BOMBASICILIA
ANNO IV NUMERO 1
WWW.BOMBACARTA.COM/BOMBASICILIA
Editoriale
TRA SENTIERI DI TRAME
di LAURA CARONITI
SETTEMBRE 2004
- E se io della metafora ho una idea approssimativa, incolta,
grezza?
- Non importa; falla funzionare lo stesso.
Dentro la metafora. Uhm e doppio uhm! (espressione onomatopeica simulante riflessione pensierante ambulante prima di decisione; e mutuata dalla frequentazione marginal-letteraria di Topolino).
Ribadisco: uhm e doppio uhm. Col doppio uhm il pensiero sembra
masticato. Col triplo uhm è addirittura ruminato.
Ma io mi chiedo: "Quanto tempo ci dovrei poi resistere dentro la
metafora?". Quattro, cinque minuti? Il tempo d'una risonanza magnetica per ortopanoramica dentaria a scoprire la direzione palatale
d'un dente incluso dall'età aurea del latte? Oppure i sessantasette
minuti dell'ultima volta, orologio smagnetizzato alla mano, che,
scansione sopra e scansione sotto, mi cercarono alacremente fin nel
midollo delle ossa un tumore che io ebbi, per presenza di spirito,
l'abilità di procrastinare, in maniera diagnosticamente definitiva,
solo ad una scansione di qualche annata dopo.
Devo dire che io, per pura paura, bleffo e bleffo.
Devo dire che dentro la metafora io mi ci sento costretto. Un
poco mi manca il fiato ed un poco mi viene da ridere. Perché di
metafora ci puoi morire, ma sulla metafora ci puoi pure costruire
una vita ed una posizione sociale assolutamente rispettabile.
Leggere una storia è un atto ipocrita di fede.
Avventurarsi tra sentieri di trame è percorrere un labirinto multiforme, con fabula di clessidra e inseguimenti d'intreccio, ma, sempre, comunque, dai passaggi rassicuranti: Arianna srotola il filo tra
l'incipit e la chiusa.
Da qui, l'ipocrisia congenita nel lettore: da qualunque storia sa di
scarcerarsi, a libro ultimato, nell'ipotesi migliore; abbandonato, in
quella più libera o vile.
Persino nella situazione a limite del libro “della vita”, il lettore sa
di poterne uscire, cambiato e pesto, forse personaggio stesso di saltuari Déjà vu di carta, ma superstite.
La finzione della vita che sopravvive alla finzione della pagina.
Forse. O l'uroboro dell'Utopia che morde, avvelena, ma non uccide; gioca con il lettore la sua partita tra ferita e salvezza, di pagina in
pagina.
E da questa irrisolta cerniera si sgrana la fede della lettura: "Abbiamo letto (e leggiamo) per proteggerci, per rifiutare o per opporci" ci soccorre Pennac “Se questo ci dà un'aria da fuggiaschi, se la
realtà dispera di raggiungerci oltre l'"incantesimo" della nostra lettura, siamo però dei fuggiaschi impegnati a costruirci, degli evasi intenti a nascere”.
Ma, per quanto epidermico e cauto, il labirinto di uno scritto ha
pur sempre una sua segnaletica, e leggere un romanzo è come sedersi a un banchetto e saper avere la modestia di prestare attenzione all'arbiter bibendi, o al vini minister.
Perché, simposio o convito goliardico, qualunque sia l'intenzione
del testo, l'inno che s'innesta tra narrazione e lettore dovrebbe
sempre richiamare alla mente il motivo, l'imperativo sfumato, di un
Gaudeamus igitur.
Fede e credenza, sfida e piacere, si alternano nei passaggi di una
storia, che promette di emancipare il lettore capace di sfidarlo e, nel
contempo, pronto a pagare il fio dell'adesione alla sua Utopia, o alla
sua Menzogna, a quel che, in definitiva, è il mondo parziale o differito della verità letteraria.
Prosit, dunque, e Buona lettura.
APPUNTI PER APPICCICARE
UNA STELLA NEL CIELO
di COSTANTINO SIMONELLI
Dentro la metafora. Cazzo. Ha detto proprio così: dentro la metafora. Dai Tonì, dicci almeno: metà fora e metà dentro, un poco sì
ed un poco no.
