Autore: Calămus
Edizione I: marzo 2006
La necessità del caso
PROLOGO
PARTE I – VIA RISORGIMENTO, 14
1. DOVE SI RACCONTA DELL’APERTURA DELLA CASA .................................... 5
2. SULLA SCOPERTA DELL’IO-CORPORALE........................................................ 13
3. DOVE SI PARLA DEL NON-CONTRASTO CON L’IO-ESISTENZIALE ......... 16
4. DOVE SI RACCONTA DELL’APERTURA DEL PRIMO CASSETTO .............. 22
5. QUALCOSA STA MATURANDO NELL’ESSERE DI TELLA............................. 31
6. DOVE SI RACCONTA DELL’APERTURA DELL’ANTA .................................... 34
7. L’INCONTRO CON IL POETA E AVIATORE D’ANNUNZIO ........................... 40
8. IL DIARIO DI NINA.................................................................................................... 43
9. TENTI-MUZZU NON C’È PIÙ .................................................................................. 49
10.
PAOLO E ME.......................................................................................................... 52
11.
IL PUNTO DI VISTA DI DIO ............................................................................... 57
12.
ALBINO ................................................................................................................... 65
13.
NOTTE PRIMA DEGLI ESAMI .......................................................................... 68
14.
IL RIENTRO DI FULVIO ..................................................................................... 73
15.
LA LISTA DEI PIACERI ...................................................................................... 80
16.
TERESA E NINA .................................................................................................... 83
PARTE SECONDA - MALEDETTO BASTARDO
17.
5 NOVEMBRE 1917: MATTINA.......................................................................... 85
18.
5 NOVEMBRE 1917: POMERIGGIO.................................................................. 88
19.
I PENSIERI DI MARTA ........................................................................................ 91
20.
4 AGOSTO 1918...................................................................................................... 93
1
21.
UN INASPETTATO INCONTRO......................................................................... 95
22.
GIORGIO................................................................................................................. 99
23.
IL MANICOMIO .................................................................................................. 106
24.
LA MENSA DEI POETI ...................................................................................... 111
25.
LA SCOPERTA..................................................................................................... 115
26.
AL CONCERTO ................................................................................................... 118
27.
LO SCRITTORE................................................................................................... 121
EPILOGO
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PROLOGO
Salento, 6 aprile 1972.
al civico 14 di via Risorgimento di un villaggio non meglio precisato.
Un vecchio cane spelacchiato abbaiava nervoso contro il cielo grigioarancione. Le sue zampe erano instabili e tremanti, la coda era tesa come a
contrastare il fortissimo vento di scirocco che, infiltrandosi tra i muri e le
persiane, generava inquietanti e sinistri rumori antichi wuuuuuuu wuuuuuuu
wuuuuuu...SBAAAM! Di tanto in tanto qualche anta andava a sbattere
contro le finestre come a supplicare di essere chiusa. Le nuvole, grosse e
basse, correvano spinte dal vento e di lì a poco, cariche com’erano,
avrebbero rovesciato su quella terra, insieme ad una spessa pioggia,
tonnellate di sabbia del deserto africano.
Una donna vestita di nero chiuse l’anta verde scuro di una finestra di una
casa dal lato dei civici pari, mentre altre due donne, parimenti vestite di
nero, aspettavano silenziose sulla soglia della stessa casa. La prima donna
uscì dalla porta, verde anch’essa, e sgniic, sgnicc, sgniic, la sigillò forse per
sempre con 3 sicure mandate e si mise in tasca la chiave.
Il vento sferzante sollevava nuvole di polvere con rinnovata energia, mentre
cartacce di ogni sorta volavano andando verso chissà quale dove.
Un ultimo triplo sguardo nostalgico e le 3 donne sparirono con passo mesto
dietro uno dei due vicoli che di là si dipartivano, mentre il foglio stropicciato
di un giornale (pareva un quotidiano) andò a finire sul muso del cane che non
aveva ancora smesso di abbaiare.
Lo zoom sul muso incarognito coperto dal foglio del Corriere fece appena in
tempo a mostrare il seguente trafiletto “L’esasperazione degli omosessuali in
piazza a Sanremo: interrotto il congresso voluto dal CIS contro le deviazioni
sessuali. Proposto l’elettroshock da alcuni relatori“. Poi il foglio finì in
mille brandelli fra le zanne del cane che, imbestialito, lo distrusse, ringhiò
quel tanto che bastava per mostrare al mondo il suo disappunto contro
l’inatteso evento e, con ancora brandelli di carta che gli pendevano dal muso,
ritornò ad abbaiare con la coda tesa contro lo scirocco.
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PARTE I - VIA RISORGIMENTO, 14
“citazione....”
Autore citazione
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1. DOVE SI RACCONTA DELL’APERTURA DELLA CASA
Esco da casa con lo zaino sulle spalle e inforco la mia bici, una graziella
color rosso acceso. E’ tarda mattina e c’è il sole. Nello zaino la mia garanzia
per la maturità, nelle gambe tanta voglia di pedalare per scaricare la tensione,
nella testa tanti pensieri: mille dubbi, cento inquietudini, dieci piacieri, una
unica sfida per me, Tella per gli amici, che fra poco compirò i miei primi 19
anni.
Tella non è il mio vero nome, ma tutti mi chiamano così per via di quello
scemo di mio fratello che non perde occasione per trovare soprannomi a
cose, animali e soprattutto persone. In primis a me. Mia nonna mi diceva:
“sei bella come il culo della patella”. Da lì il soprannome di Patella, dopo
contratto in Tella. Fatto sta che questo soprannome ha scavalcato i confini
familiari ed è approdato nelle aule scolastiche frequentando lui il mio stesso
istituto anche se in altra classe. Poco male: è il migliore di tutti gli altri che
mi ha affibiato nel corso degli anni.
Non descriverò i mille dubbi, nè le cento inquietudini che mi attanagliano in
questo inizio di estate che si preannuncia rovente e non solo per il caldo, ma
dei dieci piaceri che ho minuziosamente annotato sul mio diario e dell’unica
sfida, di quelli si, vi voglio raccontare.
La lista dei piaceri:
Piacere numero uno: trascorrere giornate intere ad argomentare sulla vita,
sull’esistenza, su chi siamo, su dove andiamo con Peppino.
Peppino è detto “Tenti-muzzu” per via dei due incisivi tranciati
obbliquamente durante un tuffo da una neanche tanto alta scogliera su cui era
piantato un palo unto di grasso. Questo accadde un dì della sua lontana
gioventù quando, per fare il gradasso con le fanciulle del paese, volle
partecipare alla cuccagna-del-palo-unto-di-grasso. Tenti-muzzu si distinse
fino ai quarti di finale allorquando gli scivolò il piede al terzo passo e cadde
malamente sbattendo i denti sugli scogli sottostanti. Tenti-muzzu è un
vecchio pescatore di ricci e polpi, scapolo a vita. Per me è un punto di
riferimento, prendo come oro colato ogni perla di saggezza che scaturisce
dalle sue labbra.
Tenti-muzzu è un grande fumatore di pipa. Riesce a tenerla incastrata, senza
farla cadere, nella V rovesciata del suo rugoso sorriso. E’proprietario di una
vecchia barca a remi di nome “Lucia” e di una bicicletta di nome “Lara”
vecchia pure lei di almeno 40 anni. Ho sempre pensato che “Lucia” e “Lara”
fossero stati gli amori suoi degli anni più focosi, ma lui nega ridendo ogni
volta che glielo chiedo e racconta invece, vantandosene con orgoglio, di
clamorose performance amoroso-erotiche con una tal Caterina, ora, pace
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all’anima sua, deceduta e moglie del farmacista del paese detto “Trecorne”
per ragioni abbastanza ovvie che qui non sto a spiegare. A suo dire sembra
che i due consumassero il loro clandestino amore all’ombra dei folti aranceti,
limoneti e uliveti di proprietà dello stesso Trecorne e dei quali possedimenti,
Peppino, quando non pescava, era il colono. Il loro amore finì in modo
alquanto imbarazzante un giorno quando vennero scoperti dal farmacista
(che si era messo a spiare la moglie) mentre copulavano seminascosti dentro
una enorme pianta di cappero, loro talamo preferito.
Con Peppino Tenti-muzzu passo ore e ore seduta sugli scogli, piedi a mollo.
Mi piace sentirmi raccontare la vita. Di quei racconti assaporo ogni piccola
sfumatura, anche se se che molti sono inventati.
Piacere numero due: raccontare gli incontri con il vecchio Peppino alla mia
amica del cuore Nanà.
Piacere numero tre: la scoperta del sesso avvenuta qualche mese prima ed i
rinnovati incontri amorosi con Paolo (detto “Pesce ‘ssciotta” da oramai tante
generazioni che se ne è perso il perchè).
Piacere numero quattro: le uscite serali con i miei amici. (Ogni sera
riusciamo a rubare 10 minuti in più al consenso dei nostri genitori).
Piacere numero cinque: le canne sulla spiaggia d’estate. (Mentre Paolo
strimpella una chitarra, Albino cerca di accendere un fuoco, qualcun’altro
ancora se ne strafrega o si infratta o fa il bagno e noi ragazze tiriamo fuori il
cibo e cantiamo).
Piacere numero sei: le prove al teatro. (Faccio parte insieme a Nanà di una
compagnia teatrale paesana che porta i suoi spettacoli in giro per la
provincia, a dire il vero riscuotiamo un discreto successo e poi ci
divertiamo).
Piacere numero sette: le escursioni con Nanà nelle campagne circostanti il
paese alla ricerca di piante strane da essiccare e da conservare in un
quaderno con tanto di nomi latini rigorosamente inventati ma che davano
l’idea. (“foglia di ficus nostranus” era uno degli ennesimi soprannomi
inventati da mio fratello per sfottermi).
Piacere numero otto: pedalare lungo le strade sterrate della campagna con
la graziella, lasciandomi sfrecciare a destra e a sinistra milionate di alberi
di ulivo. (Mi piace fermarmi davanti al dolmen preistorico, unico testimone
di epoche passate, fantasticando sul come fluiva la vita milioni di anni fa in
quello stesso posto. E là chiudere gli occhi e figurarmi il mio futuro.)
Piacere numero nove: le finte sedute spiritiche. (Le teneiamo nel castello
degli ex-baroni di proprietà dei genitori di due nostri amici.)
Piacere numero dieci: avere i nove piaceri di cui sopra da godere e da
raccontare.
Questa è la lista che ho annotato sul mio diario in data 26 marzo 1985, ovvio
che non faccio riferimento a quale piacere preferisco, questa resta un mio
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segreto. Vi è piaciuto la mia lista? Io ne vado fiera! La mia lista rende la mia
vita, ai miei occhi, degna di essere vissuta.
La sfida è quella di riuscire nella vita e quello che sto compiendo nel mese di
giugno di quest’anno è il primo passo: cioè la maturìtà. Dopo ci sarà
l’università. In un’altra città, sicuramente al Nord. Vivrò un’altra vita di qui a
pochi mesi. Lo so. Ne sono sicura. Mi porterò nel cuore la nostalgia di questa
attuale che volge al termine. Non so ancora cosa voglio essere, cosa sarò e
cosa farò. O no. Questo pensiero mi turba. Ma la pluralità delle probabilità
possibili mi conforta. Questo è uno dei miei mille dubbi. Mentre, tra le
inquietudini, annovero la sensazione di sentirmi stretta nel paesello e la
voglia esagerata di conoscere il mondo.
“Finalmente!” penso toccando la tasca dei jeans dove ho messo la chiave.
Pedalo di gran lena verso la meta.
“Miiihh, ‘ste Piche! Una settimana mi ci è voluto per convincerle.”
“In fondo che gli costava darmi ‘sta benedetta chiave? Lì posso studiare
tranquilla, mancano pochi giorni allo scritto d’Italiano e a quello di
matematica.”
Le zie “Piche” (abbreviazione: zì ‘Pì) sono le mie vecchie zie, così
soprannominate sempre da mio fratello. Sono le sorelle della mia più
accondiscendente mamma. Costoro, per qualche insondabile motivo,
nascondono la chiave della casa dalle volte a stella della nonna situata in via
Risorgimento 14. Non vogliono assolutamente che nessuno ci metta piede
per non profanare chissà quale mistero. Comunque io sono riuscita a farmela
dare dopo mille preghiere, peripezie, astuzie. Quante ne ho dovute inventare!
Comunque eccola qua! La mitica chiave!
Mi piace questa casa. E’ una grande casa con un bel giardino. Chiusa dai
tempi della morte della nonna, ultima appassionata abitante di quella dimora.
Cosa mi spinge ad andare a studiare quest’ultimo mese prima dell’esame di
maturità lì in quel posto preciso, proprio le zie ‘Pì non riescono a capirlo ed
io non glielàho mai detto. Ho solo insistito a volerci andare e basta. Penso
che lì posso trovare la quiete di cui ho bisogno. Penso inoltre che la quiete sia
raggiungibile a piedi o al massimo in bici. Comunque per me quella casa
significa il superamento dell’esame di maturità. Ci devo andare. Me lo dice
una voce dentro. Per non sentire gli schiamazzi di casa mia. Per non avere il
telefono dei compagni di classe che squilla. Per non ricevere visite non
programmate (molto d’uso in questa terra dimenticata da Dio). Insomma per
tutto questo. Ricerco la quiete, non la solitudine, la quiete. E penso che
quella casa me la possa dare. Penso inoltre che l’altezza delle volte a stella
mi ispirerà armonicamente nel mio tragitto verso la maturità. Scientifica per
essere precisi. 5 anni di liceo in cui è successo di tutto e di più. A dire il vero
non ho mai studiato molto. Ma sono riuscita a barcamenarsi ugualmente
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bene. Quest’ultimo anno, presa come sono dalle cose della vita, ho anche
studiato meno del solito. E scopri questo. E scopri quello. Il sesso poi mi ha
confuso non poco (5 ore di un pomeriggio piovoso di due mesi fa). Vengo da
svariati anni di oratorio, insomma un contrasto di coscienza che comunque
ho superato agilmente non andando più a messa e mandando a cagare le false
morali ed ogni bigottismo di sorta. In fondo basta spostarsi un po’ in
latitudine e longitude: et voilà! i valori diventavano dis-valori, le morali
diventivano a-morali e tutto contribuisce a creare confusione nel mio essere
di post-adolescente che ancora devo fare i conti con la vita. Dunque una gran
fatica a quest’età concentrarsi sullo studio. Maturare. Penso di poterlo fare lì
in quella casa. Penso sia obbligatorio passare da li. Fisicamente. Era la casa
dei miei nonni materni ed è forse un richiamo atavico quello che sento.
Comunque il desiderio è nato da un sogno in cui c’era mia nonna nelle vesti
di nonna (per l’appunto) che non voleva abbandonare la casa quando, oramai
vecchia, non poteva più badare da sola a sè stessa. Così che i figli decisero
che sarebbe andata ad abitare con loro. Ma lei no, non voleva proprio e
sbraitava e dai piedi erano spuntate delle radici nere e spinose che si erano
infossate lì davanti al pozzo che padroneggiava nel giardino della casa
nascosto dietro l’albero di alloro.
Nel sogno, la radicata nonna diceva “laaaaaaaaaasciatemi staaaare, voglio
moriiiiire qui, nella mia casa, davanti al mio pozzo che ci ha dato l’acqua,
che ci ha dissetato, che ci ha permesso di coltivare l’orto e che ci ha
sfamato, qui. Andate via. Laaaaaaasciatemi staaaaaaare” (libera traduzione
da un dialetto pressochè incomprensibile antecedente quello mio). Nel sogno
i figli tiravano la nonna urlante per la braccia senza riuscire a smuoverla di
un solo millimetro. Comunque la realtà qualche anno prima fu molto simile.
Mia nonna protestò parecchio prima di abbandonare la casa per andare a
stare con i figli, meglio accudita per la serenità dei figli si, sicuramente non
per la sua. Quando morì, dall’ospedale fu trasportata lì in quella casa, in
quanto aveva espresso il desiderio di essere guardata per l’ultima volta dalla
volta a stella della prima stanza. Proprio questa era stata la sua ultima volontà
da viva e cioè che da casa sua si sarebbe mossa per la grande dipartita.
L’ingresso principale della casa dalle volte a stella da sulla strada. Le pareti
si ergono direttamente dal ciglio della strada senza marciapiede. Qualche
stelo d’erba spunta qua e là dal bordo della strada da dove parte il muro
portante. La caratteristica di ergere i muri direttamente sul ciglio della strada
era molto comune nei paesini antichi del Salento. Forse perchè all’epoca di
quelle costruzioni nessuno pensava al futuro. Nessuno pensava che i mezzi di
trasporto si sarebbero evoluti. C’erano i muli allora, e i cavalli, e gli asini, al
massimo c’erano i carretti. E così facevano crescere le case sul ciglio della
strada come fossero piante d’arredamento urbano. Senza niente tra la strada e
la casa. Una continuità morbida quasi a sottolineare la mancanza di barriere
tra le genti e la loro intimità che in passato era così molto attenuata.
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Zaino in spalla, piena di buoni propositi per le due materie scelte: Italiano e
Fisica, finalmente mi presento al cospetto della veneranda casa questa
mattina di inizio giugno tra il tepore del sole e le note dei Pink Floyd che mi
sparo direttamente nel cervello grazie alle nuovissime cuffie del walkman
fregato a mio fratello.
A proposito di materie: la prima materia è a scelta, l’altra mi è stata
assegnata dalla commissione esterna. Normalmente il commissario interno si
prodiga affinchè anche la seconda sia a scelta. Raramente viene cambiata. E
quando la cambiano, lo fanno ai più bravi così per poter avanzare una forma
di falso potere sugli studenti e per mettersi a posto la coscienza. Dunque
Italiano e Fisica. Speriamo non me la cambino all’ultimo momento. Devo
studiare soprattutto Italiano perchè il programma è veramente più
sostanzioso. Il programma di Fisica è invece più snello e più facile.
Infilo l’agognata chiave nella toppa. La chiave fa fatica ad entrare in quanto
la serratura è vecchia ed arrugginita. Ecco, la chiave gira con uno
sgneecccccc e uno gnnnnnnnnn. Ma la porta non si apre. Uffa. Do una
potente spallata e finalmente il mio nuovo mondo si spalanca, buio, davanti
ai miei occhi. Sono subito investita da un odore di vecchio. Quest’odore è
fortissimo, mi penetra nelle narici, arriva dritto al cervello e mi fa
ripiombare nel passato come a cavallo di una spirale temporale. Questo
finchè mantengo gli occhi chiusi. Poi, apro gli occhi e mi ritrovo nel bel
mezzo della prima stanza, lo zaino per terra e la voglia pazza di aprire tutte le
finestre per far cambiare l’aria!
Le volte a stella! A circa 3 metri dal suolo la volta comincia a salire con una
geometria a stella (appunto) dando alle camere una forma armonica con
quattro campate che si riuniscono al centro del soffitto che è il punto più alto
della camera.
Due quadri sono appesi sulle grandi ed ingiallite pareti. Uno raffigura una
donna che si sporge da un balcone fiorito tutta protesa verso un giovanotto a
cavallo intento a cantare una serenata accompagnandosi con una chiatarra. Il
tutto stile Rossella O’hara di “Via col Vento”. Da l’idea che da un momento
all’altro dalla finestra del balcone possa sbucare la grassa Mamy ad
interrompere quel romantico, a modo suo, duetto.
Il secondo quadro, ormai troppo inscurito dal tempo, lascia trasparire un
cesto di frutta. Natura morta.
Una enorme scrivania in noce scuro sovrasta la prima camera. In un angolo
un salottino di canna di bambù. Accostamento veramente strano il noce della
scrivania con il bambù del salottino. Strani gusti o strane necessità, mah! Il
pavimento, bello, è un mosaico, una geometria floreale di buon gusto con
colore tendente al salmone. Questa la prima stanza. Che strana sensazione!
Mi gira la testa...questa stanza, questo odore... mi sento sprofondare in
voragine temporale. Chiudo gli occhi e mi figuro il mio futuro: questa stanza
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che mi impedirà di prendere 60 alla maturità. Lo sento. Mi incuriosisce
troppo. Forse ho sbagliato a scegliere questa casa come posto per studiare.
Tutto mi gira attorno. Chissà se questa stanza mi farà raggiungere la maturità
così come è nei miei piani. Mmmhhhhh.... mi distrae troppo.
Da questa stanza si accede ad una seconda. Pure grande. Pure a stella.
Nell’angolo a sinistra un vecchio lettore di dischi di vinile. Nella lontana
destra un letto singolo in ferro battuto, una porta che dà su un’altra camera,
una credenza, una seconda porta che dà sul cucinino, un po’ di muro, una
porta che dà sul giardino, al muro di sinistra un’altra credenza con un enorme
specchio. Termino il mio giro di 360° e mi soffermo sul primo mobiletto che
si trova entrando alla mia sinistra, ma che ora per come sono girata, rimane
alla mia destra. Apro le due ante in basso del mobiletto. I vinile sono
ordinatamente disposti. Quasi tutte opere liriche. La passione di mio nonno.
Di nuovo la spirale temporale e mi ritrovo proiettata in una serata d’inverno
di tanti anni prima, quando il nonno, seduto vicino al camino, raccontava
infervorato, le dita ingiallite dalle sigarette nazionali senza filtro, la storia di
Rigoletto e di sua figlia Giulia e poi quella di Aida. Grande figura quella del
mio nonno.
Mio nonno si chiamava Fulvio ma tutti lo chiamavo “Ciapale”. Non ho mai
saputo cosa volesse dire… sapevo solo che quando si incazzava con
qualcuno, di notte gli andava a pisciare davanti alla porta di casa. “Che mito
d’uomo”, pensavo quando le zie ci raccontavano l’episodio. In particolare ce
l’aveva con un tipo, un tale detto “Fluoro” che produceva blocchi di
ghiaccio: Ciapale ne legava uno al giorno dietro al suo sgangherato motorino
e dal paese percorreva 3 km di strada sterrata in mezzo agli ulivi per portarlo
al “caseddhru” (costruzione tipica salentina) in mezzo alla campagna tra il
paese e il mare dove la mia famiglia trascorreva l’estate e dove si viveva in 8
e a volte anche in 10 essendo il trullo meta preferita anche degli
innumerevoli cuginetti!
Che mestiere avesse mai fatto il nonno, non l’ho mai saputo, di certo
possedeva terreni (di sicuro non era farmacista! Questo lo sapevo per certo!)
e che quella era la sua malattia: e cioè accumulare terra e roba. Probabile che
facesse fruttare quelle terre. Bisogna riconoscere che quella terra aveva
salvato due generazioni: ci hanno costruito case figli e nipoti e magari anche
qualche pronipote. Vedesse ora quello che è diventata la sua terra!
Una volta un incendio aveva distrutto 4 alberi di ulivo, io non l’ho mai visto
piangere prima d’allora. E rimasi scossa sapendo che lui, in seguito a questa
enorme tragedia, la notte non dormiva, si girava e rigirava nel letto senza
trovare pace. Non ci potevo credere, per 4 alberi di ulivo! Non capivo allora
il valore della natura, quanto uno potesse amarla, lo avrei capito solo dopo
aver vissuto 15 anni in città sempre più puzzose e con la natura finta. Ma lui
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era incazzato non per la natura, ma per la proprietà, per la roba di verghiana
memoria, per non più avere 4 alberi di ulivo che non erano più suoi, nè del
mondo. Bruciati.
Mio nonno aveva fatto la guerra del 15-18. Mi aveva riempito la testa con le
sue storie di guerra, di quando lui e gli altri commilitoni mangiavano le
patate con gli scarafaggi ed il pane rammollito dall’acqua.
Raccontava anche di essere stato prigionerio, in Albania diceva, e poi diceva
anche di conoscere l’arabo “Akkarahia habba habba” ripeteva per
convincere noi, increduli nipotini. Che c’entrava poi l’arabo con l’Albania??
Boh, so solo che io ed i miei fratelli, piccoli aquilotti assetati di storie,
pendevamo dalle sue labbra. Meglio che guardare i cartoni alla tivù.
I vinile sono vecchi, la puntina che li legge sembra però intatta, ne prendo
uno a caso e lo adagio sul piatto appoggiandoci delicatamente la puntina.
L’ondata di note della marcia trionfale dell’Aida riempie rimbombando nelle
stanze ora inondate di luce. E sull’onda di queste note comincio a vagare da
una stanza all’altra cercando l’ispirazione per studiare.
Ma l’ispirazione non arriva, l’Aida avanza e la scrivania di noce che
troneggia nella prima stanza, comincia ad attirare la mia curiosità. La
scrivania è veramente massiccia. Sul lato destro ha un’anta chiusa a chiave.
Orizzontalmente subito sotto il piano di lavoro, ci sono due cassetti,
anch’essi chiusi a chiave. Qualsiasi tentativo di aprirli non porta a nessun
risultato.
Un cigolio improvviso della porta mi fa sobbalzare. Sono seduta a terra
dietro la scrivania e balzo improvvisamente in piedi di scatto con il cuore in
gola.
“Si può?” È il fratello maggiore di Nanà, ultimo della schiera di miei
pretendenti (scusate se me la tiro un pò) che da una settimana ha accentuato
le sue insistenze amorose. Ci conosciamo da quando eravamo bambini, per
cui non riesco a pensare a lui come ad un possibile compagno di avventure
amorose, anzi la questione mi scoccia non poco. A dire il vero non so bene
come destreggiarmi senza compromettere la lunga amicizia che mi lega a lui
e a Nanà. Mentre sono immersa in questi pensieri Matteo parte in quarta per
baciarmi. Impetuosamente. Ma io, avendo capito l’intenzione e non volendo
ricambiare con la stessa enfasi...
”Ahhh, Matteo, come hai fatto a sapere che ero qui?” chiedo. E lo anticipo
con un abbraccio caloroso, ma fraterno, stringendolo forte e quasi
stritolandolo.
“Emhh, me l’ha detto Nanà che saresti venuta qua a studiare” risponde
Matteo cerca di introfulare la sua mano sotto la mia gonna.
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“Stronza di una Nanà” penso mentre afferro la mano di Matteo che ha quasi
conquistato la mia intimità.
“Matteo, ti ho già detto che non è il caso. Sei anche carino. Emhh...Mi piaci
pure. Ma sei mio amico, quasi fratello. No! non si può. E poi adesso mi vedo
con Paolo. Non penso sarebbe contento se lo sapesse.........” dico questo
spostandogli con forza la mano da lì sulla mia spalla.
“Dai, solo un po e poi non c’è bisogno che Paolo lo sappia. Dai che ti costa?”
insiste Matteo spingendomi contro il muro.
“Eh mi costa si!” replico sgusciandogli dalla trappola muro-braccia-corpo.
“E poi sto facendo un percorso mentale, tutto mio, sulle relazioni, sul
sesso...devo riflettere, capire, capirmi, elaborare e tu non puoi scombinarmi
questo percorso, altrimenti mi perdo di nuovo” dico alludendo al mio recente
passato.
“....Cioè Paolo l’ha capito, per cui decido io quando, dove e come, e
soprattutto perchè, capisci?” E lui accetta questo, perchè lui ha una marcia in
più nel cervello e queste cose le capisce. Ora tu non hai nessun diritto di
scombinarmi questa crescita, questo voler assecondarmi in questa cosa. Deve
essere naturale capisci? E con te non lo è perchè ti conosco da sempre” dico
con foga rovesciando questo fiume di parole sullo sbalordito Matteo.
Il quale, ripresosi, incalza in tono ironico:
“Ma dai, ma che percorso, cosa farnetichi? cosa centra la crescita? Ma dai,
ma non senti che ti voglio? Non senti il desiderio incontenibile.....”
“Appunto - lo interrompo - io non ti voglio, e soprattutto non ora, e
soprattutto non qui. E poi decido io quando e se. Per me decido io, capito?
Non tu!”
“Sei una bella egoista”, dice Matteo incazzato mentre si appresta ad
accendere nervosamente una sigaretta. Intanto le note finali dell’Aida
sfumano verso la loro fine e le stanze ripiombano nel silenzio dal quale erano
state abitate per tanti anni.
“Anche tu” incalzo.
“E allora?” continua alzando il tono di voce “Facciamo una gara tra chi è più
egoista?”
“Però Paolo te lo scopi e pure quello sfigato dell’Albino, me l’ha detto lui,
alla faccia della tua filosofia del cazzo.”
“’fanculo Matteo, non riuscirai mai a capire niente.”
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2. SULLA SCOPERTA DELL’IO-CORPORALE
Il primo giorno è così passato nella casa dalle volte a stella di via
Risorgimento, 14. Senza aver aperto un libro. Senza aver aver ripassato
Dante. “Ripassato Dante? Povero Dante, se poco poco avesse immaginato di
essere ripassato, magari non l’avrebbe scritta la Commedia Divina, “che poi
tanto commedia non è: anzi è proprio ‘na tragedia!”, così penso mentre,
pedalando, vado incontro al mio secondo giorno verso la maturità. Non che il
primo mi avesse fornito tanto materiale a parte quello stronzo di Matteo. Che
poi tutto sommato quell’episodio non mi ha turbato più di tanto, per due
motivi.
Primo: ci sono abituata, non è la prima volta che qualcuno si comporta come
Matteo con me. E poi alla fine Matteo ha capito che gli conviene rispettare le
mie... come dire? Stranezze. Ne sono certa.
Secondo: mi ha dato modo di constatare una cosa sulla quale non mi sono
ancora soffermata, ma che penso di aver già distrattamente intravisto con gli
occhi della mente, e cioè che mi piace provare piacere quando sento il
desiderio maschio concentrarsi su di me (undecimo piacere?). Mi piace
anche giocarci su e soprattutto mi piace essere io gestire il gioco. Già perchè
di gioco si tratta, se all’amore devo pensare ora, tutti i miei pensieri si
indirizzano a Paolo: è verso di lui che sento un grande trasporto emotivo, se
penso ad un figlio, lo vedo assomigliarsi a Paolo. Paolo mi riempie la mente
ed il cuore. Con gli altri, è solo gioco. Ma nessuno di questi giochi è mai
stato terminato. Nessun croupier ha ancora detto “le juex sont fait”. E questo
perchè i giochi effettivamente non sono stati ancora giocati.
La porta si apre più facilmente questa volta. Decido di dare una pulita veloce
almeno nella stanza che ho eletto a studio. Giusto per togliere secoli di
polvere. Provo ancora una volta a scardinare, ma senza convizione la
scrivania. Non ci riesco. Mi incazzo un poco. Ma poi rinuncio. Solo dopo
un’ora, mi decido ad aprire finalmente il libro di letteratura italiana, pag. 329,
Leopardi, “La donzelletta vien dalla campagna, in sur calar del sole e con il
suo fascio d’erba reca in mano un mazzolin di rose e di viole, onde siccome
suole...” ma perchè ‘sta donzelletta porta con sè un fascio d’erba?” mi metto
a pensare “ERBA?? Mhhh...vuoi vedere che quel bischero del Leopardi, con
la scusa di essere uno sfigatone........no, è che portarselo in mano, cioè, fosse
stato per gli animali, altro che fascio, un fienile intero ci voleva!
Effettivamente la donzelletta aveva un sorrisetto di un genere...avanzava
barcollando...felice e spensierata. Basta Tella con queste divagazioni” dico a
me stessa ad alta voce ”dunque....onde siccome suole ornare ella s’appresta,
dimani il dì di festa il petto ed il crine.”
13
.......
Lo studio del Leopardi avanza speditamente mentre, con una mano sotto la
scrivania, tormento il cassetto in alto a destra. “Il Leopardi è necessario per
la maturità di un giovane.” penso di dire in caso mi interroghino su questo.
“Effettivamente dà molti spunti, con le sue poesie, con il suo malumore,
cominci a capire, se non l’hai capito già per altre vie, che la vita non è poi
sempre rosea, con il suo fatalistico “oh natura, natura, perchè di tanto
inganni i figli tuoi?...mmhhh... no Leopardi, non mi convincerai mai che la
natura è matrigna. Hai ragione, sei stato sfigato, ma ognuno ha la sua sfida
nella vita, no? E tu mi sembra che l’abbia pure vinta la tua sfida. Sei passato
ai posteri. Decine e decine di generazioni ti studiano e sanno di te. Di me, di
Tella chi ne saprà mai qualcosa?...mmhhhh...(penso alzando gli occhi verso
la volta del soffitto). No, questo è meglio non dirlo, magari s’incazzano,
meglio dire quello che pensa Leopardi di Leopardi o al massimo quello che
dicono i suoi sacri commentatori. Dunque... mannaggia ‘sto cassetto come
faccio ad aprirlo? Le zie dicono di non aver le chiavi, dicono che ce l’aveva
nonna e che se le è portate nella tomba, ma si potrà pure aprire ‘sto cassetto.
Devo portarmi qualcosa da casa per forzarlo. Dunque. “Silvia, rimembri
ancora quel tempo della tua vita mortale quando beltà splendea negli occhi
tuoi ridenti e fuggitivi........che cupezza, che tristezza, certo però che la poesia
è poesia, quanta armonia in questi versi, come sono messe bene le parole una
dietro l’altra, sembra quasi musica”. E poi ancora le terzine del paradiso di
Dante, “un pò noiosetto quest’anno Dante, meglio l’Inferno del terzo anno!
Passionale, vario, tormentato. Come quando si racconta degli amanti Paolo e
Francesca schiaffati nell’inferno a penare perchè si erano amati, “galeotto fu
il libro e chi lo scrisse” (la mano passò dal tormentare il cassetto di noce all’
accarezzare la mia intimità, così per piacere di curiosità), insomma non è che
poi si potesse pretendere che fosse cosa giusta che due s’amassero se poi si
sposavano senza amore, (i jeans mi stanno un pò stretti, a detta di Paolo mi
fanno un bel culo, ma quando sto seduta mi tiravano un po’. Mi sbottono
quel tanto che bastava per stare meglio) per forza poi uno si cerca l’amante!
E va all’Inferno.”
Così viaggiano liberi i pensieri nella mia testa, ma io devo imparare del
Paradiso e di Beatrice che nel primo canto aiuta Dante ad ascendere nei cieli,
così decido di lasciare con la mente gli amanti nell’Inferno e indirizzo i miei
pensieri verso le celestiali e perfette sfere del Paradiso. Nell’andare verso il
Paradiso smetto di toccarmi dato che la procedura mi distrae non poco e di
certo non mi aiuta a concentrarmi sul quel cantico del Paradiso.
La storia di Beatrice che spiega a Dante l’ordine dell’Universo mi rapisce
tutta mattina, nel mezzo di essa esco fuori e, dato il bel tempo, mi metto a
studiare sulle scale imbiancate di calce che dal giardino portano sulla
terrazza.
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Verso la fine del canto V, esattamente alla penultima terzina, alzo lo sguardo
e, dietro l’albero d’alloro, scorgo il pozzo proprio lì nel bel mezzo del
giardino, proprio lì dove mi ricordavo che fosse. Ma guarda un pò – mi dico.
Poi noto 2 alberi di aranci, 1 di mandarino, 1 di limone, 1 albero di albicocca
ed 1 di susine. Il tutto in mezzo a tante erbacce. Il giardino è di forma
rettangolare, più lungo nel senso della lunghezza della casa, in fondo a destra
uno stanzino con una tenda di tela oramai logorata dal tempo. “Deve essere il
vecchio bagno, cioè il cesso” peno, “perchè prima si espletava fuori casa” e
mentre penso a questo mi avvio verso di esso. Sull’altro lato scorgo la
vecchia “pila” (cioè una grande bacinella scavata nella pietra). Un tempo
serviva per lavare i panni. “Con un miscuglio di ceneri e non so cosa” mi
aveva raccontato una volta la mamma. Scosto la tenda logora e ci trovo un
gattino a poltrire ai piedi di quello che una volta doveva essere il “trono” il
quale è appoggiato perfettamente su un buco scavato direttamente nel
terreno. Chissà che puzza quando era attivo!” La casa dalle volte a stella, per
mia fortuna, è comunque dotata di un bagno interno abbastanza moderno ed
agibile la cui finestra ora dà sul giardino all’altezza della “pila” usata per il
lavaggio della biancheria.
Appesa al muro, subito lì, sopra la “pila”, una gavetta della prima guerra
mondiale. La gavetta tutta ammaccata era di mio nonno e mi rievoca
piacevoli ricordi. Quanto ci avevo giocato con quella gavetta. La usavo come
unità di misura per barattare susine con le figurine dell’album di kandykandy.
Una gavetta di susine = 10 figurine di kandykandy.
È giunta l’ora di tornare a casa per il pranzo ed è l’occasione per procurarmi
qualche attrezzo per scardinare la scrivania. Perciò chiudo la porta della casa
dalle volte a stella e, inforcata la bicicletta, ritorno nell’altro mondo. Quello
degli altri per intenderci in cui ogni tanto faccio capolino se non altro per
fame e sete di socialità oltre che di cibo ed acqua.
Durante la tranquilla pedalata, ripenso a quello che avevo provato mentre
pensavo ai dannati dell’inferno Paolo e Francesca, accarezzandomi e mi
stupisco solo ora di quelle sensazioni spazzate via così in fretta da Beatrice!
Strane vie quelle seguite dalla natura del piacere, strani meccanismi
accendono il cervello, strane chimiche lo attraversano. La Natura si è
divertita non poco con gli umani. Bastarda! Ci ha dato un’arma ad
innumerevoli tagli! Comunque, in sè e per sè, cioè andando al sodo, al crudo,
mi pare che questi piaceri si assomiglino non poco. E di lì arrivo a pensare,
che almeno per quello, cioè per il piacere fine a sè stesso, forse, “er macho”
non è poi tanto necessario. Questa è proprio una grande scoperta sempre se
sia vera. Non resta altro che provare fino in fondo questa variante al gioco di
base. Magari è sorprendemente vero. Magari ne parlo con Nanà.
