestito qualche
settimana prima e che, dopo averli
letteralmente divorati, stavano da alcuni giorni
scompostamente girovagando da un sedile
all’altro della macchina. Li raccolsi e li adagiai
come reliquie sul bancone delle rese, consegnai
alla responsabile la tessera con i miei dati e,
mentre aspettavo la confermata restituzione,
con il mio solito sorriso da ebete stampato sulla
bocca notai la locandina. La signora mi chiese
qualcosa che naturalmente non afferrai; quella
che mi catturò da quel momento in poi, era
stata una stupida carta stampata appesa alla
parete.
Ulisse era stato avvisato dalla maga Circe
della presenza delle Sirene, per cui ai marinai
aveva fatto tappare i timpani con la cera e lui si
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era fatto legare all’albero maestro per non
soccombere ai melodiosi canti delle
marinaresche creature, tanto attraenti quanto
pericolose. Purtroppo io non ero stato avvisato
da nessuno, quindi fui immediatamente rapito
dall’ armonia di quel suono e, come uno stolto,
cedetti alla prima lusinga. Ecco che qualcosa
mi afferrava e con violenza mi attirava a sé, e
la forza che interagiva tra due enti fisici come il
mio corpo e quel manifesto, annullava in pochi
secondi la breve distanza che ci separava.
Lessi, e fu amore a prima vista.
Lo stampato appuntato alla bacheca
informava il cittadino di un concorso letterario
che si sarebbe svolto di lì a qualche mese
presso la sede della biblioteca civica di Raossi,
e incoraggiava la partecipazione a chiunque
avesse qualcosa da raccontare in merito alla
valle, la sua gente, la sua cultura o la sua storia.
Non mi era mai passato per la mente di
scrivere neanche il più semplice biglietto
d’auguri indirizzato alla Vallarsa, figurarsi un
racconto! Eppure, in quel preciso istante, mi
balenò l’idea che forse qualcosa da buttar giù
ce l’avevo anch’io. Mi stavo sempre più
convincendo che la storia esisteva, stava
sepolta da qualche parte, da sempre smaniosa
di saltar fuori; bastava semplicemente riuscirla
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ad individuare ed estrarre. Cominciai a pensare
ed ecco affiorare i primi scogli: come trovare
qualcosa di originale, qualcosa che non sia
stato ancora trattato? Certo, la Vallarsa è una
terra ricca di storia e sappiamo bene tutti
quanto, durante il Grande Conflitto, sia stata
brutalmente oltraggiata, facendole quella
guerra dono di tutto ciò che comporta essere
terra di confine. Una valle così orribilmente
stuprata dall’uomo può non aver niente da
reclamare? A quello, ringraziando Dio, hanno
pensato egregiamente gli innumerevoli autori
di testi memorabili, tutti molto bravi e
informati e, visto che il sottoscritto non è uno
storico, mi sono convinto che sarebbe molto
più intelligente cambiare argomento per non
affondare nel banale o peggio ancora incappare
in vergognosi sbagli. Però non sono neanche un
letterato, o uno scrittore capace di osannarne le
ineguagliabili vette o esaltarne le verdeggianti
vallate. Che non sia forse il caso di lasciar
perdere?
Salutai scoraggiato la signora e con in testa
una miriade di progetti confusi, salii in
macchina dirigendomi verso Staineri, il paese
che mi ospita da oltre un quarto di secolo.
Raggiunto il bivio di Anghébeni, imboccai la
strada provinciale che sfocia a Rovereto
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passando dalla sponda destra a quella sinistra
del Leno. Il paesino di Staineri dal punto in cui
mi trovavo dista circa un chilometro e mezzo e,
se fatto in automobile, per arrivarci non ci si
impiega più di tre minuti. Quel pomeriggio mi
ci volle quasi un’ora. Non perché ci fosse
traffico o perché mi fossi accidentalmente
trovato con l’auto in panne, ma perché appena
oltrepassato il menzionato abitato, il mio
sguardo fu attirato nella direzione del
sottostante cimitero di guerra. E lì sentii il
fulmine conficcarsi nella carne. Le Sirene mi
stavano divorando. Accostai raggiante sul
selciato: sapevo finalmente da dove
cominciare.
Osservai il territorio, studiai il paesaggio e la
fantasia fece il resto. Dopo circa un’ora di
meditazione mi fiondai in macchina, ingranai la
prima e due minuti dopo stavo parcheggiando
sotto casa. Salii di corsa i quarantatre scalini
che portano alla mia residenza, veloce come un
capriolo selvatico, solamente che l’animale,
alla fine della rampa, non avrebbe avuto il
fiatone che tenevo io dopo l’impegnativa
performance. “Dove corri?” mi chiese stupita
mia moglie. “Impegni inderogabili” risposi.
“Carpe diem, amore.”
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Quel pomeriggio avevo gettato le basi di
L’ORCHIDEA (ampiamente romanzato e
rititolato solo in un secondo tempo con
l’epiteto più specifico di L’ULTIMA
ORCHIDEA) ma mi ci vollero tutti e tre i mesi
concessi dalla commissione d’esame per
poterlo rendere presentabile. Lo consegnai
l’ultimo giorno ammesso, proprio sul filo di
lana.
Quando ricevetti la raccomandata che mi
informava del primo premio assegnatomi nella
categoria adulti, non credetti ai miei occhi.
Come era possibile tutto ciò? Eppure era
proprio il mio nome quello che stava in neretto
al centro dell’epistola.
LA STANZA IN CIMA ALLA TORRE, altro
racconto ambientato in Vallarsa, l’ho partorito
un anno e mezzo dopo il primo ed è stata
proprio questa sua collocazione geografica a
darmi lo spunto di inserirlo in questo volume.
Malgrado il titolo ingannevole, questa è una
storia d’amore; amore nel vero senso della
parola. E’ una storia di cuore antica come il
mondo, e proprio perché appartiene al mondo
credo che ci sia sempre qualcuno ispirato a
parlarne, cantarne; scriverla o descriverla in
tutte le forme d’arte conosciute. Mi auguro di
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riuscire a smuovere i sentimenti e a donarvi
qualche minuto di piacevole distrazione. Se il
risultato non fosse quello auspicato, siate
magnanimi.
Ho incluso anche una terza scrittura
PERCEZIONE. E’ il minimo omaggio che
potessi fare ai miei amati genitori.
La poesia con cui apro FINO AL TUO
RISVEGLIO è un po’ il sunto del libro. Mi è
piaciuto giocarci inserendola all’inizio. Non
vogliatemene.
A cerchio ho narrato la capacità che ciascun
individuo dispone per combattere la propria
solitudine. Che poi non è detto sia la deficienza
dei rapporti sociali tra esseri viventi, che io
reputo alquanto superficiale, ma qualcosa di
più profondo: il vuoto dell’anima piuttosto che
quello del corpo. Lungi da me la presunzione di
ricalcare le righe del colosso Màrquez e dei
suoi Cent’anni di solitudine, romanzo
ineguagliabile. Anche se mi rivoltassi da capo a
piedi non ne uscirebbero le capacità. Tutto quel
che posso fare è mostrarvi quello che possiedo,
che messi a confronto sono sciocchi granelli di
sabbia.
Per quel che mi riguarda devo dire che
scrivere, se pur mi comporti un esborso
considerevole in termini di fatica, mi diverte
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parecchio; provo emozioni e vivo in prima
persona la storia che di volta in volta narro e
quella dei miei personaggi. Lo scopo è di
riuscire a infondere in voi ciò che nello scrivere
io stesso percepisco perché, credetemi, è un
gran bel percepire.
Dopo aver battuto il punto che decreta il
termine di ogni racconto, mi concedo qualche
giorno di tregua, un utile recupero di energie
che mi serviranno in seguito per rileggere e
correggere la stesura. Ed ecco che mi si
aggroviglia in testa il solito, singolare pensiero:
la storia, o meglio, le storie che m’accingo a
raccontarvi probabilmente non sono andato io a
cercarle, ma credo siano state loro a servirsi di
me per poter essere lette.
Buona lettura amici, e… scusatemi ma vorrei
aggiungere ancora una cosa, poi finisco, lo
giuro.
E’ una citazione del filosofo tedesco
Nietzsche il quale enuncia:
Tutto ciò che ruota attorno agli eroi
si trasforma in tragedia.
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Tutto ciò che ruota attorno ai semidei si
converte in satira.
E tutto ciò che ruota attorno a Dio cosa
diventa: mondo?
P. S.
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Ora girate pagina.
Si comincia.
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Il mio amore è come la luce del sole nascente
Ma la luce del suo volto m’ ha lasciato
E sembra che anche il mondo si sia oscurato
Come nel giorno del Giudizio
Hamida Ghafour
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Fino al tuo risveglio
Lo capirò la notte che districherai il garbuglio
dei miei sogni,
variandoli in sottili filati di raso
basilari per tessere drappi di sonno pregiato.
Sì, lo capirò la notte in cui l’occhio di Sirio
accecante nel suo lustro,
non più infrangerà specchi di finestre, e mai vi
giungerà
a plasmare quel corpo che vibra,
a fronde di pomeriggi ventosi.
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Me lo esporrà l’insonnia dei passi al frutteto,
sacche d’inchiostro squarciate al contatto col
morso, e giù,
stille fluenti e labbra grondanti del sangue
delle more.
Soltanto allora comprenderò
quanto lo sciame della libertà impollini stimmi
di solitudine,
e il silenzio in cui orbita il mio mondo
aspetti solo il tuo risveglio.
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L’ultima orchidea
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oggi
C’è un mondo fatto di paesi.
Ci sono paesi fatti di case.
Ci sono case fatte di storie.
Tra le tante una è da raccontare.
Questa.
Terminò così. Con un’alba aggrappata alle
vette più alte e un vento agitato il quale,
inesorabile, butta da Sud.
E’ brezza marina che sfiora la crosta e tutto
scompiglia. Animi e cose.
Come adesso, terminerà. Come adesso. Con
il timido albeggio che scavalca i rilievi, in sella
a un vento il quale, guarda caso, malgrado sia
solito scorrazzare da Sud, contrariamente ad
ogni logica nonché equilibrata aspettativa,
quest’oggi infierisce da Nord. E trascina
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polvere, dissemina lustro, abbranca paesi,
striglia la terra, supera le case. Fruscia sui muri,
sbircia nelle stanze, stormisce infilando le
soglie, i tagli delle imposte, le imperfezioni
delle commessure. Imbatte in scuri socchiusi
che, come niente fosse, li scansa e li scavalca.
Incappa in finestre ermetiche. Nessun
problema: oltrepassa il vetro. Penetra. Oh,
perfide ante di legno, mute e accostate, non
statevene lì a guardare. Apritevi! Spalancatevi!
Annullate per sempre il patto stipulato con
l’uomo mille anni or sono, voi che un regno
siete tenute a proteggere, allontanando le
combattive notti e i giorni invasori, entrambi
usurpatori di un diritto sovrano: il vostro. Tutto
ciò non ha più senso ormai. Oh, degne scudiere
dell’oscurità. Dismettete le logore vesti e
indossatene di nuove, assai confacenti.
Disgregate il caparbio, il puntiglio: mutate!
Proponetevi! Apritevi al mondo, voi,
inesorabili ancelle solitarie, negoziate una
tregua!
Suvvia,
almeno
momentanea.
Sospendete il conflitto subìto, prostratevi al
giorno e accogliete a mani ferme e spirito saldo
l’esercito della luce che avanza. Scardinate una
volta per tutte l’ombelico ferroso che v’unisce:
ribellatevi! Osservate il chiarore che vi si
infrange addosso, vedete in quanti pezzi si
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divide? Bene, abbrancatene un frammento e
raschiate il lembo su cui si trova scolpito quel
non più legittimo accordo. Prima o poi il
suggello sarà depennato e allora, vedrete, non
si troveranno appoggi a far d’appiglio e il palco
intero crollerà, assicurato. Ma c’è pegno da
pagare. Purificarsi costa: ci sono preghiere da
recitare, implorazioni da barattare. Suppliche
vendute a caro prezzo che qualcuno, la notte, al
mercato divino spaccia. Notte infame, infame
notte! Notte sciagurata, che rifila promesse non
in grado di mantenere, alimenta speranze
incerte, si ciba di sfiduciata disperazione. Eh sì,
speranze, speranze, e ancora speranze: quelle
che poi si frangono al suolo dell’alba,
precipitando nell’inconsistente coerenza di una
frivola e inconcepibile realtà.
Luce che avanza, lenta.
Vento che bisbiglia.
Persiane che osteggiano in un legno di tarme
e di ruggine. A volte fremono.
E allora avanti, perdio! Ancora un’altra, una
di quelle notti… e un’altra ancora… e poi
ancora. E allora ogni sera, alla solita ora, ligi al
dovere di un’ordinaria adunanza voi stesse vi
ritrovate, vecchie e sciagurate scuracce di
legno, vi scontrate, flettete e riflettete,
v’intendete e… saldate – saldate, assestate,
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unite – affari rimasti in sospeso, rapporti
dissacrati, vite scollegate, pensieri confusi. Ma
non chiudete, no! No! No! Quello mai, non vi
potete chiudere. Sbattere forse. Oh, se sbattete
alle volte, ma non chiudervi. Giammai! Se vi
serraste compromettereste lo scopo di
quell’eccelso, serafico e immolato sacrificio.
Allora v’accostate, appena a sfiorarvi,
lasciando intravvedere un piccolo spiraglio –
non troppo in realtà, ma neanche troppo largo
se è per quello – una media fessura, un
insignificante spazio triangolare di vuoto
cosmico, un parallelepipedo d’aria del tutto
incapace, ovviamente, di contrastare la fresca e
avvolgente luce del giorno. Un abito chiaro
che, poco per volta, veste la nudità della notte,
inondando la stanza con sprizzi d’argento. Ecco
che l’invadenza di un avido ma implicito
barlume s’impossessa del nulla, sfuggevole e
silente come un fantasma.
Una stanza.
Poca luce, un’inezia. L’arredo scarno.
Parecchio disordine.
Al centro un letto, occupato.
Un corpo che respira, debole.
Abbraccia il cuscino quel corpo assopito.
Dorme ma non dorme, contemporaneamente.
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Bentornata dolce e sottile schiarita! E’
l’inarrestabile che avanza.
Scrollatosi di dosso l’accecata notte, il nuovo
giorno riporta alla realtà un mondo che fino a
pochi minuti prima celava nel buio ogni cosa;
l’ottenebrato ricomponimento di un’esistenza
sminuzzata, con mille sfocati tasselli che pezzo
dopo pezzo riacquistano la giusta forma, l’equa
dimensione, intercalando la propria immagine
nello stesso posto e con la medesima cura con
cui una mano avvizzita, la sera addietro, li
aveva collocati. Un gioco di maestria e
prestigio, quello: come tessere di un mosaico
nel patio del palazzo, dove il tempo avvenuto,
associato ad uno scalpiccio eccessivo,
inevitabilmente sgualcisce. E come queste,
anche lo sporco per terra e le profonde crepe
alle pareti affermano con voce impostata come
quella casa sia del tutto dimentica delle
giornate di prodigo vissute.
Su un lato l’antiquato sofà – dalla stoffa
strappata: a tratti; sciupata: per l’intera
superficie – sommesso ma fiducioso affida i
suoi lamenti alla clemenza di un mai più
avvenuto
rinnovamento.
Il
semivuoto
cassettone funge da tempo immemorabile più
come pista d’atterraggio per mosche e
coleotteri vari piuttosto che contenitore della
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biancheria di casa. Il ripiano di supporto è la
rampa di lancio di uno stormo di storie il cui
volo, vincolato a una sottile lastra di vetro, è
sottoposto all’immobilità di un attimo resosi
eterno.
Nature vive e facce in primo piano occupano
lo spazio contenuto da una cornice spartana.
Fotografie. Nient’altro che banali, consumate
fotografie. Vecchie, fottutissime fotografie.
Alcune, quelle più recenti, sono stampe su carta
a colori, altre invece esaltano la particolarità di
un ritratto in bianco e nero. Dietro a tutti,
indubbiamente la più vetusta, regalando alla
vista la dorata sfumatura di un antico viraggio
fa capolino la foto di un uomo, ancora fresco di
vita, riservato e, forse, anche timoroso. Vicino
a lui, una donna. In basso, in corsivo, una data
a sancirne il periodo: estate 1914. Un uomo e
una donna. La sua, di donna? Probabile di sì,
probabile di no. Più facile di no, visto che a
studiarla minuziosamente spunta fuori il suo
essere di fanciulla. Fortunato lui se fosse stata
una sua fidanzata, quella: da complimentarsi.
Porcoboia! Questo avrebbe pensato chiunque si
fosse trovato davanti a quella foto: proprio da
complimentarsi. Lui, l’uomo della foto, che
nella sua esistenza terrena detenga una
personalità riservata e timorosa lo si intuisce
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chiaramente dalla piega dell’occhio che punta
l’orizzonte, traccia una strana traiettoria
obliqua, sfugge all’obiettivo; come pure da
quella sua espressione straniata e il sorriso
sforzato, probabilmente eroso da qualche sorta
di dubbio vago. Sorride sì, ma è un sorriso
sporco quello, tanto per intendersi. Niente a che
vedere con la purezza di un sorriso schietto,
quello autentico, quello credibile, quello che in
mezzo allo scompiglio della vita ti prende per
mano e ti fa volare. Un sentimento strozzato,
tenuto evidentemente ingabbiato nella voliera
della sua stessa anima.
Viceversa, lei è raggiante. Dall’atteggiamento
si evince che è una ragazza a dir poco felice.
Va pur chiarito che ci si possa sbagliare,
ovviamente, ma, a differenza del primo, il suo
sguardo è scintilla gioiosa.
Diverso è quello dell’uomo. Assolutamente.
Non ci fosse la piega dell’occhio a inquinare la
scena chiunque c’arriverebbe; giacché,
impeccabile nel suo apparire, non lascia che
trasparire solo un debole indizio della sua pena,
un refuso inavvertibile, impercettibile, ma
abbastanza da non poter essere ignorato.
Sembra incredibile quante osservazioni
possano filtrare da una minuscola scalfittura.
Dietro il paravento del suo sguardo si svela
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qualcosa di molto simile ad arida terra di
deserto, podere asciutto, disseccato – gemma
sradicata e gettata al vento, sperduta nel vento
– landa desolata e incolta. Miseria bell’e buona
insomma. Logicamente è solo la merce
mostrata quella che si vende – o almeno, che ci
si augura di vendere – non quella accatastata in
magazzino; al massimo la si può immaginare
tutta quella roba lì. E la verità celata è quasi
sempre diversa dalla verità detta. Ottima
copertura l’eleganza del suo viso. Nonché
complimenti per la vegetazione tutta che esso
accoglie. Lodi per l’inqualificabile e rigogliosa
peluria detenuta! Difatti sul volto dell’uomo
spiccano ovunque cespugli di pelo. Baffi e
sopracciglia talmente folti da svergognare la
foresta amazzonica se messa a confronto, e una
lanugine irsuta che spunta ribelle dall’orecchio
inquadrato, manco occultasse floridi campi di
granoturco. Malgrado ciò, altra cosa in cui si
distingue è la garbata raffinatezza. Porta il
cappello quell’uomo, grigio a tese larghe, ed è
talmente arrembante che dall’alto del suo
pulpito sembra declami un editto; senza nulla
togliere all’accurato vestito della domenica, di
squisito cotone color antracite rigorosamente
abbinato al cappello, garofoletto rosso
all’occhiello, foulard di seta al collo, giradito
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d’oro all’anulare sinistro. Un vestito coi
controfiocchi non c’è che dire – forse il più
bello tra i posseduti – robe che per decidere
d’indossarlo c’avrà pensato delle ore. Doveva
essere stato proprio un giorno importante, quel
giorno, per riuscire a trasformare un individuo
sperduto nell’anonimato in una persona di così
tanto rilievo. Come se da modesto tugurio uno
si trasformasse in reggia. Guardatelo lì, tutto
impettito il signore, davvero un bell’uomo.
Peccato per quell’unico, marginale, fin quasi
trascurabile particolare descritto… Tuttavia, di
una cosa si poteva esser certi, quella sì! L’altra
metà del suo sguardo. La parte sincera, quella
in chiaro, quella ben visibile nella foto e contro
cui l’occhio non trova il minimo inciampo. Lo
si capisce chiaramente quanta fierezza
ostentasse per la ragazza che gli si staglia
accanto. Lei è giovane, molto più di lui; ed è
bella, parecchio bella. Oltretutto veste da Dio, e
il suo corpo scivola sinuoso dentro quei tessuti,
pettinati dall’ambrata luce del tramonto. E poi i
suoi capelli: miele di castagno liquido.
Catturano, le due figure, non c’è che dire.
Prendono l’immaginazione e se la portano a
spasso, pur restando immobili in quel loro
attimo di visibilio sincero. Una posa cercata,
costruita, foss’anche non voluta comunque ben
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riuscita. Belli, l’uno di fianco all’altra, ravvolti
da una circospetta estasi ammaliatrice.
Un lampo.
Fragore e puzza di magnesio.
Una tendina che prima si apre, poi si chiude.
Neanche tanto velocemente.
Carta sensibile che reagisce alla luce.
Una foto: porzione di tempo compresso in un
istante. Riassunto di storia. Riassunti di storie
diverse. Varie foto: vari episodi. Vicende di
vita trattenute lì sotto vetro. Concentrati di
eventi incarcerati dentro una teca. La
mummificazione dei ricordi. Attimi rubati e
impacchettati che soffrono muti un perpetuo
rapimento. L’unico modo perché si salvino.
Codardi voi, baleni di vita. Avanti, offrite
pure le spalle allo specchio, vigliacchi! Paratevi
il culo come avete sempre fatto. Vigliacchi!
Giratevi una volta tanto e osservate il mondo
che sta in lui riflesso. Giratevi stolti! Guardate,
e noterete voi stessi quanto sia tutto fittizio e
alterato.
Uno specchio con dentro un pianeta.
Una guarnigione di cornici allineate e
inclinate. Uguale il numero dei piedini a
sostegno. Invalidi appoggiati a una stampella.
Fittizio e alterato, il mondo riflesso. Conforme
ci si sposta esso rivela: una porta, un
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rinsecchito rametto d’ulivo appeso al
crocifisso, tre pendule che partono a raggiera
dal lampadario d’ottone ossidato, di cui
solamente su due ci stanno avvitate le
lampadine. Un vaso di fiori che reclama le
ingiustificazioni dei soggetti assenti. E un
armadio. Solo la facciata davanti. Le ante
richiuse, come braccia conserte a volersi
eclissare. Sudicio e malmesso si direbbe, ma in
fondo gran narratore, testimone oculare di una
vita modesta, giullare di corte al palazzo dei
folli. Gran narratore lui, guardiano del giorno e
della notte, da sempre custode di un letto
riflesso, il quale – valoroso vascello – veleggia
negli oceani della mente assistendo il naufragio
dei sogni della donna su di esso coricata. Il
riflesso di una donna su di esso coricata.
Non dorme la donna. Non è sveglia la donna.
A mezza via. Un trasferimento in atto. In
procinto di lasciare il luogo in cui s’accatastano
gli agitati sonni dei fanciulli per raggiungere
due sbadigli più avanti il soporoso risveglio
degli adulti.
Lei, giovane donna. Splendida adolescente
dai capelli color del miele. Quello di castagno.
Liquido.
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Il vento borbotta una lingua che non gli è
stata insegnata. Ha un accento diverso la lingua
del Nord.
Le imposte accolgono, e vibrano.
Così…
Così…
…Così sta per terminare.
Un giorno qualunque. L’arrivare di un giorno
qualunque. E come ogni buon arrivare di
giorno qualunque, esso è preceduto da un
mattino qualunque; che a sua volta succede a
una notte qualunque. Il finire di una notte
qualunque. Quindi, se il giorno non è ancora
arrivato e la notte se la sta già squagliando,
vuol dire che questo, toltoci di dosso ogni
ragionevole dubbio, resta sicuramente e
inequivocabilmente un mattino. Un mattino
qualunque s’intende. E c’è pure un mistero in
questo mattino qualunque. Un segreto che
insedia il volume di una stanza: il corporeo
rimpatrio delle forme.
Gli stipiti richiusi e le tende tirate filtrano
uniformi il nebuloso, affralito albedine,
restituendo ai mobili, libri e suppellettili
l’amena veemenza di un vago disordine
generale. Il comodino col piano di vetro. Un
bicchiere riverso, gocce d’acqua che picchiano
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a terra; una seggiola storpia stracarica di vesti;
abiti spiegazzati sulla pediera del letto, gettati
alla rinfusa; una ciabatta qua e l’altra chissà
dove; boccette di profumo sigillate e velate di
polvere; forcine per capelli, libri, una sveglia
che segna le sei e quarantadue. Qualcosa di
prepotentemente distorto disegna lo spazio
affidato a una prospettiva dettata sì dagli anni
ma pur anche contrassegnata da un lassismo
spregiudicato e una consuetudine ottusa. Un
modo assai caotico di vivere la camera da letto.
A dettarne la differenza, se di differenza
possiamo parlare, è l’impressionante pulviscolo
accumulatosi. Difatti, se prima questi oggetti
venivano in qualche modo adoperati, adesso
giacciono ripudiati nei meandri di un polveroso
mondo dimenticato. Inoltre, gli stessi infissi
creano una valvola indispensabile per
suddividere l’area a metà; un trasparente
diaframma tra una vita vissuta quietamente tra
le mura domestiche e un’altra contrapposta al
di fuori di queste, più gravosa e complicata.
Troppo complicata.
Il vento scuote una tela. Tranello bestiale.
Zampette frenetiche la tessono. Su e giù… giù
e su. Su e giù… giù e su. Mai fermo. Non è
concessa sosta al costruttore di un tale
calappio: salterebbe la cena. Discende il bordo
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esterno dello stipite, il ragno, opportunamente
ancorato al suo bolo; incrocia il filo disteso e ci
passa sopra. Assicura la bava al filato con
estremo rigore, poi ne risale la cima. Su e giù,
giù e su. Su e giù, giù e…
…oscilla la rete, il dispetto di un vento che
strappa le corde e arpeggia imperioso – cetra
fra le sue dita – e l’argentea, tremula rete
fluttua come naufraga in balia di corrente.
Talvolta sbatte e sventola a bandiera. Talvolta
danza su una musica sorda. Tarantella
ampollosa. Ogni tanto frena, s’acquieta, quasi
si ferma, il vento… ma lui…
…su e giù. Giù e su… giù e su. Su e giù… Se
ne frega l’aracnide delle pretese del soffio. Non
si impensierisce. Inchiodato alla ragione di uno
scopo ben delineato lui tesse imperterrito, con
scrupolosità maniacale, tutelato dall’assoluta
convinzione che l’opera resisti a folate ben più
impegnative.
