numero 1 dicembre 2007 € 0.00 babel edizioni
parliamo di videogiochi
Ridefinire lo stile e non essere calcolati:
Odin Sphere a pag. 015
BABEL
http://bab3l.splinder.com
contents
n.001 dicembre2007
COPERTINA
space invaders
GRAFICA E IMPAGINAZIONE
federico res
EDITING DEI TESTI
federico res
SITO WEB
http://bab3l.splinder.it
FILE OSPITATI DA
www.paolofranchini.com
SUPER PAPER MARIO
mario s’incarta su Wii 004
REDAZIONE
tommaso “gatsu” de benetti
federico res
vincenzo “vitoiuvara” aversa
giovanni “giocattolamer” donda
cristiano “amano76” ghigi
alvise “kintor” salice
michele “macca” iurlaro
francesco “xibal” sili
michele “guren no kishi” zanetti
Review
Super Paper Mario 011
Fifa 08 012
Tomb Raider Anniversary 013
Scramble Commander 014
SYNTHESPIAN:
BABEL
002
underRated
Odin Sphere
015
OST - Music in the gaming
Digital Devil Saga 2
009
HANNO COLLABORATO
valentina “bluvalentine” paggiarin
emanuele “emalord” bresciani
Babel va assunto per via oculare in dosi
più o meno massicce, in rapporto al
peso specifico della vostra passione. La
stampa è caldamente consigliata, tenendo presenti questi semplici accorgimenti: stampare prima le pagine
dispari, voltare i fogli e reinserirli nella
stampante, stampare le pagine pari.
Una rilegatura in pelle di camoscio tibetano è l’ideale, ma vanno bene anche un
paio di punti metallici.
Ignition
Welcome to the Tower
003
gnocche di bit 010
Frames
Synthespian in Vendita 007
Dal Vangelo Secondo Tommaso
Media Distribution 004
Odio di Gomito
Wii e la fatica di videogiocare 005
Esco di Rado (ma gioco pure troppo)
Chi ha bisogno dell’Online 006
Giochi Di Merda
Shinobi & The Red Star 016
LOST ODYSSEY
profezie videoludiche 004
La TV che Videogioca
Make Love not Warcraft 017
Nostradamus!
Lost Odyssey 018
I G N I T I O N
001
Welcome to the Tower
W
elcome to Babel. Benvenuti sulla Torre.
Benvenuti.
Mi chiamo Babel e parlo di videogiochi. Ne
parlo in tante lingue diverse, come si può immaginare dal mio nome. Ma il mio cuore, quello che
batte il ritmo dell’hardcore gamer, è sempre lo
stesso. Anche quando rallenta e se la intende
con il gioco più fugace, anche quando civetta
con quello portatile. E’ sempre lo stesso ed ha
sempre fame. Di giochi, di bei videogiochi,
prima di tutto. Ma anche di belle parole, di parole che esprimono concetti, che aderiscono il
più possibile alle grinze del mondo videoludico
passando per quel diaframma che è la mia lingua, o meglio, le mie molte lingue intrecciate.
Parole che sanno fluire e arrestarsi, lambire gli
argini o contro di essi premere con forza; parole
che vogliono parlare del videogioco come poche
altre bocche fanno o hanno fatto in passato: con
coscienza, entusiasmo, partecipazione.
Il mio è un cuore che ha fame di parole che
hanno fame. L’intera Torre ha fame, una fame
gigantesca: Ring, la prima rivista indipendente
di Cultura e Critica del videogioco, è definitivamente passata a miglior vita, regalando in un
rantolo finale il suo celebrativo numero 100. Videogiochi, erede di quel Super Console che da
solo, per un lustro, ha costituito la storia dell’editoria italiana di videogiochi, è anch’essa trapassata. Game Pro, l’attuale “figlio molto
illegittimo” di Videogiochi, preferisce adagiarsi
sui contenuti anglofoni della “rivista più autorevole (ehm) del mondo”, ovvero Edge. Resta
poco, per chi si nutre di passione e informazione. Resta solo una grande fame.
Ecco che abbiamo risposto alla prima delle domande che le convenzioni del caso ci obbligano
a soddisfare: perché Babel. Babel perché il
cuore e con lui l’intera Torre hanno fame. Di parole, di parlare la lingua e le lingue del videogioco e di farlo senza porsi alcun limite.
La seconda domanda, è cosa è Babel. Babel è
una rivista mensile totalmente gratuita, scaricabile in formato PDF dal sito
http://bab3l.splinder.com. Una parte dei
suoi contenuti, secondo le esigenze di lettori ed
autori, verrà rilasciata sottoforma di singoli PDF
nelle settimane precedenti all’uscita di ogni numero. Su http://bab3l.splinder.com sarà
inoltre presente un database che permetterà il
download di ogni numero completo e ogni singolo articolo, sempre in formato PDF, grazie ad
un comodo navigatore. Inoltre, un utile tasto
feed permetterà a chiunque di essere sempre
aggiornato sugli ultimi contenuti pubblicati.
I numeri mensili sono i piani della Torre, gli
articoli singoli sono i suoi mattoni. Gli uni e gli
altri sono ugualmente fondamentali, gli uni e gli
altri costituiranno insieme la bipolare essenza
del progetto. Un’ essenza ottenuta, non sintetizzata, dalla fermentazione naturale di svariati
fattori. Permetteteci di riassumerli.
Fame. La fame di cui già si è parlato. La fame
di una cerchia di personalità, per il momento
ancora ristretta ma che si espanderà - si spera presto, di personalità diverse, opposte, complementari, sempre e comunque invischiate nel
mondo del videogioco in tutti i modi possibili.
Qualcuno riconoscerà alcuni ex membri di Ring,
qualcun’altro ritroverà parte della ciurma del
blog TheZeroPlace e alcune presenze fisse sul
forum di The First Place. Giocatori incalliti, giocatori riflessivi, giocatori per necessità ma mai
per caso.
Pluralità. Pluralità di vedute, di punti di vista,
di visioni del mondo videoludico. Idee differenti,
modi di intendere e fruire del videogioco distinti
e precipui, finestre diverse aperte in modo diverso su un unico mondo di riferimento. Tenendo fede al suo nome, Babel raccoglie in sé le
parole e le opinioni di persone distinte che tali
vogliono restare. Nessun conformismo, nessuna
volontà di appiattire gli stili o ricercare chissà
quale utopica organicità. Con una differenza:
nonostante le diversità, ogni lingua comprende
le altre e con le altre partecipa in concerto. Questa è la nostra forza, la forza della Torre dove il
tutto vale le parti e le parti valgono il tutto.
Agilità. In un mondo editoriale dove le alternative sono soltanto due, puntare sulla velocità
a scapito dei contenuti o sui contenuti a scapito
della puntualità, Babel erge fiera la sua altezza,
forte di una struttura concepita per costituire la
terza via. Via che passa, come già detto, per
delle regolari uscite mensili integrate da aggiornamenti settimanali. In pratica, Babel cresce in
tempo reale ed ogni mattone è subito disponibile per chiunque. Un processo agile ma al
tempo stesso genuino, programmato e sistematico. Nessuno corre dietro alla Torre, ma lei sta
al passo di chiunque.
Estetica. Come Ring prima di lei, Babel vuole
offrirsi gratuitamente a tutti in una veste sfavillante. Ecco dunque la sua orgia di colori e la sua
altissima risoluzione, originariamente creati tenendo ben presenti le esigenze di tutti coloro
che, preferendo l’insostituibile carta stampata
allo schermo di un PC, armeranno le proprie
stampanti per dare piena giustizia alla Torre.
Infine, qualcosa di difficilmente descrivibile se
non come un miscuglio ribollente di entusiasmo,
volontà espressiva e comunicativa, irriverenza e
sarcasmo e ironia e preveggenza. Qualcosa che
passa per le pionieristiche analisi critiche di Ring
attraversando il muro delle inestricabili meccaniche del business, qualcosa che continua a vedere nel videogioco quella esclusiva natura di
medium mutante soffocata da onnipresenti logiche commerciali, qualcosa che vuole riprendersi
il puro e semplice quid del videogiocare ma non
disdegna l’emozione innanzi alle venature d’arte
che incrostano le articolazioni multisnodate dei
giochi elettronici. Forse, il nome giusto per tutto
ciò è passione.
Buona lettura.
Federico Res
003
Tommaso De Benetti
Tommaso De Benetti è stato membro
fondatore e colonna portante di Ring,
la rivista più amata dai videogiocatori
meno rincoglioniti. Qualche tempo fa,
esasperato dall’ignavia invincibile degli
ormai depressi ringhici, ha lanciato da
solo il progetto RingCast (reperibile su
iTunes), primo podcast italiano a tema
videoludico, a cui comunque la vecchia
guardia partecipa a corrente alternata.
Gatsu, secondo il nick con cui è solito
firmarsi su Internet, attualmente vive e
tromba a Helsinki, tra frotte di bionde
ninfomani e sferzate di gelo più o
meno devastanti.
Dal Vangelo secondo Tommaso
Media Distribution: videogame al giro di boa
M
La Legendary Edition di Halo 3 è probabilmente l’edizione
speciale più sfacciatamente trash che la storia ricordi, per
via del plasticoso caschetto di Master Chief riprodotto in
scala. Simili “special edition” costituiranno l’unica fonte di
guadagno per gli sviluppatori, che rilasceranno i giochi
gratuitamente su Internet. Un’utopia?
004
distributive.
In una prospettiva diversa, innanzitutto. Il software demo, shareware e
freeware esiste da lustri e senza dubbio
ha contribuito notevolmente allo
sviluppo del panorama informatico così
come lo conosciamo. Diversa, dicevamo,
ma allo stesso tempo anche familiare:
se siamo ancora moderatamente lontani
dal parlare di giochi nuovi completamente gratuiti (almeno per quanto
riguarda il panorama console, su questo
fronte il PC fa storia a sè, anche per il
fatto di essere stato il primo a potersi
connettere alla rete), siamo decisamente meno lontani dal full digital delivering su cui i più vecchi di noi
fantasticavano solo qualche anno fa. Ed
è in questo punto che i due mercati,
quello videoludico e quello musicale,
tornano a correre paralleli: quello che si
profila all'orizzonte è uno scenario in cui
a sparire progressivamente sarà l'edizione 'standard'. Da un lato avremo la
possibilità di downloadare direttamente
il gioco sulla nostra piattaforma, con
tanto di libretto elettronico. Dall'altro,
edizioni limitate extralusso, che includeranno ogni genere di extra possibile e
immaginabile, per un prezzo ovviamente
ettiamo il caso che domani, preso
da frenesia pre-natalizia, decidessi
di fiondarmi al Mac Store a due
minuti da casa mia per mettere le mani
su un iPod Classic da 160 Giga. Mettiamo
anche che, tornato a casa, mi senta investito da un refolo di onestà e rettitudine e decida di iniziare a riempirlo
partendo dall'Apple Store Online, come
tutti gli scaricatori diligenti dovrebbero
fare (nei sogni bagnati di Steve Jobs).