Nossignori. Dentro la metafora. Tonino prefigge, affigge, infligge a noi un compito.
Pulito ed efficiente il comando; come se di metafora si dovesse
fare una tesi di laurea.
1
Prendi mio cognato Oreste, un cazzallerta di dipendente comunale che, fino all'illuminazione improvvisa, aveva fatto il fermacarte
istituzionale. Nel senso che lo pagavano per rallentare la consegna
dei certificati anagrafici di nascita residenza matrimonio e morte.
Quando arrivò la computerizzazione gli parve più problematico
rallentare tutte le certificazioni degli status quo della vita.
Ed allora pensò di licenziare la sicurezza del posto pubblico e di
mettersi in proprio.
Mi disse: “La vita è tutta una metafora, o stai dentro o stai fuori”.
Ogni tanto aveva queste uscite da metalmeccanico del pensiero.
Ma devo dire che questa, da subito, mi parve una delle migliori.
Con la buonuscita del comune e chiedendo soldi in prestito ad
amici e parenti, mise su un' impresa di pompe funebri. Era un fatto
statistico che lui, dal suo posto di certificatore, aveva valutato bene:
poco si nasce e ancor più poco ci si sposa. Ma quanto a morire, gli
ordinativi mensili sono pressoché puntuali. Con poi dei bonus di
vecchi nel periodo invernale e di giovani
al sabato sera.
L' acidula riflessione metaforica con cui concludeva il ragionamento era questa: "Non ci diventi ricco, ma ci campi bene".
Ed io pure ci campavo bene dai venti ai trenta minuti a settimana
- con le situazioni nostre di più non si poteva - dentro Metafora.
Lei prendeva la pillola ed io, che non ci credevo, mettevo il profilattico.
- Non si sa mai, dicevo.
- Se mi ami toglitelo, diceva lei.
E chi l'amava. Non io. Ma come dirglielo? Dirglielo apertamente? Mai. Perché, non lo capisce da sola?
Una che si chiama Metafora e che ti spara intelligenza da tutti i
pori della pelle, ti asfissia con l'opportunità, come preferenza assoluta, scelta intellettualmente obbligata, di rapporti stabili e continuati di puro sesso, perché adesso mi caca il cazzo?
- Escitene.
Me ne esco senza fiatare. E rifaccio in breve , pensieri e poche
cose, le valige del mio sesso ambulante.
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Me ne vado non come un amante rinnegato. No, come una cameriera licenziata. E, uscendo, sbatto la porta.
SETTEMBRE 2004
- Bell'amplesso. Un gran culo ad incontrarsi. Un cocktail mediterraneo, dei migliori. Quand'è così diventa euforico pure il DNA.
- Smettila, per favore.
- Lo dico per te, mica sei geloso? Io posso piazzarla.
- Dove?
- Tu hai detto Orione, vero?. C'è posto, un posto di fianco alla
terza che sta per morire.
- Quanto ancora?
- Due o trecento anni ad andargli bene. Certo, tu non la vedrai
luccicare in formazione.
Forse non la vedrai mai. Che vuoi fare?
- Appiccicala.
Lo vide appiccicare una stella nel firmamento come fanno
i bambini con le figurine sull'album.
Aveva mani e lingua per leccare la figurina che poi, inumidita,
aderì e diventò a tutti gli effetti figurina di album.
Lui, il padrone del cielo, non lo rivide più, mai.
Forse lo sentì qualche volta, nel sogno notturno o nell'assoluto
silenzio diurno, lamentarsi del fatto che non lo aveva più chiamato.
E che sul davanzale di quella stella i fiori del ricordare non avevano festeggiato neppure l'assunzione in pianta stabile nella costellazione di Orione.
Ma era inutile, ormai, che tutto l'universo ce l'avesse con lui. Che
chiunque, ricordando la sua faccia pulita, il suo amoroso silenzio
edificante, avesse identificato quello che aveva fregato pure il padrone dell'universo ed il posto a tanti altri questuanti.
Lui era stato solo il più risoluto di quattro poveri amanti.
Dentro la metafora.
Penso che a questo punto si sia capito che io ho un concetto
confuso della parola "metafora".
Ma questo è il meglio che può capitare ad uno scrivente che col
solo atto di scrivere prova a decodificare se stesso.