Fin da bambina era stato un affascinante
diversivo quello di trincerare il suo apparire
oltre la trasparenza di un vetro. Unire le due
ante fino a saldarne le balze e far scorrere un
doveroso chiavistello. Puntellare i gomiti al
davanzale, prendersi il mento fra le dita
intrecciate e starsene lì, col naso talmente unito
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al vetro che l’alito si condensava attorno
formando un alone chiaro e vaporoso; e allora
spostarsi perché più non ci si vede, dando così
il tempo all’alone di ritirarsi, risucchiato nei
depositi segreti di una eterea barriera
cristallina. Starsene così, un po’ appiccicata al
vetro un po’ no, passare le ore a guardare,
immaginare, sviluppare le sorti della storia che
vi scorre dentro. Il contenuto di una finestra è
simile ad acquavite: l’alcoolico distillato di una
fermentazione. Verde lievitazione, concentrato
di pianeta, inebriante attrazione e profumo
intenso. Roba per intenditori. Irrilevante
proliferazione di un mondo in costante
sviluppo e crescita disumana. Da rimanere
storditi per l’eternità, sicuro. Due spazi, due
mondi diversi: quello di fuori e quello di
dentro. Lei aveva scelto di vivere quello di
dentro e stare a vedere quello che sarebbe
accaduto in quello di fuori. Uno spasso
analizzarne l’impercettibile movimento delle
masse: forze contrapposte che in qualsiasi
momento si sarebbero scontrate, frantumando i
sogni e le speranze di chiunque in quella
circostanza si fosse trovato in traiettoria.
Doveva assolutamente prendere per mano la
situazione finché il tempo glielo concedeva e
assumere lei stessa il ruolo di arbitro per
37
dirigere la partita che si apprestava a
cominciare: una di quelle senza regole e schemi
logici, delle quali che tu stia dentro o fuori è
assolutamente irrilevante. La cosa più bella
consiste proprio nel fatto di non farne parte. Se
potesse dipendere da lei, rimarrebbe
rannicchiata per sempre oltre quel vetro,
rinnegando la sua stessa vita, per poi magari
ritrovarsi catapultata in qualche remoto punto
dell’universo. Anzi, è forse l’universo intero a
vorticare lì, adesso. Tutto in quella stanza.
Terre di Vallarsa. Terra improba, difficile. Da
allontanare se possibile. Ma abitata. E persino
amata.
Mattino presto. Interi paesi avvolti nella
sopita quiete di un incerto e crudo albeggio
invernale. Un Generale avvinto, lui, l’inverno,
e il suo gelido pugno d’acciaio disamora gli
intenti umani, costretti ognuno per il suo verso
ad abbandonare il sacro tepore dei loro letti.
Come in tutte le case della valle, anche in
quella della ragazza arrivata al capolinea dei
suoi sogni regna la stessa, identica percezione.
La cadenza regolare del respiro viene
sovrastato dal ritmico ticchettare della sveglia
che, per quanto vetusta, con solerzia da di
carica ogni sera prima di mettersi a letto. Lo
38
snervante bubbolare del meccanismo mai l’ha
infastidita, anzi, quel suono meccanico lo ha
sempre parificato ad una sorta di compagno di
viaggio; una sgraziato ma simpatico carillon:
Clic… Clac, Clic… Clac, Clic… Clac.
Ma quanto sarebbe durato questo accordo
tedioso?... Sicuramente finché la molla non si
sarà scaricata, scema!... Ma per quanto
ancora? E’ questo il suo primordiale pensiero.
Strano concetto, inconcludente. Intanto di fuori
il vento asserisce. Percepisce la sua voce in
sottofondo e vorrebbe rispondergli. Non lo fa.
Ode dei rumori. Un leggero subbuglio. I
fantasmi del luogo ogni tanto si fanno avanti.
Frusciano, scuotono. Talvolta pure lei.
Ma sta sognando o… riflettendo? Lo stato di
coscienza non è stato ancora totalmente
acquisito e solo nel successivo dormiveglia si
accorge come il torpore la stia lentamente
abbandonando, riportando la mente e il corpo
ad una realtà più vivida che mai. Tutto si
risveglia. Tutto tranne una cosa. Cavolo, non
mi sento più le dita… Il formicolio che da
qualche secondo le rende insensibile una mano
le fa intuire di aver dormito con il braccio in
posizione anomala, magari tenuto schiacciato
da qualche parte sotto il suo stesso peso.
Cercando un po’ di sollievo si gira sul lato
39
opposto,
sfregandosi
intanto
l’arto
addormentato. La riattivata circolazione
sanguigna rende tutto più semplice. Clic…
Clac, Clic… Clac, Tum-Tum, Tum-Tum.
Concentrata e con gli occhi socchiusi
percepisce pure il cuore martellarle in petto
nella gola e sulle tempie, forte e sonante come
colpi di grancassa che scandiscono un ipotetico
ritmo. Prova a confrontarne la regolarità con
quello marcato dallo scorrere dei secondi.
Ottimo pensa, galoppano in perfetta sincronia.
Un altro sottile scricchiolio. Proviene dai
travi del ballatoio. Un rumore che ben conosce.
La frenetica marcia degli inquilini di sopra,
quelli che vanno e vengono a loro piacimento,
che attraversano gli spazi in un lampo e un
secondo dopo già più non senti. Possono
passare minuti, anche ore magari, o giorni
interi perfino, robe che tu dici sarà la volta
buona? Dio, fa’ che sia la volta buona. Ma,
come quando il brusco risveglio distrugge una
dormita straordinaria, improvvisamente, senti
le travi che: giù di nuovo a mietere quelle corse
febbrili.
I
ghiri.
Porcadiquellaeva!
Stramaledette bestiacce! Devo inventarmi
qualcosa prima che mi si frulli il cervello.
Gli scalpiccii e gli scricchiolii del ballatoio
avrebbero potuto destare a chiunque un pizzico
40
di allarmismo, ma questa mattina non sono
sufficientemente bruschi da far impensierire la
ragazza o, perlomeno, non più del dovuto. E’
troppo assorta ad ascoltare la musica del
proprio corpo: una tale composizione di note da
assimilarla a una melodia.
C’è sempre un momento in cui capisci con
minima probabilità d’errore di essere più
sveglio di prima. Quel baleno improvviso è
arrivato. E si porta sotto braccio una
considerazione.
Spalanca gli occhi.
“Ma è una melodia!”
C’è musica in sottofondo. Vera musica.
Proviene sicuramente dalla cucina, al piano
terra, la prima stanza in cui ci si imbatte
entrando in casa, una di quelle musiche
ascoltate nei salotti della vecchia borghesia,
tirate fuori un po’ stonate dal megafono di un
annoso grammofono a manovella. Nonostante
le note impresse nel vinile vengano catturate
dal congegno meccanico e poi trasmesse
all’altoparlante in maniera alquanto distorta,
riconosce chiaramente la melodia di quel
brano: senz’ombra di dubbio i suoi timpani
sono stimolati dall’orchestrale interpretazione
di Il bel Danubio blu, celebre valzer viennese.
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Un pezzo speciale, uno dei tanto ascoltati da
suo padre.
Ma chi può aver acceso il giradischi dato che
l’unica persona ad essere in casa sono io? Che
qualcuno si sia intrufolato in cucina mentre
stavo dormendo? Ricorda benissimo che gli zii
avevano caricato, un paio di giorni addietro,
alcune vettovaglie sul loro carretto e si erano
diretti a Rovereto per dipanare certe importanti
commissioni. Era intenta a rassettare la casa
quando, la settimana precedente, in modo del
tutto involontario captò le loro voci provenire
dalla strada.
“Con
questo
possiamo
tirare
a
cinquantadue… Anche cinquantatrè.”
“Come minimo… Non un centesimo di
meno… Cinquantacinque mi sembra ancora un
prezzo ragionevole… Parti alto che poi per
calare le braghe siamo sempre in tempo… In
più ci stanno i trenta che ci restano i
Galvagni… Cerca di farteli dare tutti stavolta.”
“Se non si fanno vivi anche questo mese
vado fin sotto casa e… gli faccio vedere io con
chi hanno a che fare…”
“Non sei capace di ciò, Alfredo.”
“Tu non mi conosci…”
“…”
“Quel che è giusto è giusto.”
42
“…”
“Perché non dici niente, Luigia? Non credi
alle mie parole?”
“Staremo a vedere. Intanto a noi ci
mancano… e loro la legna se la sono goduta,
però.”
Parlavano di soldi, di una riscossione rimasta
insoluta nella precedente vendita autunnale di
svariati quintali di laste di faggio, e che i
cittadini moderni sono sempre più indigenti,
oltre modo sfacciati e prepotenti. Allo stesso
tempo avrebbero arrotondato vendendo ai
mercati di fondovalle i salumi di propria
produzione. Durante il periodo natalizio era
stato sacrificato il lardoso verro, allevato nella
porcilaia del Casaro con la sacrosanta
intenzione di trasformarlo in eccellenti salami
caserecci. La sua carne tritata, resa ancor più
gustosa da una saggia mistura di spezie e erbe
aromatiche dosate ad arte, era servita a
riempire decine di sacche intestinali tutte
rigorosamente annodate alle estremità con il
robusto spago di canapa. Per la prima volta in
vita sua aveva voluto essere lei stessa lì
presente per tutto il tempo occorso alla
macellazione, e nel suo inconscio rivedeva ora
la sgradita scena della mattanza: tutto quel
sangue, gli animaleschi urli e… la povera
43
bestia in preda al demonio. Quando lo zio
Alfredo e i vicini di casa Umberto e Giovanni
Raoss afferrarono il maiale per la coda, le
orecchie e le zampe e lo rovesciarono sopra lo
scotennatolo, l’animale emise un urlo da far
saltare i timpani. Allora si sentì montare dentro
una specie di ribollimento, e il nauseabondo
fetore della morte in attesa le diede il
voltastomaco. Si sarebbe messa pure lei a
strillare come quel corpo che strattonava in
ogni dove, pur essendo trattenuto da robuste
ganasce di legno. Avrebbe voluto scappare dal
mattatoio e dissociarsi alla disumana
esecuzione di quel grasso suino, ma qualcosa la
faceva desistere alle proprie istintive
intenzioni. Anche se non ce la faceva a reggere
davanti a quella tribolazione non doveva darlo
a vedere, non era più una ragazzina, e la vita da
adulta comporta momenti poco piacevoli,
spregevoli ma necessari. Meglio cercare di dare
una mano e, piuttosto, se proprio non avesse
sopportato, voltare la faccia dall’altra parte e
far finta di niente. Umberto, che sapeva fare il
suo mestiere come nessun altro, impiegò un
istante ad affondare il coltello nella giugulare
della bestia che, con strazianti grugniti,
schizzava sangue come acqua pompata a pieno
getto. Immediatamente Giovanni si munì del
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paiolo preposto ai piedi del tavolo e raccolse
tutto quello che sgorgava dal pingue collo
roseo. Lo avrebbe usato in seguito per fare i
sanguinacci che solo a lui riuscivano così
buoni. Intanto, le pupille della ragazza erano
braccate da quella scena orripilante, e
cercavano una via di fuga come prede rincorse
da una muta di cani ringhiosi. Ma non
trovavano scappatoie: il territorio era troppo
ristretto e, senza saperlo, erano finite in
trappola. Avrebbe preferito piangere, ribellarsi
e fermare le intenzioni criminali degli aguzzini,
ma era a conoscenza di quanto tutto quello che
stavano realizzando fosse necessario. Lo zio e
gli altri sapevano il fatto loro, e sicuramente il
dover sacrificare un animale che avevano
cresciuto in casa con amorevole dedizione era
imposto unicamente dalla sacrosanta necessità
di sostentamento. Era stato proprio il senso di
impotenza che le aveva dato la forza di
rimanere irremovibile all’interno di quel locale
e, attonita, si prodigò in un silenzio distaccato,
che era tutto dire in mezzo a quel trambusto.
Condivise minuto per minuto le ragioni di una
morte procurata e voluta perché così è deciso,
regole dettate dal codice della sopravvivenza e
controfirmate con schizzi di sangue sul muro
che scendevano verticali come stigmati fluenti
45
dal corpo di un santo. Scelse allora di puntare
un’angolazione diversa ma, nel girarsi, i suoi
occhi incrociarono lo sguardo atterrito del
maiale. Da lì non fu più capace di staccarsi.
Avrebbe giurato che la bestia la stesse
implorando e tra quei grugniti si celasse la
supplica un soccorso, di un aiuto, una minima
speranza di salvezza; e lei invece che cosa
aveva fatto? Col groppo in gola, aveva chiesto
a Giovanni se poteva lei stessa raccogliere il
sangue nel paiolo. Ecco che cosa era riuscita a
fare la gran dama: una vigliaccata, una
pugnalata alla schiena. Fredda e spietata,
esattamente come può esserlo certe volte la
vita. E lo tenne ben saldo quel paiolo,
premurosamente contro la mesa dove il sangue
fiottava a fontana, malgrado avesse perso il
vigore iniziale, sforzandosi di ben osservare
l’apatico grifo dell’animale morente. Il bestiale
sacrificio affidato all’uomo e alla sua
discendenza. Carne che in futuro avrebbe
nutrito intere famiglie; non era lei che aveva
deciso tutto questo ma la natura stessa, quindi,
perchè farsi pigliare dai sensi di colpa?
Gli urli si fecero sempre più deboli e anche le
scosse di quella massa rosa si affievolirono
fino a che, cessata la scolatura dal collo, il tutto
s’accasciò sul tavolato. Sembrava una sacca
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svuotata del contenuto, la bestia, una vescica
flaccida e livida.
Appoggiò il contenitore sopra il tavolo. Era
colmo di sangue fino all’orlo. Lo adagiò
preoccupandosi di non spanderne troppo. Si
sedette stremata per la fatica e la tensione del
momento. Anche se vacui, gli occhi del
cadavere le stavano sempre addosso.
Ancora adesso di tanto in tanto la notte si
ritrovava sveglia per le palpitazioni. Le si
profilavano immagini riproposte. Le partiture
erano sempre le stesse. Zampe che scalciano,
grugni contratti in smorfie diaboliche, fili di
bava che insudiciano il pavimento, e tutto
intorno un lago di sangue. Quante volte in
sogno rivedeva lo stesso sguardo cieco e le
stesse disciolte pupille mostrate quel giorno
dall’animale agonizzante, e le rimbombavano
in testa i grugniti supplichevoli che lei stessa
aveva contribuito a placare definitivamente.
Non coglieva odio in quello sguardo, ma solo
pietà verso il genere umano.
Giunti a quel punto, gli uomini s’erano
preparati per la raschiatura della cotenna e per
il vero e proprio rito della macellazione;
un’arte imparata con l’esperienza e la costanza
di chi ci mette il cuore nel fare il proprio
lavoro. La giusta stagionatura avrebbe fatto il
47
resto, trasformando il macinato in prelibatezze
d’alto rango. Con questo risultato, sarebbe stato
difficile trovare nelle piazze cittadine
acquirenti immuni ai peccati di gola. Col
ricavato si sarebbero riforniti di generi di prima
necessità come pasta, olio, farina e zucchero.
Viveri difficili da recuperare malgrado la
ridente cittadina si offrisse al commercio e al
consumo; addirittura introvabili nella più
disagiata e impoverita valle trentina. Se tutto
scorreva via liscio e senza intoppi, non
sarebbero ritornati prima di venerdì
pomeriggio. Venerdì mattina a mettercela tutta.
Ed oggi, se non ricorda male, è appena
mercoledì.
Sente il cuore portarsi in temperatura e il
respiro a darci dentro. Ventilare, ventilare,
ventilare. E giù a soffiare, inalare e soffiare,
inalare e soffiare… mantice inefficace, del tutto
incapace di mitigare l’agitazione che le attizza
lo stomaco. Ventilare, ventilare, ventil…
Sì, sono sicuramente gli zii che per qualche
motivo sono stati costretti a fare rientro a casa.
Doveva trovare una motivazione plausibile.
… are, ventilare,ventilare, ventil…
C’è stato un imprevisto e durante la notte
hanno dovuto rincasare. Ma che stupida, stavo
dormendo e non potevo certo essermi accorta
48
di nulla. Risposte sempre meno convincenti.
Ma sì, non poteva che essersi svolta così la
faccenda. Ma c’è sempre qualcosa che le
sfugge, non capisce cosa.
…are, ventilare. Temperatura in aumento!
Ventilare per Dio!… Forza!...
Il disco suona… suona… suona… non smette
mai.
Sono felice che si siano ravveduti. Dover
rimanere in casa da sola per tutta la settimana
sotto un certo aspetto le aveva incusso un po’
d’angoscia. Però adesso sono tornati e stanno
qua con me… vero? Maledizione, sono loro di
sotto. E chi altro?
In quel momento, come il Verbo fece con
Mosè, tutto le si rivela. Non servono scene da
baraccone o giochi di puro illusionismo, con lei
basta e avanza una semplice constatazione, una
cosa da nulla ma sufficientemente efficace per
bloccarle respiro, circolo arterioso e parte di
quello venoso: Ma il nostro grammofono sono
anni che non funziona!
Se non lo si arrestasse, l’evoluzione naturale
di quel sentimento che fino a qualche istante
prima si poteva classificare come ‘avvertita ma
misurata curiosità’, sarebbe quella di gonfiarsi,
allargarsi, incrementarsi, ingigantirsi, una di
quelle cose lì insomma, ma non piano piano,
49
magari prima chiedendo: “Compermesso”. Eh
no! Sarebbe bello poter dire ‘ecco che arriva:
prepariamoci!’ no, lo fa tutto di colpo lui il
botto, BOONG! ed è fatta. Una specie di
implosione interiore tanto per capirsi. E allora
lo senti che ti prende la gola, il mostro, e
l’orrenda creatura diventa indomabile come
irrefrenabile diviene lei stessa, sotto le lenzuola
– di un letto – in una stanza – strappata alla
notte – raccolta dall’alba – di un freddo –
arioso – mattino – d’inverno.
Non lo sente approdare, lo sente e basta. E
quello che prova è qualcosa di molto agitato,
più vicino alla paura che alla sola apprensione.
“Zia Luigia, zio Alfredo…siete voi?” sibila
con voce asprigna, pungente, ma minima. Non
ode risposta. Stesso tono: “Chi c’è di sotto?”
Niente. Nessun rumore inconsueto, da casa
momentaneamente disabitata. Soltanto quella
musica storpia; pazzesco. E’ bastato il muto
responso a un quesito inconsiderato per
spremere dalla sua mente ancora acerba mille
azzardate ipotesi. Alcune probabili, altre
assolutamente assurde.
Alla stessa maniera, il fiume di note che
sgorga deliberatamente dalla fonte di un
qualche diabolico marchingegno oltrepassa le
porte ed esonda nelle stanze, livellando ogni
50
spazio occupato con una sfacciata, insolente
musica austriaca. Oltretutto anacronistica e
fuori moda. Avrebbe voluto una volta per tutte
alzarsi e capire cosa cavolo sta succedendo giù
al piano terra, ma la sua testa tutto confonde e
il suo animo perde coraggio. Qualcosa di
misterioso la trattiene dentro quel letto,
pervicacemente, forse perché per il momento lo
trova il posto più sicuro al mondo. Cerca il
lembo del lenzuolo e lo tira su, fin sopra gli
occhi, poi istintivamente rannicchia le gambe
stringendosele con le mani. Quel letto, grembo
materno portatore di feto. Tiepida impronta di
fossile incastonato nel sasso. Solido guscio che
protegge, fa da clipeo e salvifica. Chiude gli
occhi, si tappa le orecchie. Non vuole vedere e
non vuole sentire. Ma tra il dire e il fare c’è
sempre di mezzo quella maledetta melica.
Ho capito, è tutto un sogno! Io sto dormendo
e quello che mi sta capitando non è altro che
un semplice, stupido incubo. Sono andata a
letto troppo presto ieri sera e la cena mi è
rimasta sullo stomaco…ma certo, che idiota…
non potrebbe essere stato altro che questo.
Si rigira, strabuzza gli occhi, sospira. Sarà
veramente soltanto un sogno?
E come per incanto la musica cessa. Il
silenzio si sarebbe impadronito del luogo se
51
non ci fosse lo screziato graffiare della puntina
sul disco. Sopraggiunto alla fine del brano il
piatto gira a vuoto, esalando una ruvida
monodia. Emette solo un flebile gemito,
ripetitivo. Strano quel verso, ipnotico
singhiozzo. Dopodiché anche la molla perde di
carica e, dopo un mezzo giro del vinile, tutto il
meccanismo si ferma, stabilizzando un silenzio
quasi innaturale.
Finalmente, pensa lei.
Per meglio sincerarsi solleva la testa dal
cuscino, allargando notevolmente il campo
visivo. Quanto le piace la lentezza del suo
mondo, la falsa immobilità di quell’universo.
La ritrovata quiete la mette a suo agio. Ave a te
Madonna benedetta invoca mentalmente. Ma è
sola parvenza. Sì perché le osservazioni si
spezzano in un attimo, producendo lo schiocco
pulito e nitido di un ciocco di legno che
esplode tra le vampe. I suoi occhi vagano per la
stanza semibuia e si fermano, istantaneamente,
bloccati nell’angolo più lontano, dove le ombre
dei faggi scosse dalla brezza mattutina danzano
scomposte nella luce madreperlacea che entra
dalla finestra. E lì vi restano, come presi in
ostaggio.
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Le ombre formano una figura, laggiù.
Laggiù c’è un uomo.
La invade un terrore grande come mai ne
aveva conosciuto. Il panico, che le aveva
temporaneamente svuotato la capoccia, sta ora
rimbalzando sulle pareti di una teca cranica
bersagliata dagli input più assurdi. Dal glottide
non le sfugge alcun lamento, nemmeno il
gemito più debole. Si ritrova incapace di
produrre suoni non meno di quanto sia in grado
di formulare pensieri. I muscoli del collo, delle
braccia e delle spalle, le si sciolgono in
qualcosa di molto simile ad olio di paraffina.
Scivola sotto la testata del letto, lentamente,
cercando la protezione del cuscino e
rannicchiando le gambe, consapevole che il
vuoto mentale e l’assoluta incapacità fisica
potrebbero produrre danni peggiori di un
blackout.
La figura resta immobile, nascosta
nell’ombra della stanza. Sembra non abbia un
viso, un’espressione, è solamente un’entità
astratta che gioca con le movimentate
luminescenze provenienti dall’esterno e forma
obliqui disegni sui muri. Chi sei?, avrebbe
voluto gridare, che vuoi da me? Cosa ci fai
qua? Ma non riesce a formulare alcuna frase.
53
Continua a fissare quell’essere, incapace di
togliergli lo sguardo di dosso, ed è come se
guardasse il nulla. Solo una cosa nota
chiaramente: la forma dell’oggetto che lui
impugna. Un filetto bianco, lucente. Forse un
coltello.
A quel punto le mascelle del terrore si
schiudono, lasciando intravvedere la cavità
orripilante da cui viene inghiottita. Il fiato
s’inspessisce. Mille puntini argentati le
annebbiano la vista. Blackout! Non sa per
quanto tempo sia rimasta priva di sensi,
sicuramente solo qualche minuto. Questo glielo
riferisce la ragione, quando al suo risveglio
scopre che il liquido caldo che le bagna la
coscia è conseguenza del liberarsi della sua
vescica.
Il tramestio del vento che sbatte sul muro non
aiuta. Scricchiolii di cardini, spifferi gelati,
brividi sulla pelle. Sulle ciarle di Eolo
rammenta la situazione in cui si trova.
Si ridesta in lei un esile tentativo di pensiero
subito ostacolato da una muraglia di paura nera
e informe.
Un uomo. C’è un uomo in camera mia.
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ieri
A mezza valle sorge un paese. Uno dei tanti.
Una pennellata di tetti ocra sopra una tela verde
di pascoli e cortili. Una manata di case. Confini
definiti. Muri contro muri, grondaie sopra
grondaie, un susseguirsi d’ingressi. A tratti uno
slargo, qualche fontana, animali da cortile, un
garbuglio di lingue acciottolate che si
districano e s’allontanano. Il perfetto
svolgimento della sinfonia che il tempo dirige e
l’umanità intera esegue. La storia che si
prosegue da una vita. Ininterrottamente. Agli
occhi di Dio quell’insieme rurale potrebbe
sembrare un monile, un infilato di minuzzole
perline bianche, ma a Lui che tutto vede e tutto
sa, non si può certo nascondere che esse sono
umili case, nate dalla pietra dei monti limitrofi
e cresciute col sudore di chi vi abita. Fustigato
per gran parte dell’anno dal vento del Sud, non
55
ha mai fatto cenno di resa, anzi, la tempra del
suo spirito è resa solida grazie alla mano
vergata di una natura severa, intollerante. Più
batte più rafforza, più si rafforza meno sente
che batte, solidificando in quel modo lo strato
calloso posseduto delle sue trecento anime.
Nonostante ciò, questo lo rende piuttosto simile
a centinaia di altri piccoli agglomerati montani
che popolano i declivi alpini, ma solamente a
chi lo conosce veramente – e vi risiede da
tempo – esso si rivela per quello che è,
mostrando una bellezza che al distratto rimarrà
per sempre occultata. Tante, troppe persone
sono state costrette per i motivi più disparati ad
attraversare in lungo e in largo le sue anguste
vie, ma quasi sempre in maniera frivola,
affrettata. Solo poche di loro hanno avuto la
possibilità di goderselo pienamente. Poterlo
contemplare nel suo intimo è un’impresa
faraonica. Riuscire a stanarne l’animo lindo,
gentile e ordinato: un progetto ambizioso. Non
parliamo poi di compiacersi al conseguimento
di uno sguardo rivolto al sole; questo voleva
dire dedicare un bel po’ del prezioso tempo
proprio che, spendendolo per star lì ad
aspettare, scrutare, osservare, estrapolare, non
per tutti è considerato investimento. Peccato,
perché nei giorni di primavera è una giovane
56
donna affacciata al balcone, e il balcone
un’esplosione di fiori dai mille profumi e colori
a ridosso di svettanti monti rupestri. D’inverno
è un’anziana signora coi bianchi capelli brinati
e lo scialle innevato che le avvolge le spalle,
tutta raccolta nel suo piglio e piuttosto
introversa.
E dinanzi a ciò, lo sguardo svanisce nella
distesa di una valle lenta, solenne, la quale
soddisfa i capricci di un burbero torrente che
sconquassa con la sua esuberanza il tedioso
romitaggio del bosco.
Anghébeni è proprio così: ha una sua
bellezza segreta, una sua vita. Eppure non è
altro che un piccolo paesino d’altura, con pochi
abitanti, testardi e scontrosi com’è solita la
popolazione alpina. Il carattere della gente
rispecchia le gelide e interminabili serate
invernali, dove si sopporta l’insopportabile e il
conforto lo si riceve dal silenzio ovattato che
ricopre le sue strade. Intanto l’aspettare
corrode. Eh sì, l’aspettativa è una delle sfide
più dure da affrontare, lassù. Aspettano i campi
il disgelo. Aspetta il bosco il sole più mite.