Riuscirebbe il mio buon cuore a sopportare lo stress dovuto al fatto che ogni
canzone costa 0,99 €, pesa approssimativamente 3,5 Mega e che la cifra per
riempire il mio nuovo lettore di musica si
attesti quindi intorno ai 45,237 €?
Volendo fare proprio il poveraccio,
chessò, riempiendolo per metà di musica
rippata dai vecchi cd della mia collezione,
podcast gratuiti e video di YouTube, mi
ritroverei a dover salutare grossomodo
22,500 €, una cifra che anche Piersilvio
Berlusconi potrebbe avere qualche
remora a sganciare solo per sfruttare al
massimo il suo nuovo acquisto.
L'industria musicale, ferma ancora ad
un concetto di distribuzione e remunerazione le cui radici affondano nel 18° secolo (vedere: Statute of Anne, prima vera
legge sul copyright nel Regno Unito, base
di tutte quelle che seguirono) è anni luce
indietro rispetto ai protagonisti stessi delmaggiorato. Inoltre, alcuni grossi publisher hanno iniziato a pensare di utilizzare i loro prodotti vecchi e ormai
invendibili come ulteriore spinta pubblicitaria per quelli più recenti, con modalità del tutto analoghe a quelle che il
famoso esamble Wu Ming utilizza per la
promozione dei suoi libri. Ubisoft rilascia
Far Cry, Prince of Persia: Le Sabbie del
Tempo, Rayman Raving Rabbids e Ghost
Recon, scaricabili liberamente dalla rete.
Majesco rende gratuito il download di
Psychonauts. Telltale Games mette a
disposizione un intero episodio delle
nuove avventure di Sam & Max (Abe
Lincoln Must Die, per la precisione). Se
prima i giochi gratuiti erano quelli arcade, sviluppati da appassionati e limitati al solo ambito PC, quello a cui
stiamo assistendo è un cambio di trend
che, per quanto limitato, non può essere
ignorato. Esistono peraltro vie alternative, come quelle percorse da alcuni
MMORPG, che fanno pagare il gioco ma
non l'abbonamento, o, viceversa, regalano il gioco ma richiedono un'obolo
mensile per poter essere giocati decentemente.
Non esiste ancora un think tank
definito per il mercato videoludico, una
l'industria, i musicisti. Che con formule
più o meno fortunate, stanno cercando
da anni di sganciarsi dall'idea che l'album, o il cd fisico, sia l'unica e possibile
fonte di reddito di un artista. Le strategie
più affascinanti, quelle che più assomigliano ad una release candidate, per
utilizzare un termine conosciuto in ambito
videoludico, sono quelle presentate recentemente da band il cui peso è tutt'altro che trascurabile: Radiohead, Nine
Inch Nails, Oasis, solo per citare i più
grossi. L'idea di fondo è, in sostanza,
quella di bypassare il distributore (le
major) per raggiungere direttamente
l'utenza, spesso senza nemmeno
chiedere un prezzo prestabilito in cambio
del prodotto musicale. Se Tom Yorke deve
decidere quante date fissare per il tour,
può farlo sapendo che almeno due milioni
di persone (and counting) hanno scaricato l'ultimo lavoro della band per vie ufficiali, e che quindi lì fuori ci sono
altrettante persone potenzialmente ben
disposte a pagare per vedere la band dal
vivo o per supportarla tramite il merchandising (sono disponibili ulteriori dettagli
nelle pagine ufficiali delle band citate).
Ora, per tornare in topic con le tematiche che Babel si propone di trattare,
credo sia opportuno verificare a che
punto si trovi l'industria del videogioco in
questo cambio epocale di politiche
pratica mercantile standard; anzi, siamo
nel bel mezzo di una tempesta di marketing creativo. Sicuramente i tempi
sono ancora immaturi per iniziative
come quelle di far pagare il gioco appena uscito (esempio, un fantomatico
Gears Of War 2) una cifra qualsiasi
definita dall'utente. Ma se una delle
band più rilevanti della scena musicale
rischia in proprio proponendo lo
spendido In Rainbow ad un prezzo random, rientrando comunque ampiamente
nei costi sostentuti - alla faccia delle
major impaurite che gridano al fallimento per evitare il fuggi fuggi generale
degli artisti -, non c'è motivo per non
credere che il resto dell'industria dell'entertainment non possa, e non deva,
muoversi in quella direzione. I soldi che
un IP importante come Halo può muovere, se vogliamo citare l'esempio più
scintillante, non sono praticamente più
collegati al gioco vero e proprio, ma a
quell'universo composto da miriadi di
gadgets, vestiti, accessori, servizi extra,
film, serie machinima e cibi sponsorizzati da Master Chief in persona. Vogliamo scommettere che da qui a cinque
anni il modello economico del mercato
sarà irriconoscibile?
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni
Giovanni Donda, in arte Giocattolamer,
è italiano di nascita e inglese d’adozione.
“Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È
entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola
azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o
prodotti qui non verranno mai menzionati.
Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va
da sé che le sue opinioni siano appunto
tali. Pure questo. La moglie, invece,
gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta
del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non
capisce l'italiano e crede ancora che
“Odio di Gomito” sia solo il romanzo che
gli pagherà il mutuo.
Odio di Gomito
Del Nintendo Wii e di questa gran fatica che è il videogiocare
O
ggi ho ordinato altri dieci devkit del Nintendo Wii per la mia
ditta. E fin qui tutto bene.
Tranne i tempi di attesa, ma quella è
un’altra storia. Tutto bene, dicevamo, perché la ditta inizia a farsi
conoscere, la grana inizia a entrare
regolare, e i partner internazionali iniziano a fidarsi di un italiano fra i dirigenti di una società scozzese. Non è
facile, per una compagnia indipendente di controllo della qualità come
la mia, rimanere a galla al giorno
d’oggi. Io, con grossa grattata di
coglioni, pare ci stia riuscendo, ma il
Wii ce la sta mettendo proprio tutta
per rovinarmi la giornata.
La console Nintendo ha funzionato,
e sta funzionando, su diversi livelli.
Se ascoltassi solo il mio lato da
videogiocatore incallito non avrei di
che lamentarmi, dopotutto l’abbiamo
gridato noi agli otto venti che ci serviva questa rivoluzione. L’altro lato,
però, quello professionale, cinico e
perennemente disconnesso, guarda il
telecomando Wii, afferra il Nunchuk,
indossa - mi raccomando - il laccetto,
e non può non pensare ai mesi di
Anche qui, l'inventore del bidet
può fare sogni tranquilli. Non a
caso, infatti, era la stessa cosa che
volevo fare io dopo due intense settimane a sventolare braccia per
Sony. Ma se l’EyeToy non decollerà
mai, se non per una nostra distrazione, il Wii tira come un certo
qualcosa che, se troppo lungo,
dovrebbe essere bandito. Se non di
più. E dove tira il mercato, la mia
ditta deve pure andare, più povera
di dieci dev-kit Wii, e con una
nuova campagna acquisti personale
a gravare sul bilancio di fine mese.
Ci vogliono settimane, quando
non mesi, per preparare come si
deve un nuovo arrivato. E giusto
quando lo hai finalmente convinto
che “testare” e “giocare” sono proprio su due vocabolari diversi, ecco
che viene pagato per gesticolare
peggio di un turista italiano alla fermata del double decker. Proprio
come uno scherzo, un gioco è bello
quando dura poco. L'euforia iniziale
si tramuta ben presto in altri sin-
gavetta spesi su titoli EyeToy. Gli
stessi finiti direttamente nel bargain
bin. Non sto neanche scoprendo il
bidet, che il Wii sia spesso smascherato come l'ennesimo gimmick al
servizio dell'industria, di quelle
trovate che dovrebbero attirare
quell’inesauribile massa di non-videogiocatori là fuori, è una realtà che
rimbalza da parecchio tempo da un
opinionista all’altro. Ma il Wii sa essere ben più bastardo della telecamera Sony. È qui per restare.
Aprendo una nota squisitamente
personale, io al Wii non riesco più a
giocarci. Mi fanno male le braccia al
solo pensiero. Chiudo subito la parentesi personale, però, poco importa
che stia prendendo polvere nel mio
ufficio, ben più grave è che lo faccia
sulle scrivanie dei miei tester. Oggi a
casa - tra virgolette - malati, domani
davanti al sottoscritto per minacciarmi di levare le tende e, quasi peggio, di denunciare la ditta ai medici
dell’NHS (National Health Service,
ovvero l'equivalente della vostra
usl... asl... ausl, o qualsiasi cosa abbiate adesso).
tomi, il più vistoso fra questi è l'ascella pezzata. Il meno vistoso è una
scaltra occhiata alle procedure per
richiedere un sick day il giorno
dopo, e lo sgancio del proprio curriculum su qualche sito di accalappia cani aziendali. Neanche
ricordarli quanto sia deprimente
testare giochi per i settantadue
modelli della Nokia li riporta sulla
retta via. Ingrati.
Basterebbe giusto un po’ di olio
di gomito in più, il pane di ogni
buon tester, ma spiegatelo voi a
questi studenti universitari che vengono a lavorare qui part-time, che
mi si presentano alla porta con gli
occhi di chi non ha capito nulla di
cosa lo aspetti. Spiegaglielo te, Nintendo, piuttosto, perché io la penso
esattamente come loro. Seppur in
criminale ritardo, giusto oggi mi immergevo in Okami e mi stupivo di
quanto fosse comodo dipingere con
la levetta analogica destra del controller di Sony. Un collega mi passa
a trovare, sbircia, e si chiede come
“Se a una console non ci puoi giocare
con quaranta di febbre, non è una console”
[Antico proverbio scozzese]
ci possa anche solo essere voluto
così tanto per decidere di far finire
sul Wii questo signor gioco della
defunta Clover. “Mah...” è quanto di
più cortese ho da rispondere.
005
Vincenzo Aversa
Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque
migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr.
Vitoiuvara ha deciso di condividere con il
mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per
Videogiocatori Professionisti” che oltre a
renderlo famoso, lo ha definitivamente
consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del suo
fidato quaranta pollici ma, come ama
ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto
il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo
ambiente di sfigati.
Esco di Rado (ma gioco pure troppo)
E
Il franchise di Halo, da sempre simbolo di gioco online viste le ottime
funzionalità multiplayer, ha provato
col suo terzo episodio a rivoluzionare
la cooperativa, permettendo a una
squadra di ben quattro giocatori di
affrontare il resto del mondo. L’obiettivo è stato raggiunto?
006
Chi ha bisogno dell’online?
ra il Natale di 5 anni fa quando
sotto l’albero mi feci trovare la
scatola vuota del Network
Adaptor per Playstation 2 (e mica
potevo aspettare) insieme ad una
scatola vuota del primo SOCOM.
Spinto dai commenti divertiti di
altre persone, mi ero fatto convincere del fenomenale potenziale del
gioco a banda larga, e, cazzarola,
duecento ore dopo, ne ero convinto
anche io. Non tanto per il gioco in
sé (ho cominciato ad apprezzare
appieno le potenzialità di Socom
dopo almeno 4 buggatissimi codici
online made in Ubisoft), ma per la
gente, per gli insulti tra amici, per le
quattro risate che sono meglio di
niente dopo una giornata di merda.