La perfetta ignoranza è situazione ideale che , per necessità, stimola l'invenzione
Metafora ha le lettere giuste ed il suono sillabato sulle labbra impaurite per diventare il nome di un asteroide, e se vuoi esagerare,
perché no, di una stella.
Metafora. Me-ta fo-ra.
Lo ripeti in sequenza tre volte.
Me -ta-fo- ra , me- ta-fo-ra, me-ta-fo-ra.
Come ti allappano bene le labbra, di mistero. Ti viene naturale di
guardare il cielo.
Pensi al micromondo che ti circonda. Quello che, ogni punto, alla cazzo di cane, qualcuno per te e prima di te,
ha dato il nome a tutto quanto.
- Chi è il padrone di Orione?
- Sono io, che vuoi?
- Posso metterci una stella mia, magari a lato, vicina al gruppo,
ma in un posto che non da fastidio.
- E tu chi sei, e lei come si chiama, e quanto brilla, è vecchia o
nova?
- Per brillare brilla, e si chiama Metafora.
- Rispondi a tono. Vedete come fate ... Sempre imprecisi.
Mi ci costringete voi a fare come fate voi giù sulla terra. Per
ogni assunzione - anche di una stella a contratto
a tempo, come li chiamate lì da voi, LSU, lavori socialmente utili
- ci vorrebbe un modulo.
- Per appiccicare una stella nel firmamento?
- Eh,... perché, ti pare 'na cosa strana? Ci vogliono i referenti. Tu
chi sei, per esempio, suo padre o un amante?
- Diciamo ...un amante.
- Ecco. Gli amanti sono volubili. A volte sono tanti a farsi in
quattro per appiccicare una stella. Meglio i padri ed i mariti. Quelli,
una volta piazzata, è più facile che non se la scordano. Invece gli
amanti di solito vengono in gruppo facendo finta d'ignorarsi l'un
l'altro.
Ognuno pare che voglia cercargli il posto migliore.
Tu sei stato modesto, direi ragionevole a chiedere una posizione
defilata in Orione.
Ma ci sono certi che vengono sparati da me nella loro arroganza
ed impettiti mi chiedono di eliminare, come se niente fosse, la quarta del Carro, (quella che vecchia è, ma che un migliaio di anni dovrebbe ancora tirare a campare) per metterci la sbarbina loro. Che
non so poi come ci starebbe e come si comporterebbe e che pensieri e parole avrebbe da dire nei confronti delle ottuagenomillenta
millenarie sue nonnastelle.
Si dice e si pensa ma non si riflette mai troppo su quanto possa
far male un conflitto generazionale.
- La tua, ridimmi, come di chiama?
- Metafora.
- E che cazzo di nome strano. E' greca?
- Di padre, e di madre italiana.
La prova dei materiali
RI-DIRE AUSCHWITZ
di DEMETRIO PAOLIN
... il pallone mi attraversò le braccia. Schulz l'aveva tirato bene e forte, ma io avevo sbagliato la posizione, mi ero mosso goffamente, sembravo un pollo spennato, e le gambe non mi avevano dato la spinta che desideravo. La mia testa aveva immaginato un altro tuffo, da
quello che misero si stava concludendo sulla terra battuta.
Ebbi poi uno di quei gesti, che da tempo immemore non
facevo più, mi voltai per vedere dove finiva la palla.
Era un gesto inconscio; anche quando giocavo prima di
tutto questo, mi veniva naturale ruotare la testa.
Questa volta fu così, e allora vidi. E ricordai. Caddi
goffamente per terra, e Otto e Schulz risero. Avevano
vinto. Ma nel loro sorriso c'era ben altro stampo.
Mi girai, guardai la palla a pochi metri dal filo spinato, e di là i miei compagni.
Ero ad Auschwitz. Non me ne ero mai andato.
Schulz mi guardava e sembrava dirmi: Ecco. Ora sei come noi. Sei diventato come noi, perché hai giocato con
noi...
Il racconto si blocca così, perché a questo punto la narrazione
si trova davanti un ostacolo, una domanda pressante, che costringe a chiudere tutto e a mettere queste righe e le poche pagine precedenti nella cartellina delle cose mai finite.