Aspetta l’uomo che transiti la notte. La notte.
Ma prima che tutto questo avvenga le
antropiche ombre si susseguono, incalzano, si
trascinano, smorzano il rumore dei loro passi
57
dentro un unico e candido ammanto nevoso. Si
muovono frettolose con i sacchi neri in spalla.
Spallacci e corde di canapa a vincolarne il
carico. Vestono di panno pesante e sputano aliti
vaporosi che condensano al freddo polare
dell’inverno trentino. Fuori tutto tace ma le
finestre, quelle finestre, svelano. Le cornici
illuminate dalle lampade a petrolio riferiscono
un lieto brusio. Il sommesso vociare casalingo
tiene desta la famiglia e ravviva quel senso di
fratellanza e di amicizia che brucia e schiocca e
arde e brilla sotto ogni tetto, e tutto quel
tripudio che sale, investe, pigia, avvampando e
scintillando come uno sprizzare di faville nel
caminetto.
Ebbene sì, è lì dentro che la magia s’avvera.
Le case si svestono, cambiano d’abito e tutte,
ma proprio tutte, sia le vecchie che le nuove
abitazioni si ricoprono di dignità e di pudore.
E’ semplicemente mondo.
In cui si nasce.
In cui si muore.
“Dell’acqua tiepida, fate presto.”
“Qualcosa
di
pulito,
cristosanto.
Muoviamoci!”
“Ho bisogno di un catino, signor Cobbe. Un
catino.”
58
“…”
“E non stia lì impalato. Veda di rendersi
utile, si sbrighi. Un catino e acqua tiepida,
subito!”
“Ma…”
“Mhmmm! Ahaaa!”
“Forza… non abbiamo tempo da perdere.
Anche lenzuola e coperte pulite.”
“Certo… arrivo.”
“Le forbici nel bollitore sono pronte?”
“Un attimo… non so’ neanche cosa sia io un
bollitore!”
“SIGNOR COBBE! la prego, forse è meglio
che rimanga di là. Lasci fare a noi.”
“Va bene, va bene, purché non si arrabbi,
signora Ester.”
“Dov’eravamo rimaste? Ah… ecco…”
“Mhmm…”
“Ecco la testa… la vedi, la testa?”
“Preparati, Armida, siamo arrivati al
nocciolo.”
“Io sono pronta, Ester. E lo deve essere anche
’sta poveretta. Ancora una spinta, Francesca.
Dài, da brava, ancora una spinta.”
Era stremata, Francesca. Ma l’esasperata
voglia di separarsi da quel supplizio
infervorava in lei la volontà di impegnarsi in
una nuova prova di forza. La contrazione la
59
sentì arrivare, ed era forse peggiore delle altre,
come stesse per essere infilzata su un
gigantesco arpione usato per la pesca alla
balena, un’artica punta ricurva infilata
nell’addome e poi fatta girare e rigirare perché
meglio possa penetrare. Partendo da dietro, si
capisce, dalla parte rettale.
Spinge e contrae il suo ventre, Francesca, in
quella notte di pioggia incessante. Come melo
maturo pronto a cedere il suo frutto, ormai. Un
salto a capofitto nell’abisso profondo. Sì,
perché è così che ci si propone al mondo: un
tuffo di testa nell’oceano della vita.
“Cristo quanto sangue.”
“Benissimo, Francesca, brava, così. Ancora
dài, su.”
“Ahaaa! Mhmmm!”
“Dell’acqua fredda, subito! Ghiacciata!”
“Ma… è normale tutto questo sangue?”
“Arriva l’acqua fredda? Veloce. E le forbici.”
“Mettimi meglio il lenzuolo… più sotto…
PIU’ SOTTO HO DETTO!”
“Ci siamo Francesca. Così… così… Prendi
da lì, Armida. Così… Perfetto. Ecco… bene,
la testa è uscita.”
Con la faccina fra le mani fece un leggero
movimento rotatorio.
60
“Ancora una, Francesca. Dài. L’ultima, te lo
prometto. Respira e spingi.”
“Ahaaaiii!”
Urla di dolore di una donna distrutta, sul
quale tavolo di quercia allineava i suoi lamenti
per poi rilanciarli, tutti insieme, contro a un
anonimo soffitto di calce e paglia. Urla di sfogo
di donne in movimento, sudate, agitate,
impegnate in un lavoro sporco ma, se ben
sviluppato, pure gratificante. Lacrime di gioia
di un futuro padre, seduto nella stanza
adiacente, con le mani impegnate a torturare il
solo bottone rimasto attaccato alla giacca.
L’unica persona al mondo, in quella piovosa
sera d’estate, a non essere in grado di
combinare nulla.
“Femmina. E’ UNA FEMMINA!”
“Una bambina, bene. Dio sia lodato, sembra
tutto a posto. Ma guarda che carin…”
“Tagliamo e tamponiamo. Facciamo presto.
Non abbiamo poi tutto ’sto tempo.”
Non ci pensarono su troppo. Furono svelte,
affidatarie di una sveltezza che solo anni di
esperienza può impartire. Tagliare e annodare
fu quasi un tutt’uno.
“Ora piangi, bella. Piangi… piangi…
PIANGI!”
61
Il primo respiro trova porte serrate. Le apre e
corre via come un matto; attraversa corridoi e
stanze sigillate, svergina trachee e violenta
bronchi immacolati: un reticolo di canali messi
lì per essere inondati. Alimenta cellule
alveolari che prima erano branchie, e adesso
sono alveoli: scambiatori di gas respiratorio. E
fa male tutto questo, la prima volta. Fa un male
cane.
Allora pianse.
Furono musica i suoi vagiti. Musica emessa
da uno strumento appena improntato, musica
mai suonata prima, musica nuova.
S’abbracciarono,
le
levatrici.
Si
congratularono. Si felicitarono prima tra loro,
poi con i neogenitori. Infagottarono la bambina
e la presentarono al padre, che ormai, a furia di
tirare, se l’era già bel che staccato quell’ultimo,
benedetto bottone. Incredulo, sostenne qualche
istante quel corpicino semi raggomitolato. Se
lo tenne in braccio una piccola, intensa,
gradevolissima frazione di tempo, eppure gli
parve di sorreggere l’eternità intera.
Non si riesce a capire quale sia la formula
esatta, quella la cui interpretazione lessicale
viene descritta come insieme di parole imposte
da una consuetudine legale o rituale che si
pronunciano nel corso di determinate
62
circostanze. Si sa soltanto che, arrivati a un
certo punto, bastano quattro parole, quattro
precise parole e le certezze radicate vengono
spiantate, divelte, estirpate. Il futuro prefissato
siede sulla parte iniziale dell’asse ed ha un suo
peso. All’estremità opposta c’è il presente che,
guarda caso, ha lo stesso peso del futuro
prestabilito. Il fulcro è il destino. Al centro
dell’asse c’è una biglia di vetro: la nostra vita.
Così come descritto tutto sembra perfetto.
L’equilibrio dell’esistere. La risolutezza della
vita con uno sguardo al presente e uno al
futuro. Il passato è passato, ramazzato, tirato su
e portato nella discarica dei concetti: se non nei
ricordi non ci si preoccupa più. Però ogni tanto
il destino fa il bischero ed emette la formula.
Una maledettissima espressione rituale che,
non trovando niente di meglio da fare, va a
sedersi su una delle due estremità dell’asse,
indifferentemente a fianco del presente o del
futuro che sia. A quel punto non serve che
venga spiegato cosa succede: dovuto ad uno
squilibrio di peso l’asse si inclina. Le strade
percorse, strade per un certo qual verso
ritenevamo sicure, assimilate con l’educazione,
l’età, la scuola, tutte quelle robe lì insomma,
l’assoluto equilibrio del nostro essere per
chiarire la questione, in quel preciso istante
63
divergono pigliando le direzioni più assurde; le
più comode sicuramente, ma che per la
maggior parte dei casi non sono le più
azzeccate, e prendono una velocità tale che a
fermarle sono cazzi. Ed ecco la nostra biglia
lanciarsi lungo quel piano inclinato, a rotta di
collo e allora, a quel punto tutto diventa
un’incognita. E’ angosciante certo, ma alle
volte capita. Ed è strano quando arriva. Quello
in cui si è fortemente creduto, quello a cui ci si
attacca, è completamente messo in discussione.
Una formula. Quattro insiemi di lettere messe lì
a costruire una frase, neanche poi tanto
articolata per giunta, e tutto barcolla. Non è più
cosa certa un valore. Non è più cosa certa un
merito, una qualità. Dopo un idioma del genere
ci si riversa dentro uno scombussolamento
devastante, come un maremoto che fa crollare
le palafitte del prestabilito. Fatto sta che il
valore di una certezza venne a mancare tutto di
colpo quando dalla bocca di una delle levatrici
fu emessa una semplice frase. Una stupida,
inaspettata, malaugurata frase:
“Ci serve un dottore.”
Un interrogativo si piantò dritto nel cervello
di Pietro.
“Un dottore?.. A cosa serve un dottore?.. La
piccola mi sembra stia bene. Guardate e ditemi
64
voi se non sta bene… forza, guardate!.. E’ sana
come un pesce, la piccina, sentite come
strilla… Ha fiato da vendere, lei… Osservate
che nervo!.. tutto un movimento… No, no, sta
benissimo… io non me ne intendo di certe cose
ma immagino si capisca quando uno necessiti
di terapia.”
Lo sguardo delle donne non proclamava un
concetto schietto. Bisognava arrivarci.
“Ma… scusate tanto… ma, io… credo di aver
frainteso… vi chiedo di perdonare la mia
ingiustificabile pedanteria nell’afferrare la
questione, ma… non vi sentite bene? Avete
bisogno di cure?”
Le donne non capivano cosa stesse
farneticando.
“Sua moglie, signor Cobbe. E’ urgente!”
Eccola la stonatura. La steccata. La nota
sbagliata nell’esattezza di una musicalità
estiva.
Assomigliava a una sorta di zirlo, quel suono,
una fattispecie di sibilo estromesso dal dentro
devastato della puerpera, come scaturito da un
congegno grippato. E tutto quel plasma a
sporcare la purezza immacolata di un lenzuolo
e a decolorarle il volto. Tutto un travaso di
materia solida prima, e liquida a seguire. E lo
65
spirito bendato a farsi un giro sull’orlo del
canyon.
Picchiata dal temporale la casa vedeva,
elaborava e riferiva.
Le altre case seppero e a loro volta
raccontavano.
Ben presto le contrade tutte conobbero, ma
non si intromisero. Rimanendo così,
osservatrici e conservatrici di una preghiera
mai recitata.
E’ stato tra i muri di quella casa che Donata
Cobbe, un po’ per costrizione un po’ per scelta,
da oltre ottant’anni aveva intrapreso il
trascorrere della sua vita. Sembrava scatenatosi
il secondo diluvio universale quando le pareti
della camera da letto l’avevano vista nascere e
irrompere con temperamento su questo pianeta.
Malgrado non potesse ricordarlo, sicuramente
di quella notte come di mille altre senza
memoria conserva tuttora una fragrante
sensazione: l’avvolgente profumo dei fiori di
gelsomino. Ha sempre associato casa sua al
gelsomino. In giardino un’agguerrita siepe
formava una barriera naturale che ogni anno
combatteva conquistando territori sempre più
ampi. E poi c’era il fieno, di certo il primo
odore percepito dato che costituì il suo
66
primitivo giaciglio. Un profumo amaro e
sporco di sangue. Il sangue di sua madre.
L’emorragia massiva conseguente al parto se
la portò via senza esserle stato concesso il
ricordo del suo viso, il colore dei suoi occhi, la
forma delle sue labbra, l’imprimersi della sua
voce. Sopra il letto imbrattato di liquido
organico e placenta, qualcuno spegneva la
tremula fiamma che alimentava la vita di una
mamma la quale aveva appena donato la luce
alla sua primogenita. La gioia del parto non era
bastata a restituirle la forza necessaria per
contrastare una complicanza succeduta in
un’epoca in cui la medicina stava ancora
percorrendo sconfinati campi inesplorati.
Era stato un travaglio terribile durato una
giornata intera, poi, subito dopo aver figliato, le
cose si aggravarono irrimediabilmente.
Nessuno sapeva più cosa fare. Le levatrici si
superarono mettendo in atto ogni soluzione
plausibile raschiando anche il fondo del barile
della loro competenza, ma purtroppo non
possedevano la formazione sanitaria che
l’intervento in quanto tale richiedeva. Arrivata
a un certo punto Francesca crollò, e come una
foglia al vento si lasciò trasportare al suo
destino. Le sue ultime parole furono rivolte al
marito.
67
“Donata” sussurrò.
“Come hai detto, tesoro?”
“Donata. Voglio chiamare così la bambina.”
“Ma non era stato deciso per Anna come la
madre della Madonna? Credevo ti piacesse.”
“Penso che Donata sia il nome giusto, perché
questa piccolina è il dono che il Signore ha
voluto affidarci quest’oggi”.
“Donata: molto bello. Sarà sicuramente
questo il suo nome.”
“Voglio vedere la mia bambina, voglio
toccarla… non credo di aver tantissimo tempo
per farlo.”
“Di tempo ne troverai a sufficienza quando
starai meglio. Adesso arriva il dottore e vedrai:
ti rimetterà in sesto in un batter d’occhio. Avrai
un mucchio di cose da fare quando riacquisterai
le forze!”
“Sto male, Pietro. Mi sento debole…
sfinita… Perdonami, Pietro, se non ce la faccio
perdonami.”
“Eh no che ti perdono!, le sconterai tutte al
momento opportuno, lo giuro. Intanto cerca di
guarire che qua siamo in due adesso ad
aspettarti.”
“In tre.”
“...?”
68
“In tre. C’è anche la donna vestita di nero, lì
tra voi, che se la ride di gusto.”
“Vaneggi. Lo capisci che vaneggi? Cristo
santo: stai delirando. Ti ho detto che non puoi
lasciarci ora! Sant’iddìo! Promettimelo.
Promettimi che non ci abbandoni qui sul più
bello. Lo so che a volte sono una persona
difficile, spesso insopportabile, e ti capisco: per
questo sei autorizzata ad andartene. Ma non
ora. Abbiamo il fieno da portare a riparo, le
patate da sterrare, le vacche da riprendere, il
tetto da sistemare, e adesso una bambina da far
crescere. Non puoi andartene ora. Dopo sarai
libera di farlo, ma non ora.”
“Lo vuoi un consiglio, caro il mio signor
Cobbe? Sbrigati a fare tutte ’ste cose.”
“Con calma, tesoro. Non c’è fretta.”
“Ora fammi stringere il mio angioletto, che
ogni minuto andato è perso.”
Teneva gli occhi velati di commozione, la
donna, e nonostante una serie di lacrime le
ostacolassero la messa a fuoco riuscì in qualche
modo a scorgere sua figlia: non era forse una
creatura celeste?
Faticò non poco ad allungare il braccio e col
movimento della mano a cercare il corpicino
della bambina. Quella piccina che tanto si
dimenava, e strillava così forte che sembrava
69
nei polmoni le si fossero liberati tutti i venti del
mondo.
Malgrado ciò, lo sforzo sostenuto ebbe un
successo insperato. La donna afferrò sua figlia
e la trascinò a sé. Se la strinse al petto con la
delicatezza che soltanto una madre certe volte
possiede; e la sentiva così vulnerabile, così
attaccabile, così tanto disarmata. Eppure
ardentemente viva.
Nel frattempo, le donne che l’avevano
svincolata dalla madre, pulita, avvolta in una
calda coperta di lana e affidata al padre, si
stavano più che mai preoccupando per lo stato
di salute della donna. Una situazione
gravemente compromessa dato che a causa
delle incessanti piogge di quei giorni, l’arrivo
del medico, distante in occasioni ordinarie
soltanto mezz’ora di cavallo, era stato
seriamente ostacolato per via delle inondazioni
derivate dallo straripamento del torrente Leno,
giù a fondovalle. Lui, il padre, rimaneva seduto
a bordo letto, cercando di dare il suo appoggio
come meglio poteva; non s’era fidato a
lasciarla sola nemmeno un istante. Neanche
quando Luigia, la moglie di suo fratello, vista
la situazione critica venuta a creatasi, si era
offerta per dargli il cambio.
70
“Cerca di riposare, cara” disse il marito. “Sei
ancora troppo debole.”
“Ma… è la mia bambina. La nostra bambina.
Ha bisogno di noi, adesso.”
“Lei ha bisogno di te non meno di quanto ne
possa avere tu ora” disse.
E su quelle parole l’ormai stremato cuore
della donna si ritrovò un ulteriore carico da
supportare: su di esso gravava ora anche il peso
dell’afflizione. Per lei quel muscolo aveva fatto
l’impossibile: vissuto momenti gioiosi, altri
disperati, aveva corso e s’era riposato, aveva
succhiato e spremuto plasma fin dal primissimo
battito; s’era perfino diviso in due segnando
l’inizio di una nuova vita, cosa di cui
comunque andasse era riuscito a portare a
termine. Adesso però la battaglia stava
assumendo dimensioni abnormi e la sua forza
si stava notevolmente affievolendo. Fu nel
preciso istante in cui il dottore varcò la soglia
di casa che gettò le armi sventolando lo
stendardo della resa. Fatto rimane che, dopo
sette ore dalla nascita di Donata, agli occhi di
quella donna tutto cessò di esistere.
Di lì a un mese avrebbe compiuto ventitré
anni.
71
Era l’inizio del ventesimo secolo e la
drammaticità di simili eventi rappresentava
cosa comune. La sopravvivenza vincolava la
gente al baratto: una vita in cambio di un’altra.
Donata era nata orfana di madre e all’inizio
sembrava, sotto tutti i punti di vista, anche
orfana di padre. Sì perché suo padre Pietro
Cobbe, assalito dallo sconforto si barricò in
cantina, da solo, rifiutandosi categoricamente
di uscire se non per espletare i fabbisogni
corporali. Suo fratello Alfredo e sua cognata
Luigia
valutarono
questo
esaurimento
improvviso come un atto esagerato,
inconcludente ed eccessivo; ma evidentemente
quattro anni di matrimonio non erano stati
sufficienti a sbollire l’affetto coniugale che
ancora lo legava alla sua povera sposa. Lui
l’amava. Amava il suo respiro, il suo profumo,
le sue gesta, perfino quei piccoli difetti, minimi
ma assai differenti dai propri. Amava la sua
freschezza e il suo disordine immaturo, amava
l’aurea che l’accerchiava. Le voleva bene più
del suo fucile, perfino più del suo cavallo. Ah,
se il cielo avesse concordato una tregua e il
dottore fosse arrivato in tempo per sanarla!
Ammutolito dal dispiacere e accecato dal
dolore, passava le giornate assorbendo
l’umidità di una cantina buia, insalubre, dove
72
soltanto un rettangolo di pino traforato lo
interferiva col tramestio del giorno e la
magnanimità della notte. E le notti che ci
passava erano nottate contrassegnate dal
bruciore di occhi arrossati puntati alla luna.
Deperiva a vista d’occhio. Le sue guance
sbiancavano giorno dopo giorno come un
animale al salasso. Non voleva più mangiare,
non gradiva parlare con nessuno. Smise perfino
di usare le latrine esterne, pisciando e
defecando all’interno del medesimo perimetro
in cui vegetava. Preoccupato, il fratello
interpellò lo stesso dottore che poche settimane
prima aveva ritardato il soccorso alla povera
partoriente. Questa volta il medico arrivò
solerte, e se ne andò ancor più velocemente
facendosi consegnare dei soldi in cambio di
una lunga lista di medicine. “Avrebbe bisogno
di consistenti cure ospedaliere piuttosto che
artificiosi intrugli d’erbe” suggerì la cognata al
marito mentre visionava la ricetta con aria
basita. In quei giorni la bambina dormiva e
piangeva come tutti i neonati del mondo e, in
braccio alla zia, poppava da un succhiotto
ricavato con budello di maiale il latte di capra
allungato con acqua e fiori di camomilla. Andò
avanti così per sei settimane e mezza. Chi a
badare all’uno, chi all’altra.
73
Finché, alla fine della sesta settimana, la
donna non ne ebbe abbastanza. Riscaldò il latte
avanzato, prese la piccola Donata dalla culla in
cucina, qualcosa di solido dal cassettone e si
diresse al seminterrato. Scese le scale sfilando
con passo deciso davanti al marito che la
guardava
esterrefatto.
Espresse
alcune
rimostranze, l’uomo, che però rimasero
ignorate. Furente, Luigia s’era lanciata dritta
alla porta dello scantinato, scalciando e
ragliando come un’asina isterica. Raggiunse
l’obiettivo e diede inizio all’assalto. Impugnò e
armeggiò contro la serratura bloccata, colpendo
più volte le specchiature della porta col
mattarello procuratosi di sopra. Al culmine di
quel trambusto la porta si aprì. Quando la
donna si trovò di fronte lo scheletro
ammorbante in cui s’era trasformato il cognato
Pietro, si bloccò lì su due piedi, non sapendo
bene se quello che stava facendo fosse la cosa
giusta. Fu solo un attimo, poi scacciò all'istante
quel pur savio pensiero facendo spazio alla
decisione filata al culmine di una lunga serie di
settimane estenuanti. Senza emettere sentenze
consegnò bruscamente il fagotto contenente
Donata e la ciuccia del latte alle ossute braccia
di Pietro, il padre legittimo. Gli scaraventò
74
l’involto in braccio avvalendosi della garbata
delicatezza adoperata da un boaro coi suoi tori.
Quando Pietro, aperta la porta, si ritrovò tra
le braccia sua figlia e di fronte quella donna
indemoniata, l’unica cosa che fu in grado di
formulare era stato un semplice interrogativo:
“Che c’è Luigia, sei ammattita?”
La donna lanciò un grugnito di sfogo prima
di sbattergli la porta in faccia, girare i tacchi e
andarsene, con l’eco dei passi furiosi che dal
seminterrato rimbalzava fin sotto le travature
del tetto. Tornata in cucina s’accasciò su una
sedia pagliata incrociando le braccia e tirando
un sospiro di sollievo. Alfredo non era neanche
arrivato alle scale che udì la voce della moglie
ammonirgli: “Provaci e ti uccido.”
Sembrò interminabile quel pomeriggio. Ad
ogni rintocco della pendola s’alternarono
nell’origliare con la tempia appoggiata alla
soglia, oppure nello sbirciare dal buco della
serratura. Il seminterrato sembrava ostaggio del
silenzio. Quel poco che lasciava filtrare la
toppa non era altro che un’ombra figurata
mossa da fili di luce sempre più languidi.
Nessun suono di voce. Nessun pianto di
neonato.
Nulla.
75
Il silenzio infondeva un rumore sgradevole,
quasi un fastidio. Il puzzo ne condiva il
concetto. I pensieri sul peggio si affastellarono.
Luigia s’era quasi pentita del piano escogitato.
“Non le avrà mica fatto del male, quel
pazzo!” si dissero.
Discesero e risalirono le scale una decina di
volte, anche con l’intenzione, poi repressa, di
scardinare quella maledetta porta e riprendersi
la piccina, se non era troppo tardi. Si trovavano
in cucina pronti a intraprendere la spedizione di
salvataggio quando, alle venti in punto, udirono
un vagito. Ebbero un sussulto. Si guardarono
con felicitata incredulità. La linea dei loro visi
demarcava la soglia dello stupore, un inizio di
compiacimento. Dopodiché, preannunciato dal
trambusto della molla a scatto e dal cigolio dei
cardini, la porta si aprì. Per la seconda volta
quel giorno.
“Esce, benedetto Iddio” riferì Luigia al
marito incredulo. “Tuo fratello è uscito.”
Sì, adesso si sentiva chiaramente il pianto di
un bambino. E quel vagito era più di un vagito.
Due vagiti, o anche tre. Tre in uno.
La bimba strillava come mai lo aveva fatto in
quasi sette settimane di vita. Tutta la casa
accoglieva quegli urli con scricchiolii di
benvenuto e quell’uomo con fruscii di
76
bentornato. L’effluvio che si respirava era
quello della ripartenza, la voce udita quella di
una bambina affamata e da strigliare; ma
questo il padre incompetente non poteva ancora
saperlo.
La tromba delle scale portò con sé soltanto
una richiesta, un’istanza che arpeggiò i timpani
degli zii con suoni di cetre celtiche.
“Ehi, voi due, se non lo avete capito c’è una
bambina da cambiare qua sotto. Cristo santo,
non ho mai visto tanta merda in vita mia!”
La ripartenza concedeva spunti di qualsiasi
argomento, anche i più inappropriati.
Da quel giorno l’uscio della cantina non
venne più richiuso.
Il primo anno di vedovato non fu facile da
superare. Pietro ne soffrì molto, ma riuscì a
contrapporre al dolore per la perdita prematura
della giovane sposa la gioia di poter accudire la
nuova arrivata, riversando su di lei l’amore in
avanzo e ritrovando così la felicità che pensava
di aver perduto nel baratro del lutto. Passato il
tempo necessario per ripulirsi, ristabilirsi e
schiarirsi le idee, si rese conto che la morte non
significava solo dolore ma anche piacere, non
implicava solo una perdita ma anche
un’aggiunta. Il dolore e la morte non si
configuravano soltanto come sottrazione,
77
abbandono e disperazione, ma contenevano il
sapore di un risarcimento emozionale, di un
bilanciamento affettivo. E più il tempo passava
più il panorama appariva opposto. Tanto prima
maledisse Dio al punto da rinnegargli la fede
quanto ora lodava e benediceva la sua sacra
immagine e l’immensa magnificenza. Capì che
non era rimasto solo ma che Francesca le aveva
lasciato una figlia a cui badare e per la quale
sarebbe stato disposto ad accettare qualsiasi
compromesso. Divenne mentore indefesso sia
come padre che, per quel che poteva, come
madre, riuscendo ad onorare appieno
l’impegno assegnatogli da un destino
maledettamente beffardo.
Intanto Donata – la sua piccolina – cresceva
sana e coccolata, e per tutto il periodo
preadolescenziale la mancanza di una madre
era un affare circoscritto al tempo che ci si
impiega a scaldare un piatto di minestra o a
rifare un letto.
La ragazza percepiva ancora adesso i mille
sapori della sua giovinezza: la falciata del prato
obliquo, difficoltoso, impuntato; il profumo
della casa cordiale, munifica, larga quanto il
cuore di un’eletta; il fumo corpulento che
spreme gli occhi; il ribollio di una polenta
selvatica e irrequieta, inavvicinabile alla sua
78
versata, raccolta sopra un cencio pulito e poi
tagliata e ingoiata in palmo di mano.
Inoltre ci stavano i fiori.