Cinque anni dopo, sono ancora
alla ricerca di un gioco, seguito dello
stesso escluso, che sia in grado di
macinare compagnia stabile come il
titolo Sony. SOCOM era l’unica
minestra, era questa la sua forza,
possibilità che i ricchi menu delle
console di questa generazione sembrano non poter più permettersi di
offrire. Per una volta, sembra quasi
assurdo a dirsi, la varietà non ha arricchito l’offerta ma si è resa promotrice di una frammentazione
che, di fatto, rende impossibile la
creazione di gruppi altrettanto affiatati.
In un mercato che si sente in obbligo di realizzare modalità online,
infatti, i giocatori vengono quasi
costretti a repentine e affrettate migrazioni da un gioco all’altro nel
naturale tentativo di provare a
fondo tutto quello che comprano.
Nell’ottica di chi in questo Natale
dovrà confrontarsi con la più malsana serie di uscite in contemporanea di titoli importanti, tutto
questo è persino logico e giustificato. Resta il fatto che alternando
Halo 3 a COD4, PGR4 e FIFA si
finisce con l’addentare bocconi che
non si è in grado di masticare del
tutto. Tutto è rimandabile, per carità, ma saltare l’appuntamento con
il lancio significa anche perdere
l’onda lunga delle presenze, col rischio di finire appiedati anche solo
dopo qualche settimana dal day
one.
È in questo quadro di abbondanza
ed esperienze mozzicate che è perfettamente inquadrabile la differenza di trattamento riservato ad
Halo 3 rispetto al suo predecessore.
Seppure Halo 3 starà macinando
numeri di ben altro spessore (dovuti
ad un Live meglio avviato anche),
infatti, chi bazzica i caldi lidi del Live
avrà notato come l’entusiasmo sia
andato scemando in fretta e come,
a differenza di Halo 2, l’esperienza
online sia stata per molti rimandata
a campagna finita. Difficile racimolare un bel gruppo di amici da
rinchiudere in uno stanzone privato,
laddove nel secondo episodio era
difficile non lasciare qualcuno fuori
dalla porta.
E ad aiutare non sono arrivati
certo gli achievement, di cui il sottoscritto è pure profondamente innamorato, chiariamo. La smania di
Gamerscore ha trasformato l’online
in un campo minato di “stanzine inciucio” create su misura per sbloccare obiettivi tra amici (nonostante
siano in teoria obiettivi limitati alle
partite competitive) e giocatori
mestruati troppo interessati alla vittoria da poter rendere divertente
qualsiasi match. E se non si ha un
achievement da inseguire, giocare
non ha più senso per molti . Quindi,
con Halo 3, si finisce a cooperare,
cercare teschi e al massimo ad organizzare gruppi da quattro, limite
massimo per partite classificate
(quindi ufficiali).
Tutto subito e tutto in fretta,
questa è la parola d’ordine e a
farne le spese sono belle idee come
la modalità online di Splinter Cell
Double Agent, persino alleggerita e
snellita rispetto ai predecessori della
saga, ma ancora troppo articolata
per essere compresa, giocata e
padroneggiata in poco più di due
mesi. Meglio invogliare il giocatore
con premi (gradi, equipaggiamento,
armi nuove) che lo spingano a ritornare, che gli diano un motivo per
giocare più di quanto possa fare la
presenza di un paio di “amici” con i
quali non si è condiviso poi molto.
E i dati parlano chiaro in questo
senso. Il videogiocatore resta mediamente un asociale cronico, più interessato al fuoco del proprio fucile
che non alla compagnia delle lobby.
Niente cuffie se non in presenza di
qualcuno che si conosce bene, poco
chiacchierare e tanto giocare se lo
scopo è lontano dalle grasse risate.
Difficile spiegare quali siano le vere
qualità dell’online a chi reputa
buono il servizio online Nintendo,
che la comunicazione vocale non la
prevede nemmeno. Niente crisi di
pianto per un suicidio ridicolo,
quindi, ma solo la versione con IA
migliorata dell’offline.
C’è pure da dire che le frequentazioni di stanze online non sono
certo quelle di nobili inglesi. Per
qualche strana ragione, il gioco interrazziale riesce a trasformarsi velocemente nella più becera guerra di
insulti. Tra inglesi che reclamano la
propria lingua d’origine, francesi che
non vogliono italiani e italiani che
non fanno altro che cantare popporoppò non appena sentono la
puzza di un francese, c’è ben poco
da salvare in quanto a rapporti
umani. Il lag, la sensazione di sentirsi menomato rispetto all’host
(questo sul Live) e qualche decina
di imbecilli pronti a sfruttare glitch e
bug, fanno il resto.
La situazione sarebbe pure
migliore su PC, dove l’online sembra
aver raggiunto maggior maturità e
dove server, gioco gratuito ed età
media più alta, facilitano la formazione di gruppi affiatati e clan da
combattimento veri e propri. Vero,
però, che l’utente medio è parecchio
scoraggiato dalla poca praticità di
combo cuffia/programmi di chat per
innamorarsene, ma soprattutto è
spaventato da quella triste sensazione di sentirsi in qualche modo
privato del diritto all’uguaglianza,
con tutte le varianti, tra periferiche
ed hardware, che un pc comporta.
Quello che sembra irraggiungibile,
su console, è la rapidità delle patch
e i contenuti aggiuntivi gratuiti che,
magicamente, cessano di essere tali
lontano da mouse e tastiera.
Cinque anni dopo, insomma, ho
perso parecchie delle mie certezze.
L’online gaming, forse, non è il vero
futuro e, forse, si tornerà ad un
mercato che non ne richiede l’uso
forzato ed indiscriminato. In quel
mercato, dove COD6 può fare a
meno di migliorare l’online di COD5
e Halo 4 non fagociterà Halo 3,
forse avremmo giochi con uno
scopo e una missione precisa: chi
quella di divertire tra le quattro
mura di casa, chi quello di simulare
una pizza tra amici. Forse, non
sarebbe un male.
POLYWOOD
benvenuti a
synthespian in vendita - venduti!
a cura di Giovanni “Giocattolamer” Donda
F R A M E
L
a notizia iniziò a trapelare alla fine
del secolo scorso. In quel di Hollywood era in cantiere un film in cui
gli attori in carne ed ossa sarebbero stati
irriconoscibili dalle loro rispettive controparti poligonali. Ma per quanto sarebbe
bello poterlo fare, non stiamo parlando
del futuro come fosse oggi, perché per
quanto uno si sforzi di immaginarselo,
sarà sempre il quotidiano a stupirci di più.
I synthespian di Project 880, infatti, non
sono fantascienza, sono un sogno che il
regista James Cameron tiene chiuso in un
cassetto dal 1996. Avatar, questo l’altro
titolo associato al medesimo progetto,
non ha ancora visto la luce a causa di una
certa arretratezza tecnologica, ma se il
testardo regista di Titanic assicura che si
farà, si farà. E quando accadrà, il mondo
dei videogiochi non sarà più lo stesso.
Per pura coincidenza, sempre nel 1996,
un’archeologa faceva salto carpiato nel
panorama videoludico. La locandina di
Tomb Raider spavoneggiava un “featuring
Lara Croft” che solo un domani potrebbe
assumere il giusto significato precursore.
Il concetto che un’icona virtuale si prestasse al titolo, e non viceversa, era rivoluzionario ieri quanto oggi, volendo lo era
ben più dell’esperienza ludica stessa.
Storpiando questo concetto quanto basta,
possiamo re-inventarci la scena: la signorina Croft, annoiata celebrità britannica,
una mattina riceve una chiamata dal suo
agente, due settimane dopo si trova a vestire i panni di un’archeologa e a partecipare alle riprese del colossal Tomb
Raider. Tutto questo non è mai accaduto,
è impossibile oggi, figurarsi nel ‘96. Ma è
forse impensabile?
S1mone, protagonista del
film di Andrew Niccol del
2006 con Al Pacino,
Winona Ryder e Evan
Rachel Wood
Sopra, Lara Croft nella sua
nuova “veste” digitale, in
posa per il remake Tomb
Raider Anniversary. Qui a
lato, Aki Ross in tutto il suo
sintetico splendore.
Per un’altra utile coincidenza, sempre
nel 1996, veniva pubblicato il romanzo
Idoru, di William Gibson, erede di quel
Neuromante che tanto fece per la scena
cyberpunk: questa volta usciamo dallo
sprawl e troviamo una storia d’amore fra
il dio della chitarra Rez e Rei Toei, massima esponente della scena musicale
giapponese. Ma lei non esiste, è un
synthespian, un simulacro digitale creato
solo per fare musica. Un intreccio di codici binari che rimpiazza la carne e le
ossa, ma di fattura tanto pregevole da risultare da esse indistinguibile, arrivando
a fare innamorare di sé un umano. Sebbene seminato nell’orto della pura fantascienza (ma pur ispirato alla contemporanea Kyoto Date), il seme rivoluzionario
germoglia, e l’utopica invasione degli attori virtuali (vactor) accenna ad abbandonare la carta. Negli anni, precedenti e a
venire, troviamo altri esempi nel campo
dell’animazione, con la Sharon Apple di
Macross Plus, e in quello videoludico, con
la Reiko Nagase della serie Ridge Racer,
fino ad arrivare, nel nostro secolo, al cinema. Facciamo entrare Aki Ross, prima
donna di Polywood.
Il colpo decisivo alla Hollywood dei capricci sarebbe potuto andare a segno nel
2001. Con l’imminente arrivo delle sale di
Final Fantasy: The Spirits Within, iniziano
a trapelare i primi rumour che vedrebbero il character model della protagonista, Aki Ross, impegnato in altre
produzioni analoghe, o addirittura in
mezzo ad attori in carne ed ossa. Non a
caso, lo stesso cast di Spirits Within
viene visto interagire con il vero staff del
film in uno degli spezzoni allegati alla
versione DVD. Polywood muove i suoi
primi passi, i synthespian sono pronti a
rivoluzionare l’industria cinematografica.
La bella Aki, inoltre, viene votata al numero 87 fra le “Hot 100” della rivista
Maxim, prima e per ora unica persona
‘inesistente’ ad entrare in classifica. Ma
ormoni a parte, The Spirits Within floppa
ai botteghini, troppo americano per i
giapponesi e troppo giapponese per gli
americani. Gli europei, come sempre,
non contano. Polywood si prepara allora
ad un lungo letargo, rialzando il sopracciglio per il passaggio di una certa Simone.
Dal genio creativo di Gattaca e The
Truman Show, Andrew Niccol, arriva una
commedia satirica sul panorama hollywoodiano, dove a seguito dell’ennesimo
capriccio della protagonista femminile, il
regista Viktor Taransky le preferisce
un’attrice virtuale. Nonostante la pellicola
verrà probabilmente riscoperta con il
senno di poi, nel 2002 è ancora troppo
presto e gli attori “veri” preferiscono riderci sopra, anziché preoccuparsi. Con
l’insuccesso ai botteghini di S1m0ne, Hollywood può aggiungere un’ulteriore tacca
sulla sua lancia, ignara che la nemica
Polywood stia ultimando il suo cavallo di
Troia, ovvero Avatar. Sulle migliori
spiagge d’Egeo, a Natale, di qualche anno
più in là.