Ma non si trattò allora, e non si tratta ora della semplice constatazione che il racconto non giri, che sia debole. Nella mia testa si
agitavano domande, questioni a cui non riuscivo a dare risposta.
Ritornavo a quella frase: "Ero ad Auschwitz...".
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Come potevo dire io una cosa del genere? Chi mi autorizzava a
scriverla o a pensarla?
E poi era possibile descrivere una partita di pallone, giocata in
un campo di concentramento?
La razionalità mi diceva che potevo scriverla, Primo Levi stesso
ci parla di un incontro di calcio tra Ss e SonderKommando, ne I
sommersi e i salvati. E la battuta finale di Schulz era una citazione
letterale di un passo dello scrittore torinese.
Insomma l'idea della partita giocata sull'ano del mondo, alle soglie dell'inferno, non era solo narrativamente buona, ma aveva
una sua fondatezza storica.
Un testimone aveva visto e scritto. In più, gli studi che avevo
intrapreso mi potevano facilmente aiutare in questa direzione:
avevo letto molte testimonianze sui lager, altre ne avevo ascoltate
dalla viva voce di chi era stato in quei luoghi.
Potevo, quindi, tentare di riprodurre quella partita, avevo tutti
gli strumenti per farlo, ma quel blocco non passava.
"Ero ad Auschwitz". Suonava falso.
Di più suonava metaforico. Metaforicamente ero dentro il
campo di concentramento, che da luogo reale e vero si era trasformato in una semplice zona della scrittura. Ero dentro una metafora. Il mio disagio era questo: Auschwitz si era trasformato in
una specie di stratagemma narrativo, al pari di altri. Il rischio era
quello di una banalizzazione totale: la parola lager sarebbe stata
usata alla stregua della madeleine di proustiana memoria o della
situazione kafkiana. Avrebbe perso la sua tragica realtà, diventando semplice orpello stilistico.
A dire il vero, questo è un fenomeno già in atto nel linguaggio
quotidiano, dove il termine lager definisce una situazione limite:
l'ospizio/lager; il canile/lager; la scuola/lager; la casa/lager. E'
questo un uso giornalistico, ma che sta ad indicare come un evento storico, così orribile, si sia svuotato di significato, tanto da perdere la sua assolutezza, ma diventare termine di paragone.
La mia stasi quindi era dovuta a questo sentimento complesso,
da una parte tenere fede alle parole di Shemà "vi comando queste
parole/scolpitele nel cuore...", dall'altra scrivere una storia che
non suonasse semplicemente ridicola, ben sapendo che uno scrittore è veramente tale se è responsabile di ogni parola da lui scritta.
*
SETTEMBRE 2004
essere trattata alla stregua di un'azienda, bisognosa della parità in
bilancio.
Il rischio sarebbe quello di una memoria che si sfilaccia, che
perde i colpi, e che alla fine risulta dimenticata e persa. C'è quindi
il bisogno vero, sentito come obbligo e dovere morale, di tenere
viva questa memoria, il ricordo di quegli eventi tragici.
Se diamo uno sguardo a tutte le attività patrocinate dell'Aned o
dagli istituti storici della resistenza, vediamo che pur nella varietà
della loro proposta, esiste sempre una costante: la presenza di uno
o più testimoni, che ri-narrano la storia, che la raccontano, come
una salmodia memoriale. Inoltre è esperienza comune che proprio questa parte, la testimonianza, sia quella che maggiormente
rimane impressa e tocca il pubblico.
Si pone, quindi, non solo un problema di riproducibilità (è possibile scrivere dello sterminio non avendolo vissuto, non avendo
nessun parente o amico coinvolto?), ma anche di percezione (cosa penseranno i futuri lettori di un romanzo scritto da un trentenne che racconta la storia della Shoah?).
*
La riproducibilità e la percezione sono due categorie di pensiero estremamente attuali; rappresentano la tragica conclusione di
quel processo di s-mitizzazione dell'arte che Benjamin codifica ne
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità. Pur non essendo io avvezzo alla filosofia e ai suoi linguaggi, credo che alcune
riflessioni di Benjamin possano valere anche nel contesto di questa riflessione, ovvero nella ricerca della possibilità, anche letteraria, di essere testimoni indiretti ma credibili dello sterminio.
Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l'hic et nunc dell'opera d'arte - la sua esistenza unica è irripetibile
nel luogo in cui si trova.
Il discorso di Benjamin centra in pieno la questione: qualsiasi
riproduzione, per quanto perfetta, sconta un problema di diacronico e sincronico: il qui e ora di Auschwitz non può essere in nessun modo riprodotto, proprio perché questo elemento, l'irripetibilità, è la natura profonda del suo essere evento storico.
Verrebbe da aggiungere, sempre secondo le parole del pensatore tedesco, che "l'intero ambito dell'autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica - e naturalmente non a quella tecnica soltanto".
Una frase che suona come una chiusa, un explicit, che lascerebbe poco spazio a speculazioni e ipotesi successive, ma il paragrafo in questione continua con queste parole:
Il problema, che stava e sta alla base della scelta di non proseguire il racconto, è quello della possibile riproducibilità narrativa
di un evento come Auschwitz. La nostra è stata, se vogliamo, una
generazione fortunata. Molti testimoni sono ancora in vita e molti
libri vengono pubblicati o rieditati.
Il problema è per il futuro. Se normale è la morte, normale sarà
che poco per volta, alla spicciolata, i diversi superstiti di questo
orrendo crimine vengano a morire.
Chi testimonierà in vece loro?
La domanda pare facile e la risposta scontata: i loro libri saranno il lascito per le generazioni future.
Vero, ma non basta, perché la rimozione e l'oblio sono sempre
dietro l'angolo; e nello stesso tempo l'assenza di testimoni oculari
potrebbe dar nuovo fiato a chi si affretta a negare o peggio a pacificare le coscienze dietro un comodo "sono passati molti anni, è
necessario chiudere i conti con il passato". A suggerire che i conti
debbano essere chiusi sempre in pari, quasi che la Storia dovesse
Ma mentre l'autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bloccata come falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica. Essa può, per esempio mediante la
fotografia, rivelare aspetti dell'originale che sono accessibili soltanto all'obiettivo. [...]. Essa può inoltre introdurre la riproduzione dell'originale in situazioni che all'originale stesso non sono accessibili.
Benjamin, quindi, da un lato ci preclude ogni rappresentazione
di un evento, ma dall'altro ci conforta con la possibilità che, pur
non potendo rappresentare in toto un fatto, si possano mettere in
luce, mettere a fuoco verrebbe da dire, aspetti marginali o non
accessibili.
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Questo ci porta ad una serie di prime riflessioni, se non conclusive, certamente importanti. E' illogico pensare di poter riprodurre Auschwitz, scrivendo un testo "come se fossimo lì", perché
suonerebbe falso e stonato.
Infatti, quand'anche si riuscisse a riprodurre in maniera perfetta
tutta la minuta complessità dell'universo lager, saremmo comunque di fronte ad una falsificazione. L'hic et nunc di quel momento
non è riproducibile, e un gesto del genere svaluterebbe l'essenza
del lager, facendoci nuovamente cadere nell'impasse precedente.
Quindi se riscrivere Auschwitz, più che impossibile è sbagliato,
si può scrivere di Auschwitz, cercando situazioni "che all'originale
stesso non sono accessibili".
L'ipotesi in questione è quella di una scrittura diversa. Chiariamo che in questo specifico caso stiamo parlando di narrativa.
Ovviamente essa non rappresenta l'unico modo per proseguire la
testimonianza. Infatti per tenere viva la memoria è necessario che
i testi, dei sopravvissuti, vengano editi e studiati; che vengano criticati, letti e analizzati da diverse angolazioni. E' importante anche
redigere biografie, precise e fatte con serio scrupolo documentale,
dei superstiti.
Il problema si pone quando a tutto questo vogliamo provarci
con un romanzo, un racconto o una poesia.
*
SETTEMBRE 2004
L'equipaggio dell'astronave comprende la solita squadra di tecnici cinesi
che assicurano il rientro e il relativo benessere del viaggio e un paio di annoiati osservatori europei venuti a documentare questo o quell'aspetto minore della
storia di cent'anni fa, l'era dei Grandi Massacri Statali. Jean qualcosa, l'inglese, e Otmar il georgiano, gente che paga il viaggio a peso d'oro. L'inglese
gira un documentario sulle abitudini sessuali delle Ss. Il nazismo tira da
matti, nel 2035. E poi c'è l'addetto ai sistemi di ripresa, Jacob Feynman, che
viene dall'Egemonia. Jacob deve curare la manutenzione delle telecamere e
fotocamere digitali puntate sul campo di sterminio.