Non s’era mai visto in quella casa un vaso
oziare disoccupato. Se ne trovavano
dappertutto, tanto fuori quanto all’interno. Per
suo padre era una specie di fissazione, diceva
che il profumo di un fiore assorbe l’odore della
morte e il suo colore snoda anche l’animo più
incaponito. Sebbene lei su questo nutrisse
dubbi profondi, i balconi di casa, i davanzali
delle finestre e il tavolo della cucina, erano
sempre immischiati in qualcosa di variopinto,
profumato e possibilmente appena reciso. Per
fare fronte a ciò, nel triangolo di terra dietro
casa, oltre allo straordinario gelsomino, s’era
riservato un piccolo appezzamento coltivato a
giardino. Le sue mani sapevano di terra in
qualunque stagione dell’anno. Iniziava quando
il sole di primavera svegliava rettili, richiamava
uccelli, svestiva persone, e terminava quando il
gelo serrava portoni e terreni, rassodandoli. Lo
spossamento del giorno veniva rinvigorito dalle
ore serali trascorse in giardino, a badare agli
alberi, ai fiori, col silenzio dipinto in molti
modi, immerso in pensieri passeggeri, anche
attorno a una canzone magari, uno stornello
allegro, beatificando la pausa di una nuvola che
79
trattiene un po’ di sole e un po’ di sale sulla
fronte. Seminare, curare e invasare ogni genere
di pianta, da semplice sollazzo si trasformò in
passione. Morbosa passione. Gerani dai colori
più svariati, dalie, astri alpini e quantità
industriali di gigli martagone corredavano il
paesaggio; tra il pietrisco brillavano a fiaccola
alcune piante di stelle alpine e svariate di
belladonna. Sotto i pini cresceva il rododendro,
il ciclamino e l’erica; a lato rose canine e
margherite di campo deponevano nell’erba la
loro semenza. “Un fiore ha bisogno di due
cose” diceva, “sotto: parecchia sostanza, sopra:
tanta luce. Il risultato di tale mistura genera
bellezza. La sostanza è formata da elementi
naturali come la terra, l’acqua, i minerali. La
luce è l’operaio che li seduce, li miscela, e con
una formula che attrae li punta in alto, in faccia
al sole. Il variopinto dei petali è richiamo,
interesse, avvicinamento, fascino, seduzione,
perché solo in natura esiste l’attrazione, che è
l’opposto della gravità. Attrazione è bellezza
pura, slancio vitale. Senza bellezza la pianta
declina, gravita e muore.”
Spesso parlava alle piante che curava. Non si
aspettava risposte, gli bastava credere che
queste lo ascoltassero. Perché la pianta si sa
che ascolta. Cercava il punto esatto per la
80
parola e lo strapianto, un orizzonte ampio e un
solco accogliente, dimodoché potessero
prestare orecchio ai placidi pascoli, alle
frastagliate creste, alle volatili meteoriti, agli
immutabili pianeti, alle galassie tutte:
all’universo intero insomma. Che potessero
urlare sotto le tempeste e boccheggiassero
nell’afosità
di
canicole
incandescenti;
comprendessero sia la smisurata vastità
dell’ignoto che la prossimità di un ronzio che
fa incetta del polline fabbricato. Una pianta è
coalizione tra il presente di necessità e il futuro
di eccedenza, completo ma lontano. Un futuro
perfetto, che è appunto la lontananza a
conservare tale.
Trovato il posto la pianta deve attecchire. E
non sempre è compito facile. Specie se il
soggetto non fa parte di ceppo indigeno. Il
forestiero è spesso mal accolto.
Il foresto di quel tempo trovò alloggio dentro
un fatiscente tugurio di vetro e paglia impastata
all’incrocio tra i due cateti di un giardino
gremito di corolle e petali variopinti, al riparo
dal vento e da sguardi denigratori. Certi occhi
non meritano il dono di vedere, come certe
bocche quello di parlare. “Tempo buttato”
proclamavano gli scettici. “Non ce la farà mai”
scommettevano i dubbiosi. Lo straniero teneva
81
un nome comune: orchidea; ma era di una
razza speciale: Galearis. L’azzardo e la
lepidezza infervoravano le perseveranze
dell’uomo. Il volersi superare occupava il
centro del mirino. La soddisfazione è il
risultato di innumerevoli tentativi e altrettante
delusioni, di ostinazione, fermezza, ma pure di
un paraocchi e una buona dose di cera nei
timpani. E tanta, tanta fortuna.
Sembrava una sfida impossibile far fiorire in
un ambiente montano una pianta mediterranea,
dove l’ardore del sole del mezzogiorno e il
soffio del vento di mare sviluppano linfa e
concime. Le Galearis: piante da terrazzi caldi e
salmastri, non certo da crudi appezzamenti
alpestri. Le prealpi trentine non tengono tale
prodigio, il loro vento e il loro sole sono
schiaffi che rianimano piuttosto che carezze
che risvegliano. E la Galearis s’era soltanto
appisolata. Usò lo stratagemma dei vetri per
creare calore. La terra giusta per le fondamenta,
l’alcalinità dosata per il nutrimento. Passarono
mesi, ed ecco che il tralcio della tenacia
sviluppò germoglio.
“Vedi piccolina” le disse una domenica
mattina il padre, al passeggio dopo messa,
“l’orchidea è sinonimo di affetto e raffinatezza,
oltre ad essere una pianta prodigiosa. Da
82
sempre è considerata capace di allontanare le
influenze nefaste tantoché, nel Medioevo, si
usava per realizzare filtri d’amore. Quindi
dovresti considerarlo un privilegio avercele in
giardino.” Montò in spalle la bambina e si
avvicinò alle menzionate infiorescenze.
“Non mi piace, papà” abbozzò puntandogli i
talloni al costato, “è scolorita, più bianca di un
lenzuolo, mi fa paura! I suoi petali
assomigliano ad una bocca spalancata…
sembra quasi mi voglia sbranare.”
Effettivamente, agli occhi fantasiosi dei
bambini, quei lunghi peduncoli verdi come
cervici affusolati, quelle nivee bocche
smascellate da cui s’ergono labelli rilucenti
simili a scimitarre ottomane, non potevano che
destare un certo nervosismo; e di tale
peculiarità era succube anche Donata.
“Amore mio, cosa stai dicendo. E’ solamente
un fiore: un semplicissimo fiore, tutto qui. Non
un mostro che mangia i bambini.”
Spallò la figlia. Si sedettero a cavalcioni del
muretto, le sistemò i capelli e il colletto della
camicia. Osservò l’orizzonte e poi puntò a lei,
dritta sul mento, evitando il contatto degli
occhi. Voleva svelarle qualcosa e le parlò,
usando il tono pacato riservato alle confidenze.
“Ti ho mai raccontato di Orchide?” disse.
83
“No, non mi ricordo.”
“Un’antica leggenda parla di un fanciullo
bellissimo che si chiamava Orchide il quale,
poveretto, oltre che dalla bellezza era
posseduto anche dalla diversità. Sì perché
chiunque, al suo maturare, si poteva accorgere
che gli spuntavano due seni femminili.”
Lei ascoltava a palpebre allargate: due
carboni accesi incastonati dentro una faccina
sveglia. Le piacevano le storie, soprattutto
quelle raccontate così, con enfasi. Lui era la
voce dell’albero e lei il fico che pendeva dalle
sue labbra ramose. Continuò.
“Orchide, a mano a mano che cresceva, pur
essendo un maschio assumeva sembianze
femminili, formando un corpo sinuoso e
delicato. Per questo motivo era evitato sia dalle
femmine che dai maschi che lo trovavano
entrambi diverso da loro. La sua ambiguità
fisica si ripercuoteva anche nel carattere, alle
volte timido e schivo altre volte aggressivo e
lussurioso. La derisione popolare lo rese
introverso con la gente e riluttante con se
stesso, fintantoché un giorno più amaro del
solito si gettò dalla rupe e morì.
Improvvisamente sul luogo della sua morte fu
tutto un germoglio, fiori assai diversi ma nello
stesso tempo simili nella loro esternante
84
sensualità. Queste fioriture vennero chiamate
orchidee evocando appunto il nome alla
memoria dello sventurato Orchide. Per questo
motivo gli efébi, cioè i giovani ateniesi in
procinto di diventare uomini, si vestivano di
bianco e cantavano lodi agli dei con in testa
una corona di orchidee.”
“Quanto è brutta, papà. E’ triste. E’ una storia
infelice, fa piangere.”
“Lo so, è decisamente malinconica, ma serve
a farti capire che questo è un fiore che
trasmette amore e purezza. E noi poveri cristi
ne abbiamo costantemente un bisogno
esagerato.”
La piccola deglutì, inaspettatamente, e
sussurrò con la mezza voce che non le era
rimasta strozzata in gola: “Ce ne stanno
orchidee in Paradiso? Vorrei che le vedesse
anche la mamma”.
L’innocente richiesta lo prese alla sprovvista,
privandolo della dizione. Rimase sgomento.
Riuscì solo in un secondo momento a parare il
tiro e lo fece con un colpo da maestro.
“Ne avrà a mazzi! Credo le stia raccogliendo
tutti i santi giorni, a cosa pensi che servano le
nuvole lassù se non ad annaffiare i giardini del
cielo?” Scivolò fuori sgomitando quella
risposta, superando impacci e lasciandosi alle
85
spalle un cuore spezzettato. “Anzi, sono
convinto ci sia stata la sua assistenza nel
farcele germogliare.” Concluso quel discorso
notò un luccichio tra le palpebre della figlia:
un’unica goccia salata che scendeva silenziosa
rigandole la guancia paffuta e arginatasi sul
dorso di una manina arrivata prontamente a
spazzar via quell’umida ambasciatrice di pena.
“Dove sarà adesso la mamma? Vorrei tanto
che fosse qui con noi…”
E la tenerezza della frase lo catapultò in un
vortice struggente, tramoggia di sentimenti,
mistura d’amore e compassione. Pietro avrebbe
dato qualsiasi cosa per vivere all’interno di
quella lacrima; uscire da due grandi occhi
scuri, neri come bacche di fitolacca, scivolare
lungo un viso liscio e modellabile dal tempo,
baciare fugacemente una bocca semiacerba e
dissolversi in un pugno di dita innocenti.
Ma la cosa da far sparire in quel momento
erano innanzitutto i piagnistei. Un gran sorriso
gli si incuneò tra le labbra. Guardò
ammiccando la bambina e mentre con una
mano le scarmigliava i capelli biondicci la
sfidò con acume: “L’ultimo che arriva è un
babbeo.”
Se la vide scappare di mano come se la
ragazzina possedesse la viscida duttilità di
86
un’anguilla. Cominciò a rincorrerla lungo tutto
il sentiero, fin davanti all’uscio di casa, che a
quell’ora era tagliato di mezzo dalla linea
d’ombra della sera – guardandosi bene dal farla
arrivare per prima – dimodoché poi, fingendo
di essere a debito di fiato, si gettò a terra come
sfiancato dalla fatica. Di fronte alla ridicola
messinscena la bambina scoppiò a ridere di
gusto, delle sganasciate che traboccavano
allegria, spensierate, limpide come propositi,
contagiose come sbadigli; fortunatamente
dimentica di un qualcosa di inspiegabile,
difficile da accettare per un adulto, figurarsi per
una bambina di sette anni appena compiuti.
Non riuscendo ancora a trovare le giuste parole
per affrontare un argomento tanto delicato,
decise che la scelta più opportuna sarebbe stata
quella di rimandare. Così facendo, anche quella
sera come cento altre a venire, oltrepassarono
forzatamente felici la soglia di quel giorno,
seguita da quella dei mesi, delle stagioni, degli
anni, consolidando un rapporto costruttivo
basato sulla fiducia e sul dialogo, pervenendo
sempre a ripiegare nell’ironia tutti i piccoli
disaccordi che inevitabilmente sorgono nei
discorsi affrontati da persone come loro, liberi
esponenti di generazioni diverse. Fra i due
tuttavia ha sempre prevalso una sana
87
complicità rincalzata dall’affetto familiare e da
un inattaccabile rispetto reciproco.
Aveva da poco festeggiato il suo
diciassettesimo compleanno quando ad
Anghébeni arrivò un eccentrico viaggiatore; un
tipo alquanto bizzarro che si portava appresso
un cane e una strana attrezzatura sulle spalle.
Diceva di essere un artista del ritratto stampato,
e si guadagnava da vivere scattando fotografie
alle persone incuriosite da quella nuova
diavoleria della chimica. L’idea di tramandare
ai posteri la propria immagine era stata
altamente apprezzata dalla comunità vallarsese,
oltretutto fattibile in tempi brevi e spendendo
cifre modeste.
“Gente, il tempo è denaro!” diceva. “Pensate
io sia un pittore?” Pausa calcolata. “Sbagliato:
il mio lavoro è diverso. Loro disegnano con le
matite, io con la luce. E’ la luce che genera
l’immagine… e la luce non perde tempo in
chiacchiere.”
Non succedeva tutti i giorni di trovare
qualcuno che sapesse maneggiare materiale
sensibile su carta alla nitrocellulosa, miscelare
acidi di arresto e fissaggio, armeggiare con
scatole stagne alla luce, obbiettivi anastigmatici
e cavalletti di tenuta. Al principio la gente era
88
incuriosita più per tutto quel marchingegno che
per il lavoro in sé. Si fecero avanti. Taluno di
più coraggioso si avvicinò maggiormente e
capì. Quei pochi a cui venne spiegato il
procedimento fotografico potevano vantare un
bagaglio di conoscenze che mai si sarebbero
sognati prima di allora. Così successe che loro
stessi relazionarono salmodiche conferenze
sull’uscio di casa davanti agli amici, osannando
i miracoli del progresso e facendo pubblicità a
tutto spiano, e, soprattutto, a costo zero. Furbo
l’artista! Avvenne che la disciplinata curiosità
popolare si tramutò in un vero e proprio assalto
di massa. Per tutta la settimana che il fotografo
si trattenne in paese, egli non ebbe un minuto
libero da impegni. L’assiduo lavoro nel ritrarre
le famiglie residenti nella zona lo costringeva a
fare gli straordinari, e riceveva richieste anche
da molti abitanti dei paesi vicini.
S’intravvedevano intere famiglie raccolte
attorno ai rispettivi camini, o tutti seduti in
improvvisati salotti, espressioni austere, teste
brillantinate e vestizioni adornate a festa.
Restavano
interminabili
minuti
fermi,
immobili, concentrati in pose statiche e… quasi
naturali, a parte la paura nell’attesa del
fragoroso lampo al magnesio, sempre poco
gradito.
89
La strana malattia contagiò anche Pietro e
Donata i quali, dopo aver constatato l’ottimo
lavoro consegnato ai vicini, si prestarono
anch’essi ad essere immortalati. Prima di farsi
ritrarre lui si pettinò – forse per la prima volta
in vita sua – i baffoni arruffati, indossò il
vestito grigio sopra la camicia bianca e impiegò
parecchio tempo prima di riuscire a farsi un
nodo poco più che modesto alla cravatta. Lei
aveva i capelli tirati sulle spalle e indossava
l’abito regalatole dalla zia Luigia per il suo
compleanno, dritto e sciolto, a vita alta, che
scendeva verticale ma aderiva dove necessario
a tutte le forme del suo corpo, disegnando archi
tanto belli da spezzare i cuori.
Sembrava una gara a chi sfoggiava di più.
“Caspita! Lo sai che messo così sei proprio
un bell’uomo!” disse Donata appena s’imbatté
in suo padre tirato a lucido. “Se non fossi il
mio papà quasi quasi ci proverei…”
“Quanto sei scema, smettila di prendermi in
giro e andiamo che quello ci sta aspettando.”
Ammirarono la loro foto per giorni interi,
osservarono il loro atteggiamento, risero per lo
strano taglio dei capelli e i singolari lineamenti
del viso. Indubbiamente si vedevano belli,
prestanti, ma in quel frangente mancava
qualcosa che completasse la magica armonia
90
della posa. Non tardò poi molto a scoprire cosa
durante quel flash non avesse funzionato a
dovere. Fu tutta colpa di un particolare che lui
già sapeva e non si era ancora deciso di
riferirle. Comprese solo adesso perché in quella
foto lo sguardo di suo padre fosse così…
assente. Perché, nel profondo dei suoi occhi, si
nascondesse un uomo che piangeva.
Glielo fece capire una lettera arrivata una
mattina di settembre del 1914, una missiva
dell’Impero Austro Ungarico che comunicava a
tutti i maschi abili di età compresa tra i 18 e i
45 anni l’arruolamento di massa e ordinava a
Pietro Cobbe l’imminente partenza per il fronte
russo.
Nel decorso dell’anno ci sono date i cui
avvenimenti rimangono impressi più di altri.
Quei giorni sono simboli, e vengono
contrassegnati nella memoria della gente
proprio perché è alla gente che appartengono:
Natale, Capodanno, Pasqua e via dicendo. Poi
ci sono le date che spettano al singolo
individuo, come potrebbe essere l’inizio di un
amore, il primo o l’ultimo giorno di scuola, un
matrimonio, un compleanno. E non è detto che
si debba associare esclusivamente a un
episodio felice. La ricorrenza personale di
91
Donata è datata 14 settembre. Il giorno più
doloroso della sua vita.
“Non preoccuparti, tornerò presto” le disse
suo padre mentre se la stringeva stretta fra le
braccia. E più lui l’abbracciava più in lei
montava il cruccio, la disperazione: una
preoccupazione scomoda e pressante. La
valanga in cui era incappata le dava le vertigini
e la sensazione era quella di essere travolta
sempre più nell’abisso dell’abbandono. Non
era assolutamente certa, ma avvertiva il netto
presentimento che sarebbe stata l’ultima volta
che alle sue orecchie arrivava il timbro di
quella voce.
“Sii prudente papà, io sarò qui ad aspettarti,
dovesse cadere il mondo.”
“Oramai sei una donna, quindi sei in grado di
gestirti. Comunque sappi che gli zii saranno
sempre disponibili per ogni tuo fabbisogno e su
di loro puoi fare affidamento. Abiteranno in
questa casa finché io non sarò tornato. Tu
preoccupati dei campi e degli animali, e
ricordati di dare l’acqua ai fiori. Soprattutto
alle orchidee.”
Lei annuiva silenziosa. Intanto lo guardava,
anche se a dirla tutta il suo bulbo oculare
focalizzava una forma dai tratti imprecisi,
sconfusionati. Sì, perché tra la stretta della
92
palpebra s’intercalavano scene violente, foschie
di distruzioni, canali di sangue, omicidi
comandati, fumo, devastazioni. E poi sguardi
di figlioletti soli e spaventati, di ragazzini come
lei, legati a una preghiera che forse mai verrà
esaudita. Nel loro guardarsi si materializzavano
immagini da macello, involucri di uomini
simili a carcasse d’animali accatastate le une
sulle altre, svuotate del contenuto e della vita.
Un putrido scotennatoio. Il riverso di un maiale
sgozzato e gettato in un pozzo di sangue, un
fiume di sangue, da riempirvi un bacile
all’occorrenza; una fatica a lei stessa serbata,
da quando le era stata aperta la ragione, perché
nulla andasse perso, nulla venisse sprecato. In
fin dei conti anche nelle atrocità trovi scorie di
buona sostanza. L’occhio vacuo che la fissava.
La bocca contratta che lasciava intravedere
zanne giallastre. La ferita prosciugata che
disegnava una piega, come l’arricciatura di un
lenzuolo stropicciato. Ridicola quella smorfia
stampata sul muso. Lo sberleffo di una bestia
alla donna e al mondo che l’hanno tradita.
Serrò le palpebre: sapeva che tutto ciò non
rispecchiava la realtà ma la delirante ironia di
un visione malvagia. Un’allucinazione.
Solo la disgiunzione da suo padre non
rientrava in quei canoni.
93
Quando si lasciarono lui le baciò la fronte.
Un bacio che significava partenza. Partenza:
comunque il primo passo verso il ritorno. E da
quel minimo movimento si scatenò il
cataclisma. Sentì quelle labbra cedevoli, rosee,
frastagliate come onde che frangono contro gli
scogli urtare indelicatamente la sua fronte, e
accusò una sensazione orribile ricevendo quel
bacio. Percepì la sconfitta padrona delle
aspettative divincolarsi fra il contatto delle
epidermidi e le esalazioni del dopobarba.
Tremava accostata alle sue labbra e il profumo
di acqua di colonia le devastava lo stomaco,
ma, sia ben chiaro, in quel preciso momento
non li avrebbe sostituiti con nessun altra cosa al
mondo.
Chiuse gli occhi e inspirò a polmoni stipati.
Quell’istante le rimase impresso un’eternità.
Un breve attimo lungo una vita intera. Il
ricordo di un odore e di un gesto. L’ultimo
regalo di suo padre.
Non seppe mai se fosse stato catturato, ferito
o caduto sul campo. Lo diedero per disperso e,
se pur le speranze fossero sempre rimaste
accese, lui mai più fece ritorno. Il faro della
fiducia si spegneva gradatamente sull’oceano
dell’inconsapevolezza.
94
Questa fu la cosa più angosciante: il non
sapere.
Se le avessero comunicato che suo padre era
stato colpito, oppure deceduto, ebbene sì,
avrebbe comunque sofferto, ma forse dopo,
poco alla volta il dolore sarebbe passato e con
esso attenuato anche il tormento. Almeno se ne
sarebbe fatta una ragione. Invece così era una
punizione illegittima, una sevizia interminabile.
Prima di partire, le aveva assicurato che
sarebbe rimasta ad aspettarlo, e così fece.
Malgrado la responsabilità che gli zii assunsero
nei suoi confronti, e nonostante le molteplici
mozioni affettive ricevute dei ragazzotti della
valle, lei difendette a spada tratta il ruolo
conferitole dall’uomo che le stava accanto su
quella foto, con lo spirito forte e deciso che a
suo tempo aveva guidato anche Penelope.
Per i primi anni i suoi pensieri erano rivolti
solo
ed
esclusivamente
al
genitore.
Considerava quella situazione come la causa di
un banalissimo errore di percorso, un semplice
ma fastidioso intoppo sulla carreggiata della
vita, una momentanea interruzione del
cammino che avrebbero dovuto condividere
insieme. Poi cominciò a prendere in
considerazione la probabilità che la guerra se lo
fosse effettivamente portato via, rendendolo
95
servibile soltanto per alimentare i vermi e il
ricordo. Ecco che la morte ancora una volta la
sfiorava, entrava nella sua vita confrontandola
con un nuovo dolore. Ma perchè? Lei che non
aveva avuto la gioia di conoscere sua madre,
perché adesso era stata privata anche dell’altro
genitore? Perché questo accanimento contro la
sua persona? Si faceva spesso queste domande,
ma non riusciva a concretizzare risposte.
A mano a mano che passava il tempo
cambiavano pure le interpellanze formulandone
di nuove, continuamente. Pensava a tante cose.
Troppe. Per esempio che lei sarebbe
invecchiata e i suoi capelli avrebbero perso il
colore evidente, biondo mielato, invece suo
padre sarebbe rimasto sempre lo stesso,
verosimilmente uguale a com’era nella foto sul
comò.
Quante volte le sarebbe piaciuto riaverlo
vicino, dialogare con lui, uscire in giardino e
farsi ripetere il significato dei fiori;
sbeffeggiare la sua voce, scimmiottare i suoi
gesti, odorare il suo odore. Magari annaffiare le
piante e provare a far germogliare le orchidee,
le quali nel frattempo si erano tutte seccate.
Sarebbe magnifico pozzare ancora una volta i
piedi nelle artiche acque del Leno, per poi
scongelarseli davanti agli alari incandescenti,
96
stirargli la camicia della domenica, vedergli
comparire in volto le prime rughe. Perché ci si
impoverisce quando una persona cara viene a
mancare, ci viene sottratto parte di quel tesoro
che non sapevamo di possedere, di un valore
che mai avremmo immaginato quanto fosse
quotato. Ci viene a mancare la sua forma, il suo
contenuto, in un certo qual modo il suo
modello di vita, che è molto di più di quello
vissuto, di quello succeduto. C’erano troppe
esperienze che doveva ancora realizzare. Che
dovevano ancora realizzare.
Ma perché? Perché rischiava ogni giorno di
sragionare?
Fu sempre più convinta di quanto legittimo
fosse il presupposto in cui, dal momento che
una persona non c’è più, questa continua
comunque a viverci addosso. Quindi bisogna
ospitarla nella propria intimità costringendosi
quasi ad offrirle un’altra chance, una nuova
rinascita. E farlo nel modo più dolce e indolore
possibile. Adesso, quando pensa a suo padre,
quel dispiacere è sempre accompagnato da un
sorriso, il sorriso che lui aveva sempre.
Sono passati quasi sessantacinque anni da
quando le loro vite si erano separate e in tutto
quel tempo non ha fatto altro che cercare di
trasformare il male provato in una forza
97
dirompente. Il rapporto che prima s’era creato
tra padre e figlia non è cambiato, si è solamente
perfezionato.
Papà
non
mi
abbandonare.
Non
abbandonarmi mai, si ripeteva Donata in
continuazione.
E lui non l’ha mai fatto.
Ancora adesso che la chioma dorata aveva
lasciato il posto ad una argentea acconciatura e
il corpo raggrinzito stava giorno dopo giorno
percorrendo faticosamente l’ultimo tratto di
una longeva vita, ecco che lo ritrovava sempre
lì, accovacciato nel suo angolo personale ma
pur sempre libero di gironzolare tra i meandri
del suo cuore e quelli della sua mente. Garbato,
silenzioso, pronto a intervenire nelle situazioni
di emergenza, preparato a rispondere a tutte le
evenienze, quelle alle quali nei lunghi periodi
di crisi spesso e volentieri veniva richiesto un
suo aiuto.
Il dignitoso viaggio che Donata scelse di
percorrere per riuscire campare, e che
comunque fino a qualche anno prima riusciva a
impugnare saldamente, si stava ora lentamente
sgretolando, sfarinandosi come una franata
ghiaiosa dopo l’inverno. Lei, che nella casa del
fornaio era stata un pilastro di granito.
98
Crescendo aveva imparato a cavarsela.
Sapeva cucire, fare di maglia e cucinare; tanto
lavorava nei campi quanto rassettava la casa,
conservandola sempre linda e profumata. Era
stata proprio questa sua dote a fugare i dubbi su
una scelta non particolarmente così scontata.
La famiglia Arlanch discendeva da una lunga
generazione di fornai. Padre, madre, sette figli
immancabilmente maschi più una, l’ultima, la
meno attesa, uno sbaglio di calcolo espulsivo,
un semplice errore di valutazione, la quale a
dispetto di tutti – ma pure per la gioia di tutti –
se n’era uscita femmina; un nonno paterno, tre
gatti, sei galline, otto conigli, un fagiano
adottato e un cane. Oltre alle pulci che quel
figlio di un cane si portava a spasso ogni santo
giorno. Indivisi dentro la stessa casa, sotto lo
stesso tetto; tutto un mondo che ruotava attorno
a una panetteria mai ferma. Fornai loro stessi.