007
F R A M E
benvenuti a
La parentesi cinematografica termina in
un vicolo chiuso per lavori in corso.
Come tornare allora in ambito videoludico? Non in modo particolarmente elegante, né indolore: con Jet Lee Rise to
Honor, nel 2003. Qui abbiamo un protagonista che ha le sembianze fisiche
dell’attore stesso, la sua voce, ma ha un
nome diverso ed è chiamato a recitare
una parte differente. Come in un film,
con tanto di titoli di coda finali che gli
attribuiscono il ruolo: cosa già tentata
nel 1998 con Apocalypse, dove il ruolo
di protagonista andò al sinthespian di
Bruce Willis. I risultati di tali esperimenti
non sembrano aver fatto venire voglia a
nessuna software house di ripercorrere
la medesima via. Tranne Capcom, che
nel 2004 inserisce Jean Reno e Takeshi
Kaneshiro insieme nel suo Onimusha 3.
Difficile dire se la software house di
Osaka faccia però testo, si sa, sono
matti da legare. Ma la storia si ripete
sempre, e spesso rivede i suoi errori. Via
allora le controparti digitali di attori
reali, che a canalizzare le vendite siano
direttamente le meteore di Polywood, o
le più costose IP sul mercato videoludico. Abbiamo appena trovato l’anello
mancante.
Quanto è credibile che un character
model originale, o synthespian, possa
assumere ruoli diversi da un gioco all’altro? Un personaggio interscambiabile,
perché no, esistono già diverse cameo
videoludiche: ad esempio, Dante in Shin
Megami Tensei: Lucifer’s Call e in Viewtiful Joe. Dipende, piuttosto, da che
strada prenderanno i videogiochi nei
prossimi decenni. Stando alla tendenza
odierna, ‘fotorealismo’ sarà un bel bullet
point ripassato a penna nei briefing di
fin troppe software house. Ci sarà bisogno di così tanti investimenti che difficilmente, una volta creato, l’attore virtuale
potrà permettersi di essere usa e getta.
Se oggi abbiamo un Mario per ogni disciplina sportiva che non sia il cricket, perché stupirsi tanto se un domani avremo
Gordon Freeman come inaspettato nemico di fine livello, con buona pace di
chiunque lo vedesse bene solo in ruoli
“da buono”? Certo dovrà parlare, in futuro, starà allora al suo agente trovare
l’attore giusto, magari non abbastanza
foto-igienico da ottenere quanti script
vorrebbe, ma dalla voce inconfondibile.
Proprio così, seppur virtuale, attore rimane, e come tale avrà bisogno di qualcuno che gli scelga i ‘copioni’ e ne curi le
relazioni. Se siete convinti che sia pura
follia, vi risparmio il prossimo paragrafo
sull’estetista personale.
Storpiando questo concetto quanto
basta, possiamo immaginarci la scena:
La signorina Ross, annoiata celebrità
americana, riceve una mattina una chiamata dal suo agente, una settimana
dopo si trova a vestire i panni di un’investigatrice privata e a partecipare alle
riprese dell’ultimo colossal di David
Cage.
Se allora per una serie di fortuite coincidenze, nel 1996, il concetto di
Polywood iniziava molto metaforicamente a pagare il suo bel mutuo sugli
immobili, è ragionevole ipotizzare che
un domani avrà saldato il suo debito. E
quello stesso giorno, ad anni ed anni di
distanza dalla premiere di Avatar o dall’uscita di Xbox 1080, saremo tutti invitati al suo esplosivo house warming
party. Ricordatevi solo di portare il Martini, ed il pacemaker.
A destra, Aki Ross posa per Maxim (è stata inserita al
numero 87 fra le “Hot 100” dalla nota rivista). In
basso, la mimica facciale dei volti dei protagonisti di
Mass Effect (Bioware, 2007) segna nuovi standard e
gioca senza dubbio il suo ruolo nella progressiva affermazione degli attori virtuali, perlomeno nell’ambito del videogioco.
008
POLYWOOD
Original Soundtrack
music in the gaming
Digital Devil Saga 2
Producer: Atlus
Developer: R&D Development
Uscita: 2005 Jap / 2006 Usa-Eu
Consigliato: Cazzo si!
Tracklist:
01
02
03
04
05
06
07
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29
30
-
Battle for Survival
Om Mani Padme Hm
Epic Battle
Occupied Sector
Underground City
Coercion
Heroic Battle
Backtracking
Internment Facility
Prison Break
Karma City
Karma Society Tower
Heat's Theme
Madness
EGG Facility
Infilitration
Power Plant
Karma
Inherent Will
EGG Facility Revisited
Hunting - Betrayal
The Bell Tolls
Regret
Airport
The Sun
Enemies Reborn
Divine Identity
One Word
The Rising Sun
Om Mani Padme Hm - Rearrangement
Shoji Meguro
multicodicale con cui o per cui è
concepito. Il secondo, riguarda la
capacità delle musiche di fungere
da colonna portante di un’esperienza, in origine, fondata su altre
priorità come quella videoludica.
Su entrambi i fronti DDS2 OST è
un completo successo.
I brani più rock - Battle for Survival, Epic Battle, Heroic Battle,
Madness - sottolineano a dovere le
fasi di combattimento; quelli più
ambient (Underground Sector, Occupied City, Egg Facility, Power
Plant e tanti altri) scandiscono, rapendo in mondo altro, le numerose
fasi di esplorazione. Pezzi più lenti,
viscerali, modulano le atmosfere
suscitando girandole di emozioni
diverse: è il caso della sanguigna
Infiltration, che per certi versi ricorda il commento audio di uematsiana memoria nei reattori della
Midgar di Final Fantasy VII. Vi è
poi una serie di episodi volti a sottolineare i momenti più delicati
della complessa - e magnifica trama di DDS2, dove la melodia e
l’essenzialità trovano nel pianoforte tutto ciò di cui hanno bisogno: Om Mani Padme Hm, Karma,
Inherent Will, The Bell Tolls, Regret. Infine l’OST propone brani
pop rock di respiro più ampio, Divine Identity, The Rising Sun e Om
Mani Padme Hm - Rearrangement;
ma soprattutto gli episodi techno
ambient più riusciti in assoluto,
quali Airport e The Sun, piccoli
gioielli assolutamente inscindibili
dalla psichedelica orgia visiva degli
ultimi momenti di gioco, quelli in
cui il coinvolgimento raggiunge il
suo apice.
E tutto questo, come già detto,
funziona altrettanto bene anche
come disco stand alone, nonostante come da Meguro ammesso
molte delle sue musiche nascano
in simbiosi con le sequenze di
gioco più rappresentative.
Tra le punte più alte della sua
produzione, DDS2 OST soffre del
“difetto” che in generale si può impuntare a Meguro, cioé quello di
lavorare con suoni e campionamenti tecnicamente datati. Ma
trattandosi di una precisa scelta
stilistica, è in fondo solo una questione di gusti: difficile criticare un
lavoro così carico di ritmi e sonorità trascinanti.
Digital Devil Saga 2 Original Soundtrack
V
orrei suonare come Shoji Meguro. Vorrei suonare come
questo techno menestrello
anni ‘80 e ambient, questo rullo
compressore di stampo rock variegato al cacao magro e al pop soul.
Compositore storico della prolifica saga di Shin Megami Tensei (
per la quale ha realizzato le OST di
Persona, Devil Summoner Soul
Hackers, Maken X, Lucifer’s Call,
Devil Summoner, Digital Devil
Saga 1&2 e Persona 3) Meguro è
ormai il motore pulsante del tessuto digitale demoniaco della serie
di punta di Atlus. Difficile immaginare quelle atmosfere, quei personaggi, quello stile cel shaded così
caratteristico senza la colonna sonora pulsante e retrò di Meguro.
Senza i brani più rock, forti di
strutture semplici ma solidissime
che sottolineano le fasi più concitate di gioco, pompando a dovere
l’adrenalina; o senza i brevi stacchi
al pianoforte, pennellati con un
gusto e una sensibilità melodici di
classe, ben lontani da qualsiasi eccesso mieloso. O ancora gli arrangiamenti orchestrali - realizzati pur
sempre tramite suoni sintetici come l’efficacissimo commento alla
Concezione in Lucifer’s Call. Ma ciò
che davvero non è possibile pensare di perdere, per Shin Megami
Tensei, è quella commistione originale e assolutamente organica di
sonorità dance e techno tipicamente anni ‘80, quei suoni tecnicamente anacronistici eppure cosi
carichi e pulsanti, così pronti a trascinare l’ascoltatore in atmosfere
tirate ma sempre inesorabilmente
proiettate nell’ambient music elettronica.
La OST di Digital Devil Saga 2,
prodotta da Meguro dopo la collaborazione con Kenichi Tsuchiya per
la colonna sonora del primo DDS, è
un po’ la summa del pensiero musicale di questo particolare autore.
seppur priva delle incursioni nell’R’n’B, nel soul e nell’hip pop che
punteggiano l’ultima fatica del nostro (Persona 3 OST), DDS2 è un
lavoro eccezionale e soddisfa ampiamente due requisiti chiave che
rendono una OST un’ottima OST. Il
primo, naturalmente, riguarda la
validità delle composizioni e la
forza dell’opera come puro e semplice disco “stand alone”, considerato indipendentemente dall’opera
a cura di Federico Res
Tempo Totale:
77'54"
Gli altri lavori di Shoji Meguro
Come già accennato, Meguro ha lavorato su tutti i
principali episodi della serie Shin Megami Tensei. Il
primo e il terzo Persona, il primo e il secondo Devil
Summoner, Maken X e Maken Shao, Lucifer’s
Call e i due Digital Devil Saga, nonché l’edizione
Maniacs di LC e l’espansione FES di Persona 3. Per
buona parte di questi lavori si è avvalso della collaborazione di altri musicisti quali Kenichi Tsuchiya, Toshiko Tasaki e Tsukasa Masuko.
Da ricordare, inoltre, la realizzazione al di fuori della
saga dei Megaten delle OST di Trauma Center
Under The Knife e Second Opinion.
009
SMS Review
La rubrica che vi svela se un gioco fa schifo (in 200 caratteri!)
Bioshock
Tutto molto bello, ma con il mouse sbaglio
sempre a selezionare l'arma o il plasmide
giusto e comunque avrei voluto fare il Big
Daddy.
Super Mario Galaxy
E' Dio.
Dio esiste.
E' Dio.
Giuro.
Mi è quasi venuto da piangere. E sono solo
a due ore di gioco.
Call of Duty 4
La dimostrazione che non era colpa dei nazisti
se i giochi di guerra avevano cominciato a
stancare!
Orcs & Elves
Porting da cellulare con qualche aggiunta
per 16 mega zeppi di magia, mistero e
avventura come non se ne vedeva da
tempo.