Auschwitz viene spostato in un altro tempo e in un altro spazio, ma quel mondo, che l'autore crea e rappresenta con diversi
occupanti dell'astronave, stabilisce una sorta di cortocircuito tra la
nostra realtà attuale, il passato della seconda guerra mondiale e
questo ipotetico futuro. C'è una sorta di gelida ironia nelle parole
di Avoledo, che gioca al limite del politicamente corretto - ma il
grottesco è sempre esente da moralismi e pruderie - con diversi e
tragici luoghi comuni: il documentario delle abitudini sessuali delle SS (qualcuno ricorda il Portiere di Notte di Liliana Cavani?), gli
europei annoiati che riscrivono la storia del '900, l'era dei grandi
massacri (chi si ricorda che esiste il Tribunale Europeo per i crimini contro l'umanità dell'Aja?), il nazismo che tira nel 2035 (non
è forse grazie a questo che Benigni vince l'oscar?) e infine l'idea
dell'Egemonia Israeliana (non è grottesca quanto paragonare Sharon a Hitler?).
Ma perché fotografare Auschwitz? Perché - come in un qualsiasi racconto di fantascienza di serie b - i protagonisti del racconto non modificano il corso del tempo, liberano il lager?
Un atto del genere modificherebbe per sempre la realtà del lager, l'intervento di prodi cavalieri dal futuro sarebbe solo un patetico deus ex machina.
Invece di uno siffatto scontro, c'è un'astronave,che fotografa i
deportati. Lo stesso Avoledo ci spiega il perché: "Penso alle foto
trovate nei depositi di Auschwitz. Allo scrittore ebreo che ha detto che non ha una sola foto dei suoi parenti europei e che questo
glieli rende in qualche modo morti per sempre".
La foto conserva il ricordo, perpetua la memoria così da rendere i testimoni muti, mussulmani, ancora vivi in mezzo a noi.
Quelle istantanee rappresentano la possibilità che i prigionieri non
siano morti per sempre, ma possano portare la propria testimonianza.
Che scrittura abbiamo di fronte? Che 'scrittura' teorizza Benjamin? Proviamo a raccoglierne gli indizi. In primo luogo è una
scrittura consapevole e cosciente, che non è chiamata a fotocopiare un evento, quanto a metterne in luce aspetti sconosciuti,
marginali.
Una scrittura che conosce la tragedia, ma che deve, in un certo
senso, spostare questa tragicità in altri luoghi, in altri hic et nunc,
per fare in modo che quell'essenza di verità non venga svalutata,
svuotandosi in semplice metafora.
Ci pare che possa essere definita grottesca, proprio perché possiede in sé questa intrinseca dissimulata drammaticità, che talvolta
sembra negare l'atrocità dei fatti, per poi restituirceli con retrogusto acre, non appena si è chiusa la pagina.
La natura del grottesco è quella di essere una tragedia rovesciata, o improbabile.
Immagino un'astronave. L'astronave gira intorno alla Terra in un'orbita
geostazionaria che la pone esattamente sulla verticale di Auschwitz, in Polonia. L'astronave è in realtà una cronomacchina. Orbita intorno alla Terra
del 1943, fra agosto e settembre, in un loop che la porta avanti e indietro
lungo quei due mesi.
Sotto i suoi occhi azzurri e lucidi passano scene di morte ripetute all'infinito. Le colonne in fila sul binario della stazione, la Selektion, gli scatti dei
cani. Sbuffi di fumo dalle bocche dei guardiani, fumo dalle ciminiere, un'ansa
della Vistola deviata dai depositi di ossa umane. I registri dello sterminio
sono impeccabili. Jacob aggiusta la focale e la macchina fotografica ZeissNikon inquadra il momento preciso, il dettaglio del volto della sua antenata,
una bambina spaventata di otto anni.