Di notte a impastare, di giorno a vendere:
pagnotte croccanti e profumate, sfilatini,
biscotti secchi, prodotti di alta pasticceria.
Vendere il pane per comprare il frumento.
Comprare il frumento per ricavarne farina e
con
quella infornare il
pane,
che
immancabilmente poi si vendeva, per comprare
il frumento e tutto il seguito. Una gigantesca
ruota che gira, come quella sul canale che col
99
suo roteare rendeva fluido il pesante
movimento delle macine.
“Osserva, non sarà l’industria della seta”
diceva il nonno al nipote più grande quando
scendevano giù, al reparto macinazione, “ma è
pur sempre una gran bella industria. E’ stato
mio nonno a iniziarla, in seguito mio padre ci
fece dei lavori di ammodernamento che io
conclusi. Successivamente l’ha presa in mano
tuo padre che, come puoi constatare tu stesso,
ora ne trae profitto. Tuo sarà il dovere di
mantenerla.”
Il nipote suddivideva la sua prospettiva
lavorativa tra gli assordanti ingranaggi di
quella diavoleria produttiva e i silenziosi
nonché desolanti pascoli alpini.
“Che giramento di pale” replicava cercando
di non farsi sentire.
I due genitori lavoravano giorno e notte,
dentro quel forno. Assiduamente. Sembravano
fatti di piombo invece che di carne e ossa.
Come fecero a sfornare otto figli questo rimase
un mistero.
Un giorno la madre, stremata per l’ennesima
fatica, formulò al marito una propria richiesta.
“Mi serve aiuto.”
“Provvederò io stesso a trovare ciò di cui
abbisogni” le rispose convinto.
100
Un rango familiare oberato di lavoro come
quello del fornaio non poteva farsi mancare una
collaboratrice. Una donna che si occupasse di
una parte dei lavori domestici era diventata una
necessità e, a maggior ragione, presso una
famiglia che deteneva un conto economico tale
da non accorgersi minimamente di quella spesa
extra giacché, se il dieci per cento delle
chiacchiere che circolavano per strada
corrispondeva a verità, in quella casa la
pecunia occupava in toto il volume assegnatole
nel doppiofondo del comò. Il profumo di un
lavoro decoroso attirò le femmine della valle
come orsi appresso un alveare. Le aspiranti
furono parecchie ma chi per un verso chi per
l’altro vennero tutte scartate.
Tutte tranne Donata, vagliata per le referenti
doti. Fu assunta in pianta stante e, nel giro di
pochi
giorni,
venne
nominata
contemporaneamente: – Caposquadra igiene
domestica; – Prima educatrice per l’infanzia; –
Chef de rang nonché de cuisine; – Addetta al
servizio di lavaggio, stiraggio e stoccaggio di
un sempre più elevato massiccio di biancheria
per l’uomo la donna il bambino, nonché per la
casa e, inoltre – Pronto Intervento Veterinario.
Insomma, da sola o affiancata alla padrona di
casa doveva saper far fronte a tutte queste
101
incombenze. Il compito principale era quello di
tenere pulita sia l’abitazione domestica che il
forno stesso. Poi doveva accudire i figli, in
particolar modo i più giovani, preparare da
mangiare – per tutti naturalmente –, rifare i
letti, rifocillare gli animali, e alla fine, se
avanzava tempo, poteva badare al nonno. Sei
giorni la settimana. Cinquantadue settimane
l’anno. Di fronte a tale richiesta non disperò,
anzi, tutto quel darsi da fare le erogò una carica
inaspettata.
Così
puliva,
ramazzava,
spolverava, e al tempo stesso si guardava
attorno. Stava spesso giù, nel laboratorio.
Anelava il desiderio di imparare. Quelle che
prima erano soltanto occhiate sporadiche, col
tempo e la confidenza ottenuta si
trasformavano in osservazioni dettagliate e
domande sempre più mirate. Apprese cose
nuove. Assimilò. Alla fine ci mise le mani, era
inevitabile. Si sa che l’indiscrezione è femmina
e se per di più, oltre che curiosa quella
femmina è anche a dir poco intuitiva e
perspicace, allora la frittata è fatta. Non ci fu da
meravigliarsi se a soli pochi mesi
dall’assunzione al nuovo incarico, modellare e
infornare panetti di farina cruda, salata,
impastata e lievitata divenne una delle sue
102
specialità. Assorbì in fretta i trucchi del
mestiere. Ora ambiva soltanto alla perfezione.
Furono anni sudati ma ricchi di
soddisfazione. Venne accolta in casa come una
zia, o meglio ancora come una figlia, e lei con
la stessa moneta ricambiava. Lavorava sodo,
quello è vero, ma veniva trattata bene. E poi
essere costantemente a contatto con un mare di
gente era certamente meglio che starsene tutto
il giorno da sola a vedersi fuggire via gli anni e
le vita; per di più il compenso ricevuto,
sommato a qualche piccolo extra, faceva
passare anche il mal di schiena più acuto.
Scorreva veloce lo sgambettare delle stagioni.
Il cuore della valle pulsava. Ogni tanto una
cellula sgarrava come una sorta di extrasistole,
saltava un battito, sacrificato a una sorte certa,
ma poi ripartiva, immediatamente, ristabilendo
il ritmo che s’era smarrito.
Assistette al trapasso del patriarca,
all’invecchiamento del padrone e della sua
consorte, e fu testimone della crescita dei
ragazzi. Giovanotti cresciuti un po’ così, con
una madre e un padre che non erano
propriamente dei genitori autoritari, sottoposti
alla pedagogia di una donna che non era per
l'appunto un’educatrice scrupolosa, e venuti su
come puledri allo stato brado, forgiando il
103
carattere irascibile, burbero e litigioso degli
irascibili, burberi e litigiosi uomini di
montagna. L’unica cosa che non assorbirono
affatto era la sacrosanta voglia di lavorare di
cui gli irascibili, burberi e litigiosi uomini di
montagna per qualche oscura ragione si
ritrovano intrinseca; forse perché l’ultimo
sfilaccio se l’erano spazzolato via i due
infaticabili genitori. Due di quei figli, quelli
che a incrociarli venivano additati come i più
mansueti, trovarono moglie; gli altri cinque no.
Forse perché in giro non c’erano così tante
femmine bendisposte a sopportarli, oppure
perché avevano gusti difficili quei cinque
scavezzacollo, chi lo sa. In ordine ti tempo la
sorella fu la terza ad accasarsi.
Capì che sarebbe stato amore vero fin dal
primo istante che Egli si mostrò: un autentico
colpo di fulmine. Testualmente parlando si
potrebbe dire che galeotto fu il tocco di quel
Dio capace di depredarle il cuore. Terribile e
misericordioso allo stesso tempo. S’infatuò del
Signore in maniera quasi morbosa, d’altronde
si sa che Lui è maestro nel farsi amare; come
nel farsi odiare se è per quello, mettiamoceli
pure i puntini dove ci vanno...
I due anni di fidanzamento furono un
postulato di dubbi e interrogativi che alla fine
104
convennero nel sacramento del matrimonio. Il
rito nuziale venne celebrato alla fine del
noviziato, nel preciso momento che le furono
consegnati i voti, a Fabriano, dentro il
monastero benedettino intitolato a S. Luca,
dopo una pomposa cerimonia durata quasi
quattro ore. Alla cerimonia assistettero anche i
genitori, che sedevano ai primi posti della
seconda fila di banchi, davanti a una numerosa
folla di credenti e di fronte a un Abate e una
Abbadessa che da quel momento si fecero
garanti che l’obbedienza, la povertà e la castità
suffragate non venissero mai perse di vista ma
preservate dalle aggressioni della vita e
custodite inalterate e inattaccabili all’interno di
un monastero, non a caso cintato da spesse
grate di ferro e alte mura di pietra. La clausura
era una prova d’amore più imposta che scelta.
Da quel giorno oltre al domicilio cambiò anche
il nome. Ora si chiamava Agata. Suor Agata,
per la precisione. Perseguì il suo cammino di
fede con la consegna dell’anello, il velo nero,
la cocolla per i canti e il libro delle preghiere.
L’auto sostentamento e la Lectio Divina – la
lettura approfondita delle Sacre Scritture –
cominciarono ad occupare gran parte del suo
tempo. Il resto lo spendeva nella partecipazione
attiva alle messe e ai canti liturgici. Suo padre
105
non era mai stato completamente d’accordo
riguardo questa sua scelta.
“A cosa serve una monaca?” le aveva chiesto
uno di quei giorni duri da digerire.
“Praticamente a nulla” le rispose soave la
figlia. “Come a niente servono i fiori, la poesia,
le arti come la musica, il canto e tutte le cose
che non ‘servono a’ produrre immediatamente
qualcosa. Ma perché tutto ciò che non ‘frutta’
viene ritenuto inutile? Viviamo una cultura del
simbolo, il servizio di noi monache è
nell’ordine del segno. Il Gaudium et spes cita
che alcuni di noi sono chiamati a dare
testimonianza manifesta della dimora che
attende ogni uomo nel cielo e a conservare vivo
nella famiglia umana il desiderio di questa
futura residenza.”
Di fronte a tale risposta suo padre desistette,
levò volta agli ormeggi e lasciò andare la
chiatta della risoluzione, ritrovandosi su una
banchina deserta senza addii e senza rimpianti.
Dal giorno dell’internazione di sua figlia non
seppe più nulla.
I fratelli celibi, intanto, salvaguardavano
l’anima e il corpo dalle fatiche della vita: non
studiavano, non lavoravano; per farla breve non
facevano nulla di utile. Frequentavano un bar
dopo l’altro, tutto il giorno con le mani in
106
mano. Il loro passatempo preferito era
scannarsi per chi riusciva a sudare di meno,
litigando in continuazione. Su una cosa però ci
fu comune accordo, una decisione che al
momento conclusivo aveva sicuramente
smosso il basamento di alcuni tumuli e
incrinato di brutto le sovrastrutturate lapidi in
marmo: ad un certo punto della loro vita
d’adulti – più o meno responsabili e
raziocinanti, molto meno che più… –
convennero nel vendere in blocco il mulino, il
laboratorio e il forno: l’attività intera insomma.
Nessuno dei presenti aveva la più pallida
intenzione di proseguirne le orme tracciate dai
bisavoli lungimiranti: alla facciaccia loro e dei
parenti tutti!
Si tennero la casa padronale, quella sì, e lo
fecero solamente per non far morire di
crepacuore gli anziani genitori, e perché poteva
offrire ancora un riparo agli scapoli
nullafacenti.
All’indomani della stipula del contratto
Donata si trovò obbligata a recuperare i suoi
effetti personali e andarsene. La sua presenza
era diventata scomoda. Un oggetto che non
serviva più. I suoi servigi da imprescindibili
divennero eccedenti.
107
“Ce la possiamo sbrigare da soli” le dissero.
Ma la verità era un’altra: le risorse economiche
si stavano assottigliando spaventosamente. E
questo era un grosso guaio per tutti. Il vino e
l’ozio formano la miscela perfetta per
dilapidare un patrimonio, specialmente quando
un mucchio di soldi finisce nelle mani di chi,
quelle stesse mani, non le usa se non per calarle
addosso al prossimo o per serrarle attorno a un
bicchiere. Oltretutto di chi non le usa come non
usa il cervello, e lì, di scervellati, ce ne stavano
parecchi.
Di fatto successe che Donata era stata
sollevata dall’incarico, esonerata, licenziata:
mandata via insomma. Ma quello che
maggiormente a lei dispiaceva era il fatto di
doversi distaccare da quella che per anni aveva
ritenuto la sua riacquistata famiglia. Per una
donna di una certa età, che riesce ad
affezionarsi anche al più insignificante filugello
di gelso, be’, affrontare il commiato è un
ulteriore stringimento a un cuore già stretto di
suo; un patetico lasso di tempo difficile da
affrontare, svenevole, da risolvere il più in
fretta possibile se si vuol sopravvivere. Fin
quasi da mettersi a letto e alzarsi l’indomani, a
fatto compiuto. Ma, siccome il sonno non
s’adatta al giorno, si ritrovò costretta a
108
raggrumare le ultime scorie di coraggio per
affrontare con determinazione ogni singolo
esponente di quella nuova ma ormai scemata
famiglia.
Erano tutti là, schierati sul ciglio della strada
come un viale alberato. I sette figli maschi e le
due nuore. Ambedue gravide, le nuore. Nove
linee stagliate all’orizzonte, conservatorie della
solenne immobilità di un plotone d’esecuzione.
Uno di fianco all’altro come giorni stampati su
un calendario. Ne mancavano tre: la monaca e i
due vecchi. La religiosa si capisce, ma i
padroni? Come mai di loro non c’era traccia?
Erano forse deceduti quella notte stessa? Poco
plausibile. Forse si sentivano peggio di Donata,
incapacitati d’affrontare un addio? O forse era
il boicottaggio della vergogna a preponderare?
Lì, in mezzo alla strada, dove si consumava
l’ultimo sacrificio umano si stavano
immolando le aspettative genitoriali e quelle di
una sguattera al Nume della follia.
La brezza convogliava raffiche a mulinello. Il
sole bruciava. Le linee tiravano un’esile filo
d’ombra.
Poggiò la valigia, Donata, squadrando
l’insieme. Serbò l’irremovibilità di un generale
in rassegna quando s’avvicinò ad ognuno di
loro. Li salutò ad uno ad uno. Li abbracciò.
109
“Statemi bene, figli miei” disse.
Riscosse solo un cenno con la mano, freddo e
distaccato. Poi, con un pizzico di malincuore,
diede un’ultima occhiata al mulino e alla
gigantesca ruota che adesso stava ferma come
mai lo era stata negli ultimi ventisette anni
quattro mesi dodici giorni e una triste manciata
di ore. All’estremità di un paletto s’era
imbrigliato un canovaccio. Sbatteva gioioso il
tessuto al vento. L’addio del mulino alla donna
che l’aveva accudito. L’unico grazie ricevuto.
Si girò senza enunciare lemmi, anche perché
qualsivoglia cosa ne fosse uscita sarebbe stata
blasfema, e nel girarsi i suoi occhi sfiorarono le
finestre padronali. Un’ombra ondeggiava dietro
la tenda tirata. Riconobbe la sagoma, che però
come un lampo s’era già dileguata. Restò un
istante a cercarla, quell’ombra ingarbugliata,
nell’esile speranza di un ravvedimento, che
tuttavia rimase a venire. Allora svincolò lo
sguardo, afferrò la valigia e riprese a
camminare.
“In bocca al lupo, Donata” sentì augurarsi
alle spalle.
“Crepa” rispose affagottata in una clamide di
stizzita.
Lui, il vecchio, colui che l’aveva anni
addietro assunta, spostò il lembo della tenda.
110
Era un cotone a maglia larga, sottile, dalla
trasparenza confusa, enigmatica. Nel senso che
chi stava dentro poteva benissimo osservare chi
stava fuori, ma non viceversa. Scostò quell’orlo
e guardò. Anche lui stava lì sotto, al suo fianco
e, se non fisicamente, stava comunque
redarguendo i ragazzi che erano i figli suoi
purtroppo, ma che mai come adesso avrebbe
voluto non lo fossero, perché non era in quel
modo che si lascia andare una di casa.
Mascalzoni irriconoscenti! Ma la sciatteria
contratta con l’avanzar dell’età non lo aiutava
per niente anzi, lo autorizzava a non fare nulla
per imporsi. E non c’entrava il rimorso,
neanche l’insonnia conosciuta in quegli ultimi
anni. C’entravano un pugno di ragazzi, sedie
vuote che gli stavano intorno, passi che
cambiavano direzione quando lo incontravano,
pezzetti di un pane duro che si sbriciola invece
di affettarsi. Questo lasciava a intendere lo
sguardo di quell’uomo barricato dentro casa, e
se avesse avuto vent’anni di meno avrebbe
fatto vedere loro di quale impasto egli fosse
composto.
Morso da un’odiata vergogna
piuttosto che sopprimerla la foraggiava,
cercando di scomparire dietro il cortinaggio di
una finestra anonima. Ma ormai cosa
importava? Lui era lo stesso giù ad
111
abbracciarla, a dirle quanto mai fosse
dispiaciuto nel vederla partire, sapendo
perfettamente che stavolta mai più si sarebbero
rivisti, dentro quella casa. Picchiettò le scarne
dita sul vetro, debolmente. Troppo fragili quei
colpi. Un mai arrivato addio telegrafico.
Riabbassò la tendina, prese una seggiola e si
sedette. Cercò il cesto della frutta secca. Lo
trovò poco distante. Era vuoto, se non
considerava l’unica noce che si perdeva al suo
interno. Ripulì il cesto sopprimendo anche
quella. Spaccò facilmente il guscio con le sue
dita nodose ma ancora possenti come querce.
Ne estrasse il gheriglio e se lo cacciò in bocca,
dando morsi feroci come spremiture; ma
nemmeno un po’ assaporò il gusto amarognolo
e astringente del tannino e di olio vegetale che
si liberavano a compromettere un palato aspro.
Chinando lo sguardo scoprì il buco nel calzino:
almeno quello si poteva rammendare.
Vicino a lui sua moglie lavorava di maglia.
Gli occhiali sul naso. I capelli raccolti a
cruccolo sotto un pizzo di cotone agganciato
con le forcine. Faceva e disfava, disfava e
faceva, dando strappi rabbiosi alla lana che
quel giorno non c’era verso di far stare
annodata su quei maledetti ferri.
112
“Sai una cosa?” le disse il marito. “Dio c’ha
punito donandoci la fertilità, fossimo stati
sterili non avremmo picchiato il culo tanto in
basso.”
“Parole sante” rispose la donna.
Trentasette minuti dopo Donata calpestava il
lastricato del suo paese natio. Lo stesso passo
mantenuto per tutti quegli anni quando le notti
del sabato rientrava per il sacrosanto riposo
domenicale.
Quaranta
minuti
dopo
intravvedeva lo sterpeto ricoperto da cumuli di
calcinacci e sporcizia ammucchiata. Erano i
rimasugli spinosi della rinsecchita barriera
naturale quale era stato il suo rigoglioso
gelsomino. Sempre una botta al cuore quello
scompiglio, uno choc elettrico erogato al centro
del muscolo cardiaco.
Che bastardi! pensò mentre apriva la porta di
casa, quarantuno minuti dopo.
Ritornò ad abitare casa sua come un tempo, e
come un tempo per tutto il tempo concessole,
che adesso era proprio tanto, il tempo a
disposizione. “Ben ritrovata cara vecchia
casupola. Eccomi di nuovo tra le tue solide
mura. Ancora qui ad aspettarti, papà.”
E quello fece. Per il resto dei suoi giorni.
113
Lì dentro ritrovò i ricordi perduti.
Riaffiorarono memorie che avrebbe gradito
fossero dissolte nell’oblio, scadute di validità.
Rinvenne in lei una personalità misantropa e
scontrosa, forse più selvatica di come l’aveva
accantonata cinque lustri e mezzo prima.
L’eredità di una famiglia che alla fine s’era
dimostrata piuttosto irriconoscente.
Ma lo stesso non si diede per vinta. Quella
che scalpitava sotto il suo sedere, la cavalla
della sua esistenza, estremamente convinta di
aver saldamente imbracciato, trattenuta per le
briglie, tutto a un tratto si era rivelata per
quello che era. Il completamento di
un’esistenza che rimpallava al contraccolpo di
un pensiero. Inaspettatamente le redini si erano
sciolte e la bestia liberata. Cominciò così un
galoppo fatto di analisi e riflessioni. Le
introspezioni furono all’ordine del giorno.
Dedusse, confrontò, capì.
Deliberatamente scossa da non pochi
turbamenti, si accorse quanto la situazione era
stata abile nello sfuggirgli di mano. Un
prodigioso numero da circo. Uno strabiliante
gioco di carte. Rimase allibita nel notare il
rimbalzo avvenuto nel corso degli anni. I giorni
acceleravano il passo, sempre di più, sempre
più veloci, mettendosi persino a correre come
114
ladri smascherati, o come puledri spronati
all’impazzata, ultimando quel moto in un
susseguirsi convulso, incontrollato, perpetuo; e
alla fine mostrandosi soltanto come un attimo,
un movimento, un battito di ciglia. Il tempo
aveva la facoltà di trasportare le persone con la
potenza cosmica di un buco nero, capace di
risucchiare al suo interno le altrui esistenze e
trasferirle in un’altra dimensione.
Era questa la dimensione di un mondo visto
con gli occhi stanchi di una donna ritrovatasi
anziana, costruito con giornate tutte uguali,
talmente affini da scorgere in ognuna una sua
diversità. Come i tramonti che a guardarli
sembrano tutti uguali ma ogni volta regalano
emozioni differenti. E le lunghe notti passate
ad ascoltare la voce del buio, sperando
nell’indulgenza di un sonno non più amico.
Infine ancora il mattino, smaniosa di assaporare
in silenzio le meraviglie dell’alba novizia,
sentirsela scivolare sulla pelle come la morbida
carezza di un fanciullo. Un tocco delicato che
acquieta e rasserena.
Era
questo
il
momento
in
cui
quotidianamente faceva visita al cimitero
militare ubicato sul terrapieno sottoposto al
paese, il luogo ideale per parlare con qualcuno
115
che, come suo padre, non ha mai più fatto
ritorno a casa.
Quando se ne ricordava si portava appresso
un mazzolino di fiori di campo e li depositava
nel bicchiere collocato ai piedi dell’eccentrico
crocifisso ferrato sovrastante il camposanto.
Dalla fontana situata sul tornante della strada
provinciale attingeva un po’ d’acqua e la
versava nel calice arrugginito. Sempre. Tutti i
giorni.
Poi parlava ai suoi ragazzi, più di settanta
croci in legno assolutamente uguali, anonime,
supplichevoli. Pregava per quei giovani senza
nome e senza patria, pregava per suo padre.
Pregava per se stessa.
Dopo alcuni minuti di solitaria conversazione
terminava il discorso segnandosi con la mano
come la fede cristiana precetta e, benedicendo
le tombe degli sfortunati combattenti,
riprendeva mestamente la strada di casa.
Risaliva con fatica la massicciata, con il
sampietrino sempre più dissestato se non, per
diversi tratti, addirittura divelto. Strascicava i
piedi, la donna, desiderando il respiro che ogni
volta le si invischiava in gola. I polmoni
reclamavano ossigeno, e l’energia dei muscoli
disertava. Arrivata a casa si sarebbe preparata
qualcosa da mangiare, poche e semplici
116
pietanze sufficienti a nutrire una donna
debilitata dall’età e dalla malattia. Poi, con
occhi provati, avrebbe letto le rime di qualche
annoso e rovinato testo di poesie; poche a dire
il vero, ma che risultavano perfino eccessive
rispetto a ciò che riusciva a distinguere sopra
quelle pagine decisamente consunte o
addirittura mancanti. “Fatevi sotto che vi
scucio l’anima!” pronunciava. Si rivolgeva ai
libri come fossero individui. E da questi –
come questi – il più delle volte veniva
accantonata. Gli impedimenti alla leggibilità la
costringevano a procedere con lentezza, a
sormontare le difficoltà, a usare tutta
l’esperienza, il sapere e l’immaginazione per
dare corpo alle parole ombra, ma quegli
ostacoli non la intralciavano. Anzi, le parole
coi contorni sbiaditi, le liriche illeggibili
plasmate
in
versi
sfocati,
oscillanti,
sembravano pulsare di significato, palpitare di
vita; al contrario di lei che si sentiva spenta di
malinconia.
L’orologio a colonna avrebbe contrassegnato
il passo del tempo clemente con rintocchi a
scadenza programmata, finché in un punto ben
preciso del mandato, seduta davanti alla vetrata
del balcone avrebbe finalmente incontrato la
sera, rimirando ancora una volta il tramonto
117
che si stava delineando. Un tramonto
analogamente diverso da tutti gli altri,
ovviamente.
Pertanto, il giorno dopo, ogni cosa sarebbe
ricominciata.
118
oggi
Un uomo, pensa terrorizzata. C’è un uomo in
camera mia.
“Chi…”
All’inizio riesce solo ad emettere quel fragile
sussurro che nessuno che si trovasse dall’altra
parte della stanza avrebbe mai potuto udire.
Prova ad inumidirsi le labbra con la lingua e
riformula la domanda. Tiene le mani così
strette da non sentirsi più le dita.
“Chi sei?” Ancora un sussurro, ma questa
volta con un po’ più di vigore.
La figura non risponde, rimane ferma dov’è,
come priva di vita. La troica formata da ombre,
luna e vento, contribuisce a rendere il momento
terribilmente ambiguo e, per la prima volta, la
ragazza dubita della concretezza del suo
visitatore. Prova quindi ad osservare meglio la
119
scena, mettendo in discussione il suo risveglio
con la possibilità di essere rimasta incatenata al
suo stesso incubo. Ed è proprio in quel
momento che l’ombra si muove, staccandosi
dalla parete di fondo. L’incubo non è finito.
Quell’individuo s’avvicina minaccioso.
Semiparalizzata dalla paura intravede
nell’ombra i suoi occhi. Due circonferenze
incandescenti
che
la
fissano
ma,
inspiegabilmente, si sorprende nel constatare
che non sembrano intenzionati a farle del male.
Tutt’altro, l’oscura figura possiede qualcosa di
affabile, di familiare e il suo silenzio non
trasmette apprensione ma accende fiaccole di
fiducia, lumi che effondono sicurezza. E sarà
proprio l’enunciazione di alcune parole a
coordinare la sua mente. Abbozzando un
tiepido sorriso quell’essere inizia a parlare. Con
tutta la dolcezza di questo mondo, dalle labbra
screpolate dell’uomo esce una semplicissima
frase; ed è solo in questo preciso istante, nel
riconoscere quella voce, che il suo cuore quasi
s’incricca.
“Dai piccolina, alzati che è tardi.”
“Papà?” chiede la ragazza alzandosi di scatto.
“Forza, alzati, senza tirare fuori scuse come
fai sempre.”
120
Sgrana gli occhi sbalordita, strabocchevoli
d’incredulità.
“Sei tu, papà?” Si guarda attorno cercando la
materialità della sua stanza, la conferma che
tutto questo sia reale.
“Si amore, sono io, sono tornato.” L’uomo
appoggia le mani alla pediera, sedendosi a
bordo letto.
Non è possibile, suo padre si trova davanti a
lei, vivo e vegeto, tutto intero e… sorridente.
Pazzesco, da non crederci. Forse sta ancora
sognando, malgrado avverta una sensazione di
tangibile risveglio. Chiude gli occhi per un
attimo e li riapre. Lui è ancora lì, seduto sulla
falda del letto.