Metal Gear Solid 3 Subsistence
Bello il teatrino coi filmati ma la camera
non era l’unico problema.
Assassin's Creed
Chi pensava bastassero un paio di
belle tette per creare un capolavoro è stato smentito.
010
Orange Box
Uno degli FPS più seminali
Uno dei puzzle game più geniali
Un FPS online realmente 'multiplayer'
Per la cassetta di arance più vitaminica ever
Consigliato anche in assenza di raffreddori
REVIEW
CARTA SPRECATA!
super paper mario
genere-platform softco-intelligent systems
publisher-nintendo piattaforma-wii versione-usa
multiplayer-no
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
A
due mesi luce dalla galassia, troppo per
un Wii che mal digeriva l’ingrato mestiere
dello scaldar pizzette, toccava ad un
Mario di carta (in colpevole ritardo in suolo europeo) l’ardua impresa di rendere giustizia alla
console con il miglior rapporto “inutilità/console vendute” della storia dei videogiochi. E se
neppure la fredda accoglienza del popolo americano e giapponese potevano scoraggiare il
più impavido dei cuori nintendari, la prospettiva di un seguito con lo sguardo troppo proteso verso le novità, lasciava quantomeno
insinuare qualche velenoso dubbio.
Orfano dell’anziana meccanica dei vetusti
jrpg e svestito degli abiti frizzanti della commedia autoironica, Super Paper Mario insaporisce il brodo con un discreto, e a tratti ottimo,
platform d’annata e lo incarta all’ignaro giocatore con un aspetto fumettoso, colorato, pacioccoso e decisamente riuscito. Solo in parte,
però, perché se è vero che il mondo delle due
dimensioni riesce quasi sempre a farsi quantomeno accettare, quello in 3d mortifica con ferocia un design comunque brutta fotocopia del
maestoso portale millenario. Sciapa come una
galletta di riso e grezza come un Fabriano ruvido, la più grande novità di Super Paper
Mario, il portale dimensionale, non si fa certo
notare per cura dei dettagli ma, al contrario, si
dimentica il buon senso e mostra solo sconsolanti vallate desertiche, ad occhi fino a quel
punto graziati dalle raffinate pennellate di un
mondo piatto (quello 2D) ma carismatico, sottile ma di classe.
Fin qui quasi un disastro. Ma la bella notizia,
è che ancora non si è cominciato a giocare sul
serio. C’è un effervescente remote alla porta
che reclama la sua fetta di gloria nella storia.
Scoperto con un pizzico di angoscia che la rivoluzione di Nintendo passa per il ritorno ad una
pur comoda croce direzionale, si assiste alla
più delirante tech demo di uno switch mode
che sia mai passata per mani umane. Ogni
personaggio del proprio party (fino al massimo
dei quattro storici: Mario, Peach, Bowser e
Luigi) possiede una propria abilità necessaria
per superare determinati ostacoli, da cui la necessità di un costante switch tra l’uno e l’altro;
ogni personaggio può interagire con i plx (degli
insignificanti tesserini) necessari per superare
altrettante tipologie di ostacoli (e ancora si
passa dall’uno all’altro); ogni momento del
gioco richiede, infine, l’attenta esplorazione del
paesaggio nelle sue due dimensioni (quella
piatta e quella solida), al fine di risolvere
enigmi, superare agilmente nemici, rinvenire
oggetti segreti. Anche qui, switch selvaggio
dall’una all’altra dimensione. Ripetuto per
troppe volte si ha la netta sensazione che uno
dei propri testicoli stia cominciando a sanguinare. E se il tutto è pure più rapido di quanto
sembri, per carità, è pure più noioso di quanto
dovrebbe essere.
A impreziosire il lavoro di adattamento sul
Wii, però, ci pensa un remote in stato di grazia
che passa il suo tempo a fare nulla se non a ricordare quanto sia facile realizzare una croce
direzionale migliore di quella del pad 360. Il
telecomando dei miracoli, infatti, si limita a
qualche inefficace consiglio descrittivo una
volta puntato su schermo. Esatto, con la sola
imposizione di una mano, il geniale wii remote
saprà dirci se quella davanti a noi è proprio
una porta, nel caso avessimo qualche dubbio.
Di fatto, già a metà del gioco avremo smesso
di puntare su qualcosa ignorando gli astuti
consigli della rivoluzione Nintendo e limitandoci
al nostro solo istinto di cacciatori di porte.
Passato il disagio iniziale e la scoperta dell’insignificante trasloco da Gamecube a Wii,
però, ci si trova davanti ad un platform gradevole e condito da più di qualche buona idea,
come la feature che muta i personaggi in dei
veri e propri giganti, o quella che ci mette a disposizione gruppi di piccoli aiutanti decisi a difendere la nostra causa. Certo, il ‘salta salta’ in
testa al nemico, in questo episodio, sembra la
versione povera del gratificante sistema – tattico e ragionato – del precedente capitolo per
Gamecube. Ma il tempo passa, i videogiocatori
si rincoglioniscono, e dopo mesi di Wii Sports,
con mille milioni di bilance in prenotazione,
non è lecito aspettarsi molto di più da una
sfida ludica.
Il Portale Millenario era un jrpg con un divertente sistema di combattimento, basato sulla
tattica e sulla capacità di gestione del proprio
party. Era graficamente maestoso in tutti i suoi
livelli (tranne uno) e narrativamente divertente
e interessante, dall’inizio alla fine. Super Paper
Mario è una repubblica basata sui salti, dal
level design insipido per buona parte della sua
durata; è inoltre un prodotto narrativamente
sciocco, fatta eccezione per l’esilarante terzo
capitolo di Nerdlandia, l’unico condito da un
sano umorismo e arricchito dalla solita autoironia. Piange il cuore, quello vero, ma il seguito
di uno dei capolavori per Gamecube è senza
dubbio un figlio illegittimo, un prodotto che
perde la strada e diventa un gioco nuovo, ma
fiacco, noioso e deludente. Si divertirà chi non
ha più il tempo e la voglia di battere sul serio
un avversario, a tutti gli altri si appesantirà la
punta del pene.
5
Lo stile grafico adottato è piacevolissimo,
peccato che passando ai mondi 3D non si
noti la stessa cura per i dettagli dimostrata
dal level design bidimensionale.
LE ORIGINI RINNEGATE!
La serie nasce su Super Nintendo con
Super Mario Rpg, con l’ambizione di legare il mondo dei personaggi della casa di
Kyoto ad un genere da sempre popolarissimo in Giappone. Infarcita di autocitazionismo ed ironia, si è poi trasferita con
successo prima su Nintendo 64 e poi su
Gamecube, mantenendo inalterate le sue
caratteristiche principali. Da segnalare
anche i due episodi usciti per GBA (il
primo) e DS (il secondo) di “Mario e
Luigi: Superstar Saga”, che condividono
con la stessa sia la comicità di fondo che
un sistema di combattimento a metà
strada tra il platform e un jrpg classico.
011
REVIEW
UNA RIVINCITA DA MEDIANO
fifa 08
genere-sportivo softco-ea publisher-ea
piattaforma-360 versione-pal multiplayer-2-10
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
S
e hai sposato una cicciona, è quasi un
dato di fatto che, dopo dieci anni di matrimonio, comincerai ad apprezzarne la
spensierata simpatia. Se hai sposato una bella
gnocca, invece, è più che matematico che,
dopo dieci anni, tu non la sappia più distinguere dalla cicciona di sopra. Cellulite a parte,
Pro Evolution Soccer ha rotto il cazzo, un po’
per colpa sua, un po’ per colpa della cicciona,
un po’ perché, ogni tanto, fa pure bene cambiare aria.
FIFA 08 arriva al momento giusto, tra un
Seabass impazzito e una grafica mediocre, e
ossigena le nostre console con un passo
avanti, finalmente, un passo deciso verso una
direzione diversa, forse, ma una direzione che
guarda in faccia il calcio vero e che, stavolta,
non si limita a fare il verso alla simulazione
perfetta, quella con i difetti storici, con gli
scatti, con le inzagate in area e con le punizioni che hanno fatto riscrivere interi calendari.
A prescindere dal sistema di controllo scelto,
da manuale ad assistito, FIFA propone comunque un’esperienza di gioco basata sull’azione
corale e non sui singoli fuoriclasse, mai come
ora solo pedine di un modulo più o meno vincente. L’uno contro uno diventa quindi l’ultima
delle possibilità tra le quali scegliere, se si ha
un compagno libero al proprio fianco. I difensori avversari, siano questi controllati da un
amico o dal gioco stesso, ringhiano sul pallone
come manco il peggior Gattuso e non concedono niente al vostro narcisismo da finta sotto
porta. Mozzicano, calciano, gridano, e nove
volte su dieci vi toglieranno la palla prima ancora che abbiate il tempo di sgomitare sulla
loro faccia. Sembra frustrante, e lo è, ma neppure troppo.
Dopo essersi liberati dall’imprinting più che
decennale di ciccione e belle gnocche, si riesce
però ad apprezzare quello che FIFA sa regalare
oggi: soddisfazioni. Come sotterrare un boss,
come tagliuzzare un nemico, come battere un
record del mondo; un goal, ma anche la più
banale delle azioni, diventa un momento epocale per il quale bullarsi con gli amici e costringerli a guardare i replay. Quando si vince
l’imbarazzo iniziale e si comincia a giocare
d’anticipo, a costruire azioni sui movimenti dell’IA e non solo sui propri, allora si intuisce il
potenziale vero di una serie cresciuta tra i fischi dei giocatori seri ma che, proprio per questo, ha continuato a migliorarsi e a mostrare
cose nuove, magari non sempre all’altezza.
Graficamente impeccabile in campo lungo ma
mediocre dalle brevi distanze, FIFA non si impegna sui volti e sui capelli ma lavora di fino
sulle animazioni. Se ne fotte degli occhi azzurri
ma col cazzo che costringe a passare intere
settimane in un triste e buio scantinato ad editar magliette e nomi di persona. Perché, e
012
questo è innegabile, FIFA è un gioco moderno,
di quelli del 2008, e tra l’online perfetto, milioni di modalità di gioco, milioni di campionati
e coppe, tornei online, rose aggiornate costantemente, news in tempo reale e negozi a secchiate, sembra di essere finiti nel paradiso
digitale dei pallonari.
Sputando in faccia agli arcade di tutto il
mondo, FIFA sa essere pure insopportabile per
la sua rigidità, per il suo essere troppo legato
alle sue regole e per lasciare così poco spazio
alla fantasia. Ma è di calcio che vuole trattare e
riesce a farlo bene, nonostante le indecisioni
dei portieri e nonostante qualche opzione tattica ancora latitante. FIFA non perdona il
niubbo e non diverte il giocatore occasionale,
perché ci crede, ci crede troppo; ma sa regalare sorrisi ai fanatici del manuale, magari solo
con un bel cross.
E se in solitario ci si stufa di rifilar triplette
alla Juventus (ma chi si stuferebbe mai…),
viene in soccorso un online a puntino che ricorda ai giapponesi di questo mondo che c’è
pallone senza lag su questo universo. Anche
cinque contro cinque, il gioco scorre fluido e
difficilmente distinguibile dall’offline. Tranne
quando si perde, in quel caso, lo sanno tutti, è
sempre colpa del mulo altrui.