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3. DOVE SI PARLA DEL NON-CONTRASTO CON L’IO-ESISTENZIALE
Quel pomeriggio decido di andare a trovare Peppino Tenti-muzzu. Non che
potesse dirgli chiaramente quello che mi è successo questa mattina, Leopardi
e Beatrice a parte. Ma voglio farmi istruire sulle varie forme dell’amore e
tutte le sue varianti. Ho una certa teoria da verificare ed sono sicura che il
vecchio saggio, tra una sfumacchiata e l’altra, mi possa chiarire un pò le
disordinate idee che mi stanno vorticavano nella testa. Soprattutto sul perchè
certi giochi sono considerati proibiti e per questo non si possa praticarli, e nel
caso, almeno non se ne deve assolutamente parlare, così come è successo a
lui con la sua Caterina. Ho deciso di dedicargli solo un’ora, al massimo
un’ora ed un quarto: l’Induzione Elettromagnetica mi aspetta questo
pomeriggio sempre lì nella casa dalle volte a stella.
Peppo è nel suo giardino anteriore a fumare la pipa, of course, seduto su una
sedia con le gambe appoggiate al muretto e la sedia in bilico su i due piedi
posteriori, cappello da marinaio calato sugli occhi. Dormiva?
“Peppo, ehi Peppino!” Urlo.
Peppo si scuote dal torpore in cui è visibilmente sprofondato. È divenuto
triste in questi ultimi mesi, pensa e ripensa ai suoi bei tempi e ne ha
nostalgia. Me ne ha parlato l’ultima volta che ci siamo visti. Eccolo là, lo si
vede lontanto un miglio: quale immensa gioia è per lui sentirsi chiedere di
speculare sulle forme d’amore.
Gli pongo così la domanda:
“Senti Peppo, non capisco, cioè Paolo mi piace, da morire, però mi piacciono
anche Albino e qualcun’altro, ma in modo diverso, cioè un pò meno e
poi...insomma possono piacerti più persone nello stesso tempo e soprattutto
ci si può piacere a sè stessi? Cioè in senso proprio di piacersi. Uffa... c’ho
una grande confusione in testa.”
“Sapessi quante volte mi sono piaciuto a me stesso! Hi, hi, hi” sgnignazza
Peppo alzandosi in piedi con un gesto atletico che non gli viene più da
almeno 5 anni!
“Però mi sa che per voi femminucce la storia sia un pò diversa, cioè non so,
non penso che Caterina...cioè, ma cosa vuoi dire? In che senso?”
Al che sfodero uno sguardo di intesa facendo appunto capire che si, era
quello l’argomento.
“Cioèèèè? eh no, bambina mia, non puoi venire a chiedere queste cose a me,
queste sono cose da femmine. Che ne so io di cose da femmine?”
“Però sei stato pronto di battuta prima! cavolo non può essere che ti
imbarazza, parliamo sempre di tutto.”
“No, hai ragione...è cheee...”
“È chee che?”
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“È che è imbarazzante si. No anzi. Mmmh...” si schiarisce la voce una prima
volta.
“OK. Allora sono pronto. Emh...mhh...mhh...” riprende il mio saggio Tentimuzzu schiarendosi nuovamente la voce con un tono che dell’imbarazzo
iniziale non ha quasi più niente, e che al contrario ha preso vigore alzandosi
di almeno mezzo tono “Caterina mi raccontava di farlo spesso e quando me
lo raccontava io mi drizzavo come un cavallo...mmmh (terzo schiarimento di
voce)...cioè volevo dire... mi faceva morire. Bastava il suo racconto. Quella
voce, quelle parole, le sue parole. Non la toccavo neanche e....Ah dolce
Caterina!”
“Galeotta fu la pianta di cappero e chi la piantò!” penso ridacchiando fra me
e me, ma non dico niente.
Dunque una certa Caterina, nata nello stesso posto trent’anni prima, viveva
continuamente esperienze auto-amorose e le raccontava al suo amante (di
sicuro non al marito dietro al bancone della farmacia!), il quale amante ne
traeva immenso piacere al punto di venire senza neanche toccare la suddetta
donna che finalmente, s’era capito quel pomeriggio, non era stata MAI
conosciuta biblicamente dal saggio Tenti-muzzu (GULP!), e che i due amanti
in tutti quegli incontri durati tutti quegli anni, dentro la galeotta pianta di
cappero, facevano di tutto tranne quello che il primo istinto li portava a fare.
La sublimazione di quell’istinto li portava ad un godimento di natura
superiore del quale quella mattina era difficile comprendere la natura o
almeno le parole di Peppo non avevano reso perfettamente l’idea, però
scopro che esiste un livello superiore di piacere, superiore a quello istintivo
di Matteo, superiore a quello raccontato da Nanà e le altre amiche, al quale io
miro, ma non so argomentarlo con le parole. Ne ho solo l’intuito. Ma ora
capisco che quasi ci sono, quasi ho la comprensione del tutto... siiiiiiiiii!
Finalmente ho capito!
“Uauuuuuuuuu” esclamo alla fine di quella sintesi kamasutriana raccontata
in un italiano stentato con continui intercalare di parole dialettali.
“Uauuuuuuuuuuuuu” ripeto andando via.
“Uauuuuuuuuuuuu” dico ancora mentre pedalo verso il pomeriggio di studio
con il coltellino svizzero prestatomi prima da Peppo.
Bhè, se non altro le cose un pò ora mi si quadrano nella testa. Cioè ci si può
amare di vero piacere. Lo facevano anche trent’anni prima, quindi non è stata
una cosa strana quella che ho provato questa mattina.
Il mio io esistenziale, balzato alla ribalta due anni prima in occasione di un
episodio apparentemente insignificante, può dunque stare tranquillo. Ed
infatti, strano a dirsi, non protesta più di tanto alla scoperta di questa mattina.
Eppure è roba grossa. Me ne stupisco un pò visto che egli (il mio io
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esistenziale, detto anche Clandestino) tiene la scena come una vera start
hollywoodiana e comanda tutte le mie azioni ed i miei comportamenti.
Due anni fa ho preso coscienza di me come essere in seguito ad una caduta
dalla bicicletta su una strada sterrata dove ho battuto il capo e perso i sensi
per 3 secondi e 47 decimi secondo la misurazione assoluta dei tempi. In
seguito a quella botta alla testa, della quale non avevo parlato con nessuno e
dalla quale mi ripresi tranquillamente (tranquillamente son parole grosse) da
sola, ho passato un anno intero a nutrirmi il minimo indispensabile, cioè quel
tanto che bastava per la sopravvivenza, a non comprarmi più nessun vestito,
nè scarpe, nè ornamenti vari e la mia massima aspirazione era quella di fare
l’eremita in un caseddhru nutrendomi di bacche e solo di quelle dato che gli
insetti mi facevano schifo.
In quei 3 secondi e 47 decimi mi ero vista fuori guardandomi dal di dentro
(come normalmente succede a tutti gli esseri umani e forse anche animali),
poi avevo improvvisamente rovesciato il punto di vista e mi ero vista dentro
guardandomi dal di fuori. Quel repentino cambio di vista mi aveva fatto
capire che esistevo come essere oggettivo in sè, indipendentemente dai miei
pensieri e dai miei stati d’animo e dalle mie credenze e dalle mie opinioni.
Quell’io epurato dal tutto era io stessa, pura, come sarei stata
indipendentemente dal posto in cui fossi cresciuta. Quell’io epurato sarebbe
stato tale e quale a sè stesso in qualsiasi epoca ed in qualsiasi zona geografica
avesse vissuto, tra i maori australiani come tra le neri del bronx newyorkese,
all’epoca del neolitico come su un’astronave in rotta su Marte. Quell’io
epurato era l’io esistenziale, era quello che io effettivamente ero nel
profondo di me stessa. Tutto il resto mi si era avvolto attorno a mo’ di strati
di cipolla. Da qui il tentativo di togliere tutti quegli strati per arrivare al cuore
della cipolla, al mio io esistenziale per l’appunto. E la regia di questa scena
dipendeva dal suddetto io epurato, il Clandestino, e non dalla mia volontà,
per cui mi lasciai guidare da lui in tutte le mie azioni.
I miei genitori si preoccuparono. Erano soprattutto preoccupati per il mio
aspetto sempre più esile e per la sciatteria in cui stavo precipitando. Nel
tentativo di salvarmi da quello stato mi spedirono due mesi in Francia presso
dei lontani parenti che abitavano nei pressi di Lourdes, un pò sperando
nell’aiuto della Madonna, un pò (soprattutto) in quello dei cugini che essendo
in 4 e della stessa età e di un’altra cultura potevano, speravano, aiutarmi a
ritrovare me stessa.
I miei genitori furono felici quando mi videro rintornare rinvigorita e con un
buffo accento francese che mal si conciliava con quello della mia zona di
origine. In ogni caso, l’impronta francese mi aveva molto giovato, “quasi
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quasi le è anche venuto il nasino all’insù”, disse felice mio padre a mia
madre.
Questo è quello che scrissi sul mio diario il giorno della mia caduta
esattamente tre ore dopo la botta in testa:
27 Ottobre 1983
C’è sole, un bel sole. Che cosa è questa barriera che sento dentro la mente?
Cosa è che blocca le connessioni? È vero, in mancanza di stimoli, tutto si
atrofizza, si smette di pensare, o si pensa quel tanto che basta per la
sopravvivenza. Nutrimento. Ho bisogno di nutrimento. È tutto così facile,
così scontato, così banale. Perché abbiamo smesso di pensare? È il vortice
della vita, ma la vita deve avere un senso per noi, non può essere solo
lavoro, comprare una casa... basta! Bisogna decollare, sono stata troppo a
terra…mi hanno fregato, ci sono riusciti, cazzo, mi hanno proprio fregato!
Allora io ricomincio daccapo, ricomincio dalla reale realtà e la guardo con
fantasia, ricomincio a pensarla con gli occhi di bambina, di una piccola
bambina che ancora non ha imparato a parlare e mi invento una nuova vita.
Cioè rinasco artificialmente, mi ricreo l’ambiente, il contesto, lo sfondo del
quadro della vita, rinasco in un tempo senza tempo, perché ora io sono
soprattutto quello che ho vissuto, per questo devo usare la fantasia per
rinascere in qualcos’altro.
Primo vincolo: si nasce in una data ed in un luogo. Dunque non posso essere
dovunque e dappertutto. Spero che nessuno mi pensi, perché se qualche
mente dovesse farlo, oddio no….già come idea nella mente di qualcuno sarei
proiettata in uno stato, cioè in un luogo ed in un tempo. È lì la fregatura:
quello di essere pensata è il primo passo per diventare una individua che è
proprio quello che non voglio diventare. Dunque non devo essere pensata,
altrimenti rischio il congelamento, la collocazione. Bene, così posso
sorvolare i tempi, cercarne le direzioni, raggiungere il tempo infinito, cioè il
non-tempo, che poi è lo zero, cioè lì dove sono concentrati tutti i tempi
insieme e non c’è nessun tempo, quel luogo che possiamo chiamare
sospensione temporale. Ecco così posso pensarmi all’indietro, a destra, a
sinistra, avanti, posso vedermi cellula, posso vedermi aggregato di cellule,
posso vedermi vecchia, giovane, bambina, mhh…già questo mi piace, per
favore non pensatemi. Cioè se mi pensa una schiava dell’antico Egitto nasco
schiava nell’antico Egitto, non tutti sono paraculati come Mosè, se mi pensa
una castellana del 400, magari nasco nobile in un alto medioevo, ma che
palle la vita di corte, magari mi pensa qualcuna nel futuro su una stazione
orbitale e mi tocca vedere la terra solo da lontano, magari mi pensa
qualcuna in quest’epoca di stressati, lavoratori, perbenisti………nooo, il
peggio del peggio, no ferma lì, non lo fareeeeeeeee……cazzo! Potevo essere
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pietra, cane, pianta, ed eccomi qua femmina in quest’epoca di merda, ma
che ne è stato del non-tempo e del non-spazio?!? Dell’infinità di gradi di
libertà che mi potevo permettere..... Chi cazzo mi ha pensato?
E ancora:
Uauuuuu... fortuna che era solo una fluttuazione di pensiero, niente vero,
nessuno m’ha pensato! Penso che la sfiga degli umani sia quella di avere un
corpo, di avere la mente imprigionata in un corpo, cioè questi pensieri
devono andare appresso al corpo…ritornando ad esempio alla mia vita dalla
quale mi sono estrapolata, non posso lasciare la mente a cazzeggiare sotto il
tepore primaverile del Sud e portare il corpo ad esempio in una fredda città
del Nord, cioè i pensieri devono seguirmi in quanto contenuti nella scatola
cranica, pur essendo prodotto immateriale generato da materia (che già
capire come questo avvenga sarebbe una gran figata), comunque è per
quello che non voglio un corpo nella nuova vita. Forse è per questo che in
tutte le religioni hanno immaginato una vita senza corpo dopo la morte dello
stesso, anche se alcuni pretendono addirittura di risorgere con tutto il corpo,
che grande presunzione voler dominare il tempo, dopo che ci si è fatti da
esso dominare! Alla fine dei tempi, dicono. Tempi? Con la i? Cioè c’è un
punto (tempo-spaziale ovviamente) in cui si incontrano diversi tempi? È
quello che sto cercando io? Opss…ho parlato di io. Mi sono autoindividuata. Miihhh che fatica, torno indietro con il ragionamento. Dicevo,
il punto in cui si incontrano i tempi e gli spazi…bella storia…e che ci fanno
tutti questi in questo punto? Sono proprio curiosa, proprio curiosa, adesso
vado a dargli una sbirciatina…tanto, se ci hanno creduto per tutta la loro
vita, ora saranno sicuramente là!! Questa moltitudine di non-gente che gode
di sé stessa, si auto-compiace e che si crede dio, non può soffrire, sarebbe un
contro-senso, non può provare sensazioni, emozioni, sono puro pensiero che
ristagna turbinoso là in quel punto dell’incontro dei tempi, vedo tanti
pensieri allo stato puro, ma completamente ingarbugliati, confusi, che caos!
Eccolo, è qui il caos! Naaaaaa, non ci posso credere. È da qui che nasce
l’ordine del loro mondo! Ma pensa te, questi qua, ci avevano quasi
azzeccato, sono entrati in un ciclo. Funziona! Funziona davvero.
Interessante. Bon mi fermo un po’ ad osservarli, è un piacere vedere questo
traffico scombinato di idee pure, che si muovono caoticamente e poi ogni
tanto qua e là, queste scintille, questi lampi di vita…consolante, rispettoso:
guai a voi se mi pensate, però!
Continuai due giorni dopo con questo pensiero:
29 Ottobre 1983
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Il dramma è che se muore il corpo, cioè la materia producente, cioè il
cervello, muore anche la materia prodotta, cioè la mente. Bella fregatura!
no, niente corpo...
Fortuna che sono ancora una idea quindi fondamentalmente non sono
propriamente in un luogo, non sono propriamente in un tempo...
Un delirio apparentemente senza senso di pensieri difficilmente estricabile.
Ero pazza. Oppure ero sanissima.
In sostanza avevo tentato di descrivere il concetto base dell’”io-cipolla”, del
Clandestino, e l’idea che l’io, prima di essere un individuo imprigionato in
un corpo, è una idea che vaga chissà dove e chissà quando e che
potenzialmente può essere chissà che cosa visto che è al di fuori dello spazio
e del tempo.
Potete ben capire come quest’io-cipolla in teoria contrasta fortemente con i
pensieri e le scoperte che da ieri si sono intrufolate nei miei pensieri. Ma
forse cos’ non è.
Cioè due anni prima questi pensieri, per così dire “goderecci”, sarebbero stati
ripudiati con un colpo di spugna, come fluttuazioni di pensiero, fluttuazioni
non degne di attenzione; oggi invece l’io-cipolla sembrava non protestare. Il
Clandestino tace. L’unico effetto a quel desiderio del piacere fine a sè stesso
è l’esigenza di sublimarlo, di elevarlo a qualcosa di più importante rispetto a
quanto sento dai discorsi dei miei amici e da quanto apprendo dalla vita. E il
racconto di Peppo mi ha aiutato in questa direzione. Mi sento molto Caterina
oggi!!
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4. DOVE SI RACCONTA DELL’APERTURA DEL PRIMO CASSETTO
Ripasso velocemente l’Induzione Elettromagnetica, faccio due esercizi per
dimostrare a me stessa che quello che dovevo capire l’ho capito. Esattamente
3 ore dall’entrata nella casa dalle volte a stella, estraggo il coltellino svizzero
dalla tasca esterna dello zaino. “Grazie Tenti-muzzu”, dico alzando gli occhi
al cielo.
L’ora era giunta.
Anzi no, ci vuole una colonna sonora ad hoc che accompagni quello che sto
per fare. Quindi mi dirigo verso la stanza con il giradischi, prendo il vinile di
Beethoven, la nona, lo faccio partire e ritorno, soddisfatta di quella scelta,
alla scrivania di noce.
Il cassetto cede dopo pochi minuti. E il vortice temporale si reimpossessa
nuovamente di me. In quel “non-luogo” ed in quel “non-tempo” prendo fra le
mani una tavoletta di compensato 20 X 15 cm circa con su dipinto un mare
violento, decisamente in tempesta. La scritta in bianco sul cielo triste e
disperato dice: “Chimica a che mi servi? Potesse il tuo bromuro calmarmi i
nervi!”
Non ho alcun dubbio: questa tavoletta è stata sicuramente dipinta da mio zio
emigrato in Brasile in cerca di fortuna. Di lui non so quasi nulla, la nonna ha
sempre evitato di parlarmente, forse perchè questo la rendeva triste. So solo:
− che ha studiato chimica (di qui la logica attribuzione a lui di quel
dipinto);
− che dopo svariati tentativi di trovare lavoro in Italia, se ne è emigrato
in Brasile;
− che da quella selvaggia terra è stato rimpatriato, morto, in una bara
quando io avevo l’età di 5 anni. Me lo ricordo ancora come se fosse
ieri.
Cosa fosse andato a fare oltreoceano proprio non lo so e non riesco neanche
ad immaginarlo. Di lui ricordo il funerale. Un evento che mi colpì
profondamente. Fu infatti in quell’occasione che capii che si moriva e che la
morte era cosa brutta.
Sotto la tavoletta di compensato c’è un plico di 5 lettere legate da un nastro
rosso e sotto ancora due numeri di vecchie riviste scientifiche degli anni ’40.
Una di queste, in prima pagina, titola a caratteri cubitali di Enrico Fermi e
della bomba atomica. Le riviste sono in italiano.
“Nulla di strano”, penso togliendo dal cassetto anche un libro ingiallito di
una cinquantina di pagine che parlava di Analisi Matematica. Mio Dio: sono
emozionata! Il libro è scritto con i caratteri dattiloscritti ed è proprio un
reperto archeologico!
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Mi accingo ad aprire il plico di lettere, la curiosità mi sta ammazzando,
quando sento bussare alla porta. In fretta e furia rimettp disordinatamente
quello che ho tolto nel cassetto e lo richiudo. Corro ad aprire.
“Un momento” urlo in modo che mi possano sentire da fuori cercando di
sovrastare le note sublimi della nona.
Entrano in tre e mi sconvolgono l’intero pomeriggio. Sono le amiche di
Nanà, ora anche amiche mie.
“’sta stronza di Nanà” penso per la seconda volta in poco tempo.
“Uauuuu, bello qui” dice Truzza.
“Ci dobbiamo fare una festa una di queste sere” incalza Nanà. La guardo di
traverso.
“Non mi sembra proprio il caso, Nanà, ti avevo detto che ero qui per
studiare. Ma non ce l’avete anche voi la maturità? Che cosa ci fate in giro a
quest’ora?”
replico
con
tono
palesemente
stizzito.
Il terzetto frequenta la stessa classe, ma in una scuola differente dalla mia.
Del terzetto fa parte: Giovanna detta Nanà, Carla detta Truzza, e Anna detta
Anna. Le tre, essendo della stessa classe, hanno deciso di prepararsi insieme
per la maturità, ma fino ad oggi, a quel che mi risulta, non hanno quasi aperto
libro e, nei 4 pomeriggi in cui si sono incontrate, non hanno fatto altro che
filosofeggiare sul bel culo di Albino della quinta A e di quanto sia superbonazzo Paolo. Lo so perchè me l’ha detto Matteo che ha sbirciato le loro
conversazioni. Ovviamente, loro non sanno che io e Paolo ci frequentiamo di
nascosto da oramai due mesi e che con Albino ci divertiamo un casino
quando riusciamo a trovare un pomeriggio tutto per noi. Per la verità le tre
qualcosa hanno fatto in quei 4 giorni. Ripetuto la storia a passo di “pizzica”.
Per chi non lo sa, la “pizzica” è una danza locale molto antica, ma ancora
molto ballata. Penso che non sia rimasto molto nelle loro teste, ma almeno il
libro di storia l’hanno aperto.
“Dai possiamo rimanere qua a studiare?” chiede Nanà.
“Si dai, andiamo in giardino” replica Anna.
“Ok, ok” dico abbassando il volume della nona, basta che non mi distraete.
Ho i giorni contati.”
“Però una festa qui, ci sta da dio” insiste Carla.
Le tre spariscono in giardino, si mettono attorno al pozzo, aprono i libri
(uguali) sul parapetto. Nanà si è precedentemente affacciata ed ha visto che
c’è una inferriata interna che è messa orizzontalmente a circa 80 cm dal
parapetto e che quindi protegge dalle cadute. Decide perciò che il posto è
strafichissimo per studiare e propone di piazzarsi là. Si siedono in varie pose
sul parapetto, ugualmente distanziate (sembravano le tre grazie del
Botticelli), e tra un pettegolezzo e l’altro, e l’organizzazione della festa che
oramai hanno deciso che si deve fare, avanzano di ben 3 pagine del libro di
storia: un successone per loro di quei tempi!
Io le osservo di tanto in tanto dalla porta. Ma preferisco restare sui miei studi.
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Le “tre grazie”, a detta sempre di Matteo, nutrono una profonda ammirazione
nei miei confronti. Matteo dice che io esercito un enorme fascino su di loro.
Boh! Sarà vero, non lo so. Mi rispettano certo, ma sicuramente se sapessero
dei miei intrallazzi con i due boys più gettonati del momento, di certo le cose
potrebbero prendere una piega diversa da quella attuale. Ma tanto è che ora le
cose stanno così. Ed io non mi sbottono certo con loro riguardo a questo
argomento di cui sono gelosissima.
Anche io ho notato l’inferriata del pozzo ieri, ma non me ne sono
preoccupata ed me ne sono ritornata a studiare i campi magnetici.
È così che, per oggi, forse è meglio abbandonare l’idea di aprire il plico di
lettere anche se muoio dalla voglia di farlo, anche se l’istinto mi dice che
scoprirò una verità di un qualcosa tenuto segreto. Ne sono sicura: c’è una
verità nascosta in quelle lettere... “perchè, altrimenti, mia nonna, si sarebbe
portata la chiave della scrivania nella tomba?” penso mentre cerco di
concentrarmi sullo studio di quel pomeriggio. Comunque tanto vale
approfittarne e avanzare con lo studio, tanto questa verità, della quale ho un
intuito vago, può aspettare domani.
E questa è esattamente la prima cosa che faccio il giorno dopo. Sciolgo il
nodo. Come devo leggere queste lettere? In ordine cronologico? “Ok, vada
per l’ordine cronologico”, mi convinco, tanto ci sono le date.
La prima in ordine di data è una lettera d’amore, rivolta ad una certa Maria,
fidanzata del “mio più caro amico”, così è scritto e della quale lo scrittore (di
sicuro mio zio) sembra essere perdutamente innamorato. Nella lettera, Maria
è più volte implorata ad accettare un secondo incontro.
È inoltre ricordato, con un periodare disperatamente romantico, il primo
furtivo incontro nel mezzo del quale, i due, si erano scambiati un bacio
focoso e si erano toccati là dove la morale loro e del loro tempo gli
permetteva di toccarsi. Dalla lettera si evince che la pudica Maria si era
ricreduta, non volendo ammettere che fra i due fosse successo quello che era
successo, ne sminuisce il valore temendo che il proprio io la condanni e pare
si sentisse in colpa nei confronti di Giulio, il “mio più caro amico”, suo
fidanzato ufficiale.
“...puoi fuggire da tutto, Maria, ma c’è una cosa dalla quale non puoi
fuggire: la verità. Puoi nasconderla a tutti ma non a te stessa. Non capisco
come tu possa ritenere che sia giusto buttare via un grande amore, il nostro,
in nome del ben-pensare. Non capisco come tu possa continuare a vivere
senza neanche riflettere almeno una volta che si tratta della nostra vita e del
nostro futuro, senza neanche tentare di sognare un futuro diverso per noi,
senza sognare di cantare insieme le stesse canzoni. Tu hai paura di pensare,
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anche solo per un attimo, che c’è possibilità per noi di vivere insieme la
stessa vita. Riflettici, dammi ascolto: 5 minuti, ti chiedo, 5 soli minuti del tuo
prezioso tempo. Non puoi distruggere questo sogno, non puoi non avere la
forza di viverlo. 5 minuti....”
Questa lettera, pur affrancata, non è mai stata spedita. Infatti non c’è il
timbro postale. Un amore represso, come tanti ne ha conosciuti la storia e
tanti altri la letteratura, penso tristemente.
Non riesco proprio a capire come mai questa Maria avesse potuto sposare un
uomo che non amava (e lì di nuovo il mio pensiero balza agli infernali
“Paolo e Francesca”), ma tant’è che era successo e questo aveva cambiato
per sempre la sua vita e quella di un uomo che per lenire un dolore lacerante
aveva scelto di andare lontano, al di là dell’oceano; ogni onda cavalcata
sarebbe stata un cerotto in più che avrebbe contribuito a sanare quella ferita
infinita. Povero mio zio. Ora capisco che era partito per una pena d’amore.
La data della lettera è quella del giorno dopo la liberazione d’Italia e cioè 26
Aprile 1945. Ma non c’è menzione della euforia della liberazione proclamata
il giorno prima, niente, nessun accenno: e di questo mi stupisco non poco.
“Possibile che nessuna eco fosse giunta da queste parti? Possibile che uno
studente non fosse stato partecipe della lotta contro il fascismo? Quale
studente, quale intellettuale non lo fu in quel periodo?” questo penso mentre
apro la seconda missiva.
Ed è questa una lettera di un figlio lontano ad una madre lontana. Una strana
frase mi colpisce:
Non mi chiedere di tornare, mamma. Mi spiace soffro tanto anche io. Ma te
l’ho già spiegato: me ne sono andato perchè lì non potevo più resistere. Quel
posto mi ossessiona, c’è qualcosa che non capisco, ma l’aria intorno al
pozzo è satura di mistero. Perchè taci, perchè mi dici che è una cosa che non
posso capire? Perchè mi hai strappato quel diario di mano? Dove l’hai
nascosto questa volta? Sono mesi che ti chiedo di parlare. Se c’è qualcosa
che devi dirmi, dimmelo.
E più avanti...
Trovo strana e irreale la tua serenità......
“O porca miseria, ma cosa vuol dire questa storia? Il pozzo...” E, dicendo
questo a voce alta, mi dirigo, lettera in mano, verso il pozzo. Ci giro attorno
20 volte in senso orario ed altrettante volte in senso antiorario, senza niente
capire, senza niente pensare. “Ma che ha ‘sto pozzo?” Quanto più ci giro
attorno, cercando di districare il groviglio di pensieri che si è stanziato nella
mia testa, meno sento l’odore di mistero dichiarato nella lettera. Mah! A me
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sembra un pozzo normalissimo, ha un po’ di edera attorno, ha il secchio di
rame appeso alla corda. Si, c’è quella fitta grata di ferro battuto a 80 cm, un
metro circa in modo che niente e nessuno ci possa cascare dentro, ok. Però è
pur vero che non si può tirare su l’acqua con quella inferriata. Sporgendomi
verso l’interno pozzo però vedo che c’è una apertura chiusa con un lucchetto
arrugginito. Avendone la chiave si può aprire questa apertura dalla quale, ad
occhio e croce, il secchio ci passa benissimo. Nulla di strano quindi.
“Mah!” ripenso ritornando in casa e decidendo di lasciar perdere, tanto ho la
matematica da studiare e qualche funzione da integrare.
La lettera è datata 23 maggio 1944. Ed è stata scritta con inchiostro blu di
penna stilografica su carta rosa trasparentissima, tanto che ho paura di
rovinarla visto che si è così ben conservata per 46 anni.
Caro Filippo,
ti scrivo in una notte nera come come l’anima mia. Stasera Maria mi ha
detto che non mi vuole più, che ama un altro che non può amare e che non è
giusto che noi stiamo ancora insieme nei confronti di un amore che
comunque non si può realizzare! Mi ha devastato l’anima. Sfibrato il cuore
con una crudeltà inaudita. Ma che discorso è questo?
La lettera continua con la descrizione minuziosa del dolore che Giulio
provava quella notte ostile alla sua anima e finiva così:
A proposito, ieri è venuta tua madre allo studio perchè aveva dei problemi di
vene varicose alle gambe e così ne ho approfittato per chiederle quanto da te
chiestomi. La risposta è NO. Mi ha detto che ha sempre vissuto una vita
tranquilla, normale, non ha avuto particolari traumi in passato. Mi ha
chiesto cosa centrava un suo possibile trauma con le vene varicose e lì ho
fatto una bella fatica per destreggiarmi: il trauma altera il metabolismo, la
circolazione del sangue e quindi le vene ne risentono....insomma non credo
si sia insospettita ...ma perchè non lasci perdere questa tua ossessione? Stai
tranquillo. Non ci sono ombre sulla vita di tua madre. Ma cosa pensi? Cosa
temi esattamente? Comunque a me sembra una persona serena.
Dai, stai tranquillo e torna presto che ho bisogno di te. Da solo non ce la
faccio a superare questo disastro di vita.
Tuo Giulio.
È chiaro, incrociando le lettere, che Maria aveva lasciato Giulio per Filippo.
Filippo se n’era andato in Brasile perchè deluso dal fatto di non essere amato
da Maria. Maria non chiese mai a Filippo di tornare. Filippo non seppe mai
di essere amato da Maria. Giulio non seppe mai chi fosse il suo rivale
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comunque perdente come lui. E perdente lo era stata soprattutto Maria,
vittima della sua incapacità di esternare al mondo e a sè stessa i suoi più
intimi pensieri, soprattutto incapace di amare veramente.
“Ma che storia assurda” dico a Nanà il giorno dopo. “Che vita assurda. Che
situazione assurda! Amori sfracellati sul nascere sugli scogli di un mare
impetuoso. Inghiottiti da quello stesso mare. Amori morti. Amori mai vissuti.
Amori soffocati. Amori inespressi. Nessuno ha dato niente all’altro. Nessuno
ha ricevuto niente dall’altro. Paura di sognare. Paura di volare. Paura di
esserci e non soltanto di essere. Nanà, questo non deve mai succedere a noi,
non dobbiamo mai smettere di sognare la vita e soprattutto mai smetterla di
viverla. Non posso pensare che questo sia accaduto ad uno della mia
famiglia. Il fatto che abbia dentro il suo sangue, mi mette brividi. No, non
sarò mai così io”. Nanà sta a sentirmi guardandomi a bocca aperta. Quel mio
periodare così lucido, così diverso dal classico gergo che ogni tanto adotto
con lei, la stupisce ogni volta. Comunque non mi concedo spesso in questo
modo, lo faccio raramente e solo quando c’è qualcosa che veramente mi
turba o, all’opposto, mi esalta.
Ora sono tentata di raccontare a Nanà tutta la storia della scrivania, ma forse
è meglio trattenermi. Meglio non condividere, per il momento, questo
segreto. Le racconto solo che ho saputo di questa storia senza accennare al
come ne sono venuta a conoscenza. La mia naturale curiosità deve espletarsi
e realizzarsi in tutta autonomia.
Questa stessa sera impazzerà la festa nella casa dalle volte a stella. Passiamo
il pomeriggio ad organizzare freneticamente il tutto. Curiamo i minimi
particolari. Paolo si è occupato di portare lo stereo e la musica. Lui è il
deejay della compagnia. Non gli sta dietro nessuno riguardo a questo. Due
delle tre grazie si sono date da fare per pulire la casa, io con Nanà mi occupo
dei cibi e delle bevande: patatine, popcorn, sangria e tanta, tanta birra, pittule
e torte salate preparate dalle nostre mamme. Matteo si occupa della
scenografia e delle luci. Ha liberato le due stanze più grandi dai mobili che
erano nel mezzo, installato faretti colorati agli angoli delle stanze proprio nei
punti in cui partono le volte a stella. Ma il tocco di classe lo ha realizzato nel
giardino che ha ripulito ieri dalle erbacce. Qui Matteo ha distribuito 20 torce
tra gli alberi e intorno al pozzo, sotto la pila di pietra e dietro la tenda dell’ex
cesso, ora sostituita con una arancione di quelle con tanti fili. L’atmosfera
che creata da Matteo è formidabile: romantica e suggestiva. Magica. Sotto
questa magia molti cuori si incontreranno. Altri si perderanno, altri ancora si
ritroveranno nel lasso di tempo di un respiro. Cuori di post-adolescenti si, ma
pur sempre cuori ancora ingenui, puri, pieni di illusioni, vivi, palpitanti.
Cuori estranei alle preoccupazioni della vita. Cuori felici.
Anche Albino partecipa ai preparativi. Cioè, partecipa è una parola grossa. In
realtà egli si aggira per la casa fin dalle prime ore del pomeriggio, nel
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tentativo di coordinare i preparativi, ma ognuno sta seguendo un suo disegno
e nessuno lo ascolta. La risposta tipica è: “Albino prendimi quello straccio
invece di bofonchiare”, “Aaaaal... mi tieni la scala? Devo fissare il faretto”,
“Albino...Aaaal” ed è così che da progettista diviene operaio tutto fare.
Lo stereo di Paolo spara all’improvviso gli accordi rockeggianti di Tonight:
“Every thing will be alright. Tonight. No one moves...no one talks....no one
thinks...no one walks...Tonight”. Ritmo. E Paolo parte a suonare la sua
immaginaria batteria sulle note di questa stupenda canzone di David Bowie.
Seguito ovviamente da Albino che, non avendo un cazzo da fare, si piazza
sulla seconda batteria immaginaria e duetta con Paolo. Alla fine del pezzo
sono tutti e due sudati marci. E si sono scolate tre birre a testa. E sono appena
le 5 del pomeriggio.
La gente (praticamente compagni di scuola di ognuno di noi) comincia ad
arrivare verso le 10 di sera, l’atmosfera è già bella calda quando fanno il loro
ingresso le “tre grazie” come in una passerella di moda: una più tirata
dell’altra. Tutte e tre ugualmente belle, devo dire. C’è molta competizione fra
di noi in queste occasioni. Io mi sono appena cambiata nella camera di
servizio di fretta e furia dopo che già sono arrivati i primi invitati, un trucco
frettoloso (sono un portento in questo) e un vestitino bianco, corto con i
fiorellini sparsi. Le bratelline si poggiano delicatamente sulle spalle scoperte.
Mi miro e rimiro nello specchio grande dell’armadio della nonna. Sono fiera
del mio look. È una bellissima serata. Non calda. Non fredda. Giusta. E nel
giardino si sta da dio. Completo l’abbigliamento con un leggero foulard
attorno al collo. Mi sento contenta. Scorrazzo velocemente da un invitato
all’altro per assicurarmi che tutto vada bene. Mi sento euforica.
La maggior parte della gente balla stordita dalle note che Paolo, deejay
esperto, propone in un crescendo pazzesco. A metà serata siamo tutti
scatenati, sudati, scalmanati, quando all’improvviso partono le note dolci e
soffici di “...e con le mani amore e con le mani ti prenderò....e voleremo su
uh-uh-uh-uh-uh”, cioè le note della “Donna Cannone” di De Gregori.
Matteo mi abbraccia all’improvviso da dietro. Matteo, non mi ha staccato gli
occhi da dosso per tutta la serata (è un pò che curo anche io... ogni volta che
l’ho guardato, lui mi stava guardando...). Mi fa voltare verso di sé e mi
stringe forte forte per tutto il tempo del ballo. Un lento che più lento non si
può. Pressata contro di lui, non posso fare a meno di sentire il suo membro
deciso e poderoso premere contro la mia pancia proprio al di sotto
dell’ombelico ed il soffio di lui sulla mia pelle dietro al collo subito sotto
l’orecchio sinistro. Sento qualcosa di diverso rispetto all’incontro che ho
avuto con Matteo la settimana prima nella stessa stanza, nello stesso punto,
forse addirittura sulla stessa mattonella. Sento un sentimento forte che mi
viene trasmesso. Come un fluire. E capisco che Matteo si è innamorato di
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me. Oramai non ho più dubbi. Altro che una scopatina. Qui la cosa diventa
veramente complicata. Matteo non dice una parola, ma si è espresso
chiaramente in occasione di questo ballo.
Paolo intanto ci guarda con occhi minacciosi e, intuendo complicazioni nella
nostra vita di coppia, si affretta a stordire il pubblico con altro rock
aggressivo. Così anche io e Matteo ci stacchiamo da quest’abbraccio che a
Paolo credo sia parso infinito. A me però rimane un senso di smarrimento
che non riesco a razionalizzare e, per questo, mi affretto ad uscire fuori in
giardino e ad intrufolo nelle chiacchere delle “tre grazie” che si sono allocate
attorno al pozzo. Matteo cerca di risolvere la sua forte emozione nell’unico
modo che conosce e cioè comincia a bere birra su birra. Alla fine si ubriaca
fino al fondo dell’anima e poi la vomita a rate per il resto della notte.