Questo stralcio è una parte di un racconto di Tullio Avoledo,
intitolato Foto digitali da Auschwitz, e chiarisce l'idea che prima
avevo cercato di specificare di grottesco. L'autore ci racconta di
un'astronave, che ha come missione quella di fotografare un
campo di concentramento. Una situazione paradossale, ma non
completamente irreale, visto che, tra il 1943 e il 1945, gli alleati
ricevettero molte foto aeree dei lager; immagini casualmente accantonate o messe da parte, e solo successivamente mostrate al
pubblico. Il dato è reale, ma è grottesco lo sviluppo della storia.
Ma questo continuo scattare e immagazzinare immagini truci e
dolorose può portare all'assuefazione, come lo stesso Avoledo ci
conferma a mo' di chiusa all'apologo.
Il mondo è molto diverso, nel 2035?
Sì e no.
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La ripetizione crea l'abitudine, l'abitudine genera indifferenza.
La macchina fotografica scatta e scatta, in sequenza, trasforma la
luce in sequenze di dati. I dati passano nei banchi di memoria dell'astronave. L'immagine delle vittime e quella dei carnefici si mescolano in una catena di codice binario.
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tamente vera, come il protagonista di Napoli Milionaria di De Filippo.
Steiner, citato anche da Cavaglion, infatti non ha dubbi: un romanzo quando si trova a dover dire il lager dovrà mettere in
campo una narrazione "fortemente allegorica e prossima al silenzio".
E una narrazione di questo tipo non può che essere ustionante
e urticante per chi legge; la coscienza, l'anima, le proprie idee ne
devono uscire cambiate. Due grandi scrittori, e due testimoni,
come Amery e Levi, sostenevano che parlare e scrivere di lager
era come infliggere le proprie pene al lettore. La scelta di Benigni
è stata consolatoria e lacrimevole; usciti dal cinema non si era
turbati, ma al più commossi. Un buon film di natale per tutta la
famiglia, ma niente di più.
*
E' il rischio, quello di diventare dei professionisti della Shoah,
come dichiara Alberto Cavaglion:
Sul finire del millennio tutto l'ebraismo è diventato, in verità, un oggetto di
consumo, uno strumento abnorme, quando non - nel caso specifico della Shoah - una merce dell'industria culturale. In mezzo a mode culturali di tali
dimensioni il discernimento critico non potrà mai essere libero.
*
Le parole di Cavaglion mettono in evidenza una situazione
complessa, il lager è diventato un prodotto culturale, che piegandosi alle regole del mercato, dà vita a prodotti commerciali, facili,
ma falsi. In un saggio intitolato importanza delle cose, bellezza
del dire, Cavaglion, prendendo spunto da una frase di Manzoni:
"L'essenza della poesia non consiste nell'invenzione dei fatti", aggiunge: "Solo chi considera Auschwitz un'entità metafisica potrà
condannare come vana la scrittura di invenzione che abbia il Lager per oggetto".
Prima di tutto ci pare interessante mettere in evidenza che si
parli di "invenzione" e non "finzione": nel primo termine c'è la
traccia, quasi un sottofondo, di scoperta, di ritrovamento, di catabasi e di ricerca. Si tratta di sondare la storia, entrarci dentro, di
masticarla e per poi inventarne la propria parte. La finzione, invece, possiede in sé qualcosa di artefatto, di ingannevole e illusorio;
quindi, tornando alla distinzione di Benjamin, siamo di fronte
non ad una riproduzione di un evento, ma ad una sua falsificazione.
Un esempio di tale mistificazione è il famoso film: La vita è
bella.
Il primo errore della coppia Benigni-Cerami è di rendere confortevole una storia di afflizione.
In Francia, per indicare lo specifico di quei libri, che parlano
del lager, si utilizza il termine lazzaréenne per indicare una letteratura che è resuscitata dal regno dei morti, che ha attraversato la
morte ed è venuta fino a noi per dirsi. La storia della Shoah è storia di morti che non sono morti, di personaggi che ritornano.
Chi è ad esempio questa donna, bellissima, che Nathan Zuckerman vorrebbe baciare?
Ed eccola là, capelli neri e copiosi, occhi chiari - grigi o verdi - e con una
fronte ovale prominente che sembrava quella di Shakespeare. [...] lo sguardo
era fisso su qualcosa che si trovava chiaramente altrove.