Tra dieci anni, anche la tua amante ti sembrerà una cicciona, fidati. Cogli la carpa, vivi
l’attimo che scappa, scopati quella bella e,
quando arriverà il momento, fattene un’altra,
di amante. Ma ora smettila di guardare tua
moglie, non migliorerà e ha cominciato a dirlo
anche lei stessa, e seppure è ancora la regina
del coniglio ai peperoni, è giusto cominciare a
chiederle qualcosa di nuovo.
8
Tra le varie modalità di gioco, spiccano senza
dubbio quella in prima persona e una modalità online 5 vs 5 priva di lag.
UN CALCIO REALE!
Una delle caratteristiche più interessanti
del nuovo FIFA (comunque già presente
nel precedente episodio, ma tanto non lo
avete giocato neppure voi) è la presenza
di notizie in tempo reale sul calcio vero,
quello delle partite sospese e dei risultati
acchittati, insomma. Le news scorrono a
fondo pagina nei menu del gioco ed è
inoltre possibile accedere a classifiche e
risultati di ogni campionato presente nel
titolo. Le notizie sono di pochi caratteri
ma la velocità con la quale vengono aggiornate la rende una feature fantastica
per ogni appassionato di calcio.
REVIEW
LARA CORRE
D
tomb raider anniversary
genere-adventure softco-crystal dinamics publisher-eidos
piattaforma-ps2/wii/360 versione-pal multiplayer-no
a cura di Federico Res
opo la prima avventura, alla tombarola
le cose non sono andate per il meglio.
Sei seguiti fan service, uno peggiore dell’altro, uno più ingiocabile dell’altro, il tonfo
che sembrava definitivo con quell’Angel of
Darkness di cui fortunatamente nessuno si ricorda più. Poi la luce: reduce dal fallimentare –
ma tutt’altro che ignobile – Galleon, Toby Gard
riprende le redini della sua creatura più famosa
e la fa risorgere dalle ceneri, sebbene col fiato
di publisher e softco sul collo. Tomb Raider Legend svincola Lara dall’incubo del character relative e le concede l’agilità del Principino di
Persia, la getta in un mondo pennellato da sapienti level designer e fa sue con intelligenza
alcune feature simbolo della generazione a 128
bit, come i Quick Time Event o il “visore scan”
di Metroid Prime. Manca qualcosa, però. Manca
Tomb Raider. L’insoddisfazione degli estimatori
storici e il disinteresse degli altri giocatori lo dimostrano inequivocabilmente.
Dunque, che Tomb Raider sia: Eidos ci riprova tenendo da parte quanto di buono funziona nel presente, sistema di controllo e
feature summenzionate, e va a ripescare
quanto di buono funzionava dieci anni fa. Ha
l’accortezza di non usare lo shaker ma di impastare a mano, senza fretta, e far riposare il
tutto a dovere.
Il risultato, è come un paio di scarponi scomodi che hai rinunciato ad usare, ma che dopo
anni qualcuno ti fa la cortesia di portare dal
calzolaio. Te li ritrovi lì, fiammanti, li provi con
diffidenza presagendo il vecchio dolore ai piedi.
Ma il dolore ha lasciato il posto a un inaspettato e benvenuto comfort: batti i piedi a terra,
ti alzi in piedi, inizi a correre e non ti fermi più.
Attraversi meravigliosi spaccati peruviani, le viscere delle montagne greche, le piramidi egizie
e perfino i budelli di ciò che resta di Atlantide.
Infine ti fermi, respiri, e sorridi.
Tomb Raider Anniversary, più che puntare
sull’estrema complessità strutturale dell’originale, preferisce “comprimere” in spazi meno
estesi tutti gli elementi storici del suo game
design, integrandoli con quanto di nuovo (e
buono) l’esperienza Legend ha portato alla
serie. Quel che ne deriva è un equilibrio perfetto, brillante, segnato soltanto sporadicamente da vecchie piaghe chiamate
backtracking e trial&error. L’esperienza scivola
su binari tutt’altro che scontati, nutrendosi del
piacere dell’esplorazione e di quel vivido senso
di avventura da sempre connesso al nome
Tomb Raider. Lara mantiene il rampino e l’agilità miracolosa dimostrata in Legend, ma perde
l’ingombrante ausilio del suo binocolo, per immergersi come un tempo nei meccanismi di giganteschi puzzle ambientali. Il potente motore
grafico e l’abilità dei designer ricostruiscono
magnificamente le quattro ambientazioni del-
l’originale, il commento sonoro privo di intrusioni strumentali recupera quel contatto con
l’avventura che i fan di lunga data ricercavano
disperatamente. Ma è più un piacere di chi,
come chi scrive, non riuscì a godersi l’originale
per insofferenza ai pesanti limiti di controllo.
Il videogioco è nulla senza controllo, è frustrazione se in più avanza pretese di precisione
millimetrica. Anche un punto nodale nell’evoluzione del level design come Tomb Raider, a
causa di tali limiti, è rimasto precluso a fiotti di
persone. Ecco perché Anniversary è più un piacere per chi Tomb Raider non l’ha mai digerito.
È il piacere di scoprire un classico ricondotto,
sul fronte controllo, ai principi di immediatezza
insiti nel concetto di buon videogioco. È il piacere di sperimentare le finezze di un level design eccellente tanto strutturalmente quanto
esteticamente, il piacere di riguadagnare un
quid ludico - quello del puro adventure - che
negli ultimi anni raramente ha ricoperto ruoli di
primo piano. In ultimo, è il piacere di ammirare
la signorina Croft nel suo “vero” splendore,
prima d’ora percepibile unicamente per vie
metaforiche (e a patto di digerire la malizia dei
programmatori, scolpita nella volontà di esagerare volgarmente le grazie di Lara). In definitiva, Anniversary è un concept di valore non
trapiantato, ma reinterpretato in maniera vincente nel contemporaneo.
E nel contemporaneo, da una prospettiva
tecnica, Anniversary guadagna una posizione
di tutto rilievo. L’engine poligonale è una versione migliorata – grazie ad un più largo e sapiente uso dei particellari – del motore di
Legend, capace di inscenare impeccabilmente
le ammirevoli visioni dei designer, peraltro
senza cedere quasi mai a problemi di frame
rate. Le architetture naturali del Perù e quelle
artificiali dell’Egitto bucano più volte lo
schermo, seppur eguagliate in bellezza da prodotti precedenti (Metroid Prime Echoes e Shadow of the Colossus su tutti).
L’aggiunta dei nuovi filmati sorretti dai QTE
può sembrare marginale, così come gli incontri
importanti sceneggiati da boss fight (tra i quali
il T-Rex) non esaltano mai fino in fondo. Ma è
l’insieme che funziona a meraviglia, è quel
gusto per l’avventura veicolato da meccaniche
irresistibili, da enigmi ambientali brillanti e stimolanti. È il vecchio Tomb Raider, ma che finalmente ha imparato a correre.
8
Come ogni Tomb Raider che si rispetti, anche Anniversary propone un vero e proprio livello aggiuntivo
ambientato all’interno della gigantesca residenza di
Lara. Un’occasione per ammirare il pessimo gusto
della tombarola in fatto di arredamento...
SALTELLI D’EGITTO
Fino alla sua terza ambientazione, L’Egitto, la
progressione di Anniversary raramente è intaccata dalla bestia nera del trial&error (seppure si
muoia, comunque, un numero di volte superiore
alla media). Ma una volta guadagnate le viscere
delle antiche piramidi pare che i programmatori
abbiano ceduto all’ignavia e preferito infierire
sui giocatori, costringendoli a sequenze di salti
millimetrici invero anacronistici. Un’impressione
che si ha, qualche ora dopo, anche all’interno
della Grande Piramide di Atlantide, dove una telecamera ben lontana dalla perfezione (ma perfettamente digeribile fino a quel punto) occulta
maliziosamente le visuali, scatenando una serie
di incolpevoli cadute nel vuoto.
Si tratta tuttavia di pecche trascurabili, laddove all’esperienza nel suo complesso va riconosciuto il merito di saper cogliere le
aspettative presenti dei videogiocatori, risvegliandone al contempo vecchie e sopite lussurie.
013
REVIEW
ROBOCRAFT
S
scramble commander 2nd
genere-rts softco-ben publisher-banpresto
piattaforma-ps2 versione-jap multiplayer-no
a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi
cramble Commander 2 è l’ennesimo
tentativo di Bec di rivendere la formula di Rainbow Six e tanti altri fps
strategici, applicandola al genere robotico.
Il valore tecnico non è dei migliori: oltre ad
essere un titolo di vecchia generazione, Bec
non è una softco con le palle e i muscoli di
SquareEnix o Capcom, quindi chi preferisce
lo stupore grafico a quello ludico non troverà alcun appiglio d’interesse.
L’approccio strategico è semplificato, per
venire incontro alla demenza dei videogiocatori giapponesi nei confronti dei generi di
stampo occidentale, sia dal punto di vista
delle possibilità di pianificazione sia per
quel che concerne le difficoltà imposte dal
terreno di combattimento.
Se nei lavori precedenti di questa softco,
specializzatasi nel genere di Rainbow Six
con Zeonic Front e il precedente Scramble
Commander, era necessario leggere i rapporti di spionaggio per informarsi sulle condizioni della zona operativa e sugli avversari
da affrontare nella missione, in questo
nuovo titolo gli operatori comunicano direttamente al giocatore quale tipo di strategia
adottare, durante gli scontri. Spetta poi al
giocatore stesso decidere se complicarsi la
vita per risolvere uno stage più rapidamente, o se accumulare punti esperienza
eliminando anche gli obiettivi secondari.
Niente minuziosa selezione dell’equipaggiamento e niente pianificazione di punti di ingresso.
Un’altra semplificazione interessa i vari
comandi, assegnabili in real time ma dipendenti da un blocco dell’azione successivo
all’apertura dei menu del caso. Ciò rende
tutto meno confusionario e frenetico per l’utenza nipponica, ma i puristi del genere
senza dubbio storceranno il naso.
Avendo snellito l’approccio alla pianificazione strategica, gli autori hanno potuto
concentrare i loro sforzi sugli elementi che
in primo luogo interessano un appassionato
del genere robotico: la spettacolarizzazione
degli attacchi, la differenza nelle prestazioni
dei vari modelli, e una trama sensata che
non faccia stonare le atmosfere delle serie
originali l’una con l’altra.
Grazie all’accento sulle dimensioni dei
robot e il dettaglio con cui sono stati ricostruiti, l’impatto visivo è subito eccellente.
La vista di un minuscolo Mazinga accanto
ad un gigantesco Getter Robot è una delizia
che viene raramente offerta ai fan del genere robotico, così come assistere ai valky-
014
rie di Macross che coprono distanze enormi
in pochi secondi, mentre Combattler arranca lentamente (e inesorabilmente) un
passo alla volta dietro di loro.