Le “tre grazie” cercano a turno di attaccare bottone con Albino. Tutte
sperano di toccare il suo solido e scultoreo corpo, specialmente i pettorali ed
il culo. Ma quest’ultimo ha deciso, per qualche oscuro motivo, di tenere
compagnia a Matteo a colpi di birra. E di inondarlo di parole sulle sue teorie
sulle donne. Come trattarle, etc... “Sai Matteo, le donne è meglio lasciarle
stare, tanto sono sempre loro che scelgono alla fine.”
“....”
“....”
“Ecco, io voglio essere come loro, voglio scegliere. Vedi? Come adesso
scelgo di stare ad ubricarmi con te e stordirmi di joint.”
Un pensiero fugace con intonazione interrogativa attraversa la mente di
Albino quando pronuncia quest’ultima frase. Un uguale pensiero fugace con
intonazione sospettosa attraversa anche la mente di Matteo. Ma sono
entrambi troppo storditi per farci caso. Ed il pensiero dell’uno e quello
dell’altro fuggono via senza essere trattenuti e si perdono in questa notte di
inizio giugno.
Albino riacciufferà questo suo pensiero, non senza fatica, anzi con molto
dolore, nei mesi successivi. E si capirà meglio. Ma alla fine ne sarà contento.
La notte avanza a passi da gigante ed i primi invitati cominciano a
congedarsi. A questo punto Paolo parte con la pizzica e lì si scatenano le “tre
grazie”. Nanà questa sera sta dando il meglio di sè stessa. A piedi scalzi si
dimena tanto che sembra proprio pizzicata dalla tarantola. Io dico a Paolo
“Vedi Pa’, la pizzica è la sconfitta delle donne! È una danza perdente. È una
danza che relega la donna al ruolo di donna nel corso dei secoli. È un ritmo
formidabile, è vero. È un sound tribale, coinvolgente, ma è l’espressione
della donna che si fa possedere e che espia attraverso il ballo. La catarsi. La
liberazione. Ma de che?” Paolo mi mette la mano sulla bocca “shhhhhh....
non cominciare con i tuoi discorsi sul femminismo” e così dicendo mi stringe
a sè e mi bacia per due lunghissimi minuti mentre Matteo consuma la sua
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settima birra, Nanà vortica con Anna e Truzza che le fanno da coreografia e
Albino cerca di riappropiarsi di quel pensiero fuggito un’ora prima e non
ancora ricatturato.
Durante tutto questo tempo la scrivania di noce rimane accostata al muro
imbruttita dai resti di cibo e di bevande.
Ad un certo punto la vedo ed è a questo punto che mi rendo conto di quanto
l’abbiamo maltrattata. Me ne dispiace. Sono oramai le 5 del mattino quando
con Paolo chiudiamo la porta. Tutti se ne sono oramai andati per i loro dove
in cerca dei loro sogni. A questo pensiero mi si stringe il cuore.
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5. QUALCOSA STA MATURANDO NELL’ESSERE DI TELLA
È quasi l’alba quando vado a letto. Sono stanchicchissima. Comincio a
sognare. Cose strane. Mi sveglio varie volte. Dormo malissimo.
Il sole è spuntato da molto quando mi avvio verso la casa di Tenti-muzzu.
Praticamente ho dormito fino alle 11 del mattino. Le urla di mia madre
incazzata mi hanno svegliato. Sono ancora stordita da ieri sera. Ma ho
qualcosa da chiedere al mio punto di riferimento. Ancora una volta la
saggezza dei vecchi (Tenti-muzzu ha la bellezza di 73 anni anche se non li
dimostra affatto) può aiutare una giovane creatura persa nel mondo, persa nei
sentimenti, confusa tra amore e piacere, assetata di tutte e due, curiosa del
tutto e specialmente della sua umana natura come lo era Alice nel paese delle
meraviglie. Cioè me.
Due sono gli argomenti di conversazione.
Primo argomento: Matteo e Paolo, la vera natura dell’amore.
“Peppo è successa ‘na tragedia!”
“Eccu ‘mo: ‘na tracedia! ‘sti vagnoni te osci: tuttu è ‘na tracedia. E nui, nui
c’erane dire, quannu nc’era a guerra! Ahh jata bui, ca taniti tuttu! E puru be
lamentati” (n.d.a.: ecco adesso: addirittura una tragedia! Questa gioventù
odierna! Tutto è una tragedia. E noi, noi cosa dobbiamo dire, noi che
abbiamo vissuto la guerra! A beati voi, che la vita vi ha dato tutto. E pure vi
lamentate)
“No, no davvero, Peppino, sono nei guai fino al collo e non so come uscirne”
E continuai: “sai no? Di Paolo. U fiju tu pesce-sciotta, no?” (n.d.a.: il figlio
di pesce-sciotta).
“Embè?”
“Eh, io fino a ieri pensavo fosse l’uomo della mia vita. Volevo sposarlo dopo
la scuola. Volevo avere una famiglia con lui...”
“...e adesso avete litigato!” incalza Peppo.
“No, no, niente litigi. Con lui tutto è ok, cioè fino a ieri sera lo era.”
“E allora cosa è successo ieri sera? Cc’è successu?”
“Ieri alla casa della nonna – a proposito... mhhh... dopo ti devo chiedere una
cosa – abbiamo fatto una festa, c’erano tutti anche Paolo.”
“Ad un certo punto un altro ragazzo mi ha invitato a ballare e diciamo... mi
ha sconvolto, cioè, fino ad ora non l’avevo mai considerato, ma durante il
ballo...è stata una cosa...non so come spiegarti, elettrica! cioè il cuore ha
preso a ritmare come un tamburo impazzito, non lo fermavo più, fortuna che
il ballo, un lento, era solo uno, altrimenti sarei svenuta, penso, per
l’emozione.....cioè, cosa mi sta succedendo?”
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“E chi sarebbe questo fortunato-fortunello?”
“No, non lo conosci, è inutile che te lo dica” (Non è vero. Tenti-muzzu
conosce benissimo. Matteo fin da quando era bambino, l’ha visto crescere. Io
lo so, ma ora mi vergogno. Non ho voglia che lo sappia. Quindi tengo la
bocca cucita).
“Bha, io al tuo posto mi preoccuperei del contrario! guai se il tuo cuore
smettesse di cercare e di emozionarsi così. Cerca ragazza mia, cerca...”
“Ma io non ho cercato un bel niente! Io non ci capisco niente. Io ero là e
basta. Anzi non volevo che succedesse. Io sto bene con Paolo. Ho passato
due meravigliosi mesi...”
“...2 mesi!” incalzò Peppo “e cci boi ca su ‘do mesi? (nda: cosa vuoi che
siano due mesi?) Niente. Sono niente. Un nonnulla, un respiro....ffffiuuu... e
sono già volati via. Cosa vuol dire? Ma vivi la vita ragazza mia, fai quello
che senti!”
“Ehhh? Quello che sento? E che cavolo ne so io cosa sento?”
“ E te l’aggiu dire ieu fija mia?” (nda: E vuoi che te lo dica io figlia mia?
“Peppo vorrei non esserci in questa situazione. Ti prego aiutami. Fai
qualcosa!”
“Stai là e non ti muovere. Il tempo deciderà per te!” dice Tenti-muzzu
accendendosi la pipa e soffiandoci dentro per far attecchire il tabacco.
“Ma sei pazzo? Ma che consigli mi dai? Come posso star ferma e permettere
al tempo di decidere? Non ti pare che debba essere io a decidere?”
”Ragazza mia, tu sei confusa non poco, prima dici che non sai cosa fare, poi
dici che devi fare, ti dico cosa devi fare e non lo vuoi fare. Ti dico di fare
quello che senti e non sai cosa senti. Prova a “sentire” quello che senti,
ascoltati! e nel frattempo non fare niente, cosa vuoi fare se prima non capisci
cosa vuoi?”
“Mhhhhh...giusto. Tanto devo pure studiare. Vabbè ma non credere di
scrollarmi di dosso così.”
“No, no per l’amor di Dio, sempre qua sono!” dice Peppo soffiando una
fumosa V perfetta.
Secondo argomento: mia nonna che di nome faceva Nina.
“.......”
“Vabbè, ho capito è un gran casino e sono cazzi miei! Ed è giusto che me li
risolva da sola” replico un pò delusa facendo cadere il discorso.
“Senti, piuttosto, ti volevo chiedere una cosa.”
“Sempre qua sono!”
“Senti, ma tu hai conosciuto mia nonna?”
“Certo che l’ho conosciuta, la Nina. Che donna, la Nina! Tuo nonno fu
invidiato da tutti i giovanotti del paese quando se la portò all’altare. Un po’
meno quando si seee--ppeee..........” e qui Peppo abbassa il tono della voce e
non conclude quello che stava per dire.
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“Si seppe cosa?” incalzo.
“Nooo, niente” minimizza Peppino “ad un certo punto ebbe un problemino
che però risolse nel giro di pochi anni e quindi.......e che ti devo dire...era una
gran donna!”
“Si seppe cosa?” continuo ad incalzarlo impaziente.
“Ma no, no, niente” ripete Peppino in una sorta di loop che gli serve a coprire
l’imbarazzo del momento.
Ma che strano. Non riesco a capire il suo imbarazzo e del perchè Peppo si sia
rimangiato la parola. Oggi non c’è verso di tirargli fuori niente altro, solo
“ma no, mi sono confuso, stavo pensando ad altro” e una tiritera di
argomentazioni inutili, tanto è chiaro come la luce del sole che gli stava per
scappare una cosa che non voleva gli scappasse!
Fortunamente per lui, Matteo è venuto a cercarmi, mi chiama ed io,
sentendomi chiamare, sento un tonfo al cuore che cambia repentinamente
sede e si piazza di prepotenza in gola, poi ripiomba sullo stomaco almeno
cinque sei volte prima di ripiazzarsi nel suo usuale posto. Mi batte ad una
velocità esagerata.
“Vabbè Peppo” dico deglutendo “ne parliamo presto, adesso devo andare.”
Matteo aspetta impaziente fuori con la sua vespa 50 colore blu notte.
“‘Tè, ci vieni a fare un giro al mare? Ti devo parlare.”
“Non oggi, davvero Ma’ mi dispiace, sono veramente rimasta indietro con lo
studio e c’è la casa da pulire, ‘sta notte eravamo troppo cotti per mettere a
posto e.....”
“Dai, ti aiuto io” mi interrompe Matteo “e poi vado subito via, te lo giuro”
dice incrociando gli indici e portandoli vicino alla bocca.
Gli separo le dita con il mio indice. Questo significa che gli credo o almeno
faccio finta di credergli.
Prendo la bici e mi faccio tirare da Matteo che intanto guida la vespa tutto
proteso in avanti. Mi attacco al suo braccio. Lo so: è pericoloso, ma è troppo
entusiasmante andare a questa velocità senza nessuno sforzo. Un misto di
paura ed esaltazione. Capelli sparati all’indietro dal vento, Penso tra me e me
che in fondo questo è quello che sto facendo anche nella mia vita
sentimentale: correre velocemente senza chiedermi il perchè, senza voltarmi
indietro, solo chiedendomi per un attimo se fosse giusto o sbagliato, ma
senza rispondermi, continuo a correre. Chissà dove mi porterà questa corsa.
Corri Tella, corri........ mi dico. Corri più veloce di tutti, corri più veloce di te.
Sento questa voce dentro la mia testa, mah...un azzardo avvincente per la mia
età: la sensazione di leggerezza che ho in questo momento si amplifica e tutti
i malumori della notte, la difficoltà di capire cosa mi sta succedendo, la
problematica delle interazioni umane, dei sentimenti, tutto se ne va a farsi
fottere tranquillamente come acqua che scorre via nel lavabo, come una
tempesta che cessa improvvisamente. E vaiiiii.............................
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6. DOVE SI RACCONTA DELL’APERTURA DELL’ANTA
Stamattina, mentre cercavo di capire me stessa ed il mondo insieme a Peppo,
Paolo, Nanà, Anna e Matteo si sono ritrovati, ma senza mettersi d’accordo,
davanti alla casa-dalle-volte-a-stella. Ognuno di loro ha pensato
separatamente di dare una mano a Lella nella pulizia della casa. Ed ognuno
di loro aveva qualcosa da dire a Lella. In realtà ciascuno di loro sperava di
essere solo lì, ma così non è stato e si sono presentati davanti alla casa uno
alla volta: prima Nanà, poi Paolo seguito da Matteo e quindi Anna.
Paolo sembra alquanto preoccupato e non pure un poco incazzato per quello
che è successo la sera prima (mi sa che mi vuol proprio parlare di questo),
per cui, non appena sente il rombo del motore cinquantino riconoscibilissimo
della vespa di Matteo, si oscura in viso ancora di più intuendo che qualcosa
sta cambiando nella sua vita.
Nanà ha perso la testa per uno che ha visto e sbranato con gli occhi la sera
prima durante tutta la durata della festa, ma non ha avuto il coraggio di
avvicinarsi e questa mattina (oddio è già l’una) è qui per chiedere il mio aiuto
(io lo conosco bene quel tipo e Nanà lo sa bene, visto che io ci avevo parlato
parecchio la sera prima).
Anna, oramai da settimane, ha perso la testa per Matteo. Matteo non lo sa
ancora, non ha mai capito quello sguardo ammaliatore di lei. Io, al contrario,
essendo la confidente preferita di Anna, nonchè la sua migliore amica, lo so
praticamente dal primo momento. Anna, come Paolo, ha assistito al ballo
serrato di noi due. E come a Paolo, le si è mozzato il fiato.
Anna è preoccupata e molto incazzata anche lei, pur non avendo, rispetto a
Paolo, nessun motivo ufficiale per esserlo, in quanto tra lei e Matteo non è
mai successo una benchè minima cosuzza (sguardi, segnali di fumo o
qualsiasi altra cosa) che potesse elevarsi a status di “proprietà”, ma poichè io
so del debole di Anna per Matteo, si sento una merda. Traditrice della nostra
amicizia.
Così quando Matteo, dalla sella del suo cinquantino, dice: “vado a cercarla”,
Paolo e Anna, seduti rispettivamente a sinistra e a destra di Nanà sul muretto
di fronte alla casa-dalle-volte-a-stella, sono balzati improvvisamente e
curiosamente in piedi come due molle pressate fino all’inverosimile dicendo
in coro:
“Dove vai tu??”
Me l’ha riferito Matteo mentre scorrazzavamo per le strade del paese.
Nanà, sbalordita per il sincronismo perfetto, rimasta sul muretto, ha guardato
prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra ed ancora a sinistra, infine
di fronte a lei, ha guardato Matteo ed è scoppiata in una fragorosa risata. Gli
altri l’hanno seguita, ripensando alla scena, neanche l’avessero preparata. Poi
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è sceso il silenzio, ciascuno dei quattro ha capito quello che doveva capire. Il
silenzio durato una trenina di secondi, è interrotto dall’acceleratore del
cinquantino e dalla voce di Matteo che dice:
“Ehm...allora io vado.”
Lo ha detto sospettoso di sollevare qualche altro casino, a denti stretti ed è
partito.
Vrmmmm, Vrmmmmmmmmm, “Ecco lo sapevo, è scoppiato il casino”,
pensava vrrrrrrrrrrrrmmmmmmmmmmmmmmmmmm, mmmmmmmm...
“Adesso se la trovo, me la porto al mare.” Mmmmmmmmmmm...
Dunque, il progetto del mare, non è andato in porto ed i tre, che non si sono
mossi dal muretto, ci vedono arrivare sparati come dei proiettili.
“Scusate, non sapevo che veniste, ho fatto tardi stamattina, ero da un amico.
Grazie di essere qui” dico comunque contenta di questa che interpreto come
una manifestazione collettiva di amicizia.
Tre ore dopo, la casa è nuovamente pulita e tutti i segni della festa sono stati
spazzati via. È stata proprio una bella, meravigliosa, indimenticabile festa. Di
quelle che rimangono negli annali del libro della vita di ognuno dei
partecipanti.
Ovviamente, data la presenza vicendevole di tutti, nessuno parla con me di
quello di cui voleva parlare. Ma io so cosa sta bollendo in pentola.
Dal canto suo mi sento felice, perchè dentro di me sto scoprendo nuove
emozioni. È vero. Mi sono un po’ preoccupata dai contrasti che la morale
comune mi pone davanti agli occhi, ma le montagne russe che sento dentro al
cuore, mi fanno sentire viva e padrona di me stessa. So, in questo momento
della mia vita, che posso ottenere quello che voglio e per questo mi sento
forte. E felice.
Mi cruccia un pensiero fisso, un tarlo del passato. Non del mio passato, ma
comunque di un passato che mi appartiene, di un passato del mio stesso
sangue, di un passato genetico. So di dover far luce su questo passato, so che
da questo passato dipende il mio futuro. Non ci sto dentro. So che devo
utilizzare il mio presente per risolvere contemporaneamente questo passato
ed il mio futuro. Ma so anche che tra 20 giorni, porca l’oca, ho l’esame di
maturità e che sono due giorni che non tocco libro. Così, congedati tutti i
presenti, ritiro fuori la letteratura lasciando che le pagine del suo libro si
aprissero sulla “vita ed opere di Gabriele D’Annunzio”. D’Annunzio che
inneggia alla libertà, D’Annunzio che scrive, che vola, che combatte...Il
Piacere, l’aeroplano, la guerra, la gioia della vita, la lotta per un ideale
supremo, la sua collocazione in un periodo storico terribile e il suo esserne
protagonista.
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“D’Annunzio doveva avere l’età di mio nonno” pensai “c’era nella prima
guerra, chissà se si sono mai incontrati.”
“Mio nonno però non lo conosce nessuno, eppure c’era stato in quella
guerra!”
Era stato nella brigata “Catanzaro”, mi aveva raccontato più volte, quella
brigata che era stato un ammasso di giovani di appena vent’anni reclutati
principalmente dal Sud d’Italia. Dalla campagna direttamente in trincea, tra i
reticolati e le mitragliatrici, senza addrestamento, senza un perchè personale.
Dal forcone al fucile, seguendo il sogno cadorniano di marciare verso Vienna
e invece arenati là, per due lunghissimi e terribili anni, sulle aride pietraie del
Carso in una terra che lui le aveva detto le era sembrata non sua, in una terra
estranea: non terra rossa, non ulivi, non fichi d’india, non piante di cappero,
nè cielo azzurro, ma cielo di piombo, e nebbia, e terrore, e freddo, e fame.
Il pensiero del nonno, mi porta in direttissima al pensiero della nonna, alle
lettere, a quello che mi ha non-detto Peppino, mi sono rimaste due lettere da
aprire e così le tiro fuori dal cassetto e le adagio delicatamente sulle pagine
commentanti “Il Piacere” di D’Annunzio.
La prima è ancora una lettera dello zio alla nonna. Il figlio racconta alla
madre come si è sistemato, racconta che ha conosciuto una donna che gli
piace molto, racconta della vita in quel posto così lontano e così diverso dai
luoghi e abitudini del Salento. Tutto sommato è una lettera serena e
rassicurante e finiva con un:
“...mi raccomando riguardati. Mi piacerebbe portarti qua e farti vivere qua.
Vengo per Natale, ne parleremo in quell’occasione. Un abbraccio forte,
forte. Tuo figlio Filippo.”
La seconda (ed ultima del pacchetto di cinque) lettera è ancora di Giulio
all’amico Filippo ed iniziava così:
“Caro Filippo, Maria s’è sposata con Giorgio il figlio del macellaio. Non ho
più speranze. Vado a fare il medico in mezzo ai partigiani. Almeno mi rendo
utile se non a me stesso, almeno a qualcun’altro......”
Mi immagino la reazione di Filippo alla lettura di questa missiva, poi
confronto le date e vedo che quest’ultima è antecedente la prima, dove si
parla di una donna appena conosciuta che gli piace e così penso che, in
qualche modo, lo zio d’america si era consolato con una bellissima brasiliana
la quale allietava le sue serate ballando la salsa o il merengue o qualche altra
sorta di danza sud-americana muovendo sinuosamente i fianchi color d’oro
su cui poggiava un gonnellino corto.
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Chissà se era vero, ma mi piace pensarlo così lo zio Filippo: spaparanzato
sotto una veranda che alle luci di un infuocato tramonto sud-americano beve
tequila mentre guarda la sua bella ballare a piedi nudi una frenetica danza
d’altri mondi.
Dopo aver usato tutti gli arnesi del coltellino svizzero, esattamente 33 minuti
dopo aver letto l’ultima lettera, riesco ad aprire l’anta della scrivania. Questa
si spalanca all’improvviso rovesciando giù un oceano di ricordi (almeno
questa è la prima immagine che mi balza alla mente).
“Ohhhhhh” (sono io che esclamo con un filo di voce avvicinando le mani
alla bocca e sgranando le verdi iridi delle quali vado molto fiera. Moltissimo.
Stessi occhi di mia nonna).
Nell’ordine si rovesciano sul pavimento: una quantità innumerabile di
fotografie in bianco/nero e cartoline che si sparpagliano lungo un raggio di
almeno un metro e mezzo, pietre e pietruzze di ogni colore e fattezza, che
allargano il cerchio di caduta totale di almeno un altro metro, una scatola
che sbattendo a terra si apre mostrando con fierezza una penna stilografica di
notevole fattura, vari libri (almeno 7) a colpo d’occhio, un quaderno protetto
da una busta trasparente, monete di varie dimensioni che cadono precedendo
la caduta del raccoglitore che si spatacca al suolo rompendosi. Ne
fuoriescono: una pipa semirotta, una fionda di legno consumato, e ancora
innumerevoli stralci del Corriere della Sera: su tutti i fogli primeggia una
parola: guerra! In mezzo agli stralci di giornali tante lettere (almeno venti a
occhio e croce)!
Concludo la mia esclamazione: “Ohhhhhhhh NO! Che casino! E ora?” mi
chiedo cercando mentalmente di risolvere questo disordine.
Per prima cosa raccolgo gli stralci di giornale: non c’è dubbio. Parlano solo
di guerra.
..uglio 1917, non si legge bene il giorno perchè mangiucchiato dal tempo:
“Di schiena al muro i fanti condannati alla fucilazione, tratti a sorte dal
mucchio dei sediziosi...”
“...quattro soldati sono stati presi con le armi cariche e le canne ancora
calde e sono stati subito passati per le armi. E affinchè l’esempio sia più
efficace, lo stesso destino è riservato ad altri 24 uomini, ribellatasi in massa.
La sorte sceglie tra attori e comprimari, tra protagonisti e spettatori, tra
valorosi colpevoli e timidi innoncenti.
Il luogo dell’esecuzione è al piccolo cimitero del paese. I condannati vi sono
condotti per strade di campagna chiuse tra campi di granoturco. Narra
D’Annunzio (testimone dell’esecuzione) che...”
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Improvviso un un tonfo al cuore. Che strana coincidenza! Solo due ore fa ho
studiato D’Annunzio... ed ora eccola qua che mi viene a trovare! Caso
bizzarro.
“...che allineati contro il muro del cimitero sovrastato da sette cipressi, i
condannati imploravano i fucilieri del plotone che <<attendevano il
comando, tenendo gli occhi bassi, fissando i piedi degli infelici, fissando le
grosse scarpe deformi che s’appigliavano al terreno come radici maestre>>.
Mentre dall’altra parte del muro già è pronta con picconi e badili la squadra
che li seppellirà. Implorazioni e lamenti diventano un coro che la scarica di
fucileria ad un certo punto copre e stronca.........”.
“.......Un’ora dopo mezzogiorno, sulla grande fossa comune chiusa nel
cimitero arido e ricco solo di ortiche, con pietà e stile personali d’Annunzio
depone un fascio di eleganti frasche dell’acanto......”
I miei pensieri cominciano a fare lotta fra di loro. Sento una emozione
crescermi dentro. Non so, non riesco a capire la relazione tra la prima guerra
e mio zio, non era neanche nato! Cerco di mettere ordine nei miei pensieri: la
raccolta di stralci di giornale, i libri che parlano solo di guerra... qualcuno, e
non poteva essere mio zio, aveva messo insieme tutta quella roba e l’aveva
chiusa a chiave facendo sparire la chiave. La raccolta ha un che di maniacale,
comunque protratta nel tempo, una raccolta consistente che doveva voler dire
qualcosa. Ma chi? Mia nonna? Mio nonno? Chi aveva raccolto tutto questo?
E a che scopo?
“embre 1917” altro foglio di giornale dietro al primo mangiucchiato nello
stesso punto (un topastro mi sa che ha mangiucchiato un lato del malloppo):
“...condannati a morte tre agenti principali della rivolta. 20, 21 e 27 anni.
Due sono celibi, uno è analfabeta. Uno è ammogliato con figli. Quest’ultimo
scoperto dalla censura militare che ha intercettato la lettera in cui scrive
alla moglie di aver ucciso un carabiniere...”
1917: mio nonno era in guerra, mio nonno era nella brigata Catanzaro. Mio
nonno lì c’era: altrimenti qualcuno non avrebbe raccolto tutto questo: la
nonna? Per paura che tra gli ammutinati ci fosse anche il nonno? E che fosse
stato fucilato? Forse. Ma per fortuna il nonno era tornato dal fronte. Ed io
sono potuta esistere.
Da altri stralci di giornale apprendo che la brigata di nonno Fulvio era stata
inviata in quell’estate afosa a Santa Maria la Longa nel Friuli, in quanto era
arrivato (dopo due estenuanti anni di trincea) l’ordine di riposo in
preparazione di una nuova offensiva. Scopro anche che alcuni animi arditi
capeggiati da Gabriele D’Annunzio volavano con aerei di tela e di legno e
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che D’Annunzio, simbolo romantico di quella guerra, era osservatore e
mitragliere del 1° Gruppo Aeroplani che aveva il comando nella villa dei
conti di Coloredo Mels.
Come dal riposo di una brigata si fosse arrivati alla fucilazione di alcuni di
loro, estratti per giunta a sorte, questo non riesco ancora a capirlo. Ma perchè
non ho studiato la storia quest’anno? Domani mi porto il libro.
Completamente frastornata dalla scoperta, mi accorse all’improvviso che e’
buio pesto e che qualcuno, mio fratello, riconosco la sua voce, mi chiama da
fuori. “Patellaaaaaaaaaa”
“Mannaggia ‘sto scemo! Vengooooooo”
Ancora ubriaca degli ultimi eventi, ritorno a casa con mio fratello. Dico a sua
mamma che non ci sono per nessuno e dopo cena mi rintano nei miei pensieri
fino a quando il sonno non mi coglie mentre gli ultimi pensieri scivolano via
dalla realtà cosciente e si dileguano silenziosi in un sogno d’altri tempi.
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7. L’INCONTRO CON IL POETA E AVIATORE D’ANNUNZIO
Mi sveglio che il sole è già sorto da un po’. Oddio! Non sono nel mio letto.
Sono su un pagliericcio dentro una stalla. L’odore di mucca è fortissimo. Fa
caldo, tanto caldo, e le mosche mi ronzano attorno con ostinata dedizione
zzzz.....zzzzzzz.... Non capisco, non riesco a realizzare questa nuova
situazione in cui mi trovo. Naturalmente, vivendolo, non ho coscienza di
essere in un sogno e quello che vivo per me è realtà pura al 100 per cento e
neanche per un momento dubito che sia qualcos’altro anche se, di fatto, ho
tutti gli elementi per capirlo. Ma lo capisco solo dopo, al risveglio.
Dunque mi sveglio poco distante da un paio di muggenti mucche, mi gratto
la testa, sbatto varie volte le palpebre finchè non ho una visione perfetta del
luogo. E tutto mi sembra normale. A parte il fatto che non sono nella mia
stanza bensì in una stalla!!! Mi avvio verso la porta di legno diroccata e la
apro giusto quel tanto che basta per uscire. E di fatto esco. mi trovo davanti
un campo immenso di granoturco, ma il granturco è anche dietro e a destra e
a sinistra, nessuna strada, solo granturco ed un vociare concitato in direzione
Est. Penso di avere voglia di latte e caffè con i biscotti inzuppati, penso di
poter avere solo latte ma non caffè, ma tanto... non so mungere. Quindi
abbandono l’idea del latte e caffè e mi avvio in direzione est in mezzo al
granturco alto almeno mezzo metro più di me.
Mi faccio strada. Non so dove sto andando, di certo vado in direzione delle
voci visto che le sento sempre più vicine, di certo vado incontro al sole. È
accecante.
Man mano che mi avvicino, le voci si trasformano in urla e poi grida
confuse. Rallento il mio andare mano a mano che le urla aumentano di
volume, fino a scivolare piano piano e a strisciare bassa bassa alla base delle
piante come ho visto fare agli indiani Navajos nel fumetto di Tex Willer.
Schhhhhhhhh.......mi dico. Fai piano. Come Tiger.
“Non centro io con tutta questa faccenda. Ero lì per caso. Vi prego: non
voglio morireeeee!” è una voce disperata quella che sento. Decisamente. Mi
impietrisco dalla paura e resto accovacciata lì.
“NOOOOoooooo, la mia vita è importante, non c’entro. Ho combattutto due
anni. Ho dato l’anima per la patria, adesso vi prendete anche la vita.
BASTARDIIIIIIIIII!”
È insopportabile. Mi tappo le orecchie, non riusco a sopportare le urla
strazianti. All’improvviso una scarica di fucili che mi sembra durare una
eternità. Poi sento qualcosa rotolarmi addosso. Quel qualcosa è qualcuno ed
è scivolato in mezzo al granone alto e si sta nascondendo in mezzo alle
pannocchie. Questo qualcuno è ferito. Gli occhi di questo qualcuno fmi
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fanno Schhhhhhhhhhhhh.... mi sposto un poco senza fare rumore. Poi sento
un colpo secco di pistola. Ritorno indietro quanto si era spostata (sempre alla
maniera Navajos) e vido degli stivaloni che scompaiono nel grano come se
qualcuno stesse trascinando il corpo al quale quegli stivali appartenevano.
Seguono minuti di vociare meno concitato, rumori di terra spostata ed infine
il silenzio. Un silenzio impregnato di sangue. Un silenzio saturo di paura. Il
silenzio della morte.
Il silenzio avvolge il circostante per una eternità che si richiude in sè stessa
dopo un tempo umano di 2 ore e 40 minuti.
Solo dopo questo tempo decido di uscire dal campo (sono ore che che non
oso fiatare). Il mio orologio interno si è fermato e quel tempo trascorso
accovacciata per me non è esistito. Bloccata dalla paura. Senza pensieri.
Senza la percezione del tempo.
“Ehi tu, ragazzina” mi sento chiamare da un distinto signore con un baffetto
sparviero. Il signore reca in mano un mazzo di fiori mai visti prima che
emanano un forte profumo ed è seguito da un cagnolino bianco anzi è
proprio una cagnetta bianca. Sotto il braccio sinistro porta un libro che
riconosco immediatamente. È “Il Piacere” di D’Annunzio.
“Da dove spunti? Che ci fai là?”
“Oddio” dicono i miei 2 neuroni non ancora frastornati (tutti gli altri sono
collassati in uno stato di congelamento data l’emozione del momento).
“Ehm..signor D’Annunzio?!?” chiedo con voce incerta.
“Mi chiami pure Puar Gabriel di Sante Marie la Longe, cava” esordisce il
poetaviatore accentuando la erre moscia.
“Signor Puar Gabriel di Sante Marie la Longe, cosa c’è di piacere nel suo “Il
Piacere?”
“Cava, devi conoscerlo per saperlo, per amare l’amore devi conoscere
l’amore, per amare l’arte devi conoscere l’arte, per amare la bellezza devi
conoscere la bellezza, per amare il piacere devi conoscere il piacere.
Conosci il piacere.
Vivi il piacere.
Ama il piacere.
Leggi “Il Piacere””.
Altri due neuroni si svegliano dallo stato di torpore nella mia testa e
combinano in fretta e furia questo pensiero: “ma che fa? Pubblicità al suo
libro?”. Non dico niente.
“Ma ora è tempo di piangere” continua Puar Gabriel di Sante Marie la
Longe, “piangere per le vite stroncate oggi su quel muro” e nel dire ciò
indica un muro schizzato di sangue. “Rendere onore a questi eroi inutili (e
pronuncia con esagerata enfasi queste parole) che dalle trincee hanno sognato
la vita, che hanno combattuto, poveri incompresi esseri, una guerra che non
hanno mai capito. Una guerra che non apparteneva loro”
E, così dicendo, posa con grazia teatrale il fascio di fiori e il suo libro sulla
fosse comune. Dopo di che svanisce, incredibilmente, sfumando fino a
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smaterializzarsi davanti ai miei occhi. Insieme a lui svanisce anche la
cagnetta, con un “caiiiiiiiiii” portato via da un vento leggero.
Sbalordita, rimango in piedi a fissare quel grande tumulo, i fiori e il libro
sfogliati entrambi dal vento che D’Annunzio si è lasciato dietro di sè.
Capisco ancora meno il messaggio del poeta allorquando vengo distolta dal
rumore di un aeroplano ad elica. L’aeroplano ha attaccato dietro uno
striscione che dice: <<libertà va cercando ch’è si cara, come sa chi per lei
vita rifiuta!>>
O diamine! (traduzione: O cazzo!) Che c’entra ora Socrate con D’annunzio?
Lì per lì, penso ai fiori ed al libro “Il Piacere” deposti sul tumulo di terra
oramai completamente scomposti dal vento e penso appunto che magari il
grande maestro volesse dirle “Godi della vita finchè puoi, amane ogni
momento, assaporarne ogni istante”, ma poi quel messaggio così profondo
sbandierato nei cieli da quel rumoroso biplano che sembra stia per cadere da
un momento all’altro, sput..sput... da un momento all’altro: la libertà, la vita
al costo della libertà. Insomma, concetti potenti, ripetuti in migliaia di
volantini lanciati da quell’aereo sgangherato. Morire per la libertà non è un
concetto proprio della nostra cultura, cioè a scuola non insegnano questo in
questi anni (siamo nel 1985). In pochi istanti mi ritrovo seppellita dai
volantini, aiuto..... la voce non mi è esce! Sto soffocando mentre sputacchio
fuori dalla bocca le parole: libertà...spuutt... morte ...spuutt... vita....sput,
sput, cough, cough e mi sveglio ansimando. Solo allora realizzo che ho
sognato. Sto ancora un po’ immobile per riprendersi dai suoi pensieri
scombinati per poi riaddormentarmi subito dopo, promettendomi di studiare
D’Annunzio ed il decadentismo per tutto il giorno a seguire. In fondo è stata
una crisi di coscienza questa qua. Bella e buona. Ho studiato tutta la
letteratura e il Paradiso della Divina Commedia, non ho avuto voglia di
studiare anche tutto D’Annunzio! Solo il bignami!
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8. IL DIARIO DI NINA
L’unico mio pensiero, mentre studio la biografia e le opere di D’Annunzio, è
aprire quel quaderno così ben custodito. Non vi ricordate? Quello che ho
trovato nella scrivania. Così, appena metto la coscienza a posto riguardo al
mio impegno preso con essa la notte prima, una volta premuto il play del
walk-man, estraggo delicatamente il quaderno e comincio a sfogliarlo mentre
le note dei Genesis mi trascinano in un passato lontano del quale mi devo
appropriare e le note di “The Lamb lies down on Broadway” ben
accompagnavano questo viaggio figurato.
Un solo pensiero: è necessario! Tutto questo è necessario.
Scrittura ferma, fitta e ripiegata verso destra, non minuta, nè grande,
inchiostro nero su fogli ingialliti dal tempo. Pagina aperta a caso oltre la
metà:
2 Ottobre 1918
Oggi finalmente Fulvio ha fatto pace con Teresa. Ora non è più sgorbutico
con me. Fulvio non deve avere problemi con Teresa altrimenti lui è di
malumore ed i suoi malumori si ripercuotono su di noi, sul nostro rapporto.
Per questo ho dovuto costringerlo a chiarire la situazione con lei.....Sono
contenta che abbiano fatto pace.
“E chi sarebbe questa Teresa?” mi chiedo e, non trovando fra i suoi ricordi,
nè tra il mio parentame nessuna con questo nome, proseguo a leggere
promettendomi di chiederlo a mia madre o alle zie.
Era gìà buio quando mi ha raccontato come è andata, poi mi ha sfiorato i
capelli con la sua ruvida ma gentile mano, quindi ci siamo lasciati avvolgere
dalla notte e abbiamo fatto l’amore guardati dalle stelle, accuditi dagli
alberi, i grilli cantavano la loro melodia...
Dovete sapere che io di fantasia ne ho da vendere. Sapete cosa dice di me il
Prof. di Letteratura? Dice: Testa tra le stelle e piedi per terra! Insomma
avendo una fervida immaginazione mi vedo la scena davanti agli occhi.
Sento, in mezzo alle note di “The Lamb...”, anche il cri-cri dei grilli. Un po’
mi vergogno di immaginarmi questa scena, avendo conosciuto i miei nonni
solo da vecchi. Ma poi, nel mio immaginario, me li figuro come persone non
consaguinee e proseguo con la visualizzazione di quanto leggo.
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Dimmi che mi ami. Dimmi che ami Teresa. Il tuo amore deve essere più
grande di tutti noi. Questo gli ho chiesto mentre eravamo stesi sommersi
dall’erba...
Ehhhh! Ma che caz.......
Fulvio mi ha detto di si. Di stare tranquilla. E che noi siamo tutta la sua vita.