“Oh papà, finalmente… da quanto tempo ti
attendevo. Hai visto che ti ho aspettato! Ma
dov’eri finito… Che bello papà… sono stata
brava? Gli zii non ci sono, sono andati a
Rovereto… però…
mi avevi spaventata,
prima… Oh papà…”
“Ssss! Calmati tesoro, cosa ti succede che sei
tutta agitata? Lo so che gli zii non ci sono, per
questo sono venuto io a svegliarti,
personalmente.”
“Ma papà. Sei stato via così tanto tempo.
Non abbiamo più ricevuto tue notizie e…”
121
“Esagerata! E’ stato solo per un breve
periodo, cosa vuoi che sia. Ti avevo promesso
che appena potuto mi sarei fatto vivo: le
mantengo io le promesse. Devi sapere che la
guerra è una brutta bestia, non sai mai quello
che ti serba, quanto possa essere dura, e
spietata, e cinica. Comunque adesso sono di
nuovo con te e ti posso assicurare che stavolta
non ci separeranno mai più.”
“Ti voglio bene papà…” Ad un tratto il suo
sorriso viene a scemare e l’espressione è un
accorato taglio degli occhi. Continua: “I fiori
papà… i fiori… sono…”
“Li ho visti amore, sono stupendi. Grazie per
il tuo aiuto.”
“Ma…”
“Sì, anche le orchidee, meravigliose.”
Alza il braccio, ma diversamente da quello
che si era immaginata, nota con stupore che
l’aggeggio impugnato da suo padre non è un
coltello ma, per l’appunto, un rigoglioso
esemplare delle sue Galearis. L’uomo porta il
fiore alle narici aperte. Socchiude gli occhi.
Riempie i polmoni.
Annusa
il
fiore
assaporandone
lo
straordinario effluvio e lo porge a Donata. Lei
osserva con straordinaria ammirazione. E’ la
122
seconda volta in pochi minuti che non crede ai
suoi occhi.
“Adesso alzati che ti devo far vedere una
cosa” dice Pietro mentre le accarezza i capelli
arruffati.
Incuriosita, con un balzo felino salta dal letto,
lascia la stanza e scende a rotta di collo le
scale, saltando due gradini alla volta. Era
tornato suo padre e non voleva perdersi
nemmeno un minuto della sua compagnia.
Aveva talmente tante cose da chiedergli che
ogni
secondo
sprecato
sembrava
irrimediabilmente perso. Entra nel tinello, dove
si espone ancorato alla parete un capiente
lavello in pietra. Più alto ci sta lo stipetto, a
fianco lo specchio perlato e, sotto, un ossuto
sgabello sopra il quale s’appoggia la grolla
colma d’acqua. Ne prende un po’, versandola
nel lavamano. Poi afferra il sapone di lavanda,
lo mette a contatto con l’acque e se lo passa sul
viso, sulle braccia, in centro alle gambe.
Voleva farsi bella per cui era spinta
dall’urgente bisogno di detergersi. Doveva far
piazza pulita dei ricordi, lavar via il dolore che
le si era accumulato dentro durante tutto questo
tempo. Desiderava strapparsi di dosso il senso
di vuoto, procacciatore di sofferenza e di
solitudine. Soprattutto doveva levarsi di dosso
123
l’insopportabile traccia lasciata dalla sua urina.
Alza gli occhi ed ammira l’immagine
rimandata dallo specchio. La donna che vede,
malgrado sia fortemente stralunata e spettinata,
riflette un aspetto a dir poco raggiante.
Ricorda il fastidioso formicolio che al
momento del risveglio le indolenziva
l’avambraccio. Se lo era sentito intorpidito,
assente nei movimenti e insensibile al tatto.
Tuttavia era bastato un lieve massaggio per far
allontanare il torpore e a restituirgli la giusta
vitalità. La stimolazione manuale aveva fatto al
braccio quello che suo padre stava facendo alla
sua vita: con la sua presenza le stava iniettando
nuova linfa vitale. Una sconosciuta medicina
più forte e più potente di qualunque antibiotico
in circolazione: il vero mistero della vita. Nella
sua mente percepisce che qualcosa di
inspiegabile stava succedendo. Sente delle fitte
che non scaturiscono dal corpo ma dalla testa.
Forse è proprio così, dopo un lungo e penoso
travaglio Donata avverte le contrazioni del
parto. Lo sviluppo illogico della cellula ha
prodotto effetto. Una massa biologica dalle
sembianze umane. La sua psiche sta
concependo una nuova se stessa.
E’ lava incandescente quella che le circola in
vena, si sente viva, euforica, felice come un
124
usignolo. Come sono carina, si dice
osservandosi, e come mi sento bene.
Dalla cucina: un sordo gorgoglio. Acqua che
bolle e aroma. Sbuffi di vapore.
Il borbottio del caffè riconduce la ragazza al
presente. Quanto le era mancato quel piacere
mattutino; una delle tante cose che solo suo
padre poteva ridarle. E lo respira come
respirasse la vita, quella che le era stata negata,
così delicata, fragile. E intanto si sente
rinvigorire, prendendosi a carico nuova
energia. Capisce di essere più forte. Potente e
appagata come Dio.
La voce di suo padre dall’altra stanza: “Vieni,
o il caffè si raffredda. Sbrigati che poi
dobbiamo uscire.”
In quel momento il grammofono riprende a
suonare, e la musica e l’aroma del caffè si
avvinghiavano nell’aria, mischiando il sapore
alla melodia. E danzano assieme, solo e
unicamente per lei.
“Arrivo!” le grida Donata.
Grazie papà, grazie davvero.
Prima di uscire sbircia dalla finestra. Vuole
accaparrarsi lo schiarire promesso da un sole
non ancora sorto; ma rimane impressionata nel
notare un fatto straordinario. A tutto era
preparata, tranne a questo. Lì fuori, sotto lo
125
spannare di un bosco ombroso, l’orto tripudia
con una fioritura e un tramestio di colori
straordinario. E la luce che irradia non è opera
di scenografia.
“Non ci credo” fiata. Indugia nell’esprimersi,
interdetta e allo stesso tempo sbalordita. Per la
terza volta quel giorno.
“Dove mi porti, papà?” declama.
“In un posto bellissimo, qui a due passi.”
“Arrivo subito, concedimi un minuto per
cambiarmi.”
“No!” risponde perentorio. Intuisce d’aver
usato un tono brusco nel formulare quel
dissenso, quindi, notando l’attimo di
smarrimento impressosi sul viso della figlia,
cerca di riparare al danno assumendo un
atteggiamento più conveniente: “Non serve
amore mio, sei semplicemente bellissima e così
vestita stai che è una meraviglia.”
“Ma sono un disastro! Guardami, sono tutta
spettinata, indosso ancora le ciabatte. E poi non
posso mica uscire in camicia da notte!”
“Rilassati, te l’ho già detto, andiamo solo qui
sotto casa, e fuori, credimi, non fa affatto
freddo. Non ti fidi più di me?” Con la
gentilezza marcata sulle labbra e raffrontata nei
movimenti le accarezza il viso, e nota che le si
sgancia la corazza delle palpebre e si spiana un
126
minimo di sorriso. Le prende una mano. Si
annodano le dita, si saldano i palmi, le allunga
lo scialle e insieme raggiungono la porta
d’entrata che, per quell’occasione, combina con
quella di uscita.
Come gran parte delle giornate invernali
anche questa, protesa all’aspro cielo di
gennaio, elargisce la sua giusta dose di freddo
canino. Cristalli di brina sbiancano il terreno
indurito, ammantando la superficie arida e
liscia come un lenzuolo steso a protezione. C’è
qualcosa da salvaguardare lì sotto, qualcosa da
tutelare nel tempo e preservare al conseguente
degrado. Il mondo scivola sul manto ghiacciato
che unisce il cielo alla terra e dissolve in un
grigio scarabocchio il frastagliato contorno
delle montagne. La valle perde i confini e il
fiacco silenzio aleggia come un sogno leggero
sulle giogaie. Ogni suono ed ogni rumore si
ode in lontananza, fin sull’altro lato del
declivio. Il triste richiamo dei corvi e i primi
passi di uomini e animali, unici segnali di vita,
attraversando
il
paesaggio
invernale
preannunciano il risveglio di un nuovo giorno.
Emerse da nuvole di fiato e condensa e
congedate da una querimonia di foglie morte,
due ombre indistinte affrontano la gelata
127
mattutina, barattando la calda protezione di una
dimora con l’insensatezza di un percorso. Un
tratto di direzione che fiancheggia lo
stazionamento di un parallelepipedo cavo usato
a fontana, il quale ora butta soltanto un
rivoletto d’acqua ma che è assai sufficiente per
alimentare l’iceberg formatosi attorno. La
raggiungono. La oltrepassano, la fontana.
Quella sulla curva, proprio sotto il paese.
“Dove siamo diretti?” chiede ancor più
incuriosita Donata.
“In un posto che tu conosci bene. Ci stanno
aspettando tutti. Ci sono anche gli amici tuoi.”
“Quali amici?... Io non ho più amici.”
Intanto s’apre la valle in scenari teatrali. Le
luci dell’alba tinteggiano i passeri di un blu
diluito. Le creste sono assorbenza per
l’inchiostro della notte. I campanili evocano
preghiere, penitenze, residenze eterne. La semi
oscurità è avvolgente e penetrante, affine al
vento polare che raschia per tutta la sua
lunghezza i brumati terrazzi della Vallarsa: un
gelido zefiro trascinato fin lì dalla mordace
schiarita notturna. La ragazza avverte sulla
pelle la lama pungente del ghiaccio, ma non
lamenta alcun fastidio; non è il momento di
soffermarsi su certe sottigliezze. Anche se il
suo corpo esternamente è scosso da brividi
128
improvvisi, dentro spadroneggia un ardore
dirompente. Riavere suo padre è quanto basta
per riscaldarle il cammino.
Raggiungono il noce dormiente. Lo
oltrepassano. Raggiungono il tiglio sfiorito. Lo
oltrepassano. Rasentano il diradato pendio.
Misurano con lo sguardo il dislivello tra due
future terrazze erbose. Ne constatano la
pendenza. Non le oltrepassano ma le raggirano.
Poco più avanti intravedono un bagliore.
Alcune luminarie a petrolio appese ai meli e ai
ciliegi di cinta colorano di luce un normale
pianoro sterrato. Un vociare confuso, tanta
musica. E’ quella di una vera e propria ganzega
l’euforia che si eleva dal campetto sottostante
la strada. Aria di festa. Di brindisi. Di ovazioni.
Sicuramente lì sotto si celebra qualcosa.
“E chi sarebbe il matto che festeggia a
quest’insolita ora del mattino?” chiede Donata
sbigottita.
“Quei matti siamo noi” risponde lui, “e
questa è la nostra commemorazione: quella per
il mio ritorno e il proseguo di una futura vita
insieme.”
“No, non è possibile…”
La prende per i fianchi. La fa avvicinare
perché capisse.
129
Il prato è invaso dalle persone. Gran parte di
loro giovani, più o meno dell’età di Donata,
altri leggermente più anziani, anche se tra i
quali, ad occhio, nessuno raggiunge l’età di suo
padre. I maschi indossano una divisa militare,
le femmine sfoggiavano un vestito lungo e
sgargiante, da cerimonia. Parlano lingue
diverse ma incredibilmente riescono a
dialogare senza nessuna difficoltà. Scherzano e
ridono, si divertono. Sembra, da come si
comportano, che si conoscano da tempo.
Quando scorgono Pietro e Donata,
s’azzittiscono, uno dopo l’altro, come per
riflesso, indugiando allibiti e allo stesso tempo
incantati. Vi si profila uno scenario nuovo,
diverso, mai interpretato. Un tipo alto,
dinoccolato, con un viso scarno e gli occhi
tristi di chi nella vita ha più subìto che ricevuto,
s’avvicina alla coppia. Una spremitura di
brillantina mette in mostra la riga perfetta dei
suoi capelli, che luccicano non meno delle
stellette di metallo sugli alamari e la collezione
di medaglie che tiene spillate al petto. Saluta
militarmente, portando di scatto la mano destra
alla fronte e posizionandosi impettito
sull’attenti.
“Benvenuta
signorina,
la
stavamo
aspettando” dice l’ufficiale. Una ragazza da
130
dietro sperimenta un timido battito delle mani,
che immediatamente viene plagiato dagli altri.
Dopo pochi secondi l’intera guarnigione si
unisce in un applauso scrosciante.
Lei non capisce, ma non le importa. Si
accosta al fianco di suo padre, quasi a volerci
entrare. Lo percepisce un posto sicuro.
“Quanta gente papà, ma io… io non conosco
nessuno.”
“Non è vero piccolina, tu li conosci tutti, e
molto bene anche. Solo che prima d’ora non li
avevi mai visti.”
“Ma…”
All’estremità opposta del prato, a ridosso
della siepe che ne delimita il confine,
un’improvvisata orchestrina da campo esegue
musica da ballo. E’ il solito, inequivocabile
repertorio viennese. Ognuno dei presenti, rapito
dalla melodia del brano, cerca una propria
compagna per offrirle un festoso giro di valzer.
Donata è confusa, emozionata, le sembra di
vivere un sogno sconnesso. Uno di quelli con
le principesse e i cavalli bianchi, fatto di
zucche e scarpette di cristallo, perse sulle
infinite scalinate di austeri manieri. L’eterno
sogno di una ragazzina smarrita nei meandri
del proprio destino.
131
All’udir quelle note, l’uomo afferra Donata,
la trattiene per il polso, se la tira delicatamente
contro e, mentre la guarda negli occhi, sfila
l’orchidea
conservata
fin
da
prima
nell’occhiello della giacca e la intrappola con
l’aiuto di una forcina tra i suoi capelli disciolti.
“Adesso sei splendida” pronuncia Pietro
sistemandogli l’acconciatura.
Alla fine ci riesce. Erano secoli che non
succedeva; anche se si impegnava o si
sforzava, non arrivava al dunque. Solo adesso,
svincolata dalle ganasce che per anni tenevano
compresso quel sentimento, lui riesce a farla
piangere. Non è il pianto di dolore quello, ma il
pianto liberatorio, prodigo. Le si intorpidiscono
gli occhi, allora le passa una falange sulle ciglia
e le dice: “Ehi, cos’è tutta questa mescalina?”
La goccia salata non conosce da troppo tempo
la forma delle sue guance, la linea del suo viso,
l’abbaglio che la colloca tra le palpebre
socchiuse. Silenziosa per natura, da canali
interni scivola giù, sobbalzando tra le pieghe di
una smorfia, e a scavalcarla, e ancora più giù,
fin sotto al collo. Viene cacciata dal pozzo di
un cuore fiacco che sempre di più fatica a
galleggiare. Dovrebbe considerarla una vittoria,
questa. Una conquista inaspettata. E’ il
132
ricongiungimento alla sua gioia più pura,
finalmente.
“Vuole questa dolcezza degnarmi di un
ballo?”
“Certamente mio sire.”
E si tuffano in quel delirio di suoni, a cavallo
di una giostra fatta di gente in festa, assieme a
persone alle quali era stata promessa una patria,
un futuro, ma che in cambio avevano dovuto
sacrificare le loro stesse vite. Eroi senza nome
e senza gloria, figli di un paese che li aveva in
parte dimenticati. Adesso finalmente una casa
se la sono conquistata, e sta tutta dentro il
cuore di quella donna.
Più di settanta ragazzi uniti in una virtuosa
danza collettiva. Più di settanta croci piantate
nell’arido e gelido sottosuolo di un
camposanto, ritrovando forse in quel posto la
pace per cui avevano combattuto.
La ragazza è in estasi, affascinata, come
quando da bambina rimaneva ore ad ammirare
mamma gatta che giocava coi suoi cuccioli, o
quando stava assorta a valutare le innumerabili
sfumature di un arcobaleno.
Le gira la testa. Le salterellate circonferenze
di pista danneggiano l’equilibrio. Allora si
ferma, si toglie lo scialle e lo usa per cingere il
collo a suo padre. Lo tira verso di sé, gli
133
sussurra: “Ti voglio bene papà. Promettimi che
adesso la vizierai per benino questa tua figlia.”
Così facendo gli recapita un bacio d’affetto e,
con un gesto che lambisce la malizia, gli
morsica lo zigomo sbarbato ma pizzicante.
“Se è questa la tua richiesta, vedremo di
soddisfarla. A meno che tu non mi voglia
mangiare prima!”
Ridono felici, come da tanto non succedeva.
Riprendono a ballare.
Alla fine di quell’orbita si sente stremata, il
fiato s’è fatto grosso, la stanchezza e
l’emozione per tutte quelle sorprese hanno
preso il sopravvento. Sente le palpebre pesanti
come macigni e il sonno che bussa incallito alla
sua porta.
Abbracciando suo padre le appoggia
delicatamente il mento sul petto, abbassa lo
sguardo. La riga degli occhi si salda. Un vuoto
d’ombra l’avvolge.
Si addormenta senza sognare.
134
domani
Mario chiuse con un colpo energico il
portellone posteriore del suo Fiat Ducato. Era
da più di un mese che doveva far sistemare
quella maledetta serratura, e se alla portiera
non dava una spinta vigorosa e con la dovuta
cattiveria, avrebbe corso il rischio che durante
il viaggio si aprisse da sé, inavvertitamente,
perdendo per strada parte del carico. La
Famiglia Cooperativa di S. Anna occupava
quasi tutto il pianterreno di un edificio di
recente
costruzione,
l’istituto
bancario
insediava solo una piccola parte del fabbricato,
il lato ad ovest. Sul pianoro di fronte si
stendeva il piazzale adibito a parcheggio e ai
lati si ergevano il teatro comunale, la scuola
materna e il bar del paese. Un valido punto
nevralgico per quel che riguarda l’economia
135
locale, non c’è che dire. Arrivò che lo spiazzo
era immerso nella semioscurità e faceva
freddo; un freddo foriero di neve, che però, se
pur il terreno sotto i piedi fosse duro come il
ghiaccio, il vuoto del cielo sopra la testa
sbugiardava tale sensazione. Nel parcheggio
regnava il deserto, nessun rumore inconsueto.
Soltanto lo spasmodico abbaiare di un cane,
proveniente dalle case giù a valle, dotato
indubbiamente di gran voce e temperamento
furente; e l’acuto sferragliare delle sue ceste
metalliche che strisciava estraendole dal vano
di carico e le accatastava sull’asfalto. In un
paio di abitazioni si intravedeva una luce,
qualcuno che stava sveglio. Nelle altre, cupe,
probabilmente dormivano ancora. Finito di
scaricare incastrò nella cesta dei prodotti la
copia siglata della bolla di accompagnamento.
Come sempre aveva sistemato tutto davanti alla
griglia basculante, pronto per essere allineato
più tardi sulle scaffalature espositive. Un
rumore poco distante. Il fascio luminoso di due
fanali in movimento. Una macchina che si
avvicinava. A tutto gas.
Arrivò lì in un baleno. Guadagnato il tornante
liberò la sterzata, predisposta a inseguire una
retta fatta d’asfalto e segmenti verniciati di
bianco: a tratti continui, a tratti no. Trovatosi in
136
traiettoria puntò gli abbaglianti in fronte a
Mario che, bestemmiando e portatosi una mano
a visiera, si scostò di qualche passo, semi
accecato. Il motore dell’auto rombava e gli
pneumatici stridevano ad ogni curva
impegnata. Quasi certamente un ritardatario
che si dirigeva sul luogo di lavoro in tutta
fretta. Qualunque fosse stata la sua meta era
indubbiamente ancora distante, perché in un
attimo arrivò e in un attimo se ne andò,
portandosi dietro il frastuono del motore tirato
per il collo e lasciandosi alle spalle centimetri
di battistrada e puzzo d’olio bruciato. O quello
è Niki Lauda o è pazzo, pensò il consegnatario.
Sì, perché bisogna essere pazzi a correre in
quel modo per andare a lavorare. In scia a quel
concetto Mario si sistemò alla guida del
Ducato. Accese una sigaretta e, scrollando il
capo, avviò il motore. Partì nello stesso istante
in cui con le dita pigiava lo start dell’autoradio.
Di tanto in tanto lungo il tragitto buttava un
occhio agli specchietti retrovisori. Meglio non
fidarsi.
Percorreva tutti i giorni quella strada, fin da
quando aveva assunto l’incarico di smistare i
prodotti caseari della Centrale del Latte di
Trento ai vari spacci alimentari della zona. E
giocoforza doveva farlo alle prime ore del
137
mattino, prima che i negozi alzassero le
serrande.
Abbassò leggermente il finestrino laterale per
far sì che il fumo uscisse liberamente.
L’autoradio cantava musica italiana. Anni
sessanta.
Oltrepassò il ponte di Arlanch che stava
albeggiando. Leggera salita. Il motore diede
una stizza di disappunto. Allora scalò una
marcia. Fumo nero dalla marmitta e rumore di
ingranaggi; ma fu una terapia azzeccata perché
in un attimo il furgone riprese a respirare.
Rinvigorito puntò l’erto che agguanta il paese
di Anghébeni. Sopraggiunta l’ultima curva,
poco prima delle case, girò istintivamente lo
sguardo verso il declivio. L’aprirsi della valle
era scenografico. Al punto focale: la
Vallagarina. Sui fianchi: boschi vigorosi,
vitigni e coltivazioni ortofrutticole. Appena
sotto: il sepolcreto militare. Fu su quello
scorcio che venne attratto da qualcosa di
insolito, qualcosa che spiccava nella penombra,
come se una strana configurazione alterasse la
rigorosa linearità del camposanto.
Parcheggiò sulla banchina, scese gettando il
mozzicone sull’asfalto. Ci pestò sopra e, con
un espiro liberatorio, esalò l’ultima boccata di
fumo. Poi, a piedi, scese il sentiero.
138
L’avvicinarsi a quella forma confermò l’ipotesi
formulata: accasciato ai piedi di una malmessa,
visibilmente sghemba croce lignea, giaceva il
corpo di un essere umano. Braccia protese.
Mani increspate come mare in burrasca. Mani
ferme, quindi passata è la tempesta: maltempo
in evidente attenuazione. Ma il fatto strano era
che, malgrado la rigida temperatura del mattino
e l’inadeguata collocazione del soggetto, esso
profanava la sacralità del luogo ricoprendo la
sua nudità con una semplice, lisa, consunta
camicia da notte. Tratteneva un infeltrito scialle
di lana, l’inerte figura, probabilmente
confezionato anni addietro dalle stesse mani
che lo stavano afferrando. Con esso avvolgeva
l’incrocio dei legni.
Oltremodo allarmato si precipitò.
Con l’avvicinarsi l’intuizione si fece
certezza: quell’essere è donna. Anziana a
vedersi. Ma chi?
Con estremo tatto rollò il corpo, ed era come
ribaltare un secolare tronco di pino appena
segato. Il braccio contratto cadde sotto il
fianco. Il dorso della mano toccò il pietrisco
che risuonò come pacciame calpestato. Occhi,
naso e bocca rivolti svelarono un nome.
Donata?... Ma cosa ci sei venuta a fare qui
sotto benedetta donna.
139
Mario, abitando a Foxi, conosceva fin da
piccolo Donata. Sua madre, nel susseguirsi
degli anni, lo aveva messo al corrente delle
traversie subite.
“Quella donna è stramba” diceva Mario.
“E’ la vita che è stramba” rispondeva sua
madre.
Era a conoscenza del lavoro nei campi, degli
anni passati al servizio di un fornaio. E ora, a
sviluppo
compiuto,
pur
biasimandola
comprendeva quel suo mondo solitario che
s’era proposta di ricalcare. L’aveva conosciuta
che stava sola, la vedeva in giro da sola, e
adesso se la ritrovava lì, incondizionatamente
sola. Nel suo cerchio s’era creata la reputazione
di una donna mesta, ostinatamente triste; non
del tutto scoraggiata o remissiva, ma infelice sì,
su quello i dubbi filavano via che era una
meraviglia. Dava a chiunque l’impressione che
dovesse rincorrere l’eterna ricerca di qualcosa,
ma non s’era capito bene se di qualcuno o di se
stessa. La prima impressione che uno si faceva,
comunque, era quella di trovarsi di fronte una
signora a modo, certamente strana, ma proba.
L’onestà di chiunque si trascini dietro quella
fievole luce. Il nebuloso vagabondare di chi
ignora la via. La lucente traccia di una lunga
aspettativa che forse, adesso, s’era compiuta.
140
Una faccia senza volto sembrava quella,
opaca, senz’occhi, bocca, spoglia di parole.
Sprovvista di suono.
Ora teneva in grembo il suo non viso. Non
emetteva nessun tipo di rifrazione quel non
volto, non un barlume, non un respiro; si
compiacque nello scoprire in esso l’espressione
di chi non sembri avesse patito sofferenza,
anzi, lo trovava avvolto in un’aurea di autentica
beatitudine. Uno stato di pacata quiete
interiore.
Cosparse da un fragrante effluvio di lavanda,
sembrava addirittura che le sue labbra stessero
sorridendo.
Istintivamente le accarezzò la guancia
raggrinzita. Rimase esterrefatto nell’appurare
l’indeformabilità della morte. Il congelamento
della vita.
Un raggio di sole – il primo quel giorno –
cascò traversale, sparpagliando lame di luce
novella. Il fascio si profuse anche al ceppo
metallico – base d’appoggio ai cardini di ferro
zincato del cancelletto all’entrata del cimitero –
che sperperò abbagli a destra e a manca.
Accecatosi, Mario fu costretto a deviare lo
sguardo su un particolare diverso. I capelli per
esempio, o le spalle. Una singola parte alla
volta: a vederlo interamente, quel corpo,
141
sarebbe stato eccessivo. Nuovamente il suo
olfatto fu colpito da un intenso, mellifluo
profumo. Più dolce della lavanda.
Impiegò un po’ di tempo nel capire che l’aria
era cosparsa dalla fragranza di un candido
fiore. Labelli prominenti e petali immacolati
che la donna esibiva tra i suoi lunghi e soffici
capelli d’argento.
142
epilogo
Terminò così questa storia.
In un mattino come un mattino qualunque,
con il fastidio di un vento sfacciato che fino a
quel momento, contrariamente ad ogni logica
nonché equilibrata aspettativa, buttava da Nord.
E così, come la brezza mattutina con
l’avanzar dell’aurora s’ammorbidiva, anche la
veemenza delle raffiche degradava, e l’ultima
folata bastò appena per raccogliere da terra una
manciata di foglie sparse e immolarle al volo,
destinando ognuna di queste a posti lontani.