Il sistema di gioco, inoltre, pur essendo
elementare offre un numero piuttosto consistente di diverse tipologie di attacco. Si
può ad esempio ordinare ai robot più grandi
di bloccare fisicamente un avversario in
fuga, trattenendolo mentre le altre unità gli
fanno piovere addosso una grandinata di
missili e raggi laser. Oppure è possibile
mandare le unità più veloci e manovrabili a
fare da esca, seminando il caos tra le fila
nemiche e attirando gli avversari su terreni
a loro sfavorevoli, al fine di demolirli in imboscate pirotechiche (dove, in pochi secondi, un boss da 50.000 HP viene
annientato a suon di raggi gamma sparati
da ogni direzione).
I problemi maggiori del gioco sono localizzati, sfortunatamente, in alcuni dettagli
strutturali che un utente medio dà ormai
per scontati. Si può salvare solo prima o al
termine di ogni missione, nonostante la loro
durata sia in genere di dieci intensi minuti:
c’è infatti da tenere conto di tutto il tempo
in cui il gioco si “blocca” mentre vengono
assegnati i comandi, e il decorso effettivo di
uno stage può quindi estendersi significativamente. Manca inoltre la possibilità di saltare i dialoghi (uno strazio, se c’è da
ripetere una missione); i caricamenti sono
piuttosto lenti e le musiche non possono essere selezionate a piacimento. Se il tema di
uno stage non piace, si è costretti ad ascoltarlo ripetutamente e a lungo. Decisamente
frustrante.
Scramble Commander 2nd è un prodotto
che tiene fede in primo luogo alle aspettative dei fan, grazie al nutrito cast che propone. Ma al tempo stesso è un prodotto
accessibile a chiunque, in forza di una pianificazione versatile e immediata, che rende
possibile un approccio sempre diverso alle
quaranta missioni del gioco, garantendo
così una longevità sorprendente.
7
E’ possibile selezionare quattro livelli di difficoltà. A Terror, quello definitivo di nome e di
fatto, il gioco rivelerà il meglio (e il peggio) di
quanto ha da offrire.
MECH COME SE PIOVESSE
Scramble Commander 2nd dispone di una
sola modalità alternativa a quella principale:
il Free Battle.
In essa è possibile selezionare una squadra di personaggi per accumulare punti
esperienza da usare nello story mode, o
semplicemente sbizzarrirsi a mettere uno
contro l’altro i propri robot preferiti. Si potrà
far combattere una squadra di gundam contro una squadra di valkyrie, sfidare Mazinga
con il Grande Mazinga e quant’altro ancora:
non c’è limite alle possibilità offerte da un
cast di più di cento mech, tra alleati e nemici.
Un vero peccato che questo gioiellino
abbia finito col passare in sordina persino
nel mercato giapponese….
UNDERRATED review
LE DUE SFERE DI JOJI KAMITANI
odin sphere
anno-2007 softco-vanilla ware publisheratlus piattaforma-ps2 genere-action jrpg
a cura di Cristiano “Amano76” Ghigi
C
’è qualcosa di estremamente erotico nella
grafica bidimensionale. Le granitiche erezioni che mi si inalberano quando vedo
schermate di giochi come Odin Sphere si possono spiegare solo così. E non perché sono un
retrogamer di merda: sono semplicemente uno
che considera i videogiochi un’emanazione della
(superiore) cultura giapponese, e niente è più
caratteristicamente giapponese dei cartoni animati.
Il nuovo prodotto di Vanillaware è infatti uno
di quei titoli che tengono gli occhi incollati allo
schermo anche quando si cede il pad ad un’altra persona e si assiste in disparte.
E’ a quel punto che i particolari a cui non si
presta attenzione quando ci si deve concentrare
a scansare frecce infuocate, si rivelano nella
loro innumerevole moltitudine. Fondali che
scorrono su più assi, panorami da graphic novel
di Charles Vess, colori accesi e accostati con un
gusto impeccabile, animazioni dettagliate per
ogni movimento, tanto del drago di fine livello
quanto del più insignificante dei troll.
Questo è esattamente ciò che mi aspettavo
da Valkyrie Profile 2. La differenza è che mentre il seguito del titolo Tri-Ace non è visivamente degno del suo precedessore, Vanillaware
ha dimostrato di averne imparato la lezione,
mettendo a frutto i punti forti di quel gioco
tanto settario e cercando lo stesso tipo di pubblico, laddove Square-Enix ha tentato un approccio più vicino ai gusti della “plebe” (con un
3D orribile), fallendo miseramente.
L’interpretazione dei miti nordici, comunque, è
ancora più libera di quella di Valkyrie Profile:
Odin è diventato Ordyne e le valchirie non
vanno in cerca di anime di guerrieri. I personaggi respirano vita propria, in un intreccio che
per complessità supera persino l’rpg di Tri-Ace.
Unico neo: il tono della storia, più rilassato rispetto a Valkyrie Profile, privo di quella cappa
di malinconia e pessimismo che avvolgeva le vicende di Lenneth, tanto da concedersi diversi
momenti comici ed esagerare con quelli romantici.
Tipicamente nipponica è la cura delle espressioni linguistiche, con personaggi che assumono toni shakespeariani e si producono in
metafore forbite, mentre altri usano parlate
sgrammaticate e termini più rozzi. Le loro peculiarità sono poi enfatizzate dalla fenomenale
prestazione dei doppiatori giapponesi, che a
differenza di quelli americani non si somigliano
mai uno con l’altro e non si lasciano intimidire
da copioni dove c’è da gridare a squarciagola o
recitare con la voce spezzata dal pianto.
Quando un drago di Odin Sphere parla, le vibrazioni dell’impianto stereo arrivano fino al pavimento.
Sorprendentemente, a differenza di molti titoli di questo tipo, il gioco non seduce solo i
sensi. Molti prodotti bidimensionali odierni di
Nippon Ichi, di Gust, di Flight Plan, tendono ad
offrire sistemi di combattimento o strategici che
sono tutt’altro che immediati: si deve sostanzialmente imparare da zero un intero glossario,
perché è sempre tutto uguale ma chiamato in
modo diverso, dopodichè si deve imparare
come alzare il livello di esperienza dei personaggi, come equipaggiarli, quali abilità possono
usare. Fatto questo ci si trova di fronte mappe
interminabili e spesso sempre uguali (difetto
che ha anche Odin Sphere), una lista enorme di
oggetti da collezionare, e una quantità terrorizzante di subquest. Non ci si sente mai di progredire, come se si ripartisse continuamente da
zero.
Odin Sphere offre un sistema di combattimento immediato (si usano DUE tasti); un sistema di equipaggiamento semplicissimo (si
può indossare un SOLO oggetto); e un sistema
di creazione di pozioni per ripristinare i punti
ferita e la potenza (gli unici DUE punteggi della
scheda del personaggio), basato sulle possibili
combinazioni tra cinque soli tipi di frutta. Fine.
Questo è tutto quello che serve per completare
il gioco. Il resto è questione di affinare le tecniche di combattimento dei cinque personaggi
(ognuno si usa in modo leggermente diverso) e
imparare a gestire con efficienza l’inventario,
per produrre pozioni sempre più potenti.
Il compito del giocatore non è quindi imparare
mille terminologie e completare inutili collezioni, ma capire in che modo utilizzare un personaggio per fargli raggiungere il pieno delle
sue capacità: in sostanza non è il personaggio
che cresce di esperienza, ma il giocatore. Tant’è
che al massimo livello di difficoltà (Thriller) i
punti ferita non possono essere aumentati: una
volta che si sa qual è il metodo più rapido per
battere ogni tipo di avversario e come combinare le pozioni per potenziare l’arma di cui si
dispone, la vittoria non è più questione di HP o
EXP ma di capacità, coordinazione e tempismo.
Il che può rivelarsi un problema insormontabile, per colpa di un motore di gioco che se
anche è sorpassato dal punto di vista grafico, è
decisamente attuale dal punto di vista dei rallentamenti. In un titolo come questo, dove la
precisione nel momento in cui si colpisce e la
rapidità di risposta dei comandi sono assolutamente fondamentali, un motore grafico che
scatta, pur se in modo sporadico, è un difetto
inammissibile. Il perché l’autore abbia lasciato
correre un fattore tanto letale, per il battle system da lui stesso creato, resta imprescrutabile.
Esatto, l’Autore. Odin Sphere è il prodotto
degli sforzi di molte persone, ma una su tutte
merita il plauso di chi apprezza e apprezzerà il
gioco: Joji Kamitani. E’ suo il gusto nel design
dei fondali, dei personaggi e dei caratteristici
mostri, come è suo il concept di gioco immediato e accessibile a chiunque.
L’esistenza del radar (in alto a destra) è resa
necessaria dalla presenza di nemici che lanciano
attacchi a distanza (coltelli, incantesimi) fuori
dall’inquadratura. Anche in questo caso, il gioco
paradossalmente si porta appresso un problema
tipico della grafica tridimensionale.
5 GIOCHI IN UNO
Il ritmo dell’avventura è spezzato
in cinque capitoli, uno per personaggio.
Attraverso un semplice diagramma è
possibile selezionare filmati di intermezzo da rivedere singolarmente o uno
dopo l’altro, come un cartone animato a
tutti gli effetti. Dato che le vicende accadono in contemporanea, questo è l’unico
modo per carpire alcuni segreti dell’ambientazione e comprendere le sfumature
dell’intreccio.
Una frammentazione che inoltre contribuisce a rendere sempre nuova l’esperienza di gioco, dando l’impressione
di aver acquistato cinque titoli al prezzo
di uno.
Questo suo lavoro testimonia la superiorità dei
giapponesi sotto ogni aspetto: i loro giochi
sono migliori, i loro cartoni animati sono migliori, i loro doppiatori sono miglori. Difficile
credere che si tratti delle stesse persone che
comprano le mutande sporche delle liceali, che
dormono in camere-capsula e che hanno dedicato a Tom Cruise una festa nazionale...
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hinobi più che un gioco SEGA sembra
un gioco Banpresto. Nel senso che si,
tiene davvero fede al titolo di questa
rubrica, ponendosi come paradigma - seppur non la punta più bassa - della produzione software di una SEGA allo sbando,
che nel dopo Dreamcast decise di intraprendere la via del suicidio sistematico
invece di tentare un qualche riscatto.
Prima parte di un dittico davvero poco
memorabile (la seconda si chiama
Kunoichi in Giappone e NightShade in Occidente, e presenta come unica novità un
protagonista donna), Shinobi vorrebbe
ripescare i fasti della grande serie bidimensionale alla quale s’ispira, e vorrebbe
farlo sputando in faccia a tutti i buoni precetti del videogioco. E allora via con un
comparto grafico tecnicamente ridicolo e
scenograficamente piatto come una focaccia di pane azimo. Via con un sistema di
telecamere impacciato e sbilenco - comunque il danno minore; via con un intero
campionario di nemici dal design
risibile/amatoriale e dai pattern d’attacco
riconducibili alla complessità di un interruttore ON/OFF. Via, infine, con una trama
indisposta e una recitazione (nel caso della
versione italiana) degna di Flavia Vento.