Chiudo di scatto il quaderno. Davvero non ci sto capendo niente. Magari,
penso, è una storia che si è inventata mia nonna.
Pagina destra. Scrittura ferma, meno fitta e più grande, ma molto simile a
quella della pagina a sinistra. Non l’avevo notato a primo colpo. È una
scrittura diversa. Inchiostro nero. Foglio giallo.
2 Ottobre 1918
Mi ha chiesto scusa. Ma ho il sospetto che ci sia lo zampino di Nina. La
adoro quella ragazza. Ora sono felice. Fulvio mi ama davvero.
Ed in mezzo alla pagina c’è disegnato un volto, ma disegnato bene, un volto
di uomo con una coppola tirata sugli occhi ed una cicca che pende dal labbro
carnoso. Gli occhi sono allungati quasi orientali. I capelli folti si ribellano
sotto la coppola. Sembra mio nonno.
Richiudo il quaderno di nuovo di scatto, penso che ho letto solo le prime 3
pagine (nella prima pagina ci sono solo degli scarabocchi, figuracce che
assomigliano a delle montagne).
Lo risfoglio e vedo che il diario, o quello che è, è tutto scritto fino all’ultima
pagina.
Mi fermo un attimo a pensare e mi ricordo delle lettere dello zio dove si
parlava appunto di un diario. È forse questo? Forse lo zio si era inquietato
perchè aveva cominciato a leggere quelle pagine? Questo quadra abbastanza.
Fin dove aveva letto? In una sua lettera diceva che il diario gli era stato
strappato dalla madre. Ma quanto aveva letto Filippo di quel diario?
Non ho il coraggio di andare oltre per il momento. Mi riprometto comunque
di leggere il diario dall’inizio perchè non ci sto capendo proprio niente. Ieri
ho lasciato tutto il contenuto della scrivania sparso sul pavimento, forse è
meglio mettere un pò di ordine. Recupero ancora uno stralcio del Corriere
della Sera: si parla della disfatta a Caporetto!
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All’alba del 24 Ottobre sulla zona Volzana e retrovia, dopo un breve ed
intenso bombardamento seguito da gas micidiali asfissianti (fosgene) che ha
provocato la morte instantanea dei nostri che presidiavano la zona e la
distruzione di tutte le comunicazioni, il nemico, al comando del capitano
Rommel, si è aperto una breccia verso Caporetto.....
A questo punto mi sento una forte emozione. Sto rivivendo la storia d’Italia
attraverso la storia di mio nonno. Mai in vita mia ho pensato che la storia
della prima guerra mondiale potesse interessarmi tanto. Il pomeriggi mi porto
da casa il mio libro di storia. Mi è venuta una voglia pazzesca di saperne di
più, di capire cosa è veramente successo in quei giorni del 1917 che tanto
ricorrono nei ricordi lasciati li dalla nonna per chissà quale futuro, per chissà
quale ragione.
Io li ho trovati per caso? Non lo so. Forse mia nonna aveva la necessità di
consegnare ai posteri una verità che non si poteva conoscere nel suo
presente.
Boh!
Così passo il pomeriggio a capire cosa era successo a Caporetto e imparo che
gli italiani erano stati brillantemente fregati dagli Austro-Tedeschi, i quali si
erano aperti un varco nella conca di Plezzo (cioè a valle) sfuggendo agli
avvistamenti dell’aviazione italiana perchè si erano mossi di notte ed in 4
giorni avevano percorso ben 100 chilometri a piedi e al buio. Apprendo
anche che gli Italiani avevano ricevuto l’ordine di “non sprecare munizioni”
e che quindi non avevano risposto al breve fuoco nemico sottovalutando di
molto quelle scariche di artiglieria volte e creare il primo varco. Penetrati da
quella piccola breccia aperta dal fuoco concentrato delle loro batterie, i
tedeschi completarono l’opera con i gas asfissianti (fosgene per l’appunto).
Nessuno si era accorto di questa infiltrazione, perchè gli ufficiali italiani
pensavano si dovessere combattere sulle cime e non guardavano mai in
basso, alla valle. E fu così che si trovarono attaccati alle spalle. Dopo 24 ore
Rommel aveva fatto diecimila prigionieri e occupato le postazioni del Kuk e
del Kolovrat prima tenute dagli Italiani. A Udine non si era ancora capito
cosa era successo e Rommel e compagni erano già a Caporetto e, marciando
verso Sud-Ovest, minacciava la stessa Udine. Solo giorni dopo, il
Generalissimo Cadorna seppe e capì quello che era successo: le sue armate
allo sbaraglio ridotte a una torma di fuggiaschi. Udine caduta e Venezia
quasi nelle mani dei Tedeschi. Gli ordini non arrivavano più (a chi sarebbero
dovuti arrivare in mezzo a quel caos?) ed il 28 Ottobre fu annunciata la
disfatta ufficiale dallo stesso Cadorna che dava tra l’altro la colpa alle truppe
che oramai venivano accusate dallo stesso Cadorna di diserzione.
Nel mentre mi sovvengonoi racconti del nonno, mi ricordo di quando diceva
che si nascondeva mentre cercava di ridiscendere l’Italia, di quanto era stato
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aiutato dai contadini della Romagna, delle Marche, del foggiano, del barese.
Ecco il perchè di quei racconti. Mio nonno era stato uno di quelli allo
sbando, un disertore per forza e non per vocazione. Sporca guerra! Ci aveva
messo 2 mesi a tornare a casa alla faccia del patriottismo, alla faccia della
spavalderia con cui era partito alimentato lui, insieme a tutti gli altri fanticontadini, dalla stampa e dalla propaganda.
Riapro l’anta da dove l’altro ieri mi si è rovesciata addosso la valanga di
ricordi e pesco una lettera a caso:
23 Ottobre 1917 ore 15, Caporetto
Mia adorata, ci hanno rispedito al fronte. Ho perso il conto dei giorni. Non
so più se è Domenica o Lunedi, non so se oggi sia veramente il 23 o il 22 o il
24 di Ottobre. So solo che quassù comincia a fare freddo. Non so, ci hanno
rimandato qui. Di fronte sembra siano arrivati i Tedeschi in aiuto degli
Austriaci, sono alpini loro. Sono comandati da uno che si chiama Rommel.
Ci sono stati degli spari di artiglieria ieri davanti a noi. Non capiamo cosa
stia succedendo. Qualcuno di noi dice che stavolta ci fanno il culo, ma i
nostri ufficiali dicono di vigilare e di star tranquilli. Però quelle scariche di
mitra durate 5 ore non ci hanno per niente lasciati tranquilli. Tranquilli in
guerra?
Rocco è morto. L’hanno tradito, è stato fucilato. Non ho potuto fare niente
per lui. Ho il cuore a pezzi e mi sento impotente di fronte a tanta ingiustizia.
Penso al prossimo respiro che farò, penso che potrebbe essere l’ultimo, ma
penso anche che in questo autunno sei là nei campi a faticare, a curare il
raccolto, e sull’onda del presente respiro mi trasporto là in mezzo a voi
(“Voi??” mi chiedo “cosa è questo cambio di soggetto?”) a distogliervi dal
vostro faticare.
Sai, ti devo confessare una cosa (spero tu non sia gelosa): ho fatto un sogno
la notte scorsa. Io, questa amica di cui mi parli, non l’ho mai vista in paese,
ma l’ho ugualmente sognata. Veramente ho sognato che inseguivo te e lei in
una sorta di gioco e urlavo: “Nina, aspetta non scappare, mi fai scoppiare il
cuore”. Invece Teresa (“ancora Teresa? Ma che cavolo....??”) mi scappava
dall’altra parte. Non sapevo da che parte andare. Alla fine mi sono ritrovato
vicino al pozzo e poi voi due mi siete saltate addosso all’improvviso, una a
destra, una a sinistra ed insomma, bhè, ti lascio immaginare come è finito il
sogno. Anzi non è finito affatto perchè sul più bello mi hanno svegliato.
Magari diglielo. Dille che l’ho conosciuta in sogno tanto bene tu me l’hai
descritta.
Comunque mi è arrivata la sua lettera e le ho risposto. Ho avuto una strana
sensazione...sembrava mi conoscesse da una vita, certo che le hai proprio
raccontato tutto di noi! E poi era come se avesse scritto, come dire? Sotto
dettatura...boh! Magari mi racconti meglio quando ci vediamo.
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Chissà quando e se leggerete questa mia, quando vi arriverà? Magari
durante la raccolta delle olive. Già vedo gli uomini “a giornata” sbirciare
sotto la gonna di Nina. Ah già perchè Nina tu sei la sola a salire sulle scale
sgangherate appoggiate sugli antichi tronchi degli ulivi. Spero che Teresa ti
sorvegli e ti protegga dalla tua stessa esuberanza.
Oppure questa lettera arriverà durante l’inverno? Magari arrivo io prima
della lettera, perchè io sento che torno, io sento che sono più forte di questa
guerra, io sento che vivrò oltre questo dolore, oltre questo mondo di merda.
Non sopporto questo abbigliamento, pizzica, è sporco, mi sa che c’ho i
pidocchi addosso, mi prude la testa, non mi piace raparmi ancora una volta.
Scusate se non vi ho scritto prima, ma è stato tutto così precipitoso. Qui si
mangia poco e male, ci si lava poco e male. Puzziamo, ma c’è chi puzza
ancora più di me. Ho chiuso gli occhi adesso per sentire il profumo di voi
mie adorate. Qui l’inverno scorso è stato rigido. La neve bianca mai vista
prima è uno spettacolo incredibile, sembra di camminare in una favola. A
parte il freddo, la neve è veramente bianca, ma così bianca che quando c’è il
sole ti abbaglia gli occhi. Cercate di immaginarla, immacolata, bella,
assoluta. Ma io voglio tornare a casa prima che sia ancora inverno.
“Ancora Teresa?” ripeto ad alta voce quando finisco di leggere la lettera
usurata dal tempo e sgualcita tanto che sembra sia stata bagnata perchè in
alcune parti l’inchiostro è scolato.
Bhe’... una cosa è chiara. Mio nonno era un gran marpione, aveva la moglie e
l’amante. Una sapeva dell’altra e viceversa. Ed erano amiche. Non ci posso
credere! Tutto questo prima degli anni 20! Prima del fascismo, prima della
seconda guerra, prima degli anni 70! Pazzesco! Un’apertura mentale
notevole. Altro che hippies!
Non riesco a capacitarmi di questo fatto evidente. Non era possibile in quegli
anni, in quel posto d’Italia, dove le donne portavano il lutto per anni... non
era proprio possibile!
“Pensiero stupendo...Nasce un poco strisciando...si potrebbe trattare di
bisogno d’amore...meglio non dire...” comincio a canticchiare e la mia
fantasia cavalca oltre i confini stabiliti dall’umana morale. Mi si affaccia alla
mente così questo motivo, talmente spontaneo che me ne stupisco. Mi
ricordo che è cantato da Patty Pravo quando ero ancora alle elementari, mi
ricordo di aver anche sentito una versione cantata da Mina. Non l’ho mai
mica capita fino ad ora questa. Incredibile, solo ora faccio caso a quelle
parole...eppure le conosco: che strani meandri segue la mente umana,
inconsci collegamenti che di colpo saltano limpidi alla coscienza, così
all’improvviso senza essere attesi.
“....E tu...E noi...E lei... Fra noi...Vorrei...Non so...Che lei...O no...Le
mani...Le sue...nananananana...vicini per questioni di cuore...se così si può
dire..” canticchio ancora mentre in bicicletta prendo la direzione della casa di
Tenti-muzzu pensando fosse meglio parlare con lui di questo argomento così
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delicato piuttosto che con mia mamma e le zie. Con loro non saprei proprio
da dove incominciare. Questa volta, con tutte queste prove in mano, il
vecchio popeye deve parlare!
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9. TENTI-MUZZU NON C’È PIÙ
“Peppoooooo” urlo dalla bicicletta tenendo i piedi fermi per terra.
La porta è socchiusa e la sedia è nella veranda soleggiata della casa. Certo
che a quest’ora, il sole batte a picchio e non si può stare qui in queste prime
ore. Che afa!
Appoggio la bici sul basso muretto tinteggiato di calce bianca e avanzo nella
veranda.
“Peppo” chiamo scostando la porta.
Nessun rumore, nessuna risposta dall’interno. Dall’esterno, al contrario,
proviene l’impazzare pomeridiano delle cicale.
Ciiiiiiiiiiiig... No, non vi preoccupate. È solo la porta.
Magari s’è messo a dormire... con questa calura. Mi avvio nella camera da
letto. Niente. Vado in cucina. La porta che dava sul giardino è aperta. Ma
l’ambiente è buio, poichè la casa è disposta in modo tale da ricevere il sole la
mattina, quindi è rivolta ad est e l’oscurità è accentuata da una tenda
composta di tante specie di corde colore marrone scuro fittemente disposte.
Non appena gli occhi si abituano al quasi- buio della stanza, vedo sul tavolo
un gatto neraccio randagio che, vedendosi scoperto, inarcua la schiena
rimanendo sul tavolo con i pezzi di carne macinata che ancora gli pendono
dal muso.
“Ffffffffffhhhhhh....” sibila in atteggiamento felino da battaglia.
“Pussa via” grido minacciandolo con la mano.
“Mmmmmmmmmeaoooo” e scappa via con un solo balzo stringendo fra i
denti il suo fiero pasto di carne magra di vitello. Nell’attraversare la tenda, la
scosta. È nell’andirivieni delle corde dell’ultimo quarto in basso della tenda
che, inseguendo con lo sguardo il gattaccio, intravedo qualcosa di non bene
definito là fuori. Una sagoma.
Le cicale cessano di cicaleggiare ed un silenzio assurdo si impossessa di
questo spazio temporale. La scena bloccato nel tempo e nello spazio. Ma c’è
un punto di rottura ed il silenzio viene strappato a brandelli da un urlo
straziante uscito dalla mia gola. L’urlo incontrollato urlo mi è uscito così
senza una ragione. Non so. Non ho ancora visto bene in giardino. Gli
elementi visivi ed uditivi che ho accumulato in questi pochi secondi non
possono portarmi razionalmente ad una conclusione precisa. Ho solo visto
una sagoma umana forse seduta, forse per terra, forse non è proprio una
sagoma umana. L’intuito però mi ha fatto capire che qualcosa di grave è
successo ed è lo stesso intuito, prima ancora di lasciare posto al senso della
vista che mi spiattella davanti la cruda realtà, che mi ha fatto lanciare un urlo
straziante che si è sentito per tutto il vicinato.
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Resto paralizzato. Come nel sogno. Mi trovano così, con la testa insaguinata
di Peppo fra le braccia, inginocchiata sul suo corpo. Non so da quanto
piango. Piango lacrime di vero dolore. Non ho mai provato prima d’ora in
vita mia questo sentimento. Mai ho sentito quello che ora sento dentro. Il
cuore lacerato. Mi trovano qua che farfuglio tra le lacrime copiose: “Perchè,
perchè, perchè...” Proprio qua, sotto la testa di Peppo, una pietra. Questa
pietra, grande come un pallone da calcio, giace alla base del tronco del
maestoso ciliegio da sempre seminterrata nella terra rossa. Solo il terzo
superiore di quel tondo, maledetto sasso emerge fuori contornato da ciuffetti
d’erba verde. Chissà quale mano l’aveva conficcato là, chissà quale destino.
La scala a pioli è appoggiata al tronco del ciliegio, un cesto è per terra, una
minima parte delle ciliege già raccolte sono ancora dentro, la maggior parte
sono sparse per terra in una disordinata disposizione.
Peppo mi aveva promesso le ciliege il giorno prima. Lui è sempre stato fiero
del suo albero di ciliege e queste sono le prime della stagione. Peppo vuole
che io sia la prima ad assaggiarle perchè è di buon auspicio per gli esami, per
quest’anno, per tutta la mia vita.
Peppo mi vuole un bene dell’anima. Me lo dice sempre. Mi ha cresciuto, mi
ha spiegato quello che i genitori in genere fanno fatica a spiegare, mi ha dato
la chiave per capire i grandi.
Io sapevo delle ciliege, io sapevo che Peppino ci teneva a farmele assaggiare.
Per questo non posso non sentirsi in colpa. “È colpa mia, è colpa mia!
Perchè? Perchè? Perchè? Perchè? Perchè?...”
Poco distante dal cesto, giace la pipa ancora fumante. Sola ed abbandonata,
senza l’attenzione di qualcuno, esala anch’essa il suo ultimo triste rigagnolo
di fumo.
Arriva papà chiamato dai vicini. Cerca di allantonarmi da Peppo, ma ci deve
mettere molto impegno prima di riuscirci.
Intanto la casa ed il giardino si riempiono di gente, arriva anche il medico
che non può altro fare che constatare il decesso per rottura cranio.
Questa la ricostruzione dell’accaduto. Peppo è stato colto da infarto,
probabilmente quando era ancora sulla scala. Sentendosi male ha perso
l’equilibrio ed è caduto. Cadendo, ha battuto la testa sulla pietra che per caso
si trovava là proprio in quel posto. Una doppia morte quindi. Se fosse
sopravvissuto all’infarto, la pietra comunque non gli avrebbe dato clemenza.
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Peppo se ne è andato così, tragicamente. Portandosi dietro il suo buon umore,
la sua saggezza di uomo che avrebbe ancora giocato un po’ con la vita. E si è
portato dietro un pezzo di me che da quel giorno non sono più la stessa. Non
dimentico mai quegli occhi serrati e quella smorfia di dolore. L’ultima
immagine che ho di lui. L’ultima espressione che Peppo mi ha lasciato.
Questa immagine si è impressa con inchiostro indelebile nelle pagine dei
ricordi della mia mente. Ho tenuto con me il cappello bianco di Peppo e la
sua pipa. Ma ogni volta che li tiro fuori dal mio cassetto dei ricordi, il dolore
mi stringe il cuore e diventa insostenibile. Per questo una sera d’estate
dell’anno successivo, avrei bruciato tutto. Per dimenticare. Ma non ci sarei
riuscita comunque.
3 giorni dopo il funesto giorno, un corteo numeroso di persone si avvia
mestamente verso la chiesa. Peppo non si è mai sposato, il suo seme non ha
generato frutti, ma ugualmente tutto il paese è qui a dargli l’estremo saluto.
La banda suona la “Marcia Radesky”, il pezzo preferito da Peppino. I
componenti della banda, dai più piccoli ai più grandi, hanno conosciuto
Peppo in vita e lo sanno. Loro si che sanno cosa vuole ascoltare ora Peppo. E
suonano tutti con il cuore, mentre lacrime vere scorrono sui visi dei più
emotivi. Poi i suonatori di fiati iniziano un mesto requiem che conduce
Peppino nel luogo del non ritorno.
Papà ha pagato il funerale. La mia famiglia era di fatto la famiglia di Peppo,
non avendo questi nessun parente in zona. Peppo era arrivato in paese ai
tempi della grande guerra, nel lontano 1917. Non era stato commilitone del
nonno Fulvio. Si erano incontrati ad un certo punto durante la discesa d’Italia
di quest’ultimo. Fulvio l’aveva convinto ad andare al suo paese avendo
saputo da Peppo stesso che quest’ultimo non aveva fissa dimora.
Non disse mai a nessuno, neanche a me, niente del suo passato antecedente
alla sua venuta nel paesello. Forse aveva avuto un passato losco, forse aveva
qualcosa da nascondere, forse no. Ma nessuno gli aveva mai fatto questo
genere di domande e lui fu amato e rispettato da tutti nel paese. Non era
registrato all’anagrafe del comune per cui fu alquanto complesso, per mio
padre, sbrigare le pratiche del decesso. Nessuno seppe mai il suo cognome. E
neanche l’anno preciso della sua nascita. Per questo sulla sua lapide fu
scritto: “Qui giace Peppino Tenti-muzzu, grande nella vita,
grande nello spirito, grande nell’amicizia. xxxx - 1985”.
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10. PAOLO E ME
Subito dopo il funerale, mi rifugio nella casa dalle volte a stella. Voglio stare
sola. Piango quel poco che mi resta da piangere. Appoggiata al muro dietro
la scrivania che m’ha fatto fantasticare, senza aver avuto da Peppino le
spiegazioni ai miei perchè, rimango a lungo a pensare alla morte. E alla vita.
Questi giochi assurdi del caso o del caos che prima ci ha permesso di
esistere, poi ci ha obbligato all’oblio. Ma io lo so che non è così. Qualche
giorno fa ho studiato il Foscolo ed ho imparato, dai Sepolcri, che si esiste nel
ricordo degli altri. Di sicuro Peppo non morirà mai nei miei ricordi. Ma
ricordarlo, almeno in questo momento, mi sfibra il cuore fibra a fibra. Per
risollevarmi da questo stato di disperazione e di dolore, lemi sovviene la
scoperta e così pesco a caso una lettera dal mucchio contenuto nell’anta, ora
tenuta ferma da uno sgabellino poichè, dopo la scassinatura, non si chiude
più bene.
15 luglio 1917 – Santa Maria della Longa
Cara Nina,
ci hanno fatto andare in paese, finalmente. Non vedevo l’ora. Un altro
giorno e scoppiavo su quelle montagne! Ho anche avuto la febbre per tanti
giorni. Ora sto bene però.
Ci sono uomini di tutta Italia qui, ho fatto amicizia con uno che viene da
Sindia un paese in provincia di Nuoro ed uno che viene dalla pianura
emiliana, mi pare si chiami Funo il suo paese. Poi ne ho conosciuto anche
altri, ma questi due, in particolare il bolognese ve lo porto giù. Vedrete non
rimarrete scontente. È con lui che la sera guardo il cielo, conto le stelle. È
con lui che sogno e che parlo di viaggi cosmici. Poi guardiamo la luna e
quando è piena si vedono i suoi crateri e pensiamo, chissà se mai l’uomo
riuscirà ad arrivarci? Chissà se Icaro avrà mai a disposizione qualcosa di
diverso dalla cera per volare fin lassù. Ma poi ci facciamo tante domande:
ma lì è sempre notte? Ma lì non si respira, no c’è aria, il nero circonda la
luna, dunque non c’è aria, non c’è qualcosa di azzurro che faccia pensare ad
un cielo. Ed allora? Cosa respira l’uomo se va fin lassù? Massimo il
bolognese, dice che faranno come i palombari, avranno uno scafandro con
un casco e un tubo dove corre l’aria, così possono respirare...ma poi io lo
sfotto e gli dico “ma il tubo arriva fino alla Terra?” e lui “ma va là terrun,
che non capisci niente di scienza”. Ed io “guarda che noi contadini,
guardiamo e studiamo il cielo per i nostri raccolti, siamo noi che facciamo la
scienza”. E Rocco il nuorese – (ah ecco chi era era Rocco di cui parlava il
nonno nella lettera precedente..) - con il suo marcato accento sardo “ma
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sme-tte-te-la di dire ca-zza-te!. Come si fa a pensare di poter andare lassù?”
siete matti voi continentali, tutti matti!”
E così passano le notti insonni qui ad aspettare il nemico dietro ai reticolati.
Ma contro chi stiamo lottando? Contro quali altri sventurati e per quale
ragione? E così passano i giorni e le notti ed io racconto di te, di come sei
bella, del tuo profumo, del tuo essere, Nina, aspettatami, amami, sognami.
Solo l’amore ci fa sopravvivvere qui, ed il tuo amore e quello delle loro
donne, fa sopravvivere anche Massimo e Rocco. I loro occhi spesso
luccicano, guardano lontano e sognano con le mie parole. Rocco non ha
nessuno a Sindia. Sua madre s’era impiccata che lui aveva appena 5 anni in
bagno, senza un perchè, senza una parola. Suo padre l’hanno ammazzato
perchè voleva salvare le sue pecore. Una vita per le pecore. Rocco ha
bisogno di noi. Massimo vive in una cascina con mille parenti, ancora non
ho capito quanti sono, ammazzano il maiale di tanto in tanto e fanno la festa,
mangiano i ciccioli e fanno dei piatti strani con il sangue di maiale.
Torneremo, tornerò con loro, i loro spiriti hanno sete di vita.
Ti bacio, ti abbraccio, ti amo, ti ribacio, ti riabbraccio, ti riamo e
ancora...non ti preoccupare per noi. Noi abbiamo il vostro amore dalla
nostra parte. E per questo vinceremo.
Salutami la tua nuova amica, quella Teresa di cui mi parli spesso. Sono
contento che ti senti meno sola. Non vedo l’ora di conoscerla.
La lettera non è ancora finita quando vengo colta dal sonno. Non dormo da
tre notti e finalmente questa lettera del passato riusce a trasportarmi in un
mondo senza sogni, ma ristoratore, salutare.
Paolo mi trova così accucciata a terra con la lettera ancora tra le mani, l’anta
della scrivania aperta. Mi sveglio di soprassalto.
“Calma piccola” sono io “non volevo spaventarti. Ero preoccupato per te e
così sono passato di qua.”
“Cosa sono...” accenna Paolo con tono interrogativo.
”Niente, niente” mi affretto a fermare l’anta. “Lettere di mio zio a mia nonna.
Curiosavo. Per distrarmi. Niente di che.”
Sono stata brava a minimizzare. Paolo non fa altre domande sulla lettera.
Posso tirare un sospiro di sollievo mentre, con aria indifferente, cerco di
rimettere lo sgabellino contro l’anta per tenerla ferma.
“Come stai?”
“Così” rispondo facendo spallucce “mi sento svuotata...è stata una mazzata
tremenda, non sono riuscita a dirgli tutto quello che volevo dirgli, tutti questi
anni, non gli ho mai detto che gli volevo bene...” 2 lacrimoni avanzano lungo
le guance conquistando decisi il pavimento “...cioè, non me l’aspettavo, non
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l’avevo messo in conto, non l’avevo mai immaginato....ed ora mi sento
svuotata, per l’appunto.”
Paolo resta con me tutto il pomeriggio e anche la sera. Parliamo molto. Non
abbiamo mai parlato così tanto. Facciamo l’amore dolcemente lì per terra tra
un discorso sull’esistenza ed uno sul futuro. Già il nostro futuro. Cosa
sarebbe stato? A settembre sarei partita per un qualche dove (Roma? Pisa?
Bologna? Milano?), avrei preso un qualche treno con una valigia carica di
speranze e sarei fuggita via in cerca di nuova energia, nuove emozioni, nuova
vita. Cosa avrei studiato dopo la maturità e dove l’avrei fatto, non lo sapevo
ancora. Cambio ogni giorno idea mandando nel panico i miei genitori che
invece hanno bisogno di certezze per la vita della loro prima figlia.
La serata non finisce però altrettando serena come era iniziata. Quando
parliamo di settembre Paolo comincia ad innervosirsi. Anche lui ha deciso di
continuare gli studi, ma qui in zona. Economia e Commercio all’Università
di Bari ed il fatto che io potessi andare in unàaltra città non è stato mai da lui
preso seriamente in considerazione. L’idea lo manda su tutte le furie ed io ho
sempre evitato di parlarne. Vede in questa mia scelta la fine del nostro amore
e non gli si può dare torto.
Comunque stasera non si incazza più di tanto. Trattienne tutto dentro e,
capendo che non è il momento di fare scenate, respinge con vigore nel
profondo di sè stesso il suo nervosismo e preferisce andare via piuttosto che
stare qua con me a soffrire all’idea del nostro futuro.
Rimango sola. Apro il libro di poesie che mi ha regalato per il compleanno
un mio zio letterato, lo apro a caso ed il caso sceglie con decisione una
poesia del
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Leopardi. Eccola qua. Guardate. Meraviglioso! È riportata (quale incredibile
chicca) con scrittura originale. La mano di Leo ha scritto le parole melodiose
de: “....e ‘l naufragar m’è dolce in questo mare”, mi guardano
insistentemente ma senza successo. Eppure Leo le ha scritte di proprio
pugno. Le ha scritte per me. Il caso ha aperto apposta il libro su quella pagina
sperando di dare le risposte alle mie domande. Ed io avevo la necessità di
leggere quelle righe, ma quasi da subito (“....e ‘l naufragar m’è dolce in
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questo mare”... una eco nella mia testa ripete infinite volte... l’infinito...
l’infinito che si ripiega su sè stesso). Non le vedo più quelle parole. Il mio
sguardo, oltrepassandole, indaga oltre, in quella parte dell’essere umano che
si chiama consapevolezza, là dove domina l’io-cipolla, là dove hai le risposte
che cerchi, là dove non puoi dirti cazzate perchè sei tu a giudizio di te stesso.
Chi era Teresa?
Questo pensiero attraversa trasversalmente l’io-cipolla e se ne va a morire
sommerso da “io amo, io amo, io amo, io amo, io amo...” sempre più
incalzante.
“Chi ami Tella? Cosa ami?” Una evanescente Teresa mi pone questa
angosciante domanda.
“Chi sei?”
“Lo sai chi sono, mi stavi aspettando, sono Teresa.” La figura diviene mano a
mano più definita.
“Ciao Teresa, come sei bella!” Capelli ondulati lunghi, di un morbido riccio
le cadono sulla spalla nuda. Il seno anch’esso nudo, è di un turgido
commovente, una gonna lunga quasi nasconde i piedi nudi pure loro. In testa
una ghirlanda di fiori bianchi. Il sorriso, familiare, caloroso, infonde una
enorme pace.
“Amo...l’amore” rispondo con voce tremante e, mentre pronuncio queste
parole, di nuovo le lacrime trovano il loro già noto corso arrivando questa
volta a sbiadire l’inchiostro di ...infinito silenzio a questa voce vo
comparando e mi sovvien l’eterno...voce e di sovvien l’eterno si fondono
insieme in una macchia nerastra che lambisce l’ultima parte della parola
presente. Piango per gli orrori del mondo, piango perchè il mondo non
risponde ai miei richiami, piango perchè quest’amore mi sembra represso,
rinchiuso come è nell’io-cipolla e non riusce, proprio non riesce, a
traboccare. Piango perchè quest’amore non è indirizzato a qualcuno in
particolare, piango perchè non riusco ad esprimere questo a nessuno, neanche
a Paolo, piango di un pianto cosmico. Le stelle piangono con me, almeno
così mi pare, ma in realtà è ancora pomeriggio e le stelle sono ancora
nascoste dalla luce del sole. Ma esse piangono ugualmente con me.
Teresa, china su di lei, m’abbraccia per consolarmi. Il seno, caldo, preme sul
mio braccio destro. Poco alla alla volta mi calmo. Poi riusco a mettere
meglio a fuoco una sensazione avuta mentre facevo l’amore con Paolo. Mi
sono sentita osservata, Solo ora realizzo che qualcuno ci stava osservando,
solo ora capisco chi mi stava osservando.
“Starai sempre con me, vero?”
“Fino a quando tu vorrai.”
Nella stanza un profumo forte di gelsomino.
Nella mente le ultime parole che avrei voluto dire Paolo “Forse è meglio che
ci lasciamo ora”.
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11. IL PUNTO DI VISTA DI DIO
Mi sveglio con il volto sbuffeggiato qua e là di nero-violastro. Macchie che,
nel loro casuale disordine, almeno sulla guancia sinistra, sembrano segni di
guerra. L’aver ripreso coscienza della propria realtà, non mi è di gran
conforto. Non capisco bene il senso di questo sogno, sempre supponendo che
di sogno si sia trattato. E certo che si. Altrimenti, cos’era??
La mia mente razionale, non potendo trovare altre spiegazioni, mi induce a
pensare che si sia trattato di pura suggestione. In fondo non ho condiviso con
alcuno la mia scoperta. E per me non è mai stato facile tenere dentro dei
segreti. Soprattutto di quella portata. Si, senza alcun dubbio: di suggestione si
è trattato. Comunque, le Teresa... mi è parsa così reale... Fatto sta che una
frazione abbastanza consistente dei miei neuroni, particolarmente facinorosi
ed indomiti, non contenti della spiegazione onirica, fanno alleanza fra di loro
e decidono, contro la mia volontà primaria, che, per amore della verità,
devono indagare in altre direzioni. Con questo sottofondo nel cervello, nel
mentre cioè cerco di mettere meglio a fuoco il momento in cui ho avuto la
sensazione di essere osservata, guidata da chissà quale altro freudiano
pensiero, mi stringo la bandana intorno alla testa. Così conciata mi sento
pronta a riaffrontare il mio passato.
Ma che necessità ho di affrontarlo? Perchè?
Dunque, il me-Rambo rimuove lo sgabellino che tiene ferma l’anta e,
inspirando una abbondante dose d’aria (sarei potuto rimanere in apnea per
almeno 3 minuti!), riprende, con estrema cura, il diario color seppia di Nina.
Guardo con attenzione la copertina. La prima volta, presa dall’enfasi della
scoperta, non ci ho badato. È di cartone spesso, di colore rosso fuoco con i
bordi neri, si chiude con due nastrini rossi scuro che ho lasciato liberi dopo
averli slegati la prima volta. In alto in mezzo c’è uno spazio marrone chiaro e
sopra c’è scritto: Sono di N. Ma come cavolo ho fatto a non notarlo la prima
volta?
Mi siedo sullo sgabello.
30 luglio 1917
Teresa non è venuta a trovarmi neanche oggi. Da quando ha appreso la
notizia della fucilazione di Rocco non è più lei. Io lo trovo strano. Lei
neanche lo conosceva questo Rocco. Cioè, si, capisco: è pur sempre un
essere umano fucilato per non aver fatto niente, è questo è già, di per sè,
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terribile. Ma di Rocco ci aveva solo detto Fulvio nelle sue lettere. Certo tutte
e due non vedevamo l’ora di conoscere questo simpatico pastore sardo. Ma
Teresa è rimasta veramente scossa, non si fa vedere più, il pozzo è sempre
deserto. Di solito la trovo là indaffarata a tirare su l’acqua ed invece sono 4
giorni che non la trovo.
...o Fulvio, ti prego torna presto, sono triste, sono sola.
31 luglio 1917
Non potrò mai perdonare l’uomo che ha strappato la vita a Rocco. Mai.
Sono quattro giorni che non riesco a mangiare, nausea, vomito e grande
dolore. La mia mente è offuscata, vedo solo buio, sento solo silenzio, il nulla.
Ma non c’è pace in questo nulla.
...toc toc...toc.
Qualcuno sta bussando alla porta. Guardò l’ora. Sono le 5 del pomeriggio e
mi sento veramente stanca. Non ho voglia di visite, nè di parlare con
qualcuno. C’è stato il funerale oggi, le certezze sulla mia storia con Paolo mi
sono improvvisamente crollate, disfatte come fa il sole con un pupazzo di
neve, c’èstata la visita (sognata? vera? Questo è un punto ancora da chiarire
nella mia coscienza) di Teresa, per cui vado ad aprire la porta di mala voglia
strascinando anche i piedi. Ma una volta aperta e una volta visto la faccia
sconvolta di Albino, mi risveglio dal mio mondo interiore e, alquanto
preoccupata, lo invito immediatamente ad entrare.
“Cosa è successo Albino? Vieni pure, entra dentro.”
Albino se ne resta lì appoggiato al muro e non ne vuole sapere di muoversi.
Tira su con il naso e fa finta di fumare una sigaretta nel senso che ce l’ha
accesa ma non tira mai. Sono costretta a trascinarlo dentro di peso.
Il viso disperato di Albino gli da un tocco magico. Sembra un principe triste
delle favole. Non c’è niente da fare: è proprio bello. Di una bellezza pura,
angelica.
Lì per lì ho pensato che Albino sia disperato per la morte di Peppo. Tutti ne
siamo rimasti profondamente scioccati. E quando la banda ha attaccato il
Requiem, la commozione ha toccato i cuori di tutti. L’avevo notato anche io,
nonostante il mio stato di estraniato torpore.
Ma, come capisco immediatamente, non è quella la ragione della sua
disperazione.
Dato il caldo di quel pomeriggio afoso decidiamo di uscire fuori in giardino
con una bottiglia di coca cola che prendo dal frigo (un residuo della festa).
Ci sediamo sulla vecchia pila di pietra, avanti, a sinistra, il pozzo che ora ha
assunto un’aria inquietante (almeno per me).
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Albino non dice niente, ha farfugliato qualcosa su Matteo prima mentre ero
al frigo e continua a tirare su con il naso e a trattenere le lacrime fino a
quando gli dico: “sai che questa coca è un residuo della festa della settimana
scorsa?”
E lì Albino non riusce più a controllarsi e scoppia in un piatto rotto da
singhiozzi violenti.
“..azz che ho detto?” E mi mordo le labbra sgranando gli occhi.
“Albino, adesso smettila di piangere. Dimmi almeno cosa è successo? Così
piangiamo in due. Dai scherzo. Ti prego, parla.”
......
Niente, comunque i singhiozzi, per fortuna, si vanno attenuando.
“Sei venuto in vespa?”
”No con la 2 cavalli...sniff.”
“Mmhhhhh....senti, ti va di fare una cosa figa?”
“Bhè, non so, veramente...sniff” risponde tirando su con il naso.
“Dai facciamo un giro, guido io così tu parli tranquillo e poi ti porto in un
posto...no non te lo dico...lo scopriremo, cioè devo scoprirlo anche io, ho
solo delle indicazioni.”
“Ma Té non puoi uscire conciata così.”
”Opss...” si tolse la bandana “ok andiamo.”
“Ma....”
“Con la faccia ancora imbrattata (in verità me ne sono scordata), dopo aver
chiuso la casa dalle volte a stelle, mi metto al posto di guida e faccio ruggire
il motore della 2 cavalli.
“Ah che concerto, che sinfonia di pistoni!! Benzina? Mmh...si ce n’è
abbastanza, allora si va?”