Curiosamente due di loro stavano ancora
attorcigliate, un intreccio così solido che
l’estrema forza di una ventata non sarebbe mai
riuscita a dividere. Rimasero a mezz’aria,
vibrando e piroettando in un vortice festoso,
pronte a scomparire nel blu di quel cielo che
sconfinava sopra le loro ombre. Doveva aver
143
risalito l’arcobaleno, quella saldata foglia, che
la consegnerà alle nuvole e al sole. E se
incontrerà il fulmine della tempesta o un vento
assai violento non avrà nessunissima paura
perché è facoltà sua – loro – discernere la retta
via e quindi saprà orientarsi e riprendere la
direzione opportuna per tornare dove la valle e
le montagne hanno scelto di esistere, per fare in
modo che il bosco rinvigorisca i pendii, il
torrente attraversi i campi e, più in alto, le
giovani aquile ritrovino il loro nido.
Insieme stavolta.
Stavolta per un mai più addio.
Comincerà un’altra storia. Così. Con un’alba
aggrappata alle cime più alte e un vento
leggero e tiepido il quale, debitore di ogni
logica
nonché
equilibrata
aspettativa,
inesorabilmente butta da...
144
145
146
La stanza in cima alla
torre
147
148
Al tempo in cui il filosofo tedesco Fredrich
Nietzsche istruiva a cogliere l’essenza della
vita che si nasconde dietro il dato apparente; lo
scrittore irlandese Oscar Wilde si riavvicinava
all’amato Lord Alfred Douglas detto Bosie,
suscitando non pochi dissensi sulle bocche
della buona società; e il poeta pescarese
Gabriele D’Annunzio si trasferiva a Firenze per
vivere la sua più intensa storia d’amore con
l’attrice Eleonora Duse, in un piccolo paese
della Vallarsa trentina io, maniscalco Serafino
Matassoni, figlio illegittimo di Geremia
Matassoni, che per non destare pubblico
scandalo sposò mia madre malgrado fosse a
conoscenza della sua gravidanza clandestina,
ebbene, dopo tutto questo popò di cose che
v’ho detto, a quel tempo io non tenevo ancora
una fidanzata.
149
Be’, forse ce l’avrei anche avuta una ragazza,
solamente che la mia prescelta non era mai
stata messa al corrente dell’impegno che io
stesso, in maniera del tutto arbitraria, le avevo
assegnato. Ero talmente innamorato di quella
donna che avrei schiodato Cristo dalla croce se
me lo avesse chiesto, ma la tremenda timidezza
che da sempre m’attanaglia il fegato, mi teneva
recluso in una diffidenza tale da non avere mai
avuto il coraggio di proclamarmi. Ardeva
dentro di me quel tipo di innamoramento che si
potrebbe
catastroficamente
classificare
apocalittico, non so se mi spiego.
Silvia era la ragazza più bella del mondo. Del
mondo che avevo visto e, quasi sicuramente
nonostante la mia accresciuta età, di quello che
non avevo ancora avuto modo di scoprire.
Mancava
qualche
giorno
al
milleottocentosettantaquattresimo Natale della
storia quando, tra sventolii di bandiere e squilli
di trombe, sgattaiolai su questo mondo. Dopo
aver fatto urlare mia madre e sudare le comari,
abbozzai la prima poppata, quindi fui avvolto
in una coperta pulita e adagiato sulla balla di
fieno ai piedi della mangiatoia delle vacche,
come Gesù, e come Lui mi ritrovai un padre
adottivo che giocoforza dovette accollarsi
un’altra bocca da sfamare. Una minima
150
differenza denotava il fatto che il mio, di padre,
non lavorava il legno ma coltivava la terra e,
all’epoca, chi coltivava la terra viveva una
condizione di assoluta povertà.
Ma credo che anche in questo un po’ ci
somigliavamo.
Nella nostra casa di Foppiano di bello c’era
poco. La ricordo senza troppa nostalgia, con
muri neri di fumo, pavimenti unti e stanze
assediate dalle mosche. Come una latrina
attraverso il tempo, tuttora mi ritrovo la
memoria satura dai miasmi del letame e
dell’acetilene. Tutto, a cominciare dalle
lenzuola di flanella, dalla calce passata sui muri
o dai pochi vestiti posseduti, era ricoperto da
una patina simile al burro, quello rancido però.
Un colore giallo nerastro che si insediava negli
occhi e alterava la vista. Al mattino, quando di
malavoglia portavo le capre al pascolo, vedevo
ogni cosa di quel colore così sudicio e
disorientante, come se guardassi il mondo
attraverso un culo di bottiglia. Persino la
vallata e i verdi prati del dosso Oveche li
percepivo così: depressi e malandati. Ma
c’erano due cose in quella casa che consideravo
ricchezze. Una era la cavalla Beatrisa Felisa
Dia de Consuelo, una raffica di nomi che mio
padre gli affibbiò avvalorando la sua fissazione
151
per gli sfarzosi lignaggi di derivazione iberica.
“Detengono un fascino tutto loro…”,
sciorinava vantando una cultura piuttosto
discutibile; e terminava la frase con: “…Cosa
che tu non potrai mai comprendere, considerate
le tue origini.” Pertanto, siccome non lo avrei
mai capito quel nome, pensai bene di storpiarlo
sul nascere chiamandola semplicemente Bea.
Bea era un favoloso Haflinger nato
dall’accoppiamento di una cavalla indigena con
uno stallone arabo El Bedavi. Ancora non lo
sapevamo, ma era stato grazie ad un incrocio
simile che non troppo distante da noi, nella
zona sudtirolese di Avelengo, si diede inizio
alla tutt’oggi titolata razza Avelignese.
Già al suo primo anno, il ronzino sfoggiava
uno splendido mantello sauro-dorato, il ciuffo e
la criniera color del grano maturo e la coda dai
crini abbondanti, sottili e lisci come la seta.
Inoltre si contrassegnò di un particolare che la
rese unica: claudicava vistosamente. La causa
era da imputarsi allo sfilacciamento dei tendini
debito di una caduta dal muretto di sponda alla
strada; cosa che a me non interessava un
accidente, tanto era intenso il rapporto con il
quadrupede. Ancorato ai finimenti e brandendo
un paletto appuntito mi proclamavo il principe
della foresta. Sfidavo i mostri e combattevo i
152
mulini a vento attinti dalla fantasia che la
striminzita letteratura di cui disponevo mi
evocava.
Giocavo da solo, e da solo dialogavo:
“Seguimi, Sancho Panza, e ti farò governatore
dell’isola promessa.” Poi, cambiando il tono
della voce: “Ma io ho sempre fatto il barbiere!”
“Be’, direi che il barbiere non fa per te”, mi
rispondevo cercando di rispettare le trame che
sapevo a menadito. Andavo altezzoso
affermandomi imbattibile in groppa al mio
destriero. Quante battaglie avevo affrontato in
compagnia dell’equino! Quelle che da grande
avrei combattuto ogni giorno, modellando
zoccoli e pareggiando scatole cornee
asportandone l’eccessiva crescita e bloccando
su queste ferri sagomati forgiati al momento, su
misura e ognuno a seconda delle rispettive
necessità. Credo sia stato grazie a Bea e alla
sua tendinopatia che ho iniziato ad avvicinarmi
ai cavalli, finendo poi per esercitarla come
professione l’arte della mascalcia…
…l’altra, era un vecchio baule di legno che i
miei tenevano in soffitta. Non era tanto grande,
e forse per ciò lo ricordo zeppo di ninnoli e
cianfrusaglie. Straripava di roba inutilizzabile
ma non per questo da buttare in chippa.
153
“Potrebbero sempre tornare utili!” ribadiva
premurosa mia madre.
M’incuriosiva più d’ogni altra cosa rovistare
dentro quel ben di Dio. Quando s’accendeva la
smania mi fiondavo in soffitta e, inginocchiato
come un credente di fronte all’effige del Santo
patrono, suffragavo le mie pene al cospetto del
mistico sarcofago. La mia, però, era una
penitenza calcolata; già, perché mi sollevava
sapere che al suo interno c’avrei trovato di
tutto: dall’armonica a bocca di mio padre – che
tra l’altro non ho mai sentito suonare una sola
volta – alle sgalmere consunte dello zio Arturo.
Dai pantaloni di lana strappati sulle cuciture
che indossavano i miei cugini andando alle
sagre di paese, alle boccette di china con le
colature seccate sui bordi. C’erano persino
alcune corde di violino arrotolate e fissate con
lo spago; una scatolina contenente diversi
bottoni di metallo, di pelle o in madreperla, e
l’unica lettera d’amore che mio padre scrisse –
diversi anni prima – a quella donna che in
futuro sarebbe diventata sua moglie: ovverosia
mia madre. Ma il bello stava all’inizio, la prima
cosa che balzava agli occhi quando il baule
veniva disserrato. Appena sollevavo il
coperchio, al di sopra di tutto, come avessimo
siglato un patto di comune accordo o
154
controfirmato un appuntamento senza termine,
trovavo lei, come sempre lì ad aspettarmi,
irremovibile. Era una consunta ma per nulla
indecorosa scatola dei biscotti Dessler in cui
mia madre conservava i suoi preziosi. Un paio
di orecchini di ambra nera, un rosario di
madreperla, una medaglietta d’oro colombiano
fine come un’ostia, il manifesto del circo
Barneby ripiegato in cinque parti e alcuni
fermacapelli argentati. C’era pure un libretto
per le messe, dove dei piccoli quadrifogli
essiccati distendevano i loro petali tra le note
dei canti eucaristici e, dentro una busta di carta,
il mio primo taglio di capelli.
Arruffavo la ciocca sul palmo della mano
sorridendo, mi sembrava un minuscolo nido di
quaglia. Ma la cosa più strabiliante era la magia
che emanava il manifesto circense. Lo ritenevo
un documento dai profluvi sacrali, con i bordi
frastagliati e le immagini colorate. Sullo sfondo
ci stavano disegnati gli animali esotici, tra cui
rettili indescrivibili e rapaci uncinati.
Mangiafuoco e donne barbute a sfidarsi su un
letto di chiodi; l’ammaestratore panciuto dotato
di frusta a intimorire i leoni. In primo piano lei:
la mia ragazza. Detiene il viso di un angelo
quella donna che volteggia leggiadra sul
trapezio, impegnata in un salto a mezz’aria.
155
Indossa una tutina infittita di sottili righe
turchesi su sfondo bianco e la luce del sole si
sbriciola contro le mille paillettes del bustino.
Lo porta talmente attillato da rendersi
impreziosita di una grazia affilata. A
completamento un nastro rosso le si annoda fra
i capelli. Calza ballerine di lacca chiuse con le
stringhe. Avrei giurato che volasse.
Quando incontrai per la prima volta Silvia,
m’era sembrato come se la ragazza si fosse
materializzata dal poster del circo Barneby per
mettersi a scalpicciare in lungo e in largo
l’acciottolato della piazza assediata dai
banchetti e barroccini. Avevo suppergiù
dodic’anni, e per la prima volta non mi
sembrava vero quello che stavo vedendo. Una
percezione impossibile. Al grande mercato di
Rovereto c’eravamo andati per vendere i
tacchini e gli asparagi selvatici. Aveva piovuto
tutta la settimana, perciò dalla casa di Foppiano
ci separavano otto chilometri di sentieri
fangosi. Mio padre stava davanti al gruppo col
cappello di feltro in testa, la bottiglia del vino
in mano e mia sorella sulle spalle; una brunetta
dagli occhi cerulei, sempre raffreddata e con il
moccolo verde al naso. Dietro, mia madre con
l’artrite che quel giorno la faceva ammattire più
del solito, e i corbelli degli asparagi come cespi
156
di rose contro ai quali, sballottando ad ogni suo
passo, si fustigava le gambe. Ogni tanto
accennava una smorfia di sofferenza,
socchiudendo le palpebre e corrugando la
fronte; un fiume di afflizione che le sfociava
grinzoso attorno agli occhi. A ben pensarci,
non le avevo mai notato delle rughe così
profonde. In mezzo ci stavo io che
m’affidarono il compito di trasportare i
tacchini. Li avevamo rinchiusi in gabbie di
legno e filo di ferro intrecciato a rete, uno
ridosso all’altro come stracci dentro un secchio
bucato. Cinque cellette poco più grandi di
un’urna, stipate sopra un misero carretto di
salice. Spingevo il carretto e i goglottii mi
trafiggevano i timpani. Impietosito dall’incivile
costrizione, a turno li liberai per far loro
prendere respiro. Tuttavia, siccome non
dovevano scappare, a quel genio di mio padre
venne l’idea del secolo. Legò una corda
passandola dal collo fin sotto le ali dei volatili
e fissandone l’estremità al timone di traino,
quindi ogni tre passi inciampavano e
sbraitavano come forsennati. Per mia
disperazione,
gli
animali
cercavano
continuamente di razzolare nel fango e, una
volta arrivati a Rovereto, più che tacchini
157
sembravano dei grossi corvi sporchi e
spennacchiati.
Mi venne da sorridere nel vedere come si
erano conciati, ma la risata non fece in tempo a
smuovermi le labbra che un sonoro
manrovescio mi girò la faccia dall’altra parte.
“Disgraziato!” sentii urlare mio padre.
Mi voltai e mi scontrai contro il suo sguardo
truce, due occhi avvampati e un braccio ancora
alzato.
“Guarda cos’hai combinato!” E giù un altro
sganascione.
Teneva la mano pesante, lui, la mano di chi è
costretto a trascinarsi in vetta per riuscire a
sopravvivere; di chi sa che più la corrente è
forte più bisogna vogare per guadare il fiume
ma, ahimè, il controllo del mezzo non è mai
stato il suo forte. Trattenni le lacrime solo per
non dargliela vinta. Ero furioso e ostinato.
Dovevo essere ostinato. Tentai di contrastare il
suo sguardo contrapponendo la mia rabbia alla
sua tracotanza, mentre col bordo degli incisivi
mi procuravo una ferita alla base del labbro.
Ma erano i suoi di occhi a ferire di più;
percepivo quelle minuscole fessure dalle
pupille come capocchie di spilli infilzati nella
carne. Mi sentii disprezzato e trafitto, come se
dai denti di una serpe defluisse tanto odio
158
quanto veleno. Mi stava sfidando, e io in
qualche modo resistevo. Con tutto me stesso.
Non sapevo per quanto ancora, ma immaginavo
che prima o poi sarebbe successo. Non ero
portato per la lotta dura. La collera cominciava
ad offuscarmi la vista e il mio colorito doveva
essere paonazzo. La guancia arroventava come
carne alla griglia. Alla fine cedetti, e nel bel
mezzo del mercato fui costretto ad abbassare il
capo, preso in ostaggio dal rimorso e
dall’imbarazzo. Fu proprio su quel ripiego che,
infervorato dalla situazione, dalla sua bocca
uscì la frase che nessun figlio vorrebbe mai
sentirsi dire: “Allora sei proprio scemo! Chi
vuoi che compri un’animale ridotto così? Sei
un buono a nulla. Su questo, non ti smentisci
mai.”
Mia sorella osservava la scena con un mezzo
sorrisetto divertito, da ebete.
Allora cercai mia madre. Anch’essa mi
guardava, ma con penosa rassegnazione, senza
dire nulla. Quanto odiai quel suo atteggiamento
patetico.
Riuscì a far passare solo una manciata di
secondi, attimi che per me equivalsero a
un’eternità, quando provò a intervenire in mia
difesa. Ma come ben immaginavo, l’unica cosa
159
che fu in grado di ribadire era stato: “Dài
Geremia, è solo un ragazzo.”
“Ragazzo un corno!” urlò mio padre. “Alla
sua età mi stavo già spaccando la schiena su e
giù per i boschi, mentre la sera mi scoppiavo le
vesciche ai piedi! E’ un fannullone buono a
nulla, ecco cos’è il bastardo. Sappi che mi
vergogno di averlo riconosciuto come figlio.
Mangiapane a tradimento!” apostrofò portando
la bottiglia alle labbra.
Quelle parole mi percossero più del ceffone.
Ma il colpo di grazia me lo dettero i taciti
giudizi dei passanti, quando li sentii depositarsi
sulla mia persona, freddi e pesanti come lastre
di marmo. Maledissi mia madre e la sua
remissività. A quel tempo, anche un suo
piccolo aiuto m’avrebbe dato la forza di
sostenerli.
Ebbi un brivido. Mi sentii smarrito. Avrei
voluto fuggire, scappare lontano, nascondermi
e non farmi più vedere. In pochi minuti ero
diventato lo zimbello dell’intera piazza;
l’ingenuo spaventapasseri bersagliato dal
puntiglioso stormo di corvi. Cosa avevano tutti
da guardare? Cosa avevo fatto di così terribile?
O era stata tutta quella sceneggiata a
incuriosirli? Questo non lo potevo sapere ma,
su quella difesa negata, compresi chiaramente
160
quanto il pensiero di mia madre, di fronte alla
testardaggine del marito, fosse considerato
vano e insignificante. Proprio su quel fatto
codificai la sua vita. La trovai angosciata,
fragile, perennemente in bilico, come un filo
d’erba che vortica sull’orlo fatale nel mulinello
di una fontana.
Così, con gli occhi lucidi e la testa dolorante,
nel bel mezzo della fiera mi misi a ripulire i
tacchini, togliendoli le croste di fango con un
pugno di paglia.
Fu in quel momento che, alzando la testa, la
vidi passare. Sembrava una dea discesa
dall’Olimpo. Appariva e spariva in mezzo alle
sue amiche, come il brillio di una stella tra le
nubi di un fosco cielo notturno. Chiara breccia
tra nuvole temporalesche. Stella polare dei miei
pensieri. La farinosa e lucente scia di una
cometa che io inseguivo con lo sguardo, mentre
mio padre bestemmiava perché nessuno
avrebbe mai comprato dei tacchini così sporchi,
evidenziando più che mai la mia colpa.
Ma ormai ero altrove. Non le sentivo neanche
più le sue ingiurie. Vedevo in controluce un
torrione sulla cui sommità s’apriva una fessura
stretta e sprangata. Non riusciva una solida
grata di ferro a impedire alla luce di uscire,
come non riusciva a trattenere quelle candide
161
mani principesche protese nel vuoto e una voce
supplice a invocare il mio aiuto. E immaginavo
che lui fosse l’Orco e i pennuti, trasformatisi in
draghi, ostacolavassero la mia avanzata, con
quella loro coda serpentina e le trucide fauci
esalanti zolforee alitate di fuoco; allora io, il
valoroso salvatore dal cuore impavido, li avrei
sfidati alla morte, tutti quanti, anche l’Orco, in
modo da procurarmi il libero accesso alla scala
che portava nella stanza dov’ero certo lei
m’attendesse. Lassù, in cima alla torre.
“Dovrei vendere te, altro che i tacchini!”
sgolava mio padre al di fuori del vaneggiato
campo di battaglia. “Ammesso che qualcuno ti
voglia” aggiunse svuotando la bottiglia.
Lui era così. Se cominciava la giornata
imprecando avrebbe continuato fino a notte
inoltrata, capacissimo di demolire a testa bassa
ogni
trascurabile
iniziativa
intrapresa.
Ragionare con mio padre sarebbe stato come
scavare un pozzo nel mare: puoi metterci tutto
l’impegno possibile, ma buche non se ne
formano. Soltanto un enorme quantitativo di
vino lo avrebbe steso la sera, riportandolo da
un’alcolica, momentanea e rissosa loquacità
alla sobria insicurezza di sempre. Allora
pensavo che sì, magari si fosse fatto avanti
qualcuno per comprarmi e portarmi via,
162
discostandomi una volta per tutte da
quell’essere così meschino.
Alla fine avevamo venduto i tacchini e gli
asparagi di bosco. Con quei soldi mia madre
comprò l’olio, lo zucchero e la farina, ma
quella sera stessa la sua fronte accolse una ruga
nuova.
Tornammo molte altre volte al grande
mercato di Rovereto. L’umore di mio padre
non mi importava più granché. Per me, quelle
erano giornate di festa, le uniche che avessero
un senso su tutte le altre dell’anno. Facendo
pascolare le capre e specializzandomi nel
ferrare i cavalli, aspettavo con impazienza il
giorno di fiera. Per incontrare Silvia che non
sapevo ancora si chiamasse così. Per rivedere il
suo volto, sentirla dialogare con le amiche e
imparare a distinguerne il timbro della voce.
Così giorno dopo giorno, senza che mai mi
adocchiasse veramente, malgrado gli sporadici
tentativi che escogitavo per attirare le sue
attenzioni la vedevo crescere, fiorire e
modellare il suo corpo con linee morbide e
voluttuose. Diventare sempre più bella. Ogni
volta di più. E ogni volta di più mi sembrava
irraggiungibile, sempre più rinchiusa nel suo
castello.
163
Finché, dopo anni di tentennamenti, scoprii il
suo nome.
Lo sentii pronunciare dalla signora al banco
del pesce, di sfuggita: “Ecco Silvia, due
meravigliose trote di lago appena pescate. Te le
tengo segnate e… porta i miei saluti ai tuoi cari
genitori.”
“Grazie, Milena. Già me le immagino con le
patate!”
Udendolo scandito nell’aria il suo nome, mi
si gonfiò il cuore. Ricordai immediatamente
quel Leopardi che avevo letto da poco e i suoi
versi dedicati a una donna dalla curiosa
omonimia:
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Eccola là, Silvia, coi suoi occhi gioiosi e lo
sguardo sfuggente. Una ragazza generata col
mio stesso stampo: entrambi timidamente
incapaci di estrapolare dal profondo dell’anima
i sentimenti e gli affetti provati. Quanto avrei
voluto rincorrerla, afferrarla e finalmente
164
pronunciarmi: “Aspetta, non fuggirmi, mi
chiamo Serafino…”, per poi confessarmi: “…e
sono profondamente innamorato di te”, oppure:
“…e tu mi piaci da impazzire”, ma non sono
mai riuscito a trovarne il coraggio. Rimasi lì,
fisso come un baccalà sotto sale, per vedermela
anche quel giorno sparire, inabissatasi tra la
folla in movimento. Notai solo allora, quando
di Silvia m’era rimasta solo un’ombra impressa
nella mente, l’imponenza del caseggiato di
fianco al torrente. Svettava dinanzi,
adombrando la piazza con le sue pareti
bianche, e dentro quelle pareti le cornici lignee
delle finestre, e su quelle finestre le vetrate
trasparenti.
E dentro ai vetri, quel giorno, io ci vedevo il
cielo.
Ora sapevo altre due cose sul suo conto: che
Silvia era il suo nome, e non disdegnava il
pesce.
Quella sera, rivivendo la scena del mercato
avvolto nella pesantissima coperta che copriva
quasi tutto il paglione, mi sovvenne un’idea. Fu
come una dardo che colpì la ragione, mentre
con le dita accarezzavo i contorni della ragazza
raffigurata sul poster, la quale speravo si
separasse una buona volta dallo stato di
165
segregazione impostole dentro quella maledetta
scatola di latta: una mano me l’avrebbe data di
sicuro lo zio Arturo.
Il mio ‘intercessore’, nei periodi di ferma dai
campi, si dedicava alla pesca di frodo. Provai a
interpellarlo.
“Non se ne parla nemmeno”, mi rispose
perentorio. “Troppo pericoloso per un
ragazzino come te.” Insistetti, finché il giorno
antecedente il mercato riuscii a convincerlo a
portami con sé, promettendogli di tenermi la
bocca ben cucita con mia madre – nonché sua
sorella – e a sobbarcarmi per l’intero tragitto
tutto l’armamentario. Era sufficiente che alla
fine mi cedesse un po’ del pescato, da elargire
a lei naturalmente, dimodoché, approfittando
della generosa offerta, avrei avuto la tanto
agognata opportunità di conoscerla.
In quel posto non c’ero mai stato, laggiù, tra
le anse percorse dal Leno. Discendemmo la val
delle Fontanelle inoltrandoci nell’ombra di un
fitto faggeto. Un tiepido sole mattiniero
sonnecchiava tra le chiome, adagiando i suoi
raggi sopra un letto di fronde. Bruscoli di luce
s’intercalavano nello spazio lasciato tra le
foglie, come tele di ragno vincolate ai bordi,
ma la gravità le faceva precipitare, e cozzando
166
al suolo lo imbrattavano di un chiarore tenue.
All’interno di quel bosco ci imbattemmo nel
torrente che schiaffeggiava fragoroso le
fenditure della roccia. Con l’audacia
adolescenziale e lo zaino in spalla ne risalimmo
il corso, saltellando sulle pietre di un
arzigogolato
ciglione
ghiaioso,
e
ci
inerpicammo ai fianchi di litigiose cascatelle
che contribuivano a rendere il tragitto umido e
assordante. Più sopra, verso la Brazzavalle,
l’acqua zampillava dalla selce brillando come
piombo fuso il quale, defluendo indispettito
dentro l’argine breccioso, s’infrangeva
formando elaborati pizzi lattescenti. Presa sul
piano, tutta quell’acqua, formava delle pozze
così ampie e feconde che non era difficile
trovarci al loro interno notevoli quantitativi di
pesce. Lo zio Arturo stava perfezionando uno
stratagemma che sarcasticamente amava
definire: “A prova di bomba.” Invece della
solita attrezzatura da pesca, usava dei cilindri
contenenti una specie di prodotto plastico
altamente esplosivo. Era una varietà di
dinamite procuratagli dal suo amico Gidio,
uomo dalle spalle grosse e il naso rubizzo del
robusto bevitore; di quella che sgraffignava
nelle
miniere
dell’alta
Savoia
cui
saltuariamente lavorava. Il compito di
167
trasportare tutta ’sta roba era stato affidato a
me, ovviamente. Accettai quella proposta con
gioia e senza esitazioni. Era un lavoro da duri,
quello. Da veri uomini. Pertanto, siccome da
questi involucri era facile fuoriuscissero gocce
di nitroglicerina, dovevo stare attento a non
scuoterli esageratamente e, soprattutto, a non
inciampare. Se fossi caduto con quella roba in
mano sarebbe stata la catastrofe. Ma quando si
è giovani chi riesce a fermarti? Chi va a
pensare che qualcosa non debba funzionare
come la si programma? Quelle sono
considerazioni che insorgono a maturazione
avvenuta, almeno così si dice. Un processo di
mediazione simbolica di cui lo zio Arturo non
era ancora riuscito portare a termine.
Dentro la bisaccia tenevo l’esplosivo, nella
tasca della giubba i detonatori. Dovevamo
calcolare bene il momento del lancio. La
bravura stava nel fatto che la deflagrazione
avvenisse in un punto ben preciso della sua
traiettoria: a pelo d’acqua. Se si fosse verificata
prima, ora non sarei qui a raccontarlo; ma
neanche troppo sotto la superficie poiché
avrebbe causato lo squarciamento dei corpi.
Bisognava essere precisi e calcolatori. L’onda
d’urto procurava una voragine assassina che, a
opera conclusa, c’avrebbe portato a galla il
168
pesce stordito o già belle che morto. A quel
punto sarebbe stata una baggianata per noi
recuperarlo.