Se volessimo paragonarlo a un’altra
grande porcata moderna, potremmo dire
che Shinobi è molto peggio di quel Devil
s
di Federico Re
May Cry 2 che riscrisse i canoni dell’orrido
con doppio salto e sciabolata farlocca.
Dunque perché parlarne, perché infierire
sulle tragedie del passato?
Fondamentalmente, per la sciarpa.
Vedo altissima risoluzione e capelli renderizzati uno ad uno, miliardi di particelle
e orizzonti sconfinati, texture maniacali e
animazioni ultrarealistiche. In sostanza,
vedo ogni giorno un sacco di roba next
gen ma per me la cosa più next gen di
tutte è ancora la sciarpa di Shinobi. Quella
che sventola e si arrotola e si srotola sinuosamente, fluidamente, inesorabilmente
davanti ai nostri occhi ebeti allenati a calcolare i bordi di una soft shadow ma incapaci di decidersi se quella sciarpa, quella
lunghissima e ipnotica sciarpa sventolante,
sia frutto di un eleborato sistema particellare o più semplicemente sia ottenuta con
una complessa texture animata. Perlomeno io non ci riesco. Posso restare ore
a fissare le evoluzioni astratte - peraltro
sempre identiche, in loop - della sciarpa
rossa di Shinobi. La vedo come un
metaforico presagio della SEGA che verrà,
momentaneamente chiusa in un bozzolo
imperscrutabile ma decisa a risorgere e riportare al videogioco la sua legge arcade.
Chiamatemi pazzo (o anche deficiente),
ma quella sciarpa non me la levo più dalla
mente...
SHINOBI
2003 SEGA SCEE
next month!
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016
THE RED STAR
2007 Acclaim Take Two Interactive
he Red Star è tutt’altro che un gioco di
merda, diciamolo subito onde evitare
equivoci. Uno sguardo agli screenshot
evocherà sentore di Dynamite Deka ma,
più che un gioco SEGA, Red Star sembra
un gioco Treasure.
The Red Star sembra Treasure perché
fondato su un recupero di sensazioni di
gioco arcade & old style; sembra Treasure
perché costruito su un sistema di controllo
duttile e immediato ma al tempo stesso
profondo; sembra un gioco Treasure per il
character design sopra le righe e coloratissimo. Ma la ragione principale per cui The
Red Star potrebbe essere scambiato per
un figlio illeggittimo di Gunstar Heroes, sta
nella geniale semplicità del concept dove
questo si prodiga in una riuscitissima fusione di meccaniche, unendo l’action in
terza persona da un lato e lo shmup
ikarughico dall’altro. E’ il trionfo del game
desing d’autore, quello che, lungi dall’assemblare gli scarti altrui, plasma una
visione nuova e coerente, inattacabile ed
esaltante. Così i due protagonisti del gioco
(un terzo personaggio si rende disponibile
dopo aver completato una priva volta
l’avventura) scorrazzano per una ventina
di livelli menando fendenti di falce e affondi di martello, e al contempo vomitando
fuoco con fucili e pistole di vario calibro; a
tratti - in prevalenza in occasione dei boss
fight - l’impostazione da action in terza
persona trasmigra in uno shooter verticale
fiondandosi tra i precetti del bullet dodging, coi punti sensibili dei personaggi ridotti al limite come da manuale. La cosa
affascinante è che il tutto avviene senza la
minima incertezza, senza il minimo sentore di forzatura. Da applausi.
Si parlava di un “sembra Treasure”,
però, che da un lato rileva la caratura del
titolo e dall’altro i limiti entro cui suo malgrado Red Star è confinato. La ripetitività
è endemica del genere, quel “sembra” vuol
dire che un po’ Red Star la scongiura, grazie alla commistione di generi, un po’ ne
soffre, a causa della mancanza degli
sprazzi di genio che punteggiano i prodotti
migliori di Treasure. Red Star è divertente
e adrenalinico, solo divertente e adrenalinico. Non è affatto poco, in realtà, e le differenze tra i personaggi giocabili (giocate
sul binomio velocità/potenza di fuoco), la
possibilità di giocare in due e il design asciutto e variopinto sono punti a favore
non da poco.
Ci sono poi la trama fantascientifica e
l’Unione Sovietica tecnologica e alternativa
a chiudere in bellezza un quadro decisamente riuscito. Un quadro che varrebbe la
pena ammirare almeno una volta, anche
solo per solidarietà nei confronti degli sfortunati sviluppatori (è già un miracolo che
The Red Star, dopo rinvii e cancellazioni
quasi certe, sia infine stato pubblicato...).
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NOSTRADAMUS! - previsioni videoludiche di Michele “Macca” Iurlaro
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È
innegabile come Xbox 360 sia vista, in
terra nipponica, come una console dall’appeal praticamente nullo. Certo, pensavamo tutti fosse colpa di Peter Moore e
delle sue stravaganti idee di marketing applicate alle religione cattolica, ma il suo passaggio in EA non sembra aver migliorato la
posizione di Microsoft in Giappone. La realtà,
tristemente nota a tutti, è che ai giapponesi
Bill Gates sta sulle scatole. E il poco software
creato ad hoc per i musi gialli non è bastato
ad incrementare in maniera decisa le pessime
vendite dell’hardware. Fino ad ora.
Preceduto da una pomposa campagna pubblicitaria e dalle prepotenti aspettative dei disoccupati che hanno tempo da perdere con
un jrpg, Lost Odissey è il gioco che il Giappone attendeva. Un titolo che, più di Blue
Dragon, è in grado di far vendere la bianca
console americana: si tratta di un classico e
noioso gioco di ruolo, strabordante nei testi,
nei personaggi, con una grafica accattivante e
uno spessore ludico degno di una Kraft. La
sottiletta, mica il Philadelfia.
I nipponici per queste cose vanno matti, e
hanno letteralmente preso d’assalto i negozi
già dal giorno del lancio. Così, mentre Gates
si gode il successo, Moore aggiorna i rosters
dei giochi sportivi EA e Fils-Aime sublima in
pratiche autoerotiche per quanto vende Wii,
andiamo ad analizzare gli aspetti fondamentali di Lost Odissey.
Lo spunto da cui parte la trama di Lost
Odissey è di una tristezza allucinante. Nei
panni di un uomo condannato a vivere per
mille anni, andrete in giro per il mondo per ritrovare la memoria persa. Non è Vanzina,
chiariamoci, ma qualcosa di più frizzante non
avrebbe guastato. Ad ogni modo, nei panni di
Keim, questo il nome del protagonista, il giocatore dovrà muoversi all’interno di un universo tech-fantasy-truzzo-medieval-orientale,
guarnito da una grafica di tutto rispetto. Lo
stile dei personaggi, innanzitutto, abbandona
il pacioccoso tratto visto in Blue Dragon e ci
restituisce un Sakaguchi sicuramente più cazzuto, in grado di donare ai personaggi una
maturità troppe poche volte ammirata in titoli
di questo genere. Tecnicamente, poi, il gioco
non delude: facendo sfoggio dell’Unreal Engine 3, scippato per l’occasione ad Epic, Lost
Odissey mette in mostra texture ben definite,
giochi di luce convincenti ed effetti particellari
di tutto rispetto.
Purtroppo, una struttura di gioco saldamente ispirata a un qualsiasi Final Fantasy
non permette un adeguato sfruttamento della
fisica, che il potente motore avrebbe garantito senza troppi problemi. Per quanto il gioco
fili liscio (tra combattimenti a turni, incontri
casuali e nemici invisibili sulla mappa), l’ot-
018
timo aspetto visivo cozza, quindi, con dettami
videoludici che fanno tanto XX secolo. Cosa
non si farebbe per vendere qualche console in
più ai giappi.
Sul fronte sonoro, bisogna rimarcare come
la qualità di doppiaggio e recitazione sia perfettamente in grado di surclassare qualsiasi
telenovela brasiliana. L’epicità restituita ai
personaggi, infatti, è miscelata alla perfezione
con la sapiente scelta delle musiche, eccellenti nel sollecitare in maniera ottimale le
orecchie esigenti dello spettatore medio di
Sanremo.
La trama, come anticipato, è ampiamente
fallata, con buchi di sceneggiatura degni di XFiles: gli appassionati di vaccate come il Signore degli Anelli la adoreranno.
Spesso noioso, a volte intricato, poche volte
emozionante, Lost Odissey si inserisce alla
perfezione in quel filone di titoli soporiferi che
da decenni appesta gli scaffali dei negozi specializzati, rubando spazio prezioso alle simulazioni calcistiche e agli FPS.
Se fin qui il quadro delineato appare sicuramente soddisfacente, sarebbe scorretto non
rilevare l’aspetto peggiore del gioco, su cui
troppo spesso gli sviluppatori sembrano non
prestare la dovuta attenzione. Il titolo Mistwalker promette, purtroppo, qualcosa come
centinaia di ore tra esplorazioni, filmati, dialoghi, combattimenti e rotture di palle che, sinceramente, appaiono troppe anche per il
campione mondiale di fancazzismo. Ignorando bellamente il fatto che i videogiocatori
siano cresciuti e che abbiano una vita sociale
anche loro, il giovane team ci propone un
gioco dalla durata ‘ridicola’, chiaramente inadatto a sposarsi con le esigenze di persone
che qualche notte di sesso, ogni tanto, vorrebbero pure passarla. Lamentarsi con i giornalisti del fatto che le recensioni dei giochi di
ruolo siano completamente inventate e con
voti messi a casaccio risulta essere, a questo
punto, maledettamente fuori luogo.
Chi si aspettava un gioco in grado di risollevare le sorti di Xbox 360 in Nippolandia è
stato sicuramente accontentato. La nostra accurata prova sul campo, infatti, ha evidenziato lacune strettamente ludiche in grado di
competere con quelle dei best seller per Wii
che infestano le classifiche di vendita. Sembra
proprio che Microsoft, finalmente, abbia approntato una strategia accurata per andare
incontro ai gusti sempre più discutibili dei giocatori orientali. Per i presunti videogiocatori
non in grado di apprezzare la qualità, innegabile, dei blasonati titoli che Europa e America
stanno sfornando in questi mesi, Lost Odissey
appare una punizione fin troppo leggera.
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Dando un’occhiata alle classifiche di vendita dei
videogiochi in Giappone, nell’ultimo periodo, si
è un po’ restii a ritenere ancora la terra del Sol
Levante come il mercato principale del settore.
Laddove titoli validi, solitamente di matrice europea o statunitense, vengono sistematicamente snobbati, tra i best seller è impossibile
non trovare qualche RPG, un simulatore di
cuoco, uno stimolatore per cervelli affaticati, un
tappetino per fare fitness, un gioco per raccogliere la spazzatura, un altro per buttarla, un
tamagochi touch screen e una variante di E.R.
Forse, e sottolineo forse, l’esasperata ricerca
dell’originalità ha fatto sì che alcuni aspetti in
termini di ludogodimento abbiano ceduto il
passo ai guadagni e alle periferiche strambe e
costose che ultimamente stanno invadendo il
mercato.
Dal mese prossimo (e dai prossimi giorni!)
BABEL002
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BABEL
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