“Ok, let’s go”, dice Albino incistato spingendo dentro il riproduttore la
casetta degli U2 che spara un “Sunday bloody Sunday” a tutto volume.
Albino ci canta su e, nel mentre, con un kleneex mi pulisce.
“Non ti si può vedere, veramente” si sta quasi divertendo.
Ma il momento magico finisce immediatamente e, mentre la 2 cavalli
sfreccia in piccole stradine tra gli alberi di ulivi, abbassa il volume della
musica e finalmente comincia a parlare.
Parla tutto di un fiato. Dice che la sera della festa ha capito alcune cose
importanti di sè stesso. Dice che le sono sempre piaciute le donne, che ha
avuto ottime amiche e anche ottime amanti, ma che mai nessuna le ha fatto
provare quello che lui ha provato la sera della festa per Matteo.
Hiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii... inchiodata brusca, mezzo metro di gomme lasciate
sul vecchio asfalto e fortuna che dietro non c’è nessuno. Albino sbatte la
testa sul parabrezza, fortuna doppia che non si fa niente.
Io, tutte e due le mani sulla bocca con una espressione incredula: “ohhhhhhh,
dio santo!”
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“Tella, credimi non è facile neanche per me, sto soffrendo come un cane, ma
è così......”
“Non è come credi, Albino, non ti devi giustificare, non c’è niente
che...insomma, voglio dirti, è bellissimo che tu abbia capito questa cosa e
soprattutto è notevole che tu me l’abbia confidata, davvero, non è da tutti..è
che anche io quella sera... Matteo...” Mi mordo il labbro inferiore. Non dico
altro e riprendo a guidare questa volta procedendo a velocità ridotta.
Segue qualche secondo di silenzio durante i quali penso:
“Ma porca troia, va bene che adesso ho un amico gay, ho sempre desiderato
avere un amico gay, ma porta troia, proprio di Matteo si doveva infatuare,
adesso che gli dico?”
Albino intanto non processa l’accenno che ho fatto riguardo a Matteo, preso
come è dalla sua disperazione. Sicuramente starà pensando: “avrò fatto una
stronzata a dirglielo? Ora magari lei parla, lo dice a Nanà ed è la mia fine,
diventerò lo zimbello di tutti, porca troia.”
”Porca troia porca!” esordiamo entrambi in coro.
Ci guardiamo e scoppiamo a ridere.
Intanto arriviamo al paese sperduto nell’entroterra salentino che stavamo
cercando.
“Guarda Albino, dovremmo trovare un cartello marrone o qualche
indicazione che suona tipo ”monumento delle cento pietre.”
“Eh?”
“Dai si, ora ti racconto, ma cerchiamolo prima dai.”
Dopo mezz’ora di andi-rivieni dal centro a tutte le periferie del minuscolo
paese, completamente sfiduciati domandiamo a un gruppo di bambini che
giocano a pallone e:
“si, dovete andare di là e poi girare a destra e poi ancora sinistra, lasciate la
macchina e proseguite a piedi e poi proprio là, è facile.”
Ci arriviamo in 2 minuti e mezzo, molliamo l’auto e, incredibile, ma vero,
questo posto esiste davvero ed io non ci poteva credere!
“È vero, è vero” urlo saltando come una pazza attorno ad Albino.
“Ma che cosa è questo posto?”
“L’ho letto su un fumetto di Martyn Mister, esiste davvero” esclamo non
riuscendo a contenere l’euforia.
“Ma guarda!” sono cento pietre, cento pietre una sull’altra, guarda come
sono grandi Albino, sai sono proprio cento, non pensavo fosse così grande,
dai entriamo dentro.
“Uno, due, tre, quattro, cinque...”
“Dai Tella non vorrai mica contarle tutte.”
“Si, si, tu comincia da li ed io da qui ci troviamo al centro.”
“...88, 89, 90, 91, 92.”
”Ops...e le altre 8? Dove sono le altre 8?”
60
“Dai magari abbiamo sbagliato a contare, se sono cento, sono cento e poi
magari qualcuna è conficcata per terra non ti pare? Dai andiamoci a fare uno
spino, lì sotto quell’albero. Da lì si vede bene, è un posto magnifico, bello
veramente, grazie per averlo scoperto.”
Gli sorrido con tenerezza contenta di averlo reso complice di questa scoperta.
Ci avviamo quindi verso il maestoso ulivo.
“Si chiama heroon” comincio a ciceronare (ahhh... quanto mi piace
sbandierare la mia conoscenza) “all’origine era un monumento funebre, le
pietre sono di epoca messapica, molto antiche, mentre la costruzione risale
all’epoca delle invasioni dei Saraceni. A quei tempi, in una posto poco
distante da qua, avvenne una battaglia terribile provocata dall’uccisione, da
parte dei Saraceni, di un messaggero di pace inviato dai Cristiani. Quel
povero cristo fu impalato dai Saraceni. Ti rendi conto? Impalato. Ma come
cazzo si fa? A quel punto i Cristiani si incazzarono sul serio e, aiutati dai
rinforzi francesi, gliene diedero di santa ragione ai Saraceni riuscendo a
riprendersi il corpo martoriato del messaggero e fu così che gli costruirono
questo heroon, questa tomba per l’appunto. Poi, alcuni secoli dopo, l’heroon
venne trasformato in thémenos cristiano. Luogo di preghiera e meditazione.
Ci ho messo un giorno intero ad imparare questi due nomi, ma mi suonavano
bene e così alla fine: heroon e thémonos, sembrano i nomi di due isole
greche!”
“Uauuuuuu, che storia! Non mi sembra vero che possa essere successo
proprio qua!” esclama Albino che non si è perso una parola di quello che gli
ho appena raccontato.
Mentre un tramonto, che si preannunciava spettacolare, cominciava il suo
ingresso tra l’assordante cicicicicicicici delle cicale, noi ci sediamo sotto il
secolare albero d’ulivo a rullare lo spino e a parlare della vita e di noi stessi.
“Sai Albino, non penso che dio, se un qualche dio esiste, abbia deciso come
ciascuno di noi debba vivere l’amore e come debba vivere il sesso.”
“Già! Proprio così! Io, per esempio, ho capito che posso fare sesso senza
essere innamorata e questo non mi ha portato ad avere sensi di colpa.”
“Vuoi dire che tu, Paolo...cioè tu sei stata solo con lui no? Noi ci siamo solo
strusciati, no? O hai avuto altre storie?”
“Ne parliamo dopo ok? non ha importanza, voglio dirti che penso siano 2
cose separate, il sesso e l’amore voglio dire, certo che quando convivono si
raggiunge la perfezione, ma poichè la perfezione non è propria degli umani,
o meglio non è alla portata di tutti, allora possiamo anche amare senza fare
sesso e viceversa.
Ma stavo parlando di Dio e di quello penso lui pensi... sempre ammettendo
che lui pensi, ma perchè non dovrebbe pensare se accettiamo l’ipotesi che
noi siamo fatti a sua immagine e somiglianza, cioè se A è simile a B, allora B
è simile ad A, certo non sono uguali, ma...” precisai alzando il sopracciglio
destro “dicevo, di quello che penso lui pensi a proposito dell’amore e del
sesso.
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Cioè se io fossi dio o DIO - si è capito che l’ho detto a stampatello? “ dico
urlando le lettere D, I, e O - (Albino strabuzza gli occhi) - “e ad un certo
punto sentissi la necessità di creare qualcosa a mia immagine e somiglianza,
o la creerei senza sesso (boh, di certo Dio non avrà sesso oppure li ha tutti in
sè), oppure sesso si, ma più di due. Vedi due sono troppo pochi. Due è codice
binario. È conflitto. È bene o male. È ying o yang. Voglio vederti con 5 sessi
come te la cavi te, uomo. Hai ancora tempo per le guerre? Per le avidità? Per
l’odio? La violenza? No, sei talmente impegnato a capire le innumerevoli
potenzialità che hai di relazionarti con un tuo diverso, che passi
tranquillamente i cento anni della tua vita senza aver tempo per l’odio e la
violenza.
La pluralità è complessa, ma aiuta. La semplicità crea complicazioni. Lascia
molto spazio all’interpretazione. Non è per l’uomo. È per le macchine.
Io, in quanto Dio, parto dal presupposto che questa cosa che ho creato deve
prima di tutto essere felice di esistere, deve gioire del fatto che esiste e deve
relazionarsi grazie all’amore. L’amore è come l’oceano e dentro ci vivono le
cose che ho creato che si nutrono di acqua stessa. Acqua dentro, acqua fuori,
amore dentro, amore fuori e tutto è così in armonia e tutti sanno perchè sono
stati creati. Per amare. E per essere amati.
Per quale animo perfido, io, in quanto dio, dò a questa cosa il libero arbitrio?
Per quale sadico spirito gli dono l’odio? A che pro? Perchè farlo dannare?
Che gusto ci provo?
...a mia immagine e somiglianza...
Potevo creare di tutto, avevo infinite possibilità, non c’era niente, potevo
immaginare chissà che cosa ed ho deciso... a mia immagine e somiglianza...
L’uomo si è fatto un dio a sua immagine e somiglianza! A simile a B implica
B simile ad A. Dipende da che direzione la guardi la somiglianza no? Si,
manca qualcosa per l’uguale. Ok. È lì che si gioca la differenza. In quello che
l’uomo non è riuscito a spiegare a sè stesso di sè stesso.
Io, in quanto dio, gioisco per te” dico rivolgendosi ad Albino e facendo un
gesto tipo un cuore in aria sulla testa di Albino “Ti benedico in quanto hai
trovato la tua strada all’amore. Vivi felice” e, dicendo questo, lo abbraccio
forte forte. Albino è rimasto a guardarla a bocca aperta, non si muove, si fa
abbracciare frastornato dalle mie parole mentre un maestoso tramonto ci
avvolge e le ultime cicale finiscono di impazzire.
È magico! A volte quando parto con questi sproloquo-soliloqui sento di
avere in mano l’attenzione degli ascoltatori. Posso dire loro quello che
voglio. È una sensazione bellissima.
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“Sai Té’, sto proprio meglio, cazzo!”
“Mi sono tormentato inutilmente, hai ragione tu. Che importanza ha chi si
ama? È come e quanto si ama che è importante. Hai proprio ragione.”
Sorriso a 32 denti.
“Ma come faccio? Come faccio qui? Mi prenderanno tutti in giro, non
posso...” dice Albino con le mani nei folti e neri capelli e la testa quasi fra le
gambe.
“Fregatene.”
“Non ce la farò mai.”
“L’anno prossimo ti iscriverai all’università anche tu no? Vieni via da qua, io
andrò a Bologna forse o a Firenze, non so, vieni con me, ti rifai la tua vita
come vuoi.”
“Mmhhh... certo che mi piacerebbe avere un dio come te! Sarei tutte le
domeniche a messa.”
“Io, in quanto dio, non ho bisogno di messe, non ho bisogno di essere
adorato, ho solo bisogno di essere amato perchè t’ho creato.”
“Piaciuta la rima?”
“Ah, ah, ah...” Albino ride di gusto e continua cambiando tono “senti Tè, non
dire niente a Matteo non voglio che lo sappia.”
“Senti Albino”, dico imbarazzata “anche io devo dirti una cosa di
Matteo...questo non deve rovinare la nostra amicizia però, me lo prometti?”
Albino mi guarda di sbiego.
“Non mi guardare così altrimenti non ti dico niente.”
“Aspetta” dice Albino “che faccio un altro spino.”
“Forse è meglio.”
“Senti Albino però non dire niente a Matteo neanche tu, ok e soprattutto non
lo dire a Nanà, non so se mi spiego, lei è come la “gazzetta del mezzogiorno”
e peggio “il quotidiano”. Non che voglia escluderla dalla mia vita, vedi, ma
potrebbe combinare più casini di quanti già ne abbiamo e così dicendo
cominciò a canticchiare parafrasando la canzone di Ivan Graziani:
“un uomo da amare in due in comune tra me e te, ma di tempo non ce n’è in
questa città fottuti di malinconia e di lui....... per questo canto una canzone
triste triste triste triste triste triste come me e come te!”
“...”
“Io...” - dice Albino divertito dal modo in cui gli ho manifestato il mio
segreto - “io pensavo che te e Paolo, insomma, per noi, voialtri siete la
coppia perfetta.”
“Si lo so, ma non funziona, pensavo fosse amore e anche sesso insieme,
pensavo fosse la perfezione, ma poi ho scoperto che mi piace fare sesso
senza amore, poi ho scoperto che so farlo da sola e pure bene, poi ho
scoperto che so amare più persone insieme e con la stessa forte e fottuta
intensità e questo Paolo non l’avrebbe mai capito. Non posso condividere
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questa cosa con lui e, purtroppo, non posso condividerla neanche con Matteo.
Io li amo tutte e due se vuoi. Ma non potendolo fare, non essendo Dio, sai
che ti dico? Me ne vado fra 3 mesi e mi porto dietro tutto questo amore. Lo
rovescierò da qualche parte e adesso te lo becchi tu” e così dicendo mi
attacco sulle labbra in un bacio come Albino, a suo dire, non ne ha mai
ricevuti e che veramente gli ha trasmesso un amore immenso.
...sono così felice di aver baciato un gay!
Tutto sommato ad Albino io non gli sono mai dispiaciuta, anzi mi adora
come io adoro lui. Continuiamo a strusciarci sotto l’ulivo mentre il tramonto
si spegne velocemente su di loro lasciando spazio ad una stellata pazzesca.
Guardando le stelle mi sovviene la storia di Peppo e Caterina e mentalmente
gli do l’estremo saluto e penso che magari, io, in quanto Dio, li avrei fatti
incontrare da qualche parte in qualche dimensione dello spazio-tempo e lì li
avrei fatti trombare per l’eternità.
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12. ALBINO
Secondo di tre figli, Albino discende da una famiglia di nobile stirpe. I suoi
avi erano stati infatti baroni e, del suo antico lignaggio, Albino ha ereditato i
modi signorili e nobiliari e, roba non da poco, la terza parte del castello
baronale del secolo xvi. Dal bis-nonno paterno ha invece ereditato la
passione per le cose misteriose insieme a quella per Oscar Wilde.
Quest’ultimo è il suo scrittore preferito, ma non solo: ha per lui una passione
autentica, illimitata, di lui sa tutto; porta, come lui, le unghie tagliate a punta,
perchè secondo un’antica credenza, le unghie scacciano il malocchio. Come
il grande Oscar, Albino è infatti molto superstizioso. E come lui, Albino non
pronuncia, nè scrive mai i numeri 13 e 17 considerati nefasti. Al loro posto
usa 12bis e 16bis. E neppure dice martedì o venerdi e sovente lo si sente dare
appuntamenti del tipo: “allora, siamo daccordo: ci vediamo lunedìbis alle ore
16bis del pomeriggio”. Chi non lo conosce, lo prende per folle, simpatico si,
ma pur sempre folle. Chi lo conosce lo adora e di lui adora soprattutto questo
suo modo ironico di vivere la superstizione (oltre, come già detto, al suo
bell’aspetto).
Inquieto, appassionato, stravagante nelle idee, un po’ meno nei modi (a parte
le unghie!), Albino non può fare a meno di coltivare la sua passione per
l’occulto. Nella biblioteca del castello, ha trovato decine di volumi risalenti
alla fine 1800 che parlano di occultismo, esoterismo e cose sataniche.
Nell’estate dell’ottantadue, all’età di 15 anni, Albino se li lesse tutti. Se ne
nutriva avidamente e dopo poco tempo era un vero esperto in questa materia:
conosceva ad esempio la storia delle sorelle Katherine e Margaret Fox che
praticamente avevano inventato le sedute spiritiche.
Una sera di cazzeggio, Albino ha spiegato a me e a Paolo che le due sorelle,
ancora ragazzine, erano andate a vivere con i genitori a Hydesville, nello
stato di New York in una apparentemente tranquilla casa di campagna.
“I fatti”, ci racconta Albino, “cominciarono nel 1848. Inseguendo strani
rumori che sembravano provenire dai muri della casa, le sorelle Fox
improvvisarono un gioco con il tavolino. Il gioco consisteva nell’evocare lo
“spirito” di un defunto che, nella loro fantasia, aveva vissuto in quella casa e
li vi era stato assassinato. Praticamente le sorelle avevano inventato le
“sedute spiritiche”. Pare che, parecchio tempo dopo, nell'intercapedine di un
muro, nella casa "maledetta" di Hydesville, si trovò veramente lo scheletro di
un uomo.” “...Pare...” ripetè Albino.
“In realtà” continuò “i suoni erano prodotti dalle sorelle stesse facendo
scrocchiare le giunture delle dita dei piedi! Ma questo non arrestò il
proliferare di centinaia di medium, nonostante, alla fine, le Fox ammissero di
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essere artefici di inganni. I medium tenevano sedute spiritiche ovviamente
facendo uso di svariati trucchi per la produzione di suoni, la
materializzazione di oggetti, l’apparizione di luci, la levitazione di tavoli o di
oggetti attraverso le stanze. Poteri psichici di ogni tipo venivano
pubblicizzati per attirare i polli di turno: dalla chiaroveggenza alla
chiaroudienza, dalla telecinesi alla telepatia. Ed i polli si facevano spennare.
“Ma nessuno si accorgeva dei trucchi?” domandai interessata.
“I polli, essendo polli, no di certo. Aiutati come erano da una psiche
facilmente plasmabile, ricorrevano alle sedute per poter parlare con i propri
cari morti”, rispose Albino.
“Già. Il fascino del soprannaturale non lascia indifferenti nessuno.
Figuriamoci chi crede nell’esistenza della vita oltre la morte!” commentò
Paolo.
“Che carognata però speculare sul dolore della gente ignorante!” osservai
“Una vera carognata” fece eco Paolo.
“Ma scusa, a nessuno venne in mente di verificare cosa c’era di vero?”
chiesi.
“Si certo, ci furono numerose accuse di frode in quegli anni, ma, nonostante
ciò, il movimento dello spiritismo non si arrestò. Pensate che negli anni ’20 il
mago Houdini presentò al pubblico le tecniche e i metodi d’inganno cui i
professionisti del giro facevano abbondantemente ricorso per raggirare anche
i più saggi e in buona fede dei loro clienti. Ma neanche questo servì. I polli si
fanno tutt’ora spennare!”
“Ma chi, quell’Houdini amico di Sir Arthur Conan Doyle?” chiesi.
“Si mi pare di si” rispose Albino che ricordava di aver letto di questa
amicizia in uno dei libri del trisavolo.
“Ma pensa te! Doyle, il mio preferito, il creatore di Sherlock Holmes!” dissi
contenta di aver trovato un legame letterario fra lei ed Albino. In fondo ho
sempre pensato di aver avuto con lui una sorta di affinità elettiva. E in tema
di libri, ci capiamo proprio.
Tutto questo Albino l’ha imparato dai libri del bis-trisavolo ed ha inoltre
imparato un mare di trucchi principalmene dalla lettura del libro di Houdini
che mi ha e che io, a mia volta, ho girato a Paolo. Alla fine dell’estate
dell’82, eravamo ferratissimi in materia, tanto da provare qualche trucco.
Approfittando quindi di una stanza del castello addobbata all’uopo con
drappi neri spessi e della complicità mia e di Paolo, Albino ha organizzato
nel castello varie sedute spiritiche a solo scopo ludico e non di lucro.
Soprattutto la preparazione di queste sedute ci diverte da morire.
Tra l’altro la preparazione è una cosa alquanto complessa e professionale. E
poi i trucchi non li abbiamo mai svelati neanche a Nanà o agli altri amici
stretti nonostante, alla fine, avremmo confessato che solo di trucchi si era
trattato.
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Ogni volta ci impieghiamo minimo quattro giorni, tra trovare i nylon, i veli
crespi che sarebbero serviti per l’ectoplasma, la registrazione di rumori
tenebrosi, il piazzare le casse in punti strategici e nascosti. Poi una mia zia ha
cucito, su insistente richiesta, una tuta aderente (alla Diabolik)
completamente nera. La tuta viene indossata da Paolo il quale, munito anche
di guanti neri, con lo sfondo dei drappi neri, fa tantissimi numeri (anche con
il fuoco) senza essere visto. Fa levitare oggetti, fa apparire fiamme nel mezzo
dell’aria etc. Ogni tanto inventiamo nuovi effetti: tutti però traggono spunto
dal libro di Houdini che seppure datato primi del secolo, fornisce ai noi tres
amigos molto materiale su cui creare nuovi trucchi.
Albino, nei panni del medium, è qualcosa di impareggiabile, un vero attore.
Nessuno poteva pensare che era una finta la sua, è talmente realistico, riusce
persino a farsi uscire la bava dalla bocca e a roteare gli occhi in modo che si
veda solo la parte bianca del bulbo oculare. Che impressione vederlo in
trance!
È qualche mese che non organizziamo una seduta spiritica. Ci siamo convinti
che porta male ed Albino, superstizioso come è, continua a declinare tutti gli
inviti degli altri amici che vogliono, con quell’espediente, fare colpo su
qualche nuova fiamma.
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13. NOTTE PRIMA DEGLI ESAMI
Mancano appena due giorni allo scritto di Italiano, ma sono abbastanza
tranquilla. Ho oramai finito di studiare. Cioè in realtà non ho affatto finito,
ma un po’ l’agitazione pre-esame, un po’ gli eventi degli ultimi giorni, pur
andando nella casa-dalle-volte-a-stella che tanto mi ha ispirato nei primi
giorni, non riesco più a concentrarmi bene, non sulla letteratura almeno. Così
studiacchio un po’ di esercizi di matematica, qualche studio di funzione,
qualche calcolo di integrale, qualche limite e finalmente arriva il fatidico
giorno dello scritto di Italiano.
La sera prima dello scritto di Italiano, Nanà, Anna e la Truzza (cioè Carla) si
presentano a casa mia con una ben fornita cartuccera. Hanno passato l’ultima
settimana a prepararla e si meravigliano non poco quando dico di non aver
fatto niente di tutto questo.
Non sapete cosa è una cartuccera?
È fatta di stoffa e si lega in vita nascosta. Un tema ben arrotolato prende il
posto in ogni posizione. Le 3 grazie ne avevo 30 a testa!
Cartuccere così capienti non ne avevo mai viste.
“Ma come farai?” mi chiede Nanà preoccupata “Te ne do qualcuno dei
miei.”
”Mi arrangerò.”
Poi cominciano con il toto-tema. E tra un Montale e un Leopardi e la prima
guerra e il problema del nucleare e l’inquinamento e la scienza, percorrono
tutto lo scibile umano e nessun argomento sembra più probabile di un altro.
Decidono comunque di non fare tardi.
Almeno così ci diciamo. Questa notte però solo io, ignara dei fatti, avrei
dormito come un angioletto. Infatti mi chiudo in camera, dico a mamma di
non chiamarmi prima delle 7 di domani, mi prendo un fumetto e volo in altri
mondi.
Per caso o per necessità, Anna appena arrivata a casa telefona a Matteo per
sapere come sta e per raccontargli che lei sta agitata così tanto che tutto può
fare tranne andare a dormire. Che se ha voglia possono andare a mangiarsi un
gelato e a fare un giro e a stancarsi un poco così per ingannare l’agitazione
etc etc. Matteo, che nelle ultime sere non ha fatto altro che studiare, accetta
ben volentieri quell’invito, per niente consapevole della trappola che gli sta
preparando Anna.
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Per lo stesso motivo e anche per il fatto che è ancora un po’ nervoso per via
della discussione con me e per potersi anche sfogare con una amica, Paolo,
dopo avermi dato la buona notte, chiama la Truzza.
Carla da almeno due anni non aspetta altro. Ha sempre avuto un debole per
Paolo e non si fa pregare due volte, si tira su i capelli, si passa il rossetto
sulle labbra, una spruzzata di profumo e in 2 minuti è già bella e pronta a
riscattare due anni interi di sofferenze e speranze inespresse.
Albino, in preda ad una crisi di inquietudine, cerca Matteo. Nanà, sua sorella,
gli dice che è uscito con Anna e capendo che quella sera Albino ha bisogno
di non stare solo, giocòa la sua carta e gli offre la sua compagnia nella
speranza che il destino voglia far succedere qualche cosa. Chiaramente Nanà
nulla sa di quello che Albino mi ha confidato qualche giorno prima.
E come mai io so tutte queste cose mentre in realtà dormo serena nel mio
letto?
“Tella...Tè... cosa fai dormi?”
Apro un occhio e vedendo la figura sinuosa di Teresa rispondo senza
agitazione: “Si domani, ho gli esami, c’è lo scritto di Italiano.”
“Perchè cammini scalza?” le chiedo sbadigliando e stiracchiandomi
“Non ho scarpe” risponde Teresa raggruppando le ginocchia al petto e
posandoci su la testa leggera.
...ancora quel profumo di gelsomino... mi penetra nelle narici...
“Se vuoi ti impresto un paio delle mie.”
“No, no, è così bello il contatto con la terra, non mi piacciono le scarpe per
questo non le ho mai avute!” E, dopo una breve pausa,
“Sei sola stanotte.”
“Come tutte le notti...”
“....”
“....”
“Tu hai conosciuto mia nonna?” incalzo cambiando discorso.
“Si, perfettamente. Anche tuo nonno, persone meravigliose” risponde Teresa
accarezzandole la testa.
“Come fai ad essere così giovane?” domando con tono inquieto.
“Non esisto” risponde secca e precisa di Teresa.
“....”
“Ah...”
“...Ma il diario...l’ho letto...ho letto anche cosa hai scritto tu.”
“Si l’ho scritto anche io, ma non tecnicamente. Diciamo che ho guidato la
mano di Nina.”
“Ehm...”
“Ok, faccio finta di aver capito. Dai raccontami di come vi siete incontrate tu
e Nina.”
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“Un giorno, anzi una sera, c’era una festa, quasi tutte donne, perchè gli
uomini erano partiti per il fronte, dico quasi perchè in realtà due uomini
c’erano: uno era il fratello di Fulvio, di tuo nonno rimandato a casa dal fronte
perchè una granata gli aveva cavato un occhio e l’altro un suo commilitone
che, non avendo nessuno, dopo aver avuto una mezza gamba amputata, si
stabilì nel paesello insieme alla sua inseparabile stampella.”
“Un semicieco e un semiparalitico?!?!”
“Già! Così era composto il pubblico maschile. Le ragazze in paese erano
tante e si annoiavano. Spesso, per combattere la noia ed anche l’ansia di non
rivedere i propri fidanzati/mariti/pretendenti, si riunivano ed improvvisavano
delle feste.”
“Nina” continua Teresa “era sempre presente e non si lasciava sfuggire
l’occasione per non sentire l’acuto suo dolore dovuto al fatto che non vedeva
Fulvio da oramai 1 anno e mezzo.”
“Quella sera si erano riuniti nel capannone che fungeva da deposito di paglia
appartenente al padre di una delle ragazze.”
“Ad un certo punto” prosegue Teresa “si svolse il gioco della bottiglia.”
Ho ben presente questo gioco: i partecipanti si siedono in cerchio, in mezzo
al cerchio si fa ruotare la bottiglia per terra 2 volte di fila, l’estremità stretta
della bottiglia designa le coppie consecutivamente. Le coppie (sempre miste
quando ci giocavo io) devono scontare una “penitenza” assieme. Io ci
giocavo anni prima all’età di 12, 13 anni e mi sembrava un gioco stupido per
ragazzi che avessero superato i 15 anni! Comunque quella della bottiglia era
una scusa per scambiarsi i primi baci, prima sulla bocca, poi si passava a fine
gioco al bacio alla francese, cioè con la lingua. Era qui la “penitenza”, era
qui tutto il divertimento di quel gioco. Ovvio che il tutto avveniva alla
presenza di tutti. Ovvio che erano valide solo le coppie miste e che si
scartavano, per una sorta di arcana ed inconsapevole educazione, le coppie
dello stesso sesso o quando la bottiglia designava due volte la stessa persona.
“Ci furono varie “penitenze” da scontare a coppia” continua Teresa “Le
coppie, come ben sai, erano stabilite dal gioco della bottiglia. Tra le tante
“penitenze”, le animatrici di quella serata ne avevano concepita una inedita.
Durante il pomeriggio avevano preparato delle strisce di lenzuola semi
logore e le avevano cucite insieme. Quindi le avevano deposte dietro un
improvvisato e rozzo separè che avevano installato nello stalla per l’appunto.
La punizione per Nina fu la seguente: doveva denudarsi completamente ed
avvolgere il suo corpo con la striscia lunghissima di lenzuola. Il tutto doveva
avvenire dietro il separè. Poi, così vestita da mummia, doveva presentarsi
davanti al suo pubblico. L’uomo che la sorte scelse per partecipare alla
penitenza – sebbene per lui di penitenza non si trattasse - (ascolto avida,
occhi sgranati e bocca aperta) fu il fratello di Fulvio, il cognato semicieco di
Nina, che per essere precisi, dall’altro occhio ci vedeva benissimo.
“E poi?” incalzo impaziente.
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“Poi, cominciò la penitenza che venne spiegata al pubblico da una delle
ragazze organizzatrici del gioco. Il cognato, preso l’ultimo lembo della
striscia, doveva avvolgerselo, girando su sè stesso, intorno al suo corpo. In
parallelo la stessa striscia liberava, rotazione dopo rotazione, il corpo di Nina
che ruotava ebbra di euforia al ritmo del battito di mani del pubblico che
andava divenendo sempre più frenetico. Più il corpo del cognato si
avvolgeva, più quello di Nina si denudava, più le donne urlavano e ridevano
a squarcia gola, più il commilitone senza una gamba sbavava, incredulo, a
quella scena.”
“Il cognato faceva roteare impazzito l’occhio sano a destra e a manca, su e
giù, per essere sicuro di non perdere nulla di quella visione.”
“Allè, allè...” ad ogni giro e tutti battevano le mani.
“Fu a quel punto che Nina incontrò lo sguardo famelico del commilitone con
una gamba sola. Fu a quel punto che scattò qualcosa nella sua testa. Fu a quel
punto che lei si estraniò da sè stessa. Uscì fuori dal suo corpo e, prima di
scoprire le ultimissime intimità (una minuscola striscia di lenzuolo era
rimasta a coprire il basso ventre, in quanto il seno era nudo da un bel po’),
invocò me con tutte le sue energie. Ecco ora lei era in mezzo al pubblico, con
il pubblico, e urlava e gridava più delle altre. E, completamente nuda, c’ero
io ad accogliere gli applausi del pubblico. Questo è almeno quello che Nina
pensò che avvenne.”
“Invece?”
”Invece c’era sempre lei là, io esistevo solo nella sua mente.”
“Ohhh” esclamo “Si è sdoppiata!”
“Fu proprio quello che avvenne. Mi creò in quel momento con la sua mente.
Mi proiettò fuori di sè e mi alimentò per anni.”
“Non è possibile!”
“Lo fu.”
“Ma aspetta a tirar conclusioni....non finì lì.”
“Il cognato” continua a raccontare la proiezione postuma di Nina “non
resistendo più all’impulso maschile, oramai al colmo dell’eccitazione, le si
avvinghiò contro e cercò di penetrarla lì davanti a tutti. Non ci riuscì per puro
miracolo, perchè una delle ragazze, nel mezzo dell’euforia, si rese conto di
quello che stava succedendo e scatenò le altre contro il cognato di Nina che
sembrava un ossesso, assatanato come era di sesso. Costui era anche molto
forte e di robusta costituzione, per cui fecero non poca fatica a separarlo da
Nina, che fu condotta dietro al separè e rivestita e consolata.”
“Ma Nina pensava di essere tra la folla. Lei vide questa scena dall’esterno.
Mise me a subire tutto. Mise me che non esistevo. Che non esisto.”
“E poi?”
“Poi, in seguito a questo episodio, io ho accompagnato Nina per anni!”
“E il cognato? Cosa successe?”
”Fu costretto ad allontanarsi immediatamente dal paese per non essere
linciato. Oramai nessuna scusa bastava a placare la rabbia delle donne. A
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nulla valsero i suoi giustificativi, anzi l’unica attenuante che poteva apportare
a suo favore e cioè il fatto che l’avevano provocato.”
“Ma era vero!” esclamo“l’avevano veramente provocato!”
“Si vero. Ma questo non giustifica il suo comportamento. L’autocontrollo
serve proprio a questo.”
“Quando Fulvio tornò, la loro relazione si complicò non poco. Nina andava
in giro a dire di Teresa. Parlava spesso di lei a tutti, soprattutto a Fulvio che,
per non contraddirla, la assecondò. La assecondarono tutti. E questo alimentò
nella mente di Nina la figura di Teresa che oramai viveva di vita propria.”
“Così ho vissuto con Nina svariati anni...”
“Ma, ma ora sei qui...”balbetto “cioè, se non esisti, come fai ad essere qui,
come fai a parlare con me?”
“Io...” sta per rispondere Teresa...
“Tella, Teeee! È ora di alzarsi! Tella, dai, alzati, hai l’esame oggi” mamma
mi scuote.
Minchia! Era stato solo un sogno! Un magico, incredibilmente realistico,
pazzescamente assurdo sogno!
Il pomeriggio dopo lo scritto di Italiano, torno nella casa-dalle-volte-a-stella
e, prendendo in mano il diario, mi rendo conto che nei giorni precedenti l’ho
sfogliato più e più volte avanti e indietro ed ho intravisto alcune parole:
festa, pagliaio, cognato cieco, lenzuolo a strisce... Probabilmente il mio
incoscio le ha registrate e poi la mia immaginazione (ve l’ho detto no? È
molto fervida) ha fatto il resto amalgamando in una storia plausibilissima e
razionale le frammentarie informazioni che ho raccolto fino a quel momento.
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14. IL RIENTRO DI FULVIO
Tra le mille carte che la scrivania aveva rovesciato nella stanza, ho trovato un
telegramma al quale non ho dato, in un primo momento, la dovuta
importanza.
Rientro tra una settimana massimo 10 giorni. Stop.
Fulvio. Stop.
Il telegramma è datato 10 novembre 1917 e Nina l’aveva ricevuto mentre era
in campagna in piena raccolta delle olive. Questo episodio è stato riportato
nel diario in data 10 novembre per l’appunto.
Trovo praticamente conferma nel diario di quanto ho sognato, cioè trova
conferma dell’episodio delle lenzuola e della comparsa di questa Teresa in
quell’occasione in data 5 luglio.
Il diario riporta l’episodio delle lenzuola (o meglio della violenza) così come
Nina l’aveva vissuto e come poi l’avrebbe raccontato a Fulvio.
Nel diario non c’è menzione che il cognato (lì chiamato Tommaso) fosse
cieco da un occhio, ma io lo sapevo dai racconti delle zie e dal fatto che,
quando ero piccola, l’aveva conosciuto.
E neanche c’è menzione del commilitone con una gamba sola.
Fulvio era giunto lercio, stremato, ammalato, con le scarpe sfasciate, i vestiti
logori e la barba lunga in un pomeriggio di pioggia triste ed insistente: gli ci
vollero sette giorni per riprendersi completamente, solo allora cominciò ad
interagire con il mondo e, prima fra tutti, con Nina.
Questo è riportato nel diario con la scrittura di Nina:
Grazie a Dio, Fulvio sta bene. Adesso gli posso presentare Teresa. Sono
contenta di averlo qua, finalmente. Grazie Dio per averlo risparmiato e per
averlo fatto tornare da me.
Poi, subito dopo quest’ultimo episodio, la scrittura sul diario cambia
completamente. È più spessa e anche più disordinata.
È Fulvio che scrive:
23 novembre 1917
È bello questo tuo diario Nina, l’ho letto in questi giorni, non appena sono
stato un po’ meglio, voglio parteciparvi anch’io con qualcosa di mio...
73
Mi sono appena ripreso, ho sentito delle voci, deve essere successo qualcosa
di terribile quando non c’ero. C’è tanta tensione attorno a me. Spero oggi mi
venga chiarito tutto. Sono preoccupato.
24 novembre 1917
Nina, ma cosa ti è successo? Io non ti riconosco più. Mi hai raccontato che
eravate nel capannone del padre di Giovanna, che era scuro fuori e che le
ombre proiettate dalle lampade ad olio si verticalizzavano sulle balle di
paglia. Io mi sono visto la scena:
la luce all’interno era calda, tu e le tue amiche che ridevate,
Tommaso era arrivato come tutte le sere di festa ed aveva portato da bere.
Tanto.
Tutti bevevano. Anche tu.
Poi avete fatto un gioco e ti hanno denudata e rivestita di bende di lenzuola.
“Non ero io. Era Teresa” mi dici.
Ma Nina dove è questa Teresa. Io impazzisco se non capisco... chi è, dove è?
“Si, prima ero io” mi dici “poi giravo, giravo, giravo ed il mondo girava
con me e d’improvviso mi si sono sciolte le braccia e poi le mani, mi sentivo
libera, mi pareva di avere le ali. Ho volato e, per un momento, ho visto una
mano spuntare dalla luce e poi è venuta Teresa e quando ho aperto gli occhi,
lei era là al posto mio. Tommaso le era addosso e tutti ridevano ed urlavano
fino a che Giovanna non si è avventata addosso a Tommaso e poi anche le
altre, ma io non capivo perchè, ci stavamo divertendo...”
Divertendo? Ma ti rendi conto Nina? Cazzo, divertendo? Non era Teresa!
Chi è questa Teresa? Eri tu là, Tommaso ti stava violentando cristo, vuoi
svegliarti o cosa?
Questo è stato l’ultima cosa che ci siamo detti stasera. Poi sei corsa via
piangendo di rabbia, perchè non io ti credo. Ma come faccio a crederti? Ho
sentito Giovanna e le altre. Sei tu contro tutte. La tua verità contro quella del
resto del mondo. E poi mio fratello, dove cavolo è andato a finire, lo sa solo
Dio. TERESA NON ESISTE!