Nel momento del botto sentivo il terreno
vibrare. Tenevo gli occhi socchiusi e con
gl’indici mi tappavo le orecchie. Quei colpi
assurdi m’avrebbero scosso per parecchio
tempo negli anni a venire, e il progresso
evolutivo del composto chimico si sarebbe
conquistato la piazza d’onore nell’eterna
disputa tra i popoli. Io, invece, avrei continuato
irremovibile a interpretare la parte della
comparsa, in un frangente storico poco
gradevole da ricordare.
Quella sera portammo a casa un cospicuo
bottino. Lo zio me ne cedette una quota
generosa che, giustificatomi in qualche modo,
consegnai a mia madre. Escogitando un
sotterfugio, avvolsi nella cartapaglia i tre
esemplari più belli i quali, a loro volta, nascosi
dentro un vaso di vetro, perché la notte il gatto
non facesse festa.
Fu una notte interminabile, quella notte di
maggio. Non chiusi occhio. Tutto il mio corpo
era in preda a un’eccitazione dirompente. Ero
emozionato e il cuore lo sentivo martellare in
gola. Non riuscivo a trovare la posizione adatta
169
per addormentarmi, così mi rigiravo in
continuazione, aggrovigliando la coperta
fradicia di sudore attorno alle caviglie. Nel
buio vedevo lei… anzi noi due… cioè io che le
porto le trote e lei che mi guarda, mi sorride e
dice: Ho sempre sperato mi notassi. E la sua
apparenza
mi
trapassava
la
mente,
togliendomelo quasi del tutto, il sonno. Dopo
ore di agitati ripensamenti stavo per assopirmi
quando cominciò a piovere, e il rumore degli
scrosci mi ridestarono, ancora. Udivo la
pioggia alternare la sua caduta, prima lieve, poi
più intensa, poi di nuovo leggera, e sentivo
ogni singola goccia frantumarsi al contatto coi
coppi. Colpi secchi, ritmici, a scandire il
trascorrere del tempo. L’istante che scappa.
Inesorabile. Quel suono omofono contribuì ad
appisolarmi e sognai un prato, le capre al
pascolo. C’erano anche dei frassini lì vicino.
Da uno di questi il becchettare di un picchio
cinereo. Gli stessi colpi, secchi e ritmici. E il
mio sguardo bambino fissava il picide che,
simile alla pioggia di una notte insonne,
tambureggiava lo scivolare del tempo sulla
verticale di una corteccia traforata. Poi un
colpo più forte, sordo. Il boato del tuono mi
riportò al mio letto.
Fuori schiariva.
170
La giornata che seguì era grigia e cupa,
percorsa da continue sfuriate di fredda pioggia.
A metà mattina, quando raggiunsi Rovereto,
una pesante nebbia scacciò le nuvole
appiccicandosi agli alberi ricurvi e calando
sulle case. C’ero venuto da solo questa volta,
tenendomi stretta come una reliquia la sacca
del pesce. Non vedevo l’ora di rivederla, Silvia,
inconscio che sarebbe stata anche l’ultima.
Quel giorno di maggio mi imbattei in lei per
strada. Nel momento esatto in cui la intravidi
stava passeggiando spalle alla chiesa, mentre
un piccione scuro e svirgolato come un zitto
musicale si librò nell’aria, sbatacchiando le ali
e tubando a festa. Abbandonò il sagrato, il
timido uccello, per poggiarsi più in alto, sul
frontone curvilineo coronante il portale,
anch’egli desideroso di raggiungere qualcuno
evidentemente. Ammirai la mia amata e… ebbi
un sussulto. Come al solito non era sola.
Soltanto che al momento non stava in
compagnia delle sue amiche, ma di una persona
a me sconosciuta. Aveva un bel profilo, alto e
biondiccio. Un ragazzo. Si stringevano la
mano, si abbracciavano. Quella vista mi
immobilizzò lì su due piedi. Per qualche
minuto contrassi l’agilità di un putto di marmo.
Anche la mente stagnava su quelle onde. Non
171
sapevo più cosa fare, il mio corpo non reagiva
agli impulsi della ragione, anche perché non
riuscivo a formulare alcun ragionamento.
L’immagine di lei avvinghiata a quel ragazzo
era pari a un pugno nello stomaco. Mi caddero
le braccia, non soltanto in senso metaforico, e
la sacca del pesce mi scivolò giù dalla spalla
andando a cozzare per terra. L’impatto col
terreno lo percepii con un rumore sordo, di
ceramica frantumata. Un’acidità di stomaco mi
salì dall’esofago. Fu come se il dolce
domenicale fosse andato a male e dopo alcuni
morsi l’avessi rigurgitato; non prima di
subissarmisi in gola un indefinito retrogusto
amaro.
Loro non mi stavano minimamente
considerando, così, con subdola disaffezione,
m’addossai al blocco di case che rasentava la
piazza.
Continuai
a
guardarla
con
circospezione cercando di non farmi notare. La
storia di sempre.
Adesso stavano vicini, troppo per non farmi
certi ripensamenti. Si parlavano e ridevano,
l’uno di fronte all’altra, con le bocche che si
sfioravano appena. Occhi negli occhi, naso
contro naso, respiro dentro respiro. Fatto sta
che, dando atto alle predette supposizioni,
misero fine al mio sviscerato rimuginare
172
attuando un semplice ma inevitabile gesto: si
baciarono. Non era come uno di quei baci che
mi dava mia madre, fatto sulla guancia, preciso
e veloce, ma di quelli in cui si uniscono le
labbra formando un tutt’uno, addolciti con la
passione che s’addice a due innamorati. Io li
osservavo grondando sangue, mentre fissavo la
mano di lei accarezzargli la zazzera riccioluta.
La lisciava, delicata, quasi avesse tra le dita
soffici riccioli di lana. Fu a quella vista che il
cuore mi si spezzò, riversando i suoi cocci nel
profondo dello stomaco. Non ebbi una reazione
immediata, almeno credo, ma una serie di
reazioni contrastanti che ridussero il mio
pensiero ad un'unica considerazione: Ha
ragione mio padre, sono proprio un coglione.
Improvvisamente uno strale di sole fece
breccia nel cataclisma nuvoloso e ricadde sui
due amanti, illuminandoli nel loro momento di
gloria. Solo allora, per una frazione di secondo,
il suo sguardo si congiunse al mio. Era stata la
prima e unica volta che ci guardavamo
veramente e in quell’istante mettemmo a nudo i
nostri pensieri. Non avrei mai voluto
succedesse ma, anche se solo per un attimo,
capii quanto lei fosse felice. I suoi occhi
emanavano tutta la gioia che provava, a
differenza dei miei, che da poco l’avevano
173
perduta. Fu solamente in quel modo che riuscii
a pronunciarmi ma, di tutto quel che ne uscì,
non
rimase
altro
che
un’inespressa
dichiarazione. Rimossi le idee all’imponente
caseggiato di fronte. Il cielo, dentro quelle
finestre, era adesso un’opprimente lastra
d’ardesia.
Mi era stato detto che la vita, al contrario di
come potremmo supporre, è sostanzialmente
incoerente e la prevedibilità dei fatti
un’illusoria
consolazione.
Così
s’era
dimostrata.
Raccolsi la sacca e ritornai sui miei passi.
Una volta raggiunto il ponte di Santa Maria
gettai il pescato al torrente. Mi soffermai ad
osservarlo mentre si disperdeva tra i flutti come
ormai lo era il mio destino.
Non tornai mai più al grande mercato di
Rovereto, arrivati a questo punto non c’era più
scopo di andarci. Provai persino a dimenticarla,
interpellando il tempo del quale si dice:
cancelli ogni macchia. Ma del suo, di segno,
non riuscii mai a sbarazzarmi completamente.
Ogni tanto, quando salgo in mansarda e rivedo
il vecchio baule, be’, in quei momenti mi prude
il desiderio di aprirlo. E vi giuro che il più delle
volte non resisto alla tentazione di farlo. Così,
rassicurato dalla sua debita presenza, raccolgo
174
la scatola di latta che ritrovo lì in prima fila,
sempre al suo posto. La scoperchio. Recupero
il poster e lo distendo. E la ragazza sul trapezio
con le ballerine ai piedi e i capelli nastrati pare
mi inviti a volare, come se nel tempo, il
desiderio di poterla abbracciare, non si fosse
mai estinto. Solamente che io, adesso… io non
posso. C’andrei di corsa, con tutte le mie forze,
ma… non posso. Sarebbe una cosa fantastica,
ma proprio per ciò impossibile da
concretizzare: un banchetto a cui mi è stata
revocata la condivisione. Allora accarezzo il
suo viso e un pizzichìo amaro mi brucia il
contorno degli occhi; una specie di irritazione
cutanea che si insinua tra le palpebre, in modo
particolare nel punto in cui una lacrima
sciagurata col suo trabocco inconsapevolmente
m’annebbia la vista.
Malgrado tutto, ancora adesso che sono
vecchio, solo e brontolone, e gli assordanti
cavalli vapore stanno progressivamente
rimpiazzando quelli che in carne e ossa
m’hanno dato da vivere per oltre sessant’anni,
ogni volta che ripenso a Silvia, alla Silvia di
allora, il cuore comincia ad accelerare il suo
battito, e ci devo stare attento perché potrebbe
farmi brutti scherzi, alla mia età.
175
Forse è stato meglio così, dopotutto di lei non
conoscevo nulla. Magari col passare del tempo
e giocando a carte scoperte, si sarebbe rivelata
una donna sciocca e puerile; e poi assieme a
quel ragazzo la scorsi assolutamente raggiante.
Beata lei.
Solamente di una cosa tutt’oggi mi
rammarico, una sola: di non aver mai avuto, nei
giorni della mia giovinezza, il coraggio di
scardinare la porta e ascendere quella scala.
La scala che portava alla sua stanza,
lassù,
in cima alla torre.
176
177
178
Percezione
179
180
Oggi è martedì: un giorno speciale.
Non perché il martedì sia più speciale del
mercoledì, del giovedì o che so io… del
venerdì; ma perché oggi, per la prima volta da
oltre due anni, ho sentito mia madre.
La prima volta da quando è diventata un vaso
di cenere.
Di vederla mi succede spesso. Ogni tanto
entra garbata nei miei sogni e vi si permea in
tutta la sua robusta e amabile forma, si lascia
guardare, sorride, mi premia anche di un suo
gesto, ogni tanto, ed io penso che è meglio di
starsene lì ad osservare l’immutabile e sigillata
sterilità di una foto attaccata con lo scotch sulla
parete del frigo.
Mai più l’avevo sentita. Mai sino ad oggi.
Martedì, giorno di mercato.
A Rovereto gli affari economici ambulanti si
svolgono il martedì. Da sempre credo. Quindi
181
se in strada fermi qualcuno per chiedergli il
giorno e lui ti risponde: “Dì de mercà”, sai già
in che frangente settimanale ti trovi.
Nella mia famiglia i giorni sono tutti
contrassegnati da delle frasi, dei mini proverbi.
Trovi il mèrquer de la paura, il zòbia vignùa
stimana perdùa, il vendro sgnocolà de patate e
bacalà, il sabo senza sol l’è na dòna senza
amor… e avanti così, ognuno una sua
locuzione.
Era stata mia madre ad insegnarmeli, quando
alla fine delle lezioni la maestra mi dette come
compito a casa la trascrizione sul quaderno
nonché l’apprendimento mnemonico di una
massima popolare relativa al giorno in
questione. Ogni giornata una citazione diversa,
per tutta la settimana corrente. Frequentavo la
seconda elementare a quel tempo, sapevo
scrivere a malapena e gli errori d’ortografia
spiccavano feroci col rosso delle correzioni.
Ma quel compito m’era piaciuto e c’avevo dato
dentro a penna tratta. Il venerdì successivo
chiusi il quaderno con espressione compiuta,
soddisfatto dell’operato, anche se credo che
qualche stornello se lo sia inventato di sana
pianta, perché in vita mia certe asserzioni non
le ho mai sentite snocciolare da bocche diverse
dalle nostre. Che forza era mia madre!
182
Il mese scorso stavo nella casa dei miei
genitori: la stessa mia di un tempo. Ora ci vive
soltanto mio padre e la caparbia autosufficienza
che l’ha sempre contraddistinto. Fin da subito i
telefilm del tenente Colombo, le spaccatine del
forno all’angolo o il giro dei negozi al centro si
fecero echi della parte felice della sua
memoria. Il sentiero del recesso gli si schierò
davanti come un invito pieno di bar dove i
caffè si servono generosi e i bicchieri di vino
fanno da stampella a un’anima zoppicante. In
questi anni di vita in solitudine ha scoperto
dentro di sé la tristezza, che non è una
sensazione deprimente anzi, è addirittura
piacevole, se si accetta di condividerne la
compagnia. Almeno non dovrà più cenare da
solo.
La cucina è un perfetto ordine casalingo. Il
gas e le stoviglie ora le lava mio padre, col
grembiule allacciato sul davanti e il detersivo
per i piatti che lei preferiva. Non è facile
separarsi dalle abitudini di una vita. Mi capita
di vederlo in piedi, accanto al lavandino,
mentre guarda le bolle d’acqua insaponata che
scoppiano quando la tensione superficiale si
spezza. Credo di sapere a cosa pensa.
Girovagando per le stanze mi imbattei in un
taccuino per gli appunti. Lo identificai. Era
183
l’agenda personale di mia madre ma che,
piuttosto che agenda, definirei un tabernacolo
di ricette. La sfogliai con religioso rispetto.
Quante cose mi stavano tornando in mente.
Nella goffa rotondità di quella calligrafia i
ricordi si manifestavano come ombre in un
turbine nevoso, una bufera che mi trascinava
nel passato più bello che avessi mai vissuto. Le
pietanze mi prendevano la mano. Gli stufati e
le minestre ribollivano la mia immaginazione.
Le verdure gratinavano, le salse arricchivano i
sapori. E poi le torte, sì proprio quelle dei
compleanni, delle ricorrenze. Come le ricordo
belle le mie feste di compleanno! Gli amici
attorno alla tavola, il pandispagna con le
fragole e la panna montata, i tiramisù. E poi
tutte quelle candeline accese, e il suo fiato
complice che sempre mi facilitava lo
spegnimento. Lei che non poteva neanche
assaggiarli i dolci per colpa dell’insulina.
Era quello il periodo dei calzoncini corti, il
periodo delle ginocchia sbucciate, degli
ammonimenti, delle raccomandazioni, delle
corse in bicicletta giù a scavezzacollo, del mio
cipiglio impuntato e delle trasgressioni. Del
mio io ruffiano, imbevuto nella viscosa
irruenza di un virgulto testardo e risoluto,
ancora troppo inverdito per fruttare.
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Era il periodo della sua calma di madre, del
suo faccione bonario, lo sganascio balordo,
sincero, delle prediche infinite, del premuroso
palmo di una mano che saggia la mia fronte
rovente, di quei suoi capelli ingarbugliati gli
uni negli altri come le sequenze indistricabili di
un fotoromanzo da Grand Hotel.
Una serie di riviste all’angolo della panca.
Eccoli. Sono proprio i Grand Hotel che
torreggiano accatastati gli uni sugli altri,
mischiandosi i titoli e le illustrazioni a colori. Il
solo settimanale a non aver subìto tradimenti,
come sposo di una moglie giusta e fedele,
amato dal tempo della giovinezza fino ai suoi
ultimi istanti, ad occhi quasi del tutto perduti.
Una copia m’osservava dal divano, a fauci
spalancate. Non capii perché ma la richiusi,
così, senza un motivo preciso. Non mi capita
sovente di mettere a posto le cose degli altri:
quel giorno lo feci. Notai che la copertina
portava una data recente. Come immaginavo lo
compera ancora.
Non so cosa sia che gli manca di più, se la
spumeggiante allegria in cui lei alloggiava o la
sua irrefrenabile voglia di andare, viaggiare,
assieme a lui naturalmente, inopinabilmente in
due; anche brevi itinerari magari, stile ‘gita
domenicale’ tanto per intenderci. “Andiamo”
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diceva e partivano, malgrado l’instabilità sulle
gambe e il fiato sempre più corto. La sera si
vedeva che erano stati bene, la pelle
schiaffeggiata dal sole e lo spirito sollevato.
Quell’autunno era stato un autunno di funghi.
Me ne portarono un cesto ricolmo. Me lo
ricordo come fosse adesso. Non posso
dimenticare l’ultimo abbraccio di mia madre.
“Forza, andiamo” e partivano. La macchina
teneva sempre il pieno e il motore gorgogliava
sereno, scaramantico. Ma quella notte non lo
avvisò. Quel viaggio lo intraprese da sola, a
cuore appena fermo. “Aspettami che mi
preparo” gli disse in gran confusione mio
padre, mentre le baciava la fronte livida e
fredda. Lei non rispose ma sono sicuro si siano
capiti.
Adesso una fila di cipressi ombreggiano il
suo abitacolo. Il piccolo spazio di una cella in
un alveare di cemento. E’ l’ultimo in fondo alla
fila, dietro una moltitudine di facce appiccicate
a sacrali parallelepipedi di pietra. Fiori recisi
ornano il rialzo di marmo, succhiando acqua
dai sottovasi in policarbonato. Quando arrivo
ne aggiungo un po’, anche se a
quest’incombenza avrà sicuramente provveduto
mio padre durante le sue visite quotidiane. Non
vado mai via dal cimitero senza prima dare
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acqua ai fiori. E’ più forte di me. Lo faccio
anche se poi marciscono, e allora verranno
buttati e sostituiti da altri che a loro volta
marciranno. Probabilmente è il loro destino.
All’interno di certi cancelli ogni cosa va a
male.
Martedì di mercato. Decido di farci un giro. I
banchetti sfoggiano mercanzia spicciola.
Orpelli e vestimenti giustiziati oscillano
agganciati
all’ossatura
metallica
degli
ombrelloni. Alla bancarella dei fiori spicca il
rosso dei garofoletti, il bianco delle calle, il
variopinto delle rose. Ma ciò che mi colpisce
maggiormente è il rubino cupo dei fiori di
amaranto. L’amaranto, dal tempo dei tempi
simbolo di immortalità; dalle recondite
reminiscenze classiche m’esce di assoggettarlo
al termine greco ‘amàrantos’ ovvero ‘che non
appassisce.’ Credo di non trovare nulla di più
appropriato.
Cerco lo spazio sul rialzo di marmo, il giusto
necessario per farci stare comodo il mio
acquisto floreale senza invadere quello degli
altri. Anche se poi lo spazio occupato da un
mazzo di fiori non lo reputo affatto una
sottrazione di territorio. Do l’acqua ai nuovi
arrivati, cominciando così a sacrificarli fin da
subito. Appoggio una mano contro il frontale
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del loculo. E’ strano il calore che emette. Tra
un gesto dissetante e una sensazione di bollore
percepisco delicati strappetti al braccio, come
se qualcuno provocasse la mia attenzione. Mi
giro. Intorno non vedo nessuno.
Improvvisamente una raffica di vento
m’avvolge. Il sole che prima brillava a
diamante ora s’accascia. Odo appena, filtrate
dalla distanza, le voci e le risate della gente per
strada. Anche il rumore della ferrovia arriva
con una risonanza fantastica, come se non fosse
lo sferragliare di un convoglio ma il suono
stesso della mia esistenza. Ho la sensazione di
esserne così avviluppato da non capire
nemmeno più da che parte arrivi la corrente, se
da un posto lontanissimo o a un passo da me.
Un turbine fastidioso che scapiglia i ciuffi e
scompiglia i pensieri. Una pressione
inquietante. E lì mi ritrovo, immobilizzato al
centro di un vortice surreale, nel qual mentre il
mondo mi vortica intorno. L’imbuto ventoso si
trascina appresso delle forme, delle parvenze.
Scorgo immagini familiari. Vedo una casa,
persone che la abitano, una culla, una donna
che accarezza un bambino dall’estro soporoso.
Riconosco la donna: mia madre. Riconosco il
bambino: quello sono io. Gli arruffa i capelli a
quel figlio pregno delle mie sembianze. Ci
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soffia contro. Un alito strano che smorza le
fiammelle dei lumini come candele sulla torta.
L’intuizione si concretizza in vacillante realtà.
Aspramente sussurro: “Sei tu, mamma?”
Il vento s’irrobustisce, il caldo si fa intenso.
La pietra scotta. Pulsa. Le raffiche sembrano
onde gigantesche, una corpulenta versione di
tsunami dell’aria. Il vortice impetuoso un
gorgo abissale. Il rumore della strada un’unica
nota incessante, rintronante. I cipressi
s’inchinano a terra fin quasi a spezzarsi, i vasi
volteggiano spargendo petali ovunque, foglie
strapazzate e idee confuse sul disco di una
trottola impazzita. Tutto un inseguirsi di
materia e di pensiero.
“Sei tu, mamma?” quasi grido. “Rispondi, ti
prego!”
Solo allora lei mi guarda in faccia, seria, con
labbra leggermente schiuse: l’antico modo suo
di chiedere. E proprio a me, suo figlio,
imbalsamato e vuoto di risposte. Nel rivelarmi
quell’espressione l’uragano raggiunge l’apice
del furore. I vestiti si sbrindellano. Mi si sfuoca
la vista, la mano è fusa alla pietra. La luce
languisce e il mondo diventa ombroso.
Qualcosa di liquido mi comprime, non riesco a
muovermi liberamente. Sento una mano ma
non la riesco a vedere. Un battito sordo e
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regolare mi trafora le meningi. So che apre la
bocca perché odo la sua voce. E’ lei che mi
chiama. Che mi parla… che mi vuole… Allora
grido. A squarciagola. E’ un urlo derivato da
una sensazione mista di felicità e spavento, di
godimento e angoscia mescolati insieme, di
qualcosa che vorrei ma di cui non sono ancora
preparato; di qualcosa che sono preparato ma
che per il momento non vorrei. Poi,
inverosimilmente tutto si placa. La pressione
del vento demorde, cessa. Il mio corpo
s’alleggerisce, sembro galleggiare, esattamente
come una pagliuzza che fluttua sullo specchio
catramoso e paco di uno stagno. Non provo
gravità, non soffro vertigini, fame, sete, gioia,
dolore; i sensi sembrano svaniti, le emozioni
pure. Mi sento come foglia sul ramo ottobrino,
basterebbe un niente per farmi precipitare. Però
sto bene; un benessere che non ho mai provato.
E’ come… come fossi… strano, ma credo di
essere tornato nel suo ventre. Certo, cosa c’è di
più grandioso che riappropriarsi della sacca
materna e sguazzare beati nel succo amniotico
della gestazione? E’ lei che mi cresce e mi
nutre, uno spago invisibile che combina il cielo
alla terra, lo sento. La sento. Sento il suo corpo
formarsi nel mio, sento i suoi spasmi
espellettivi, il suo donarsi di madre, le sue
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prime carezze, gli abbracci, il calore delle
parole. Sento alcune piccole rughe avanzare, il
suo invecchiare sempre più avanti del mio,
com’è nel giusto delle cose; ma più che altro
coi polpastrelli traccio la linea morbida del suo
sorriso. La sento. E capisco che non sarà per
sempre.
Non credo sia durato molto. Mi riavei solo
quando staccai la mano. Tutto stava come
prima. Il ghiaietto scricchiolava sotto il peso
delle suole, il sole irradiava il giusto bollore
stagionale, i cipressi immobili come guardie
papali, i vasi allineati al loro posto; solo
l’annaffiatoio s’era svuotato e i fiori pisciavano
a terra la troppa acqua versata.
Tutto quel casino non aveva lasciato la ben
che minima impronta. Fissai l’effige. Mia
madre sorrideva frontale, spendendo l’eterno
sorriso prodigato a chiunque. Riappoggiai la
mano al davanti, freddo e liscio come lo era
sempre stato.
Eppure io l’ho sentita.
Il sole s’è fatto basso, adesso. Anche se
obliquo l’astro ancora emette un taglio lucente,
divisorio. Soltanto al di là qualcosa sarà
cambiato. I furgoncini del mercato si saranno
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richiusi, pronti per l’indomani. Il vociare delle
persone e l’odore di fritto svaporati. Gli operai
della nettezza urbana avranno ripulito ogni
angolo di marciapiede e il traffico si sarà
ripreso la strada. In un attimo tutto quanto si
riporterà allo scorrere quotidiano, dimentichi di
un presente che, purtroppo, si è già perduto.
E’ quasi sera, mi sento frizzante, sereno,
come quel cielo aperto in cui m’immedesimo.
Guardo alto mentre passeggio. Come
scintillano nel blu cobalto vespertino le
luminarie della mia città.
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Ringraziamenti
In primis ringrazio tutti quanti voi che mi avete
letto, perché se siete arrivati fin qui il mio
intento è stato raggiunto.
Ho un debito immenso verso la mia
affettuosa e paziente moglie, Tiziana, e mia
figlia Martina, per avermi concesso senza
troppi lamenti il tempo necessario per
sviluppare le mie storie; inoltre è stato
osservando i loro Kleenex usati che ho capito
di avere imboccato la giusta direzione.
Ragazze, è inutile che ripeta quanto vi ami!
Un sentito grazie alla mia affezionata nipote
Ilaria, che ogni tanto le rubo del tempo
prezioso, quello che ultimamente non ha,
soprattutto adesso che s’è fatta mamma.
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Sono infinitamente grato alle mie sorelle
Luisa e Michela, che riescono sempre a
spingermi prima che mi fermi. Grazie davvero,
sorelline!
A mio padre Valerio, saggio e combattivo.
Con tristezza ricordo e onoro colei che ora
sarebbe la più agguerrita delle mie fan, mamma
Riccarda, venuta a mancare prima che
pubblicassi questo libro. Non ha avuto
l’opportunità di leggerlo, ma credo non sia un
grosso guaio. Ogni volta che scrivo ho la sua
mano sul cuore.
Ringrazio anche il Gruppo Editoriale
L’Espresso perché mi ha dato l’opportunità di
rendere pubblica questa mia fatica.
E siccome avrete capito benissimo che sono
un autodidatta, un plauso particolare lo rivolgo
a tutti i libri che ho letto, da loro ho imparato
cose che nessun altro mi avrebbe mai
insegnato.
Ricordo inoltre che questi racconti sono
opere di fantasia, e come tutte le storie
fantastiche vanno presi per quello che sono. I
riferimenti a fatti realmente accaduti sono il
concatenamento di fortuite casualità. Nomi e
luoghi, in parte, appartengono alla mia
immaginazione.
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Un consiglio a tutti: se per puro caso doveste
passare nei pressi di Anghebeni o di Foppiano,
non sperate di incontrare i miei personaggi che
passeggiano per le vie dei rispettivi paesi,
piuttosto fermatevi prima a casa mia, nella
frazione di Staineri, che magari, dopo aver
ingollato un buon bicchiere di vino, una storia
potreste raccontarmela voi.
196
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INDICE
Fino al tuo risveglio
pag.
18
L’ultima orchidea
pag.
21
La stanza in cima alla torre
pag.
147
Percezione
pag.
179
199
200
201
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