24 dicembre 1917
È la vigilia di Natale, Nina ancora si ostina a raccontare la sua verità.
Oramai non scrive più su questo diario. Ora lo tengo io, tanto a lei non
gliene importa più niente.
Non riesco a trovare Tommaso, non so dove sia andato, gli devo parlare. Ho
chiesto a mezzo mondo. Gesù, tu che nasci stanotte, aiutami a trovarlo. Ho
bisogno di parlare con lui.
Dalla lettura delle pagine seguenti apprendo quanto segue.
74
Pioveva a dirotto la notte di Natale dell’anno del Signore 1917. La gente
correva sotto la pioggia in direzione della chiesa per la veglia di Natale.
Tuonava quella notte ed i tuoni squartavano il cielo. Anche Fulvio e Nina,
riparati da un ombrello sbrindellato, si avviavano in chiesa in bicicletta. Nina
era seduta sul manubrio e Fulvio pedalava. Ad ogni nuovo tuono la bicicletta
sbandava. Finalmente i due arrivarono in chiesa al riparo dal maltempo.
Il coro cantava: tu scendi dalle stelle o re del cieeeelo... quando Fulvio si
voltò indietro così per un parentale richiamo e vide in fondo alla chiesa,
addossato al muro, Tommaso bagnato fradicio.
Non esitò neanche un istante. Andò nel corridoio tra le due file di banchi,
fece una accennata genuflessione (il parroco lo guardò di sbiego), si avviò
verso il fondo della chiesa e, rivolto a Tommaso, disse a denti stretti “Vieni
fuori!”
Tommaso, docile, ubbidì. Ed i due uscirono uno dietro l’altro. Non appena
fuori Fulvio che era davanti, si voltò di scatto e mollò un pugno inaspettato
sul viso di Tommaso con una forza tale che mai seppe nemmeno lui da dove
era scaturita... forse da quei giorni di rabbia, rancore e incomprensione?
Dall’interno della chiesa si udiva il risuono di ...al freddo e al geloooo...o
bambino mio divino...
Tommaso finì per terra, un rigagnolo di sangue cominciò a scorrere dal
labbro inferiore verso l’angolo sinistro. Si accostò la manica del cappotto e si
asciugò la miscela di sangue e acqua piovana e, facendo ciò, disse con voce
sommessa “scusa”.
Fulvio si sentì immediatamente un verme per aver dato sfogo a quel basso
istinto di vendetta. Lo aiutò ad rialzarsi.
I due stettero a fissarsi per qualche secondo sotto la pioggia, poi Tommaso
disse:
“Ho sbagliato, lo so, ma tu dovevi vederla lì, nuda, perfetta, non vedevo una
donna così da anni, anzi non vedevo una donna da anni, tu puoi capire, e lei,
così bianca, così divina, così irragiungibile. Sono stato un animale.”
Questo episodio del pugno della notte di Natale passò agli annali perchè altri
2 compaesani erano usciti, a loro volta, dalla chiesa per curiosare proprio nel
momento in cui il pugno violento sbatteva a terra Tommaso. Io conoscevo la
scena del pugno (è uno degli aneddoti della mia famiglia), sapevo che c’era
stata una disputa per via di una donna. A questo punto faccio due + due e
capisco finalmente che la donna in questione è Nina e che la vendetta
animalesca del nonno sul fratello era dovuta all’episodio delle lenzuola
tagliate a strisce.
75
Fulvio lo abbracciò, gli voleva un bene dell’anima e capì l’istinto primordiale
del fratello (soprattutto lo scusò per via dell’alcool). Lo capì anche perchè...
3 gennaio 1918
Io non potevo non perdonare Tommaso. Gli amici qui in paese dicono che
sono stato fin troppo buono e che Tommaso se l’è cavata con un pugno. Tra
l’altro Nina non lo odia, anzi, convinta come è che al suo posto ci fosse
un’altra, era preoccupata per lui quando è sparito dalla circolazione.
Ma io, io posso capire, io fuggiasco, io verso casa, io lercio, io ho fatto lo
stesso con una donna che non ho mai più visto. Una donna che stava
stendendo il bucato, sola, avrà avuto si e no quarant’anni. Non era neanche
bella. Ed era grassa. Urlava come una pazza. Le ho tappato la bocca e...
Leggendo questo, sono presa da sgomento e, smarrita, non oso andare oltre
per oggi perchè non ne ho il coraggio e poi la conclusione di quella
confessione è evidente.
Tornata a casa mi faccio ri-raccontare da mamma l’episodio del pugno ed, in
effetti, tutto combacia. Il mosaico ora è completo.
Il giorno dopo torno nella casa-dalle-volte-a-stella. Ho ancora molto da
ripetere per l’esame orale che si terrà tra una quindicina di giorni. Verso le 5
del pomeriggio stanca di studiare e di umore triste, metto sulla piastra il
vinile della Tosca, di Puccini.
Tra le lacrime di compassione continuo a leggere la confessione di Fulvio,
cioè di mio nonno. Apro il quaderno nella pagina dove ho messo una matita
per tenere il segno:
.........
Ma io, io posso capire, io fuggiasco, io verso casa, io lercio, ho fatto lo
stesso (E lucevan le stelle...) con una donna che non ho mai più visto. Una
donna (ed olezzava la terra...) che stava prendendo il bucato, sola, (stridea
l'uscio dell'orto...) avrà avuto si e no trent’anni, forse anche meno. Non era
neanche bella (Entrava ella, fragrante,). Ed era un po’ grassa. Urlava come
una pazza. Le ho tappato la bocca e mi ha morso la mano (mi cadea fra le
braccia...). Poi l’ho inseguita in casa, l’ho sbattuta sul tavolo e ci ho dato
dentro con tutta l’anima (Oh! dolci baci, o languide carezze,) per dare sfogo
a 2 anni (mentr'io fremente le belle forme disciogliea dai veli!) di trincea,
per liberarmi del dolore della morte di Rocco, per il freddo, la fame (Svanì
per sempre il sogno mio d'amore...), per gli occhi oramai stanchi di vedere
solo fumo e grigiore e fango (L'ora è fuggita...), stanchi di vedere i colori
della morte (E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita!...).
76
“Ma cazzo, ma che c’entrava quella povera creatura”, piango mentre leggo
ed i miei pensieri sono di commiserazione e di tristezza infinita e sfinita.
Nelle orecchie i frastuoni dei bombardamenti e le mitragliatrici...
ratatatatata...... ratatatata......... ratatatata.........boati che mi hanno
squarciato l’anima.
Rivedo quella terribile scena tutte le mie notti. Quella donna con le sue urla
strazianti non mi abbandona più. Odo terribili i lamenti dei miei compagni
colpiti a morte. Tutte le notti piango il suo dolore. Tutte le notti piango il mio
dolore.
“Ma cazzo, cazzo, cazzo”, ripeto dondolandomi seduta sullo sgabello con il
diario in mano. Sfoglio pezzi di vita. Piango pezzi di vita.
L’ho abbandonata lì, sono scappato, il suo cane, un bastardino, che per tutto
il tempo aveva abbaiato indietreggiando, ha cominciato ad inseguirmi e ad
azzannarmi una gamba. L’ho scacciato. Era di media taglia, ma è riuscito
ugualmente ad infilarmi le sue zanne nella carne. La sua padrona era stata
vendicata.
Mi sento oberato dalla vergogna. Non potrò mai fare niente per quella
donna. Non saprei più rintracciarla. So solo che era successo due giorni
dopo la fuga, ero ancora abbastanza al Nord, ma era campagna, non so
dov’ero, vagavo come un disperato. Spero che Dio mi perdoni. Io non mi
perdonerò mai.
Nina non scrive più su questo diario, non legge più. Non so se avrò mai il
coraggio di raccontarle tutto. Io l’ho scritto. Spero che lei lo legga. Ho
bisogno che qualcuno legga lo scempio che ho fatto della vita di una
innocente. Ho bisogno di essere sgravato da questa colpa. Non riesco più a
sorridere. E Nina, conciata com’è, non mi è d’aiuto. Anzi devo essere io ad
aiutare lei. Tra una settimana la visiterà un medico che viene in paese una
volta al mese. Speriamo possa dirci qualcosa.
Chiudo il diario e lo ripongo nel mio zaino mentre le note finali della Tosca
sfumano nella casa dalle volte a stella. Ripongo il vinile nella sua custodia,
chiudo finestre e porta, prendo la sua bici e mi avvio in direzione della
campagna. Sono le 5 del pomeriggio e fa molto caldo. La salita leggera che
decido di percorrere, mi sfianca. In realtà non ho una meta precisa, ma tant’è
che, 20 minuti dopo che sono uscita dalla casa, mi ritrovo davanti al cancello
del cimitero. Ci arrivo come in trance, incoscente. Poso la bici, entro, e mi
dirigo verso la cappella di famiglia. L’odore dei fiori quasi tutti marciti del
cimitero si mescola a quello di pochi fiori nuovi. Quell’odore tipico di
cimitero di certo non mi aiuta ad uscire dallo stato di trance in cui sono
77
entrata. Mi siedo per terra con le gambe incrociate, a destra ho la tomba di
Nina e Fulvio, a sinistra quella di Tommaso, sempre a destra, quella di
Filippo. Sono tutti raccolti qua i miei antenati. Tolgo il diario dallo zaino e
comincio a leggere ad alta voce rompendo il silenzio secolare del cimitero:
18 gennaio 1918
Questo medico mi ha suggerito di assecondare Nina nelle sue fissazioni. Io
non lo trovo giusto, ma se può servire ad aiutarla lo farò.
Certo che funziona, basta assecondarla, e lei è raggiante come una Pasqua.
A volte mi rivolgo a lei chiamandola Teresa, lei cambia un po’ il tono di
voce, si atteggia a smorfiosetta, riesce anche a cambiare le espressioni del
volto. È incredibile sembra proprio un’altra persona. È pazzesco come
cambia quando andiamo a letto e lei è Teresa. È come avere due donne.
Certo che, se non fossi cosciente che questa di Nina è una malattia, non è
che poi per me sia tanto male!
Le ho detto (a Teresa) di dire a Nina di scrivere i suoi pensieri sul suo diario
come faceva una volta, cioè su questo diario. Questa è una mia pensata.
Magari riesco meglio a capire cosa le passa per la testa!
La verità è che sono angosciato per tutte queste disgrazie, penso che sia la
giusta punizione per quello che ho fatto a quella contadina. Potessi
rintracciarla... magari le ho pure dato un figlio con la violenza. Che orrore.
Che bestia d’uomo. Che tormento dell’animo. Appena Nina sta meglio,
parto. Ho bisogno di cercarla per essere sicuro che sta bene e per scusarmi.
Non passa notte che non sogni quella situazione, con poche orrende varianti.
Mi sveglio di soprassalto. A volte sogno che durante l’atto qualcuno mi
pugnala alla schiena. Sento la lama che mi penetra dentro le carni, il sangue
che zampilla a fiotti e ringrazio Iddio per questo, mi sento sollevato mentre
sto per morire sereno ed in pace.
Leggo tutto d’un fiato. Mi fermo a pensare svariate volte a quello che sto
leggendo, ad immaginarmi l’angoscia di Fulvio, lo vedo lì in foto. È un
vecchio nonnino e di certo uno non può immaginare la sua vita da quella
foto. Lo guardo e gli rivolgo la domanda: “sei in pace ora? Di’ sei in pace?”.
Di tanto in tanto guardo anche la foto di Nina. Non sorride. Nè è triste. Ha
una espressione composta. In un’occhiata fugace, ho l’impressione di vedere
l’immagine di Nina che fa l’occhiolino e ride. “Minchia” mi dico “ho le
traveggole!” La riguardo e rivedo l’espressione composta di sempre.
Alle sette di sera sono ancora qua con i pensieri che, ad ondate, mi
propongono continue emozioni. Arriva il custode, un uomo grasso sulla
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cinquantina e mi invita ad uscire. Faccio in tempo a leggere questa ultima
frase:
20 gennaio 1918
Ma io, chi amo? Nina o Teresa?
Poi ripongo il diario nello zaino e, uscendo, rivedo per un momento la faccia
di Nina nella foto che fa un occhiolino divertito. Non mi volto a riguardare
ancora come ho fatto la prima volta e, finalmente, ritorno sulla strada di casa
mia camminando di fianco alla bici che, docile, mi segue senza fare
domande. E come può un essere inanimato fare domande? E come può
invece farle un essere animato? Quella scintilla. La vita. E poi la morte.
Pensando alla vita ed alla morte mi vengono in mente le parole della canzone
Il suonatore Jones di De Andrè.
“Libertà l’ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro,
a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato.”
E nei frammezzi, tra una strofa e l’altra, mi viene da pensare: “Un bel poderoso ed
autentico pugno ha fatto riacquistare a Tommaso la sua dignità di uomo. Al contrario
Fulvio ha passato il resto della sua vita a cercarla la sua dignità di uomo. Di certo non
gli è bastato il morso di un cane che voleva difendere la sua padrona.
“Libertà l’ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo
per un compagno ubriaco.”
79
15. LA LISTA DEI PIACERI
La storia fra Matteo ed Anna è durata una sola notte, lasciando nella
disperazione Anna che ha passato svariate notti insonni e parecchi giorni ad
esaurire gli amici con le sue pene d’amore.
Carla, durante il suo ultimo incontro con Paolo, ha appreso del suo nuovo
stato di single. Straordinariamente euforica, comincia a fargli una corte
spietata. Carla, detta anche Truzza, sarebbe rimasta nel paesello e questo a
Paolo sarebbe bastato per amarla tutta la vita (sigh!).
Paolo non sarebbe stato in grado di seguire me nella mia esplorazione della
vita: troppo cervellotica, troppo delocalizzata. Troppo strana per i suoi gusti.
L’ho saputo da subito dalla stessa Carla, ma non me la sono presa a male,
anzi sono felice di avere ora via libera con Matteo (Albino a parte).
Lo scritto di matematica è passato indolore.
Questo pomeriggio ho un appuntamento con Nanà. Voglio parlare con lei
dell’incontro della sera prima con Albino. È stato così “strano” mi ha detto,
ma non capisce quella sensazione di “strano” o di “estraneo” che ha provato.
Io me la rido tra me e me, ma non dico niente a tal proposito. Dico solo: “È
sempre strano la prima volta, poi vi conoscete da tanto tempo e quando
cambia il tipo di rapporto è normale provare sensazioni di stranezza” e lascio
che la natura faccia il suo corso.
Ho passato ancora 15 giorni di studio e di passione e di passato nella casa
dalle volte a stella. Ho ripetuto tutto il ripetibile. Ho completato la mia tesina
sui Malavoglia del Verga che devo discutere il giorno degli orali. Ho letto
per intero il diario di Nina. L’ho riletto. Ed ho avuto conferma che il mio non
è stato proprio un pazzo sogno. Praticamente era andata quasi così come il
mio sogno mi ha rivelato.
Poi arriva il giorno degli orali.
Mi alzo dal letto perplessa pensando: “bene oggi devo dimostrare al mondo
di essere matura” e, carica e sicura di me stessa, mi avvio a scuola
canticchiando “lo sapeva Neruda che di notte si suda, ma la notte no!” per
non tradire l’emozione. In realtà me la stava facendo addosso per la paura.
Mi hanno chiesto perchè la donzelletta portasse il fascio di erbe in mano, ho
risposto “per gli eroi inutili del 1917” pensando al fascio di fiori lasciati da
D’Annunzio sul tumulo degli ammutinati.
Nessuno dei professori ha capito (ovvio! Nessuno di loro è nella mia testa) e
per fortuna nessuno ha indagato sul perchè della mia risposta. Comunque mi
sono ripresa immediatamente dicendo, magari per gli animali o per il fuoco,
guardando i commissari d’esame con occhi indagatori...mentre penso tra me
e me “ma che cavolo di esame di maturità è mai questo??”
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In seguito agli avvenimenti dei giorni precedenti l’esame di maturità ed in
seguito allo stesso esame, mi trovo costretta a rivedere la sua lista dei piaceri.
Ma come? Non vi ricordate più? La mia lista. Ve l’ho descritta all’inizio del
libro. Ora ve l’aggiorno.
Piacere numero 1: Peppo Tenti-muzzu non c’è più. E qui una fitta di dolore
mi riporta alla realtà di qualche settimana prima. Con chi avrei ora dissertato
del giusto e dello sbagliato, dell’amore, dell’amicizia, della vita, dei sogni e
di tutto quello che mi passa per la testa? Mi balena una idea....ma certo che
no! non posso fare l’errore di mia nonna e parlare di tutto questo con Teresa.
Il rischio è veramente stato grosso. Inoltre, nei giorni successivi, non ho
rivisto più Teresa in sogno ed io, di certo, non so come “evocarla”. Dunque il
punto rimane aperto e per il momento lo escludo dalla lista dei piaceri. Meno
uno. Ne restano altri nove.
Piacere numero 2: e cosa avrei raccontato ora a Nanà del Piacere uno? Meno
due. Ne restavano altri otto.
Piacere numero 3: il sesso. Automaticamente diviene il numero uno. Paolo
non è poi necessario al perseguimento di questo piacere!
Piacere numero 4: gli amici, le feste e tutto ciò che fa divertimento. Non sono
sicura che molte delle persone conosciute fino ad oggi rimarranno mie
amiche. Ma sicuramente ne incontrerò delle altre. Questo diviene il piacere
numero 2.
Piacere numero 5: le canne sulle spiaggia dopo aver fatto il bagno la sera
davanti al falò mentre qualcuno strimpella una chitarra, qualcun’altro stona,
qualcun’altro ancora si infratta. E chi ce le toglie? L’estate è appena
cominciata. E questo è numerato con il 3.
Piacere numero 6: il teatro. Le prove sono finite. C’è stata la prima e anche la
seconda rappresentazione ufficiale e tutto si è consumato in due serate di
grandi applausi e gioia per la riuscita del melodramma. Ma ora il sipario si è
chiuso e quindi anche questo piacere viene escluso dalla lista.
Piacere numero 7: chissà se Nanà mi accompagnerà, durante i miei sporadici
rientri, ad analoghe escursioni campagnole. Io sto andando a studiare fuori e
quindi non ci avrò più tanto tempo per andarmene a bighellonare con Nanà
raccogliendo piante come novelle donzellette. Via anche questo piacere.
Piacere numero 8: di sicuro una bici ce l’avrò sempre. Magari sfreccierò per
altre campagne o mi inerpicaherò per sentieri di montagna. Già mi vedo,
madita di sudore, con il manubrio che va a destra e a manca sotto la fatica dei
quadricipidi. Questo diviene il piacere numero 4.
Piacere numero 9: Albino ha organizzato la sua ultima seduta spiritica circa
un mese prima di mettersi a studiare seriamente per gli esami. Il giorno dopo
aveva liberato dai drappi neri la stanza adibita all’uopo, ha aperto le enormi
finestre e finalmente la luce del sole ha invaso la stanza. Lì Albino ha
studiato durante tutto il periodo precedente l’esame. All’iniziò, mi ha
confessato, si è autosuggestionato, gli pareva di sentire delle voci provenienti
dai muri della stanza, poi lo studio della storia ha completamente pervaso la
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sua mente. Non ci sarebbero state più sedute spiritiche nè per lui, nè per
Paolo, nè per me. Non ci divertivano più. Piacere numero 9: scartato.
Piacere numero 10: avere i nove piaceri di cui sopra da godere e da
raccontare. Ma me ne sono avanzati solo 4! Troppo pochi per un animo
godereccio e pieno di vita quale il mio. Urge aggiornare la lista. Ma non mi
dispero, ho l’estate l’intera per pensarci su. E poi, ne avevo di materiale! In
questi giorni ne ho imparate di cose, ne ho vissute di situazioni!
Dopo poco più di una settimana dalla fine degli orali abbiamo saputo i
risultati dei nostri esami di maturità. Con il mio 52/60 sono ora pronta a
sfidare la vita. Io, Tella, di nome, mi chiamo Francesca.
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16. TERESA E NINA
Teresa e Nina erano state la stessa persona. Nina, quando era Teresa, aveva
la consapevolezza che esisteva Nina ma la proiettava fuori di sè e Nina,
quando era Nina, aveva la consapevolezza che esisteva Teresa ma la
proiettava fuori di sè. Di fatto, essendo la stessa persona, l’una sapeva tutto
dell’altra e viceversa.
Nina aveva ucciso la “sè stessa” Teresa buttandola figurativamente nel pozzo
dove quest’ultima aveva passato giorni angoscianti fino a crepare perchè
dimenticata da tutti. Non alimentata dalla mente di Nina, non assecondata
dalle persone che avevano condiviso la malattia di Nina, era spirata così,
dimenticata da tutti, soprattutto dalla sua stessa produttrice. Quella
guarigione ebbe un che di miracoloso. Dopo la morte metaforica di Teresa,
Nina non ricordò più niente dell’altra stessa. Ma non volle mai riaprire il suo
diario, quel diario per il quale aveva tanto tribolato il suo unico figlio
maschio che anche per quello, ma soprattutto per dare un altro senso alla
propria vita, aveva oltrepassato addirittura un oceano. Quel segreto non era
mai uscito dai cassetti della scrivania di noce nella generazione precedente.
Ne aveva flebile memoria Tenti-muzzu ed qualche altro anziano del paese
che, avendo più o meno la sua età, aveva condiviso quegli anni assurdi. Il
tempo però aveva aiutato a sbiadire quelle memorie, fino a cancellarle quasi
del tutto, fino a relegarle nelle sue pieghe lasciando posto a memorie più
recenti. Quelle memorie erano emerse perchè volevano avere storia. Quelle
memorie hanno ora la loro storia.
Fine prima parte
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PARTE II - MALEDETTO BASTARDO
"Vasto è l'uomo, troppo vasto, io lo farei più ristretto"
Fiodor Dostoevskij, nei suoi Dia
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17. 5 NOVEMBRE 1917: MATTINA
La sottile ma resistente corda corre dritta da un frassino ad un pioppo bianco.
La distanza fra i due robusti alberi è di 10 metri circa, quel tanto che basta
per stendere il bucato di una intera settimana.
Marta ha le dita congelate, strizza panni e lenzuola e stende. La cesta è
ancora stracolma quando si ferma un attimo per proteggersi le mani con le
calde maniche del pesante maglione di lana che indossa sotto il grembiule.
Le quali allungate al massimo arrivano fino alle falangi delle dita donandole
un momentaneo sollievo, ma non appena ella alza le braccia per stendere
l’ennesimo panno, le mani le si riscoprono nuovamente e le si ghiacciano
sempre più.
“Il prossimo maglione che farò, pensa, dovrà avere le maniche più lunghe di
almeno 15 centimetri! Per le piume di quell’oca della Renza che razza di
freddo.”
“Fottuta miseria fottuta” continua ad alta voce “mi si sono pure rizzati i peli
delle ascelle!”
Perchè si, nonostante le brutte, anzi, tragiche avventure degli ultimi tempi,
Marta ha conservato uno spirito abbastanza gioviale che le permette di
barcamenarsi in quegli anni di guerra tremenda.
Il naso rosso dal freddo. Un rivolo trasparente le cola fino al labbro
superiore. Si asciuga con la manica del maglione e tira su col naso storcendo
un poco il labbro per meglio asportare la gelida gocciolona trasparente.
“Fottuta miseria, fottuta miseria, fottuta miseria...”, non le esce altro dalla
bocca in quella fredda e fosca mattina e non ha nessun altro pensiero per la
testa se non quello di finire alla svelta quella commissione.
Marta non naviga nell’oro. E come avrebbe potuto in quell’epoca di stenti?
Però si sente fortunata. Ha infatti una vecchia zia suora in un convento là
vicino che periodicamente le passa dei gomitoli di lana ricavati scucendo
altri manufatti di lana oramai vecchi. I gomitoli sono ovviamente multicolori
essendo il risultato di lane diverse, ma se non altro la vecchia zia suora si
sforza di unire fili aventi più o meno dello stesso spessore. Il risultato non è
malvagio, tutto sommato. Marta ci aggiunge un tocco di fantasia e riesce,
nelle sere solitarie passate accanto al camino scoppiettante, a sferruzzare
belle e arzigogolate trame per i suoi maglioni di lana.
Marta vive da sola. Marta non ha più nessuno da quando la guerra le ha
portato via suo marito un anno prima.
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Il ricordo del drammatico giorno in cui ricevette il telegramma con la notizia
della morte del suo Giorgio è ancora vivo e le lacera il cuore ogni qual volta
si ripresenta prepotente in cima ai suoi pensieri.
Figli non ne hanno avuti. Non hanno fatto in tempo. Giorgio era stato
chiamato alle armi un mese dopo il matrimonio. Giovane vita spezzata in
nome della patria.
I parenti continuano a pregarla di trasferirsi a casa di qualcuno di loro, dalla
sorella, dal fratello, dalla mamma, ma ella non ne vuole sapere, aveva
Ringhio con , dice, che l’avrebbe difesa dai bruti.
Ringhio è un bastardino di taglia media, dal musetto simpatico, un po’
magrolino, forse, ma di buona compagnia ed assolutamente fedele alla sua
padrona.
Nell’aia razzolano 9 galline, 1 gallo, 2 oche di cui una di nome Renza e 7
pulcini. Se non altro ha sempre uova fresche a sua disposizione. Per il resto,
cura un orto abbastanza grande nel quale ha piantato di tutto: dalle zucchine
al prezzemolo, dalle melanzane al basilico, dai fagiolini alla menta. Ha anche
pomodori durante l’estate. Vengono su belli, grossi e rossi e sono talmente
abbondanti che alla fine lei li vende per smaltirli e per comprare, con il
ricavato, la farina per fare il pane. Allo stesso scopo vende anche dalle 5 alle
6 uova al giorno al bazar del paese.
L’impasto del pane lo prepara lei, lo fa lievitare la notte e poi la mattina
presto porta le pagnotte nel cesto della bicicletta dal fornaio, l’unico del
paese che dista circa 2 km da casa sua. Aspetta la cottura e ritorna a casa
contenta con le pagnotte fraganti che avrebbe consumato nei successivi 15
giorni!
Il suo giardino ospita anche un albero di mele ed uno di pere che in
primavera sfoggiano delle chiome fiorate spettacolari. Una goduria per gli
occhi.
Al di fuori del suo giardino di estende la campagna con le proprietà divise da
fossi e scoline. In quel mese i mezzadri lavorano i fossi al fine di scolare le
acque piovane e di eliminare i ristagni là dove si formano. Fossi, fossatelli,
fossi laterali (le scoline appunto) formano una vera e propria rete microidraulica e si immettono tutti nel canale circondario detto “re dei fossi”. La
gerarchia dei fossi dipende dalla loro pendenza e della loro profondità. Il
limo tolto da essi viene gettato nei campi perchè ritorna utile alla loro
concimazione.
Ma quel giorno di mezzadri in zona non ce ne sono.
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“Avranno finito il lavoro in questi poderi” pensa Marta e ritorna alle sue
faccende.
Ha preso l’abitudine di vedere mezzadri in lontananza con vanghe, vanghetti,
badili, picconi e zappe e l’assenza di quel giorno le pare inusuale.
Questa mattina sono già le dieci ed il sole non decide a farsi spazio tra le
nuvole. A dire il vero è evidente che il sole oggi non spunterà. È veramente
cupo il cielo, ma senza minaccia di pioggia, per questo si è decisa a stendere
il bucato. Una giornata veramente uggiosa con la nebbia in agguato. Magari
un po’ di vento avrebbe asciugato i suoi panni quel tanto che bastava per farli
sgocciolare, poi avrebbe portato il tutto in casa e acceso un bel fuoco
nell’enorme camino che prende una intera pareta della cucina.
Per prevenire eventuali mal di testa dovuti al freddo, Marta si è legato sulla
testa un fazzoletto di colore rosso a pallini bianchi. Lo ha annodato dietro la
nuca.
Si ferma una seconda volta per scaldarsi le mani con il fiato, si cala giù il
fazzoletto per meglio coprirsi le orecchie. Ringhio continua a gironzolarle
attorno scondizolando e inseguendo di tanto in tanto qualche gallinella che
gli si avvicina.
Ma quando incappa in Renza, Ringhio impazzisce.
“Bau bau bau.”
“Quaaaaaaaaaaaaaaaa” risponde Renza agitando le misere alucce senza mai
riuscire a staccarsi dal suolo! E come avrebbe potuto farlo, povera bestia
ancorata a terra da un culo grosso e basso e da due zampe palmate che si
attaccano al terreno come ventose. Marta la osserva spesso e altrettanto tante
volte osserva Renza con i suoi miseri tentativi di spiccare un ipotetico volo.
Non che Marta abbia un culo basso...intendiamoci. Un po’ grassottella però
lo è, ma di quel grassottello contadino che fa libidine al cento per cento degli
uomini. Morbidezza allo stato puro. Rotondità ben distribuite. Da buona
contadina emiliana. Colorito sano e tanta voglia di vivere e di ridere.
Perchè si, nonostante la tragedia ed il dolore della perdita di suo marito e di
metà della sua famiglia, Marta non ha perso, oltre allo spirito gioviale, la
speranza in un futuro migliore. Nonostante non abbia più una giovanissima
età si sente ancora una ragazzina curiosa del mondo e della natura e si
stupisce ogni volta che un pomodoro si materializza e si ingrandisce nel suo
orto. La sua giovinezza interiore è espressa al mondo che la osserva dai suoi
occhi vivaci che non riescono a stare fermi un attimo e si muovono in
continuazione come alla ricerca in ogni momento di qualcosa di nuovo di cui
l’occhio possa appropiarsi.
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18. 5 NOVEMBRE 1917: POMERIGGIO
Ed è proprio con la coda dell’occhio che quel pomeriggio percepisce un
movimento dietro il castagno che apparteniene alla sua proprietà.
È giustappunto tornata nell’aia per recuperare la cordata di biancheria stesa
a sgocciolare.
“Fottuta miseria fottuta. Non sono asciugati neanche un po’.”
“Se non altro non gocciolano più.”
“Fottutissima miseria.”
Shhhhhhhhhhhhhh
Un fruscio.
Un attimo e lo sconosciuto le piomba addosso tappandogli la bocca con una
mano e la trascina di un paio di metri verso casa.
Lei sta componendo il seguente pensiero:
“Ma chi c’è là!”
Ma non fa in tempo a completare il pensiero.
Il pensiero successivo sarebbe stato probabilmente:
“Chi è lei scusi? Ha bisogno di qualcosa?”
Ma non fa in tempo a comporre neanche questo, nè tantomento ad esternarlo.
Non ha neanche il tempo di avere paura.
Lo sconosciuto, pantaloni laceri da milite, barba ispida ed incolta, fazzoletto
legato lercio legato attorno alla gola, allenta un po’ la presa e lei riesce ad
emettere un urlo di aiuto immediatamente risoffocato.
Ma tanto chi avrebbe mai potuto sentirla? Non c’è nessuno nel raggio di 1
chilometro. Chi e come avrebbe potuto aiutarla?
Ringhio è distolto dal suo inseguimento di Renza e si precipita a ringhiare
contro lo sconosciuto militare; ringhia, ringhia ed il suo ringhio rimbomba
nella testa di Marta.
Renza si arresta stupita “Quaaaaaaaaaaaaaaaaa?”
“Fottuta miseria. Mordi Ringhio. Mordi” prega Marta fra sè e sè.
Ma Ringhio non si muove. Ringhia e basta. In realtà, povero cucciolo, è la
prima volta che si trova di fronte ad una situazione del genere, mica è un
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cane da difesa lui. Nella sua testa canina probabilmente si stupisce di quella
situazione anomala ed il suo istinto di animale gli suggerisce che è necessario
adottare un comportamento mai provato prima d’ora. L’istinto lo porta ad
attaccare, ma l’attacco in lui si concretizza con un ringhio alzato di appena
mezzo tono, continuo e martellante. L’unica cosa che continua a fare in
quella situazione di difficoltà percepita dai suoi sensi di cane bastardino.
Riceve un calcio dallo sconosciuto che lo fa balzare indietro di un metro, il
suo istinto lo porta a ringhiare ancora più forte ma da più lontano.
Nel mentre, i pensieri di Marta si accavallano con una rapidità spaventosa
Prima pensa: “vorrà qualcosa da mangiare.”
Poi pensa: “no, me lo avrebbe chiesto.”
Poi pensa: “vorrà rubare...”
Poi pensa: “ma questa non è una reggia, è una misera casa...”
Poi pensa: “oddio, fottutissima miseria fottuta.”
Spalanca e tiene sbarrati per la prima volta i suoi occhi e trattiene il respiro
per un tempo infinito.
Poi all’improvviso da un morso alla mano lercia del lercio sconosciuto, si
divincola e corre verso casa, ma non fa in tempo a barricarvisi dentro,
poichè, mentre sbatte la porta per chiuderla, il piede del militare si interpone
tra la porta stessa ed il telaio e la rispalanca con prepotenza. Entra in casa. E
le cambia la vita.
Ringhio, che ha inseguito lo sconosciuto, entra pure lui in casa sempre
ringhiando con la coda tesa.
Marta continua ad urlare:
“vattene via” gli urla e con ciò gli lancia contro tutto quello che le capita tra
le mani: una pentola che lui fa in tempo a schivare, una bottiglia che si
fracassa contro il muro e i cui frammenti invadono la stanza intera.
Lo sconosciuto ha i capelli folti tutti scompigliati e sporchi. Anche il viso è
sporco. E sporchi sono anche i suoi vestiti. Puzza.
Lo sguardo è quello di un uomo folle. Gli occhi roteano impazziti. Non ha
ancora pronunciato una parola. La corporatura è possente, avrebbe potuto
essere anche un bell’uomo, ma è visibilmente deperito ed impazzito per
chissà quale ragione.
Sembra febbricitante, trema, non riesce a stare fermo ma ha abbastanza forza
per serrare Marta contro il camino per poi sbatterla sul tavolo infarinato.
Marta, divincolandosi, perde il fazzoletto dai capelli.
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Ringhio ringhia.
“Ti prego, ti prego, no, nooooo, nooo” urla Marta scuotendo la testa e
impregnandosi i capelli di farina.
Anche i capelli del militare si infarinano.
Marta, nel tentativo insperato di difendersi, tira calci senza mirare, alla cieca,
uno dei calci spacca il labbro del militare che prende a sanguinare da un lato.
Allora lui la prende per i capelli e la gira con violenza di spalle. Con il suo
corpo la pressa contro il tavolo. I polmoni di Marta accusano il suo peso e lei
pensa di non riuscire a respirare più e che vuole morire in quell’istante. Con
l’ultimo scampolo di energia scalcia all’indietro, ma riesce a colpire solo
l’aria satura anch’essa di farina.
Una mano del militare tiene bloccato il braccio destro di Marta, l’altra mano
traffica all’altezza del cavallo dei suoi lerci pantaloni. Poi solleva grembiule
e maglione lungo le spalle di Marta verso la nuca. Le goccioline di sangue
dalla bocca cadono sulla schiena di Marta, qualche goccia se ne va ad
impastarsi con la farina. Le gocce di sangue sono calde, Marta sente
addirittura che bruciano come brucia una sigaretta spenta sulla pelle. Il
maglione riscivola lungo la schiena.
Marta cerca nuovamente di divincolarsi, me le sue energie sono oramai
troppo deboli e ciò permette al militare di sollevare ancora una volta e senza
troppa fatica la gonna lunga e pesante di lana, scostare sul lato destro le
mutandine bianche di lei ed onorare la sua mascolinità in 6 secondi e 23
decimi. Tempi da animale della savana. Tempi da brutalità.
Sporco ora anche di sangue e farina, il militare abbandona Marta che nel
frattempo rimane rannicchiata e gemente sul tavolo e comincia a rovistare
per la casa. Trova infine indumenti appartenuti al marito, si cambia
rapidamente e corre fuori sempre inseguito da Ringhio. Quando è nell’aia
finalmente Ringhio capisce di dover fare qualcosa di più per spaventare lo
sconosciuto e si avventa alla sua gamba. Ovvio che il militare non fa fatica a
scrostarselo da dosso dandogli un secondo calcio che gli scrolla di dosso una
nuvola di farina ed urlandogli contro (furono queste le uniche parole
pronunciate dallo sconosciuto):
“Pussa via! Maledetto bastardo!”
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19. I PENSIERI DI MARTA
...
“Maledetto bastardo...sniff...maledetto....maledetto....maledetto...maledetto..”
Queste parole pronuncia Marta con i denti serrati in un continuo senza senso
mentre lacrime copiose e ardenti le scivolano giù lungo le guance
rinforzandosi a vicenda per poi gocciolare con un non rumore sordo sulla
poca farina rimasta sul tavolo già impiastrata di sangue.
Tic...tic...tic..titic...tic.............tic...titic...tic.
Il tempo ha pietà di lei, non vuole farle vivere il dolore della consapevolezza
e, insieme alle lacrime, d’improvviso smette di scorrere. Vuole congelarsi,
congelare i pensieri di Marta e le lacrime ed il fuoco ed il ringhio di Ringhio
che mesto sta per tornare dalla padrona. Tutto si ferma fino a quando la luna
con una tenue luce non illumina la cucina ed un freddo pungente entra dalla
porta aperta e scuote Marta da suo torpore. È a questo punto che il tempo
riprende a scorrere e la consapevolezza crudele le si presenta davanti per
chiedere il conto.
Si fa coraggio, ravviva il fuoco con legna secca nuova, prende con un
bastone i vestiti lasciati dal maledetto bastardo e li butta nel fuoco, si mette
una coperta addosso e con gli occhi sbarrati li guarda bruciare fibra dopo
fibra. I capelli impastati, stopposi. Se ne sta così imbambolata per ore
cercando di elaborare l’accaduto, di capire cosa è successo, di dare una
spiegazione a quella merda di vita che continua a graffiarla con ferite
profonde che difficilmente si rimargineranno. La sua giovialità ora è andata
perduta e chissà dio se l’avrebbe mai più recuperata.
Ora che la porta è chiusa e con essa il mondo al di fuori di lei, ora che il
fuoco è ravvivato e riempie di calore, di luce e di scoppiettii la stanza, ora
non sa cosa fare. Soprattutto non sa cosa pensare. Prima di quel giorno
pensava di avere la scorsa dura, ora sente che il germe della follia da sempre
tenuto sotto controllo con una sapiente alchimia di buon umore e razionalità,
si è liberato e vaga dentro la sua testa in cerca di impossessarsene.
Marta ripercorre con i ricordi quanto successo 20 anni prima a suo padre. Un
ricordo lucido di follia altrui. Una paura lucida di follia propria.
Suo padre internato in un manicomio, suo padre divenuto pazzo perchè
messo in un posto di pazzi. Suo padre impiccatosi perchè la pazzia altrui non
poteva sopportare. Lei no, non sarebbe finita in un manicomio come suo
padre, lei avrebbe fatto prima. Anzi l’avrebbe fatto subito, immediatamente.
91
Paura di diventare folle. Paura di non sapere più controllare i propri istinti e
di perdere i numi della ragione, paura di essere costretta a vivere una vita di
animale, come vi fu costretto suo padre per molti anni prima che impazzisse
davvero.
Così prende un qualcosa che possa servirle da corda e la prima cosa che le
capita tra le mani fu la cintura di stoffa del grembiule che, nella lotta
insperata, è andata caduta sul pavimento. Se la stringe attorno al collo e cerca
di soffocarsi. Gli occhi le escono di fuori e diventa viola.
“Stringi non mollare la presa” pensa.
“È questione di attimi.”
Stringe Marta, stringe con tutte le sue forze, tirando la cintura di stoffa da
tutti e due i lati, ma poi eha un sussulto nel basso ventre, come una
premonizione e molla la presa.
Rimane tutta la notte accanto al fuoco, poi ai primi raggi del sole si prepara
un bagno caldo per lavarsi da quel passato recente e finalmente riesce a
rilassare le candite membra.
Da quel giorno Marta non avrebbe più fatto le pagnotte a casa e non avrebbe
più mangiato pane.
92
20. 4 AGOSTO 1918
Marta, mia mamma, ha imparato ad amarmi a partire dal quarto mese di
gravidanza (così mi ha raccontato), prima di allora mi avrebbe strappato via
dalla sua pancia, se avesse saputo come fare.
Poi un pò alla volta ha cominciato a piacerle l’idea che sta creando qualcosa
che prima non esisteva. Questa idea la lusinga sempre più fino ad arrivare al
punto che verso il settimo mese ha oramai dimenticato, anzi totalmente
rimosso, il perchè avesse in pancia una creatura del tutto nuova.
Una capacità incredibile di elaborare la vita, Marta. Una capacità incredibile
di inventarsi una vita nuova ogni volta che le succede qualcosa di terribile.
Oramai il “maledetto bastardo” le sembra una apparizione degna
dell’arcangelo Gabriele. Lei ora avrebbe avuto finalmente un bambino e
l’avrebbe chiamato Giorgio come suo marito.
All’ottavo mese è oramai in stato di grazia. Sua madre, che da quel fatidico
giorno è andata a vivere con lei, inizialmente non riesce a farsene una
ragione. Non capisce come ella possa essere felice per la disgrazia che le è
piombata addosso, ma alla fine si lascia contagiare dalla gioia di Marta ed è
così che, quando il 4 agosto 1918 a mezzogiorno in punto io, cioè Giorgio,
faccio capolino alla vita, per tutta la famiglia è una grandissima festa.
“Madonna quanto è bello questo bimbo!”
“O Gesù sembra un angelo!”
“Mamma che occhi!”
Questi sono i commenti che mi hanno fatto appena nato. Effettivamente sono
stato proprio un bellissimo come neonato e bello e sano mi sono mantenuto
negli anni successivi. I miei occhi grandi e neri sono magnetici a detta di mia
mamma. Impossibile non guardarmi. Impossible distogliermi lo sguardo.
Dalla madre ho preso di sicuro l’energia positiva e la gioia di vivere, dal
padre, almeno nella memoria confusa della madre, l’aspetto fisico.
Di sicuro fisicamente a mia madre assomiglio poco, quindi devo per forza
assomigliare al padre. Occhi neri e grandi vi ho già raccontato. Capelli
foltissimi e neri. Sguardo intenso ed indagatore. Il sorriso però è tutto della
mamma.
Sono cresciuto vispo e, a dire del maestro, intelligente. Avendomi attirato le
simpatie di tutta la famiglia e di tutte le persone che mi sono state attorno, ho
avuto una infanzia che, eccetto qualche eccezione, si può riassumere come
felice. Mia madre, aiutata praticamente da tutti, è riuscita a farmi studiare e
così tra mille lacrime e commozioni un bel giorno valigia in mano, speranza
93
nello sguardo e nel cuore, ho preso il treno per Bologna per studiare
all’università.
In tutti questi anni, a memoria mia, un solo tarlo mi rodeva continuamente la
mente. E nonostante i miei sforzi di sapere non sono riuscito ad ottenere
spiegazioni da mia madre.
Ma perchè mai porto il cognome di mia madre?
94
21. UN INASPETTATO INCONTRO
Sono già passati quattro anni da quando Francesca è arrivata a Bologna. Tra
alti e bassi, gli studi avanzano. Presto dovrà pensare alla tesi.
Oramai quasi nessuno la chiama Tella. Ora è diventata la Franci oppure la
Chicca. A lei non piacciono tanto questi nuovi nomignoli, soprattutto non le
piace l’articolo davanti ai nomi, ma tant’è che è stata costretta a tenerseli.
Non c’è verso a farsi chiamare Francesca (o almeno Tella, ci è nata con quel
soprannome!)
In via Zamboni, 44 c’è una biblioteca autogestita. In realtà non è una
biblioteca, ma una sala studio.
I muri sono completamente imbrattati di graffiti. A seconda della morale con
la quale li si guarda possono risultare di volta in volta sconci e dissacratori,
veri e ironici. Scritte inneggianti a lotte studentesche di ogni colore politico.
Simboli di ogni sorta: dalla falce e martello alla A inscritta in un cerchio
degli anarchici. Su tutto primeggia il ritratto, onnipresente, di Che Guevara.
Il bello di questa sala studio è che la si può frequentare a qualsiasi ora del
giorno e della notte: è sempre aperta e gli studenti di tutte le facoltà e di tutte
le estrazioni sociali si rispettano abbastanza, per cui c’è il silenzio necessario
a concentrarsi tra una sigarettra e l’altra per avanzare con lo studio della
materia dell’esame in questione.
Di bolognesi nella sala studio, neanche l’ombra. Tutti fuori sede. Già i
fuorisede. Sembra una etichetta, tipo “terroni”.
Perchè ci sono tre categorie di studenti:
-i bolognesi che abitano con le famiglie in città;
-quelli che abitano nel raggio di 300 km dalla città che vivono in
appartamenti insieme e che tutti i sacrosanti venerdi tornano dalle famiglie.
Francesca li chiama: i feriali;
-i fuorisede ovvero i terroni, quelli che distano più di 400 km e che i fine
settimana non possono tornare dalle famiglie nè tanto meno possono avere
l’invidiato piacere di portarsi i contenitori ermetici colmi di succulenti cibi
preparate da mani amorevoli.
Tra i bolognesi ed i feriali, Francesca odia di più i feriali, perchè il venerdì
arrivano a lezione con le valigie già pronte per prendere il treno e la
domenica sera arrivano con tutti i barattoli e barattolini di sugo, insalate e
cibi vari preparati in contenitori ermetici di cui sopra dalle mamme sempre
amorevoli come le loro mani. Tutte le domeniche li incontra sull’autobus di
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ritorno dal centro o da qualche festa o da qualche amico o dal cinema. Sono i
feriali che le fanno venire nostalgia di casa. I bolognesi no, perchè almeno il
venerdì non si presentano in aula con le valigie.
I fuorisede no, niente valigie settimanali, niente contenitori ermetici delle
mamme, niente treni. I fuorisede vanno a casa 3 volte l’anno:
Estate, Natale e Pasqua in treni lerci e puzzolenti. Stanno in piedi per tutta la
notte perchè non c’era posto e, sopraffatti dalla stanchezza, dormono stesi
per terra o dentro al cesso del treno o nel passaggio tra una carrozza e l’altra,
nel cosidetto “baratro”. Una volta Francesca fece il viaggio in un vagone
postale, senza poltrone: eppure aveva pagato un biglietto di un Intercity.
D’abitutine Francesca va a studiare in via Zamboni 44 quando vuole fare
tardi. Luglio è caldo quest’anno e Bologna “col seno sul piano padano ed il
culo sui colli”, per dirla alla Guccini, letteralmente trasuda.
La sera è afosa ed i bolognesi (residenti e non) cercano aria fresca sui colli.
Francesca si muove in bicicletta in città. Naturalmente. Per andare sui colli
bisogna almeno avere un amico o una amica con un motorino. E nel giro di
Francesca non ce ne sono tanti di amici con il motorino. Autobus, bici e piedi
sono i mezzi più comuni di trasporto.
Ha un esame tra pochi giorni e le restanti sere e notti sono consacrate allo
studio. A quello studio ad immersione totale. Folle. Come se non esistesse
nient’altro nella vita. Nè amici, nè svago, nè politica, niente di niente esiste,
solo lo studio la settimana prima dell’esame. Gli unici interlocutori ammessi
sono quelli che preparavano lo stesso esame. Se non altro per condividere la
stessa strizza, la stessa paura di sentirsi deficienti davanti ad un giudice che
deve giudicare non solo il tuo sapere del momento, ma tutta te stessa, il tuo
modo di parlare, il tuo accento, il tuo modo di camminare e di esprimerti.
Vabbè... queste sono fisse di Francesca, in realtà normalmente ai professori
interessa esaminare in fretta e passare all’esaminando successivo.
Ma la strizza, l’angoscia, la paura che serra il cuore, la sensazione di vomito,
la cacarella che piglia inesorabilmente davanti ad un qualsiasi esame di
ingegniera, di fisica di matematica, di biologia, di storia, di letteratura
indiana o barocca che sia, non te la toglie nessuno!
E così Francesca è in settimana di strizza e cacarella per il suo ventiduesimo
esame, uno degli ultimi, ma per lei è sempre come se fosse il primo.
Statisticamente i più bravi, che magari non provano niente di tutto questo e
che provocano l’invidia feroce di Francesca, sono tra i bolognesi e tra i
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feriali. Fieri e sicuri di sé stessi. Saputelli con l’aria da secchioni. Minimo
voto sul libretto: 30. Registrano le lezioni e le sbombinano PAROLA per
PAROLA su appunti dei quali sono gelosissimi e che non prestano mai a
nessuno e neanche fanno fare le fotocopiare. Dei pazzi. Da 30 e lode. Ma pur
sempre dei pazzi.
I fuorisede sono, nella statistica dell’entourage di Francesca, meno bravi,
fuori corso, più strizzati, più schizzati. Voto massimo: 27, ma è una gran
festa anche con il 18. Però sono decisamente più simpatici.
In via Zamboni in questa serata afosa ci sono solo 10 studenti tra cui
Francesca. Sono già le undici e trenta passate della sera quando compare
sulla porta uno con un casco in testa.
Il nuovo arrivato (Francesca che frequenta quel posto da due anni, non l’ha
mai visto prima) si toglie il casco dicendo ad alta voce:
“uff, si soffoca!”
Uno “shhhhhhhhhhhhhhhh” coreale dei pochi occupanti la sala lo fa zittire
immediatemente.
“Scusate” dice imbarazzato il ragazzo dal casco rosso a bassa voce con
imbarazzo.
Siccome il tavolo dove studia Francesca è grande ed è occupato solo da lei, il
ragazzo dal casco rosso si siede proprio al suo tavolo.
Il ragazzo la distrae qualche minuto dallo studio degli ottetti mesonici. Lei lo
guarda e lo osserva intanto che lui non ha tirato fuori dalla sacca che ha a
tracolla: appunti, blocchi bianchi, calcolatrice superfiga e matite di tutti i
colori.
Lì per lì, vedendolo così scompligliato e notando le matite colorate,
Francesca pensa che sia uno del DAMS (dipartimento di Arte, Musica e
Spettacolo). Chi fa il DAMS è notoriamente sconvolto e scompigliato o per
vocazione (altrimenti non avrebbe fatto il DAMS) o per adeguarsi ad una
etichetta oramai comune nell’immaginario collettivo. Ma la calcolatrice
scientifica dell’HP mal si presta ad uno studio di arte o musica o spettacolo
che sia.
Infatti le matite colorate servono solo per sottolineare gli appunti con diversi
colori a seconda dell’importanza dei concetti. Francesca si accorge di questo
verso mezzanotte, quando decide di alzarsi e fare una pausa fuori all’aria che
non si muove.
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Chissà spinto da che cosa, il ragazzo dal casco rosso esce anche lui dopo
qualche minuto, scende le scale del vecchio palazzo dove si trova la sala
studio auto gestita e si avvicina a Francesca che seduta sugli scalini si è
messa a guardare la perfetta sfera disegnata nel cielo dalla luna piena.
Il ragazzo le si siede accanto dicendo:
“posso?”
“Tanto oramai ti sei seduto” dice Francesca accennando un sorriso.
Ed iniziano a chiacchierare.
Nel giro di pochi minuti, stranamente attratta dagli occhi magnetici del
ragazzo, Francesca sa che si chiava Andrea, che studia informatica e che è
della zona di Imola. È dunque un feriale.
“Cazzarola” pensa Francesca dispiaciuta “proprio un feriale mi doveva
capitare!”
Ma è un feriale atipico che ha deciso di vivere come un fuorisede e questo lo
rende subito simpatico agli occhi di Francesca. E poi ha uno sguardo
talmente magnetico che non riusce a non guardarlo negli occhi. Ha anche una
strana sensazione di “deja vù”, come se qualcosa in quegli occhi le ricordasse
qualcosa o qualcuno, ma non riusce a mettere a fuoco che cosa o chi.
“Feriale atipico” è la prima definizione che le è venuta in mente. Infatti
quella sera è un venerdì ed i feriali non si incontrano in giro a Bologna il
venerdì sera.
Ha deciso di vivere a Bologna anche il fine settimana, perchè vuole mettersi
alla prova e vedere se era in grado di vivere senza i contenitori ermetici della
mamma. I suoi non sono molto benestanti per cui spesso fa lavori saltuari per
pagarsi l’affitto di una camera singola in un appartamento con altri 4
studenti.
Restano muti a guardare la muta presenza della luna fino a quando l’ultimo
studente esce dalla sala dicendo loro:
“che fate? Restate ancora o chiudo io?”
“No no, ho ancora la mia roba dentro, chiudo io” risponde Francesca.
Rientrano, prendono rispettivamente ciascuno la sua roba, chiudono la porta,
scendono le scale e si salutano.
Andrea parte verso i viali con la sua Kawasaki di seconda mano e Francesca
parte verso il centro nella direzione opposta con la sua bicicletta comprata di
seconda mano dai tossici di piazza Verdi. Tanto gliene avevano già rubate 3.
Che poteva farci? Comprarsela nuova ogni volta?
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22. GIORGIO
La sera dopo quell’incontro, Andrea telefona al padre. Con lui intrattiene
ottimi rapporti, per cui egli non si stupisce affatto quando gli dice che ha
incontrato una ragazza pugliese, salentina per la precisione, che studia a
Bologna, che gli piace molto, ma che non sa nient’altro di lei e non sa come
rintracciarla. Soprattutto non sa se è giusto cominciare a frequentarla visto
che lui, già da un anno, si è impegnato ufficialmente con un’altra.
Il padre di Andrea, che poi sarei io, ha la veneranda età di 70 anni ed ha
avuto Andrea all’età di 47 anni ed suo fratello minore a 49. Data la grande
differenza di età, enorme direi, abbiamo risentito poco della differenza
generazionale e così ci siamo sempre confidati anche cose abbastanza intime
anche in età critica per Andrea e cioè durante l’adolescenza.
Non gli ho suggerito niente in quest’occasione preso come sono dalla
scrittura del mio terzo libro. Gli ho solo detto:
“fa quello che senti”
lasciando Andrea, a dire il vero, molto deluso.
Noi due fisicamente ci assomigliamo molto. È impossibile dire che Andrea
non sia mio figlio.
Sono un professore di storia al liceo classico “Minghetti” di un paese della
provincia bolognese, nonchè un appassionato di gialli (ho la collezione
completa di Agatha Christia e di Simenon) e di misteri di ogni genere.
Sono anche uno scrittore. Discreto, ma pur sempre scrittore. Ho pubblicato
due libri e sono in piena stesura del terzo libro. La mia carriera di scrittore è
iniziata quasi per caso. E molto tardi anche. Nella mia affannosa ricerca sulle
mie misteriore (almeno da parte di padre) origini, mi sono ritrovato fra le
mani la storia incredibile del nonno di parte materna, antimilitarista ed
anarchico convinto. Partendo da questa storia mi sono imbattuto in storie
altrettanto incredibili che ho raccontato nel mio primo libro e che si svolgono
nei manicomi di fine ottocento, inizi novecento. In realtà quella era stata la
mia tesi di laurea in storia, che a distanza di due anni dalla mia discussione,
divenne, romanzata, anche il mio primo libro di discreto successo.
La mia potenza narrativa di scrittore, il mio estro, la mia abilità di
romanziere non si possono di certo comparare a quelle di un Dostojeski o di
uno Shakespeare che di personaggi senza la distinzione artificiale tra
saggezza e follia erano ampiamente esperti; sicuramente ho una narrazione
bella, lineare e coerente. Scorre via liscia come un bicchiere di acqua
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naturale senza bollicine che possano pizzicare la gola. Questo mi angustia un
poco. Ma sento che ancora non ho trovato la vera scintilla. La sto ancora
cercando. O forse è solo questione di esperienza.
Dunque, lo ripeto, non si può dire che la mia sia una narrazione frizzante,
d’altra parte io voglio scrivere un trattato, o meglio, un documentario di
storia in stile divulgativo e non accademico. L’intento è rendere
comprensibile e piacevole una materia molto difficile quale appunto la
“follia” ed il modo in cui gli umani cosidetti “sani” si rapportano ad essa.
Quindi deve essere facile e piacevole leggerlo e questo ha convinto un
editore di provincia a pubblicarlo senza nemmeno chiedermi di pagare le
prime 1000 copie! Tanto non me le sarei comunque potute permettere. Ed
alla fine ho comunque la mia cattedra di storia al liceo classico “Minghetti”
del bolognese, lavoro questo che mi da molte soddisfazioni professionali e
che può bastare a soddisfare le mie pretese di carriera professionale.
I due libri già pubblicati raccontano enbrambi della “follia”, ma mentre il
primo è un vero e proprio documentario storico e parte con una citazione
tratta dall’”Elogio alla follia” di Erasmo da Rotterdam per finire ai metodi
moderni di cura di questa -da molti considerata patologia- soffermandosi in
particolare all’epoca antecedente la prima grande guerra, il secondo trattava
più l’aspetto psicologico della stessa, sia la psicologia di chi, suo malgrado,
si ritrova folle, sia la psicologia di chi è costretto, dalla vita, dagli eventi,
dalla sorte, a subire la follia altrui (di un parente, di un amico), sia la
psicologia degli altri, di quelli che la follia non tange, dei “normali”, dei
“risparmiati”. L’aspetto medico è abbondantemente trattato ed in questo mi
sono fatto aiutare da un amico medico conosciuto ai tempi dell’università che
ha partecipato con fervore all’argomentazione ed alla stesura di questa parte
del libro.
Questa storia della follia non mi abbandona mai. La fissa l’ho ereditata dalla
mamma. Non che io sia un folle o mi reputi tale, intendiamoci, ho però paura
di poterlo diventare e per questo ne studio tutti gli aspetti medici per essere
pronto, qualora ce ne fosse stato bisogno, a riconoscerne immediatamente i
sintomi ed ad agire di conseguenza. Ho anche istruito molto bene il resto
della famiglia sull’argomento, per cui si può dire che la follia sia di casa
sebbene nessuno, a parere di amici e conoscenti, ne sia affetto. Grazie al
cielo. O al caso che sia.
E meno male.
Comunque cominciai ad interessarmi di me stesso e delle mie origine all’età
di sei anni, quando a scuola constatai che non era di uso comune portare il
cognome della madre. Sapevo che mio padre era morto in guerra prima che
100
io nascessi, ma per quale motivo non avrei potuto portare il cognome del
padre?
All’età di sei anni dunque mi incuriosì.
All’età di setti anni mi preoccupai.
All’età di otto anni mi angosciai.
All’età di nove anni ero già abbastanza grandicello per cominciare le mie
ricerche andando a spulciare gli archivi della chiesa parrocchiale
corrompendo con 3 uova al giorno la vecchia zitella che svolgeva l’attività di
perpetua della canonica. La corruzione mi costò ben 30 uova, essendo la mi
ricerca durata ben 10 giorni! Nulla scoprì di nuovo se non l’atto di
matrimonio dei miei genitori, e qui ebbi conferma che porto davvero il
cognome della madre e non quello del padre.
Poi passai a corrompere l’usciere del municipio comunale, ma per costui le 3
uova non bastarono! Dovetti aggiungere anche un cesto, di volta in volta, di
mele, di verdure dell’orto, di patate, di quello che trovavo per la casa o per
l’orto insomma. L’usciere, ingordo come era, accettava di tutto.
Mi sentiva un po’ un fuorilegge. Di fatto, la “corruzione” non era proprio una
cosa giusta anche se portata a compimento per realizzare fini giusti. Ma
sapevo che, passando per le vie canoniche, non avrei ottenuto nulla se non
dopo anni e chili di domande in carta bollata.
Ma le informazioni più inquietanti e preziose le ebbi in casa mia senza
saperlo, non me ne accorsi che all’età di ventun’anni, in uno dei miei rientri
a casa dalla città dove era andato a studiare storia.
Marta, la mamma, era analfabeta e a stenti sapeva scrivere il suo nome, però
aveva una capacità incredibile di usare la matita e dalla sua mano uscivano
forme di tutti i generi e disegni molto belli. Lei non ne faceva mostra e li
teneva in una cartella in soffitta.
La cartella conteneva una sessantina di fogli disegnati da mamma Marta nel
corso dei suoi 70 anni di vita.
Le rappresentazioni erano di vario genere: nature morte, animali, oche,
galline; in particolare un cane (sempre lo stesso) era rappresentato in varie
tavole ed in varie pose, mezzadri che con badili che svuotavano i canali,
case, stalle, fienili con porticati, il pozzo spesso a bilanciere, il forno. Molto
bella era la rappresentazione di 2 cavalli che, legati al centro di un’aia con le
redini, giravano attorno calpestando le spighe per trebbiare il frumento.
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Molti ritratti di uomini e donne di tutte le età. In particolare un volto era
schizzato con tratti nervosi e veloci, il ritratto di un uomo dalla faccia sporca
e dai capelli folti che portava un fazzoletto attorno al collo.
Quest’uomo aveva gli occhi enormi. In un ritratto addirittura li aveva fuori
dalle orbite. Lo sguardo molto intenso, quasi magnetico.
Mi ero soffermato molto su quello sguardo.
Mi sentivo penetrare da esso e tutte le volte ne rimanevo scioccato. Poi
scuotevo la testa come per svegliarmi da un torpore e proseguivo a sfogliare
le altre tavole.
Mi piacevano molto i disegni della mamma. Fin da quando ero piccolo, mi
barcamenavo per tirare su qualche soldo con qualche lavoretto occasionale
per poi comprare fogli bianchi, matite e carboncini per mia madre. E tutte le
volte, quando ci riuscivo, mi sentivo orgoglioso di portarle quei regali così
tanto desiderati e ben utilizzati da lei.
Vi racconto ora di due tavole che, lette con il senno di poi, contenevano tutte
e due indizi fondamentali per risolvere il mistero delle origini di Giorgio
Masetti, cioè io. Questi indizi restarono però transparenti ai miei occhi per
svariato tempo. Al tempo mi sembravano solo delle scene bizzarre.
In una delle due tavole era raffigurata una scena un po’ nebbiosa che si
svolgeva chiaramente nell’aia della casa dove io ero nato.
Un gioco sapiente di bianchi e scuri dava l’idea della nebbia o della foschia
che fosse.
Si vedeva che non pioveva.
Ma si vedeva anche che non c’era il sole.
Nel quadro si poteva chiaramente vedere sullo sfondo la porta di ingresso
della casa e la finestra della cucina, sul lato sinistro del quadro un’oca che
dava l’impressione stesse per uscire dal quadro stesso e andare verso il suo
futuro con le alucce che si stanno per aprire ed con l’intenzione a ritirare le
zampe palmate. L’oca era inseguita da un cagnolino impressionato nell’atto
di correre con la lingua di fuori. Sempre sulla sinistra galline che
razzolavano, sulla destra si vedeva invece uno scorcio di orto e un grande
castagno. Il castagno della tenuta. Dietro il tronco del castagno di scorgeva il
piede sproporzionatamente grande di un uomo, una mano anch’essa grande e
un ciuffo di capelli che contornava la parte superiore dell’occhio e del
sopracciglio destro.
L’elemento bizzarro di questa tavola era che il centro della scena era
completamente vuoto, come se mancasse qualcosa, al contrario, lo sfondo ed
102
il contorno erano ben disegnati, fino ai minimi particolari. Si potevano
persino contare le piume delle galline una ad una.
Dava quindi l’idea di un quadro incompleto, ma quando una volta chiesi a
mia madre perchè lei non lo completasse, mi sentì rispondere:
“È finito così. Non ci va niente altro in quel quadro.”
Registrai la risposta rimanendo sull’istante basito, ma poi non ci pensai più.
L’altra tavola invece rappresentava una scena al chiuso della sua casa natia.
C’era raffigurato il grande camino con un fuoco poderoso che quasi lo sentivi
scoppiettare guardando il disegno.
Il camino occupava il centro della scena, sul lato destro del quadro, quindi a
sinistra del camino, c’era una donna in piedi, scalza, con una coperta sulla
spalle e con un bastone in mano dal quale pendeva uno straccio. La donna
era raffigurata nell’alto di buttare questo straccio nel fuoco dentro il quale si
intravvedevano, oltre alla legna, altri elementi di stoffa.
La donna raffigurata poteva essere un autoritratto di sua madre, ma questo
era poco evidente. Intanto la donna del quadro portava i capelli lunghi e, a
mia memoria, non avevo mai visto la mamma con i capelli lunghi.
Poi ella era girata di lato con la testa che stava per girarsi verso il fuoco,
quindi non si riuscivano a vedere i tratti somatici.
Però poteva benissimo essere anche mamma Marta quella figura.
Nonostante le mie insistenze, mamma Marta negò tre volte, ma alla quarta
finalmente ammise che si, era lei.
“Mamma, ma cosa stai bruciando?”
“Dei vestiti. Non si capisce?”
“Si, si... ma che vestiti e perchè?”
“Niente erano vecchi e non mi piacevano”
“E perchè hai la coperta sulle spalle?”
“Per il freddo.”
“Ma se sei vicino al fuoco!”
Io mi divertivo sempre a trovare le incoerenze nelle tavole di Marta o le
analogie con la vita che io conoscevo.
”....”
“....”
“Allora?” incalzai
“Giorgio dai basta. Non ricordo. Ma poi non è una cosa vera. L’ho disegnata
così!”
“Non ci credo! Tu disegni sempre cose vere!”
103
“Ero uscita in giardino per prendere il bastone”
“A piedi nudi?”
“....”
Insomma Marta difficilmente riusciva ad uscirne vincitrice da questo tipo di
impasse. E capitava spesso che io trovassi dei non-sense nelle
rappresentazioni materna, ma, attratto come ero dalla psicologia del genere
umano, tartassavo le persone fino a quando non riuscivo a trovare
spiegazioni soddisfacenti a questo o a quel dubbio, o cosa strana o
incompatibilità vera o apparente tra due cose diverse messe insieme nello
stesso contesto.
A questo punto della storia, cioè prima che Andrea mi telefonasse per dirmi
di Francesca, avevo a disposizione i seguenti elementi non del tutto
evidentemente correlati fra di loro:
− mio padre era morto prima che io nascesse;
− portavo il cognome della madre;
− avevo vissuto l’infanzia con mamma e nonna. Una infanzia pressochè
serena;
− dalla lettera che annunciava la morte del padre, datata 2 ottobre 1917,
dedussi che non ero figlio di mio padre, almeno non di quello
dichiarato, a meno che non fosse rimasto, nella migliore delle ipotesi,
12 mesi nella pancia della madre, cosa chiaramente assurda;
− i 60 disegni della mamma, in alcuni delle quali, secondo me,
dovevano esserci tracce del mio passato. Ma, a parte i due quadri di
cui vi ho raccontato e che provocavano quasi un sentimento di
tensione, le altre tavole erano o sembravano normali rappresentazioni
della vita contadina di quegli anni.
Rimaneva quindi il mistero di chi fosse veramente mio padre.
Dall’altra parte, sul ramo genealogico materno, non ero riuscito a scoprire
notizie certe:
− mio nonno, padre di mia madre, era stato rinchiuso in manicomio
perchè considerato sovvertitore, antimilitarista ed anarchico e,
all’epoca, l’antimilitarismo era considerata una malattia mentale;
− si era o era stato impiccato all’interno del manicomio, ma questo era
contraddetto dal fatto che da un’altra fonte ho scoperto che
quest’uomo era in realtà uscito dal manicomio ed aveva continuato la
sua propaganda antimilitarista in mezzo a mille pericoli e peripezie
per poi morire cadendo dalla bicicletta essendo stato investito da una
motoretta. Questo era un punto da chiarire. La nonna taceva a tal
proposito. Tutte le volte che le ponevo domande sull’argomento, lei si
cuciva la bocca e si rinchiudeva in sè stessa per giorni se non
addirittura per settimane intere. Per questo, alla fine evitai di fare
104
queste domande. Le voci le raccolsi in giro da conoscenti della
famiglia. Ma avevo raccolto informazioni contraddittorie, forse non si
trattava della stessa persona, forse gli interlocutori non avevano
capito di chi si trattasse. L’unico modo era consultare i registri del
manicomio di Imola.
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23. IL MANICOMIO
I miei capelli arruffati sfidano il pettine. Io mi consumo, e chi se ne accorge?
Anonimo cinese
Fu così che, ad un certo punto della mia vita, spinto da una curiosità che non
riuscivo più a contenere, un bel giorno mi misi a scampanellare per la prima
volta alla porta del manicomio di Imola, “l’Osservanza”.
Già il portone, a ben vederlo, aveva un che di angosciante. Ero
emozionatissimo e il cuore mi batteva forte: bum, bumbumbum, bumbum,
bumbumbum, bum...eh si, avevo anche un po’ di aritmia!
Grazie alla collaborazione del personale, mi fu permesso di visitare l’istituto
psichiatrico. Imparai l’esistenza del reparto 14, quello delle agitate
schizofreniche pericolose irrecuperabili tenute legate ai letti inchiodati al
pavimento, sottoposte ad elettroshock, alcune avevano una specie di
museruola legata alla bocca perchè sputavano, tutte erano imbottite di
psicoformaci che avevano l’effetto di abbassare loro il tono intellettivo ed
emozionale e paralizzanti delle funzioni nervose. Imparai l’esistenza
dell’equivalente reparto maschile.
Imparai l’etimologia della parola schizofrenia, dal greco schizein che vuol
dire scindere, dividere e phren chel vuol dire mente, senno. Dunque uno
“schizofrenico” è un “dissociato”.
Riflettei un attimo a questa definizione, mi ripensai e decisi che no, non mi
sentiva affatto un dissociato. Per il momento ero al riparo dai pericoli della
follia.
Ma che cosa aveva a che fare mio nonno con gli schizofrenici? Non mi
risultava che avesse una personalità dissociata, al contrario, mi risultava
fosse un uomo dalla personalità decisamente forte e carismatica. Un antimilitarista, un anarchico. Nelle mie visite all’istituto ebbi modo di appurare
che, invece, i sovversivi erano considerati pericoli per la società e quindi
venivano rinchiusi nei manicomi. Quindi mio nonno materno fu internato per
aver creduto in una IDEA.
E fu a questo punto che mi venne in mente un testo che De Andrè aveva
tradotto da Brassen e poi cantato. Questo testo mi ritorna spesso nella mente,
chissà per quale arcano motivo. E, in quell’occasione, ricanticchiandomelo,
ripensai alla storia umana, e ripensai a Giordano Bruno, e a Giovanna d’Arco
che si fecero bruciare vivi per una IDEA e ai martiri cristiani e a san
Sebastiano che si fece bersaglio di decine di frecce per una IDEA e a santa
Lucia che si fece cavare gli occhi per una IDEA e a cui io, seppure ateo, ero
106
profondamente legato e pensai quindi a mio nonno che si impiccò, o si fece
impiccare, pur sempre per una IDEA elevandosi così anche lui, almeno nel
mio immaginario, al rango dei martiri, ed iniziò così il suo secondo libro:
Morire per delle idee, l'idea è affascinante,
per poco non morivo senza averla mai avuta;
perché chi ce l'aveva, una folla di gente,
gridando «Viva la morte», proprio addosso mi è caduta.
Mi avevano convinto, e la mia musa insolente,
abiurando i suoi errori, aderì alla loro fede,
dicendomi peraltro in separata sede
«moriamo per delle idee», «va bè,
ma di morte lenta, va bè, ma di morte lenta».
[…]
Mourir pour des idées, l'idée est excellente,
Moi, j'ai failli mourir de ne l'avoir pas eue.
Car tous ceux qui l'avaient, multitude accablante
En hurlant à la mort me sont tombés dessus.
lls ont su me convaincre et ma muse insolente
Abjurant ses erreurs se rallie à leur foi,
Avec un soupçon de réserve toutefois:
Mourons pour des idées, d'accord!
Mais de mort lente, D'accord, mais de mort lente.
[…]
Inevitabilmente, mi ritrovai a penetrare i meandri della psiche, a studiare
della follia, a voler capire perchè si diventava tali, a voler conoscere come la
società si era in passato confrontata con essa e come si confrontava ora. Nel
mio libro ho cercato di trovare il limite oltre il quale si diventa pazzi, il limite
oltre il quale una persona è considerata folle e per questo punita o con
l’internamento, o con la morte. La storia ha mostrato chiaramente che
personaggi considerati pericolosi per l’ordine costituito venivano etichettati
pazzi e per questo annientati. Quindi, almeno persone possessori di IDEE
contrarie al comune ben pensare, “pazzi” o “folli” che dir si voglia, non lo
erano veramente.
Il libro continua con l’analisi di un’altra forma di follia. Questa volta forse
più vera. E per spiegarla ho usato il commento di un brano di Shakespeare
che racconta dell'asilo londinese di Santa Maria di Bedlam e della condizione
umana dei suoi ospiti:
Ho sentito proclamare il mio bando: e chiuso nella provvidenziale cavità di
un albero, sono sfuggito alla canizza. Non un porto sicuro, non un sito dove
non sia una guardia a posto fisso o qualche pattuglia volante per catturarmi.
107
Ma io, finché posso restar fugastro, voglio fare ogni sforzo per uscirne fuori,
deliberato di prendere l'aspetto più squallido e volgare che mai la povertà
abbia assunto a dileggio di un uomo per degradarlo fino alla bestia. Voglio
impiastricciarmi la faccia di pattume; avvolgermi i lombi di stracci;
scaruffarmi i capelli e inglopparmeli; e con questa pelle scoperta sfidare i
venti e l'infuriare del cielo.
Il paese me ne offre buoni modelli e precedenti insigni negli accattoni di
Bedlam, i quali si ficcano ruggendo nelle misere carni delle bracce stecchite
e intirizzite spilli, schegge di legno, chiodi, stecchi di rosmarino; e in tale
orrendo arnese vagano per fattorie disperse e terre magre, per ovili e mulini,
e strappano, ora implorando ora imprecando, quel poco d'elemosina.
Forse la miseria porta gli uomini a divenire folli, forse la disperazione porta
gli uomini a divenire schizofrenici, forse, parafrasando Dostojesky,
effettivamente, l’uomo è troppo vasto per comprendersi, sarebbe stato meglio
fosse stato più piccolo...una gallina...un moscerino...una formica...un
coacervato nel brodo primordiale!
Ma questa, raccontata da Shakespeare, a differenza del primo tipo, sembra
una follia un po’ più “vera”.
In effetti, mi sono chiesto nel libro, cosa è la follia? Tra i mille esempi, storie
vere in cui io si sono imbattutto in quei mesi di estenuante ricerca, ho
registrato la storia di un tale che fu costretto dai nazisti, mitra puntato nella
schiena, a seppellire i suoi compagni, precedentemente fucilati. Uno di questi
era proprio un suo amico, non era morto; dovette seppellirlo vivo. Uno
spaventoso senso di colpa aveva devastato la vita di questo uomo che venne
riunchiuso al vicino istituto S. Lazzaro di Reggio Emilia.
Ora, di fronte a codeste assurdità, si sono chiesto nel libro, dimmi tu, lettore,
esperto delle cose del mondo, come si fa a rimanere sani di mente! Cosa
bisogna dirsi o raccontarsi per non perdere i numi della ragione, per non
incappare nel delirio della follia?
Questa nostra precisa ed organizzata società, gestita dai potenti e
moralizzata dai benpensanti, ha come scopo lo sfruttamento dell’uomo per
produrre denaro e potere. Chi non regge il ritmo di produzione, la catena di
montaggio, il lavoro pendolare, la disoccupazione, l’emigrazione, lo
sfruttamento viene semplicemente messo ai margini della società, persona
inutile al mondo e a sè stessa, persona candidata ad essere internata perchè
la sua natura è inferiore, perchè la sua anima è inferiore, come se si potesse
dare una misura dell’anima!
Poi il libro continua ad analizzare altre forme di follia, catalogandole
secondo un criterio inventato da lui e, per ognuna di esse, ho fatto delle
considerazioni alla fine delle quali si evince che la follia può benissimo non
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essere mai esistita se l’uomo non l’avesse mai inventata e successivamente
strumentalizzata ai propri fini.
Comunque, nei registri dell’istituto, trovai la scheda relativa a mio nonno,
diceva che il soggetto aveva esternato opinioni pericolose nei confronti
dell’ordine costituito e per questo era stato internato. Più avanti lessi:
Alla domanda di esporre le proprie idee sulla società, il soggetto risponde:
“sono sano di mente e le mie opinioni non hanno niente a che fare con la
psichiatria”.
Purtroppo, negli schedari dell’istituto, non trovai niente che parlasse della
morte del nonno, nessuna data di rilascio. C’era solo una nota al margine
della scheda che annotava che una commissione medica, appositamente
convocata, avrebbe deliberato sull’opportunità o meno di dimettere il
soggetto in questione.
Non sono quindi riuscito a chiarire le circostanze della morte del nonno
materno.
A questo punto sono arrivato ad un vicolo cieco, non mi rimane altro che
tornare indietro e percorrere l’altro ramo genealogico, cioè quello paterno.
Ma qui la sfida è veramente ardua, poichè i dati certi ora erano veramente
pochi.
Per questo ritorno spesso nella casa dove sono nato, alla ricerca di qualche,
se pur piccolo, indizio che mi possa aiutare. Mia madre è oramai morta da
anni e le persone a me più prossime sono dei cugini più giovani di me che,
quindi, poco o nulla sanno delle mie origini.
Quando ho ricevuto la telefonata di mio figlio Andrea che parlava
dell’incontro con una ragazza interessante, io era nel pieno di uno
scoramento d’animo, poichè non sapevo dare un ordine alle poche
informazioni che avevo riguardo alle mie origini e stavo giustappunto
chiedendomi se era il caso o no di continuare queste mie ricerche che non mi
portano da nessuna parte e che, se mai m’avessero portato da qualche parte,
cosa ne avrei avuto se non l’effimera contentezza di un momento, l’illusione
di un attimo di essere qualcuno ben posizionato nell’ordine del mondo e del
tempo, un individuo con tutti i suoi connotati a posto e le sue ascendenze ben
catalogate e posizionate nelle caselle dell’albero a cui appartengo?
Insomma sommerso dai dubbi, ho accettato l’invito di suo figlio Andrea, di
andare il fine settimana a Bologna dove, al palazzetto dello sport, ci sarebbe
stato un concerto di Peter Gabriel.
109
Fino a due anni prima non sapevo neanche chi fosse questo “Pietro
Gabriele”, ma Andrea lo ascoltava ad alto volume quelle poche volte che
ritornava a casa ed io sono rimasto particolarmente colpito dalla canzone
“Biko” ed ho incominciato anche ad apprezzare la restante produzione di
Peter compresa quella degli anni memorabili dei Genesis.
“Ma dai Andrea, ti ringrazio ma sono troppo vecchio per queste cose!”
“Dai papà, ti piacerà, ho già preso il biglietto anche per te!”
“Ma mi vergogno!”
“Ti vergogni di ascoltare la buona musica?? Dai papà smettila di dire
stronzate, guarda gli orari dei treni e dimmi a che ora ti vengo a prendere
sabato!”
Ma si, un po’ di aria diversa mi farà bene e poi ne approfitto per fare un salto
in biblioteca. Magari, se il caso mi assiste, potrei trovare qualche stimolo per
continuare la ricerca.
“No, Andrea, se ti fa piacere, vengo questo mercoledì nel pomeriggio, voglio
stare un po’ in biblioteca, prenderò 4 giorni di ferie, ne ho bisogno”
“Sono contento papà! Ci vediamo to the station, allora. Mercoledì. Ciao.”
“Ciao.”
110
24. LA MENSA DEI POETI
Siamo nei primi anni novanta e a Bologna ci sono varie mense universitarie. Spesso,
soprattutto nei giorni feriali quando ci sono le lezioni, bisogna fare lunghissime code prima
di accaparrarsi un vassoio e riempirlo con 2500 lire di cibarie!
Le mense che Francesca frequenta più assiduamente per comodità sono: la mensa di via
Irnerio e il Bestial Market dove si può mangiare una pizza con sole 1000 lire! Talvolta
però, anche se raramente, la sera va alla mensa dei Poeti. Il nome qui, trae in inganno: non
di poeti si trattava, ma del cognome di un tal Teodoro che ne era in possesso già nel 1774.
Alla mensa è annesso il Collegio Poeti, o meglio il contrario: al Collegio Poeti è annessa la
mensa Poeti.
Andrea alloggia in questo colleggio e quindi è un assiduo frequentatore della mensa.
Il mercoledì al cinema Olimpo a Bologna si proiettava pellicole cult. Un abbonamento di
lire 8000 permette agli studenti di assistere a ben 8 proiezioni per la, anche qui, modica
cifra di 1000 lire a film! Una manna per loro. Certo è arduo trovare un posto a sedere, ma
costa poco e, cosa fondamentale, ci si ritrova in molti e si passa la serata insieme anche se
spesso si è costretti a sedere per terra!
Questo mercoledì Francesca decide, con la sua amica Cristina, dotata di motorino (un SI
blu della Piaggio) di andare al cinema per vedere una proiezione di Pasolini “Uccellacci e
uccellini” con Totò e Ninetto Davoli come protagonisti. All’Olimpia, in questi giorni,
stanno proiettando tutta la produzione di Pasolini e Francesca e Cristina non ne hanno
perso neanche una di pellicola! Tutte le volte ne escono un po’ scosse e fuori fase, poi
vanno a bere un paio di birre in un pub qualsiasi di via del Pratello per riuscire a dare un
senso a quello che hanno visto. Certo che Pasolini non è facile da digerire, solo l’alcool le
aiuta. Ed effettivamente solo dopo la prima birra cominciano ad elaborare forbite teorie sul
perchè ed il per come di quelle immagini. Stesso effetto aveva fatto loro le pellicole: “La
montagna sacra” di Jodorowski e “Naked Lanch” di David Cronemberg.
Essendo sera, la fila non è esagerata, può contare all’incirca un centinaio di persone, ma
Francesca decide ugualmente di mettersi in coda in attesa della solita ritardataria Cristina.
Nell’attesa, si è persa in pensieri sulla meccanica quantistica, non riusce a capire come
“fluttuazioni” del vuoto possano creare improvvisamene una particella ed una antiparticella che poi, come per magia, annichiliscono lasciando il vuoto di prima...mah!
stranezze dell’infinitamente piccolo.
Pensando all’impensato, vagando dal vuoto fisico al vuoto mentale, Francesca si discosta
continuamente dalla fila ed è così che una persona di una certa età attira la sua attenzione.
111
Non è facile trovare persone oltre i 30 anni in quelle mense, al massimo ci va qualche
ricercatore o tecnologo appena assunto. In ogni caso la cosa le pare alquanto insolita e, per
questo, guarda con maggiore attenzione in direzione dell’anziano signore.
Sorpresa! L’uomo è accompagnato da un ragazzo che le sembra di conoscere, ma non
focalizza bene chi sia... poi, all’improvviso, la folgorazione! Infatti ad un certo punto il
ragazzo si passa la mano tra i folti capelli con un gesto singolare che le riporta alla
memoria l’incontro di qualche mese prima con il medesimo ragazzo avvenuto nella sala
studio autogestita di via Zamboni.
È Andrea! È molto contenta di averlo rivisto, in realtà il nome Andrea le è balenato di
sfuggita nei giorni successivi all’incontro, ma, essendo strapresa con l’esame, l’ha lasciato
scivolare via come l’acqua che scorre lungo il corpo quando si è sotto una doccia calda. Poi
se ne è completamente dimenticata.
Così avanza lungo la fila guadagnando ben 30 posizioni, urlando “Andrea!”
Andrea è preso in una discussione sul tema della follia con suo padre (che poi sono sempre
io); sentendosi chiamato, si gira nella direzione da cui proveniva la voce, cioè si volta
indietro e vede Francesca.
Il suo cuore, chissà perchè, ha un improvviso tonfo (l’ho sento perfino io!), gli arriva sullo
stomaco, risale in gola e ridiscende nella sua sede naturale nell’arco di un decimo di
secondo.
Il che fa arrossire Andrea (forse perchè ci sono io presente) che, comunque, riusce a
balbettare:
“Ci-ciao, Fra-francesca. Come st-stai?”
Nel mentre si becca una gomitata da me.
“Sto aspettando una mia amica, andiamo all’Olimpo, ma avevamo appuntamento qua per la
cena.”
“Stai con noi!” dice Andrea, che nel frattempo si è ripreso.
“Grazie, ne approfitto volentieri. Ma come stai tu? Il tuo esame?”
“25. Meglio che un calcio in bocca. Sono contento. L’ho dato quattro giorni fa”
“Ah, a proposito, questo è mio padre. È uno scrittore. Cioè no, è un professore di storia che
scrive libri, lui non ama essere chiamato scrittore.”
“Piacere, Giorgio.”
“Salve. Piacere. Io sono Francesca.”
“Mi trovo qui” mi sento in obbligo di spiegare “perchè ho delle ricerche da fare in
biblioteca e così ne ho approfittato per visitare mio figlio.”
“Che tipo di ricerche, se posso permettermi?”, l’innata curiosità di Francesca non tarda a
farsi sentire.
“Sulla follia.”
112
“Sulla follia?”
“....”
“....”
“Bhè mio padre ha fatto la sua tesi di storia sulla situazione dei manicomi in Italia tra fine
ottocento e inizi novecento” spiega Andrea avendo notato l’espressione perplessa di
Francesca.
“Da lì ha cominciato i suoi studi e le sue ricerche sulla follia, su che cosa è, su come la
società si pone di fronte ad essa, di cosa ne pensa la gente, insomma ci ha tirato fuori due
libri ed ora sta lavorando sulla idea del terzo libro.”
“A dire il vero, non sono proprio sicuro di voler scrivere ancora di follia, diciamo che sono
in attesa di ispirazione” preciso io.
“Uauuu che bell’argomento! Spero proprio di avere occasione di leggerli al più presto i
suoi libri!”
“Ti prego, non mi dare del lei, mi fa sentire vecchio!”
“Ah, ah, ah” ride Andrea “S E I vecchio!” dice scandendo bene le prime tre vocali.
“Ok, ok ma non c’è bisogno che tu me lo ricordi ogni volta!”
“Ah, ah, ah” ridono tutti.
Intanto si sono avvicinati alla pila di vassoi, è quasi il loro turno e l’amica Cristina non si +
fatta vedere.
“Spero arrivi in tempo a mangiare, altrimenti viene al cinema senza cena, non mi voglio
mica perdere il film!” dice Francesca prendendo il suo vassoio.
“Francescaaaaaaaa.”
È Cristina.
Le presentazioni vengono fatte mentre si riempiono i vassoi di cibo.
Trovano un tavolo da quattro posti e, finalmente, possono sedere e cenare tra una
chiacchera e l’altra, ovviamente sulla follia, sulle capacità straordinarie della mente e sulle
sue lesioni.
Non ci penso due volte ed assumo il ruolo nonchè il tono del professore soprattutto quando,
parlando di dicotomia tra mente e cervello e influenze del cervello sulla mente e quindi di
follie dovute a lesioni di parte del cervello, dico:
“L’atto del pensare è una cosa ben diversa dal pensiero, il quale è il prodotto del pensare.”
“L’atto del pensare è un atto psicologico, privato” pensai di spiegare meglio, dimostrando
di saperne anche di logica.
“Vuoi dire che il pensiero è proprio di ciascuno di noi, mentre la predisposizione a pensare,
cioè il meccanismo logico che permette il pensiero, è comune a tutti noi?” chiede
Francesca timidamente.
“No il contrario.”
“Ecco lo sapevo che avrei sparato una cazzata! Opss...Scusi. Cioè scusa.”
113
“I pensieri esistono già di per sè, siamo noi che li organizziamo con l’atto del pensare in
maniera tale da produrli.”
“Non ascoltate mio padre” si intromette Andrea “quando parte su questi ragionamenti,
sembra lui un folle! Il matto della mensa Poeti!”
“Io non ci sto capendo niente” dice Cristina.
“...Ora – contino come se non avessi sentito i due di fronte - se si guasta il meccanismo,
l’atto del pensare, il prodotto è un pensiero “guasto”, di qui la follia”
“Ma il punto è: cosa fa guastare il meccanismo? Sono lesioni fisiche del cervello? A volte
si. Ma quando siamo di fronte ad un cervello biologicamente sano e perfetto e quando il
soggetto in questione dà chiare manisfestazioni di disturbi mentali, di follia, per chiamarla
con il suo nome, cosa ha provocato il guasto dell’atto del pensare e quindi del pensiero?”
“BHO!” dicono i 3 ragazzi in coro.
Effettivamente mi rendo conto che sto parlando per me stesso e quindi non mi sono accorto
che i miei pensieri sono un po’ fuori dalla portata dei ragazzi essendo tutti e tre degli
studenti di materie scientifiche.
Al boh corale, seguono risate accompagnate da uno “scusate ragazzi, scusate, stavo
esagerando!”
“Ma no, davvero” dice Francesca.
“La sua...ops! scusi...emh...scusa...insomma: la tua teoria è molto interessante! Peccato che
si è fatto tardi e dobbiamo andare al cinema altrimenti inizia la proiezione, ma se domani
siete ancora qui vengo a cena ai Poeti.”
E così, avendo finito di cenare, si congedano, anche se nessuno di loro avrebbe voluto
farlo.
114
25. LA SCOPERTA
“Vede...Ops! vedi anche io ho indagato un po’ sul mio passato” ha preso a dire Francesca
allorquando le ho raccontato che, tra le altre cose, sto indagando sulle mie origini, sul padre
che non ho mai conosciuto, sulla sconvolgente storia del nonno materno.
La sera successiva Francesca arriva un po’ prima dell’ora di cena e così sale in camera di
Andrea dopo averne chiesto il numero al portinaio.
Le note di un pezzo di Peter Gabriel (Biko! Oh oh oh oh oh Biko! Oh oh) oltrepassano il
legno della porta, Francesca ha avuto un attimo di titubanza prima di bussare, ma poi ha
bussato.
La camera di Andrea è come lei se l’aspettava. Lei non abita in collegio, ma ne ha viste
tante di camere collegiali a Bologna ed anche a Modena e sono tutte uguali.
Io sono seduto sul letto che leggo un libro, Andrea ascolta la musica e smanetta con lo
stereo, toni alti, toni bassi, cassa destra, cassa sinistra, equalizzatore...non riusce a trovare il
suono perfetto che le sue orecchie volevano ascoltare.
“Lo sa...Ops! Scusa. Lo sai che quando ero giù in Puglia, a casa di mia nonna ho trovato un
diario. Questo diario è alquanto strano. Ci hanno scritto varie persone, ma non tante, due o
forse tre. Ma è difficile da raccontare. Non l’ho mai detto a nessuno. È un segreto” dice
abbassando il tono della voce e assumendo una espressione complice e avvicinando il dito
indice della mano destra alla bocca in gesto di far silenzio. “Poi sono venuta a studiare qua
a Bologna e non ci ho più pensato, ma il diario di mia nonna l’ho portato con me.”
“Mi piacerebbe farglielo...ops! fartelo leggere. Scusi. Emh...Scusa” mi dice Francesca.
“Cosa ha di strano questo diaro?” chiede Andrea.
“Non lo so spiegare, bisogna leggerlo, non l’ha letto nessuno, almeno credo, non negli
ultimi 50 anni!”
“Almeno!” aggiunge Francesca dopo qualche secondo di riflessione.
“Mi hai veramente incuriosito con questo diario, Francesca. Ora sei obbligata a farmelo
leggere” dico. Ed è vero.
“Ho anche trovato delle lettere, tante lettere, le ho lette tutte!”
“Anche quelle le ho portate con me!”
“Ma di che epoca è questo diario?”
“Racconta la storia di mio nonno e di mia nonna e delle persone che stavano loro attorno.
Mio nonno era in guerra, in trincea, ma poi ha disertato, mi è sembrato di capire” sintetizza
Francesca.
115
“Mia nonna poi era stata male, cioè non fisicamente, magari lei...ops! scusa, tu riesci a
capire cosa le è successo, si è come... dissociata, forse era schizofrenica. Insomma si
capisce un po’ questa cosa dal diario”.
“Ma l’ho letto solo una volta e poi in un periodo in cui avevo la testa in mille posti diversi,
l’ho letto a 18 anni, oramai sono passati 5 anni. Lo dovrei rileggere anche io!”
“Magari ti può essere di aiuto per i tuoi studi sulla follia” dice Andrea rivolto a suo padre
“magari ci puoi scrivere un libro.”
“Ehi, ehi calma. Non ho detto che mia nonna era pazza, voglio dire che mi sembra di aver
capito che, in seguito ad un episodio un po’ forte per la sua psiche, lei, come forma di
difesa si è costruita un suo mondo interiore ed ha sviluppato una seconda personalità, un
po’ era lei, un po’ era un’altra persona...”
La ascolto estasiato e quasi con la bava alla bocca! Questo materiale è pane per i miei
denti. Benedico mentalmente Andrea per avermi obbligato ad essere qui.
“Ma poi è guarita.”
“Stai torturando mio padre con questa storia, Francesca! Portagli questo diario, ti prego,
altrimenti non me lo scrollo più di dosso.”
“...anche le lettere, ti prego...” aggiungo quasi sussurrando e quasi implorandola giungendo
le mani.
“Si anche le lettere.”
“Quando va...ops! scusa! Volevo dire: quando vai via?” chiede Francesca
“Domenica mattina. Sabato sera accompagno codesto figliolo al concerto.”
“Noooo, non mi dite! Andate al concerto di Peter?”
“Si, ho comprato il biglietto anche per mio padre, perchè a lui piace molto.”
“Voglio venire anche io!” dice Francesca a mò di bambina capricciosa.
“Ma non posso” incalzò “ho quasi finito i soldi del mese, solo ragni nelle mie tasche e con
l’esame tra qualche giorno non posso permettermi di andare a lavoricchiare.”
“Ti compro il biglietto io, se mi fai leggere il diario di tua nonna.”
“Ma no, te lo do lo stesso da leggere” ride Francesca “però poi lo rivoglio indietro! Sento
che deve appartenere a me, non so perchè...”
“Si dai, Francesca, vieni con noi al concerto, davvero, papà te lo offre volentieri... se non
altro rende contento me!”
“Ma no...il biglietto costa ‘na cifra.”
“Ok. Allora ti ancipiamo i soldi e ce li restituisci quando puoi.”
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“Cavolo, mi costerà una settimana di volantinaggio continuato o di vendita di prodotti porta
a porta. Che palle! odio volantinare o bussare alle porte della gente, ma non riesco a trovare
di meglio quest’anno come lavoretti.”
“Tu Andrea cosa fai per sbarcare il lunario?”
“Il cuoco in un locale peruviano che si chiama Machupicchu.”
“Tu cuoco? In un locale peruviano?? E che ne sai tu di cucina peruviana?” dice Francesca
divertita.
“Nulla. Cucino carne di tutti i tipi. Leggo le ricette da un libro di carni e mi barcameno
così. Però un po’ di soldi li recupero.”
“Ah, ma è vero!” continua “Perchè non ci ho pensato prima? Il proprietario sta cercando
una cameriera ai tavoli.”
“Hai mai fatto la cameriera?” chiede Andrea a Francesca.
“Mai!” risponde ella.
“Soprattutto nei locali peruviani. Come si serve?” chiede ancora Francesca.
“Come ti pare. Il posto è molto spartano. Quindi non dovresti avere problemi.”
“L’unico problema è che è un po’ fuori e con la bicicletta è pericoloso la sera, di solito non
finiamo prima delle due, ma il problema è risolto: ti porto io con la moto! Sempre se ti
fidi!”
“Si, si, mi fido! Allora chiedilo al proprietario...se ha bisogno, io ci sono, almeno non mi
rompo le palle con i volantini!” e continua dicendo:
“Ma posso cominciare solo tra 10 giorni, dopo l’esame, ok?”
“Ok, glielo chiederò. Ora andiamo a cenare altrimenti la mensa chiude.”
Durante la cena mi faccio raccontare ulteriori indizi sul diario. Davvero non ci sto più nella
pelle e non vedo l’ora di averlo tra le mani.
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26. AL CONCERTO
Giunge presto il sabato sera.
Francesca arriva in bici davanti al palazzetto dello sport, ha con sè uno zainetto.
Lo zainetto contiene il prezioso materiale.
Io ed Andrea la stiamo aspettando fuori sui gradini dell’ingresso principale. C’è un
mare di folla.
“Certo” penso o fra me e me “che alla “folla” manca solo una “i” per diventare
“follia”, pensa un po’” dico ciò a me stesso, menomale.
Francesca lega la bicicletta ad un palo con un catenaccio esagerato (le avevano già
rubato 3 bici, spiegò dopo) e si avvia verso i compagni di concerto.
“Ecco qua” dice Francesca.
“È tutto contenuto qua dentro.”
“C’è anche un quadro di un mio zio chimico, non so... mi ha turbato quando l’ho
trovato nella scrivania insieme alle altre cose e così me lo sono portato dietro.”
“Grazie Francesca” dico estasiato “mi hai reso felice.”
“Ora non avrai più voglia di vedere il concerto!” dice Andrea.
“No, no” rispondo “ho voglia di vederlo più che mai e sono contento veramente di
aver accettato il tuo invito, grazie figliolo, sono commosso! Passami un fazzoletto,
ti prego.”
“...ma va a cagare, papà!”
E, ridendo sulla battuta, i 3 si fanno strappare i biglietti dagli organizzatori ed
entrano nel palazzetto.
Il gruppo di spalla ha già incominciato a suonare. È una musica tribale, un ritmo
della terra, luci calde, africane illuminano or uno ora l’altro musicista vestiti tutti
con i gonnellini di paglia e le parrucche ricce. I piedi scalzi.
Questa musica coinvolgente mi porta a pensare:
“Sarebbe bello se questi due si innamorassero.”
La stessa musica porta Andrea a pensare:
“Sarebbe bello se piacessi a Francesca. Questa ragazza mi sta facendo impazzire.
Chi sei Francesca? Ho voglia di scoparti.”
Il medesimo ritmo porta Francesca a pensare:
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“Sarebbe bello se piacessi ad Andrea. C’è qualcosa che mi attrae di lui. Qualcosa
che sono sicura di sapere ma che non ho capito. Chi sei veramente Andrea? Ho
voglia di scoprirti.”
20 minuti dopo l’inizio del concerto fa il suo ingresso Peter in una scenografia
pazzesca! È stato un concerto indimenticabile.
Il giorno dopo io me ne torno a casa in treno. Durante il viaggio comincio a
leggere il diario di Nina. È stata un’immersione in apnea interrotta solo dal fatto
che, ad un certo punto, sono dovuto scendere, prendere la bicicletta che avevo
lasciato in stazione, arrivare a casa, salutare di fretta e furia mia moglie che mi ha
fatto un sacco di domande sulla trasferta bolognese...”dopo”, “dopo...” mi rituffo
nella lettura. In 3 giorni ho letto anche tutte le lettere che Francesca mi ha portato,
attenendomi ai suoi consigli nel seguire l’ordine di lettura. Lei mi ha detto di
averle lette a caso e di aver fatto fatica a mettere insieme i pezzi del mosaico.
Quando sono partito, Andrea e Francesca sono rimasti sul binario numero sette a
vedere il treno allontanarsi verso Sud e a salutarmi con la mano.
Ad un certo punto il treno per loro diventa un punto lontano all’orizzonte laddove i
binari si incontrano. Rimangono lì sul binario a ringraziarsi a vicenda per la bella
serata del giorno prima. Non riescono a salutarsi e separarsi. Si avviano perciò
insieme all’uscita della stazione.
È domenica e nessuno dei due ha voglia di tornare sui libri. Decidono di fare un
giro sui colli con la moto di Andrea. La temperatura è gradevole. Prima però
decidono di passare da casa di Andrea per mettere un asciugamano, o una coperta
e due fumetti nello zaino. Avrebbero steso l’asciugamano sul prato ed avrebbero
letto Martin Myster lei e Dylan Dog lui. Si sarebbero fatti accarezzare dal sole.
Avrebbero guardato romanticamente le nuvole viaggiare in cielo su percorsi non
prestabiliti. Si sarebbero raccontati a vicenda. Ma...
...ma niente di tutto questo è accaduto. Perchè dalla moto è scesa anche Francesca.
Ed anche lei è entrata nella camera di Andrea volendo scegliere personalmente il
fumetto da leggere sui colli. Ma, mentre si fa ispirare dalle copertine ammirando le
collezioni fumettistiche di Andrea, è colta da sgomento.
L’aria si è fatta strana, quasi irrespirabile, una sensazione di disagio, quasi di
imbarazzo anticipa l’imbarazzo di Andrea che è di fianco a lei per scegliere i
fumetti da mettere nello zaino. Poi si sposta dietro di lei per prendere un fumetto in
alto e, avvolgendola, ma senza toccarla, le sfiora testa, spalle, culo e gambe.
Praticamente tutto il corpo. È questo sfiorarsi che genera l’imbarazzo: “mosquito”,
come Andrea lo chiamava quando era piccolo, si risveglia prepotentemente e
Francesca lo sente bene ed esclama dentro di sè: GULP! Cosa volete? Tale padre,
tale figlio!
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I battiti del cuore di Andrea sembrano una locomotiva a pieno regime che sta per
decollare per chissà quali cieli. Tutto questo provoca l’imbarazzo di Andrea.
Francesca, grazie al quinto senso e mezzo femminile, ha anticipato nella sua testa
di una frazione di secondo, quanto sta per accadere.
Così, come spinta da un atavico richiamo, si gira di scatto ed incontra le labbra di
Andrea che è rimasto in apnea, irrigidito. Baciandosi si abbracciano.
Abbracciandosi si baciano. Baciandosi si abbracciano. Abbracciandosi.... insomma
non si staccano più.
Per essere chiari: io non c’ero, però questo è quello che mi sono figurato nel mio
immaginario dai frammentari racconti di Andrea al telefono.
Dopo svariati minuti, quanti? Boh! Tanti. Si staccano. Giusto un secondo per
riprendere fiato. E poi, la tensione è oramai calata ed è tutto un crescendo di
desiderio. Si toccano, si schiacciano uno sull’altro e l’altro sul letto che costituisce
l’arredamento principale ed più ingombrante della camera. E si ribaltano per
toccarsi in altre parti dei corpi fino ad esplorarsi falange per falangina per
falangetta per polso per braccio per tette per gambe e per inguine per poi risalire su
per la schiena fino alla testa, su per la colonna vertebrale, su per il collo ed i
capelli. Ed una mano smaniosa di qua ed un’altra libidinosa di là, il dito indice di
Francesca nell’ombelico di Andrea. E si ri-ribaltano, si ri-baciano, si tirano i
capelli. Che centra questo? Niente, un raptus di Andrea. “Ahi, Ahia!” urla
Francesca. “Scusa, scusa, scusami amore mio” implora Andrea “non lo faccio
più!”
Bugiardo, lo farà svariate volte nel corso della loro storia!
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27. LO SCRITTORE
Dietro ogni scemo c’è un villaggio
De Andrè nel suo “Il matto”
Ho capito subito quale sarebbe stato il contenuto del mio terzo libro.
Questo è il mio terzo libro.
Io sono lo scrittore di questa storia.
Non ne ho la certezza matematica, ma tutti i dati da me raccolti nei lunghi anni
della mia vita ed il materiale portatomi da Francesca, mi fanno dedurre che mio
padre sia Fulvio, cioè suo nonno.
Se questo è vero, in un qualche modo, Andrea è cugino di Francesca.
Quando gli ho esposto la mia teoria, Andrea si è incazzato come una iena.
“Te e le tue ricerche del cazzo. Mi hai rovinato tutto. Adesso come faccio a non
pensare che Francesca è mia cugina.”
“Guarda che non è detto che lo sia.”
“Ma dai, il diario di Nina ed i disegni di nonna Marta, è evidente! Non può che
essere andata così!”
“Ma porca miseria!” ha continuato Andrea “ma tutte a me dovevano capitare” ed
ha chiuso in malo modo il telefono.
Il giorno dopo Andrea è più tranquillo al telefono, ne ha parlato con Francesca che
era stata precedente informata da me e si è convinto, che tutto sommato, la
faccenda può anche non influire sul loro rapporto. Non riescono proprio a sentirsi
cugini!
Io, dal canto mio, viaggio ad un metro da terra: sono certo di aver finalmente
trovato mio padre.
Io sono il frutto di una violenza, ma non riesco ad odiare.
Io non sono stato voluto, io sono capitato per caso, no, anzi, per necessità. O
meglio: la necessità che io nascessi è stata determinata dal caso. Ho capito che il
caso è necessario nella realizzazione delle umane esistenze e vicissitudini.
Paradossalmente, ora che ho scoperto chi mi ha orginato, non so più chi sono. Ma
non sono rammaricato, non sono dispiaciuto. Forse perchè esiste Francesca, forse
perchè a questa mia nipotastra io mi ci sono affezionato e pure molto, ma proprio
non riesco ad odiare suo nonno, cioè mio padre.
Ho capito che è stata la disperazione a fargli compiere la violenza su mia madre,
una necessità, un puro atto di follia, momentaneo, questo è evidente dal
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pentimento dichiarato da lui stesso nel diario di Nina. Sono il frutto di una, seppur
momentanea, follia.
Ah che soddisfazione!
Proprio io. Non me l’aspettavo.
Da anni ho imparato che il seme della follia si era insinuato, in un modo o
nell’altro, nel ramo materno dell’albero genealogico, scoprendolo circolare anche
nel ramo paterno, non so più cosa pensare!
Ho passato la vita a speculare sulla follia, sull’essere matto, sulla pazzia. Vogliono
queste tre parole dire la stessa cosa? Vogliono per caso sintetizzare il disagio
dell’uomo di vivere una vita che non capisce, che non gli appartiene o a cui non
appartiene? Pare che l’unico modo per sfuggirvi sia pensare ai beni materiali, a far
soldi, a rincorrere il potere anche nell’intimo piccolo del proprio orto.
Se tu lavori,
o studi e poi lavori,
poi ti sposi e ti fai la casa,
o la compri,
o la paghi un tot al mese e non sarà mai tua,
poi fai figli e ti lasci invecchiare, magari incazzandoti perchè i vicini quando
scopano fanno casino e tu invece con tua moglie, guai, tutto si consuma in
religioso silenzio,
oppure incazzandoti perchè il tuo capo ti ostacola e il tuo collega ti mette le
piedi sopra la testa,
poi ti lasci pagare la pensione dallo stato, perchè è giusto, dopo tanti anni di
lavoro, sempre se un lavoro l’hai avuto...
...oppure se tu fai i soldi ammazzando la gente,
oppure ammazzi la gente perchè credi in una idea,
o fai la guerra santa,
o fai la guerra preventiva,
o fai la guerra e basta,
...oppure se scopi come un riccio e vieni 5 volte al giorno
o ti dai alla cultura e diventi un intellettuale
di sinistra o di destra che dir si voglia e raffini i tuoi gusti in fatto di sesso,
cibo, vacanze, donne, uomini, idee, passioni...
oppure diventi efficiente e mandi avanti un paese intero, nel bene e nel male, ed
intanto ti pari il culo...non sei un intellettuale, ma ti va addirittura meglio
...oppure se ti chiudi in un convento di clausura
e poi fai buttare la chiave e preghi e riesci perfino ad andare in estati ed ad
annullarti completamente di fronte ad un dio, un libro, una parola, una verità, la
verità, chi lo sa!
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...se tu riesci a fare almeno una di queste cose, tu hai esorcizzato la PAURA dello
scoprirsi essere vivente e pensante in grado di osservarsi si, ma MAI capirsi,
allora, solo allora,
FORSE,
sei fuori pericolo e non rischi di diventare:
MATTO!
Insomma la mia conclusione è che non bisogna tanto porsi delle domande se si
vuole rimanere integri di mente, non bisogna cercare di capirsi, non al livello
ontologico almeno, bisogna darsi delle ragioni per vivere mediamente 77 anni gli
uomini, 82 anni le donne e poi accontentarsi di vivere ancora qualche anno nel
ricordo delle persone che ci hanno conosciuto. Tutto sommato a Fulvio e Nina ed
anche al padre di Marta ed a Marta stessa è andata piuttosto bene. Sono ancora
longevi nella mente mia, di Francesca ora anche di Andrea, ora anche di voi che
avete letto la loro storia. E questo è un onore per la loro vita. Aveva uno scopo la
loro vita? Si, farmi scriverla e farvela leggere. Meglio di tante altre anime destinate
all’oblio dopo solo pochi mesi, se non addirittura giorni, dalla dipartita.
Io mi sto avvicinando alla media e la mia paura sta aumentando. Sono angosciato.
Poi penso che magari sarà tutto più semplice, come sprofondare in un sonno,
magari senza sogni. Oppure fatto di sogni. Pensate che figata (questa parola non
mi si addice molto, ma la sento dire spesso da Francesca)! È come sognare per
l’eternità. E magari sogniamo di vivere, ci diamo un corpo, ci costruiamo degli
ambienti, autoapprendiamo ad interagire con essi ed interagire fra di noi. Poi
dipartiamo e ci ritroviamo ancora in un altro sogno e ci diamo un altro corpo e via
così...ecco spiegata la metempsicosi!
Si può essere folli per un attimo, come Fulvio
Si può essere folli per gli altri e non per sè stessi, come mio nonno
Si può essere folli per sè stessi ma non per gli altri, come me
Si può essere...
Non ringrazierò mai abbastanza Francesca per l’immenso regalo che mi ha fatto.
Non so se lei continuerà a frequentare mio figlio, spero solo che, nel caso si
dovessero lasciare per via di questa assurda parentela o per qualsiasi altro motivo,
lei resti sempre vicino a me ed ad Andrea. Il mondo ha bisogno di persone come
lei. Il mondo ha bisogno di cose vere. Il mondo ha bisogno di follia.
Fine seconda parte
123
EPILOGO
Per caso la bottiglia ha scelto Nina fra tutte le ragazze partecipanti al gioco.
Per necessità Nina ha avuto bisogno di essere anche Teresa.
Per caso la bottiglia ha scelto Tommaso come partner di Nina per la “penitenza”
prevista dal gioco.
Per necessità Filippo è partito per le Americhe.
Per caso Tella si è ritrovata una scrivania da scardinare.
Per necessità mio padre ha disertato.
Per caso mia madre era fuori nell’aia il 5 novembre pomeriggio alle ore 15 e
qualcosa.
Per necessità sono venuto al mondo io.
Per caso Andrea ha incontrato Francesca.
Per necessità Francesca è ora partita per la Svizzera.
..............
Per caso o per necessità Francesca ed Andrea non stanno più insieme. Non so cosa
è successo fra di loro, nessuno dei due me ne ha voluto parlare. Francesca non è
più a Bologna, è andata fuori Italia per fare la sua tesi, ma mi scrive spesso, mi
scrive le email. Ancora mi ricordo, i due ragazzi ci hanno messo un giorno intero
fino a notte a spiegarmi come si fa. Ma ora sono contento di usare questo mezzo di
comunicazione. È rapido e comodo.
Per caso o per necessità, Andrea è tornato con la sua ex, quella che aveva prima di
Francesca e che aveva lasciato per Francesca. Più per necessità direi, comunque lei
lo ha perdonato.
Per caso o per necessità Francesca circa un anno dopo il nostro primo incontro, ha
conosciuto un tipo che faceva il dottorato nella sua facoltà. Più per caso direi. Se il
tipo avesse deciso di studiare psicologia o storia o economia o legge, forse, ma
forse, lei non lo avrebbe mai incontrato, non si sarebbe fatta prendere dalla
passione per i suoi studi e non avrebbe deciso di seguirlo all’estero. E sarebbe
rimasta la ragazza di Andrea.
Chissà se il caso o la necessità li rifarà re-incontrare in un qualche altro paese,
sotto qualche altro cielo. Non so, ma ho un debole per questa ragazza e vorrei che
fosse la mamma dei miei nipotini. Non solo, mi piace l’idea che sia lei ad
accompagnare Andrea nella sua vita difficile in una epoca difficile e tortuosa e per
niente generosa.
Lei ora non ci pensa proprio, ad avere figli dico, ma è logico. Ha la sua strada da
fare e poi meglio! Magari la necessità di Amore aiuterà il caso a farli incontrare di
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nuovo, che ne so? In un convegno a Las Vegas, nella metropolitana della caotica
Parigi o su una panchina di Hyde Park a Londra, oppure semplicemente nella
libreria sotto le due torri a Bologna cercando un qualsiasi libro che possa elevare
loro la mente e, in misura maggiore, lo spirito.
Magari.
Fine romanzo
125
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La necessità del caso - e