Ma quanti anni aveva [...]? Con quel viso, la cui forte ossatura mi sembrava modellata da uno scultore meno ingenuo della natura, quel viso ne doveva avere più di dodici.
[...] ma era soprattutto la drammaticità di quella faccia, [...], a rendere
tutti gli altri attributi fisci (esclusi i folti capelli ricci) sfocati e incoerenti. Sì,
la calma abissale di quegli occhi sarebbe bastata a sprofondarmi nella mia
timidezza, ma il fatto che io non potessi restituire direttamente la sua occhiata dipese anche da questo disarmonico rapporto tra corpo e cranio, e dall'implicazione, per me, di qualche precoce disavventura, di qualcosa di vitale perduto o menomato e, per esagerazione, di qualcosa di ampiamente esagerato.
Leopardi soleva ripetere che vi è sempre un nesso tra 'l'importanza delle
cose' e la 'bellezza del dire'. [...]. Qui l'importanza delle cose è banalizzata
fino all'inverosimile: mano a mano che la narrazione sale verso l'alto, cresce
la banalizzazione.
La banalizzazione nasce da un'ipotesi spicciola, ma assolutamente sentimentale, lacrimevole e fasulla ovvero che il lager
"possa essere aggirato per forza di amore paterno". Un'idea, certamente nobile, ma che non trova riscontro documentale in nessun racconto o memoria, che parli dei campi di concentramento.
A ben guardare è possibile rinvenire episodi opposti, dove il modello, più che il patetico amor filiale narrato dal film, è quello della feroce tragedia che si respira nella torre del Conte Ugolino…
Nello stesso tempo ne La vita è bella non c'è una precisa scelta
stilistica. Il tono e il linguaggio iniziale, la prima parte del racconto, sono quelli di una fiaba, dove sono molte le citazioni chapliniane e felliniane. Il secondo tempo, segna uno stacco: si cerca di
incupire i toni e il risultato è la macchietta e non la tragedia, come
dimostra la resa stereotipata delle SS.
Con questo non si vuol dire, che non si possa scrivere una fiaba su Auschwitz. Anzi. Nell'idea di grottesco, con la quale noi
cerchiamo di vincere l'impossibilità di dire il lager, il tono fiabesco
potrebbe avere una forza dirompente, se si riuscisse a tenere ferma questa opzione fino in fondo, se si riuscisse a girare un film
che abbia la medesima complessità del Grande Dittatore di Chaplin; o che ci consegni una maschera tragica, comica, ma assolu-
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Sono questi brani, tratti da uno dei romanzi più belli di Philiph
Roth, Lo scrittore fantasma. Senza usare iperboli, Roth è certamente
uno degli scrittori più importanti di questo secondo novecento,
perché possiede la straordinaria capacità di sentire la "vera" economia del racconto. Niente di quello che scrive è superfluo o
scontato, la sua voce non procede a scatti, ma scende diritta allo
scopo, al nervo del problema.
I passi in questione ci consegnano il ritratto di una persona che
ha un segreto; una persona sileno, che nasconde qualcosa; una
donna in cui si annida tragedia, menomazione, privazione, disavventura, perdita di qualcosa di vitale.
Così attratti da questa figura, Amy è il suo nome, ci dimentichiamo, così come Roth, della storia principale, ovvero dell'incontro tra Zackerman, giovane scrittore in erba, e Lonoff, scrittore di successo.
Tutti noi veniamo rapiti dalla bellezza straniante di questa ragazza. Ad accrescere maggiormente la nostra inquietudine, ci
pensa la moglie di Lonoff che rincara: "Non è più una studentes5
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sa: è una donna! Ne hai il diritto: l'hai salvata dall'oblio, ne hai tutto il diritto; è l'unica cosa sensata!".
Il mistero cresce e poi con Zuckerman assistiamo ad un dialogo che stordisce. Lonoff dice ad Amy: "Stai già bene. Alla fine tu
stai sempre bene. Sei la grande superstite!". Poche battute dopo,
il colpo di scena
ma di Levi, una verità che lo scrittore torinese esplicherà in modo
magistrale ne I sommersi e i Salvati.
In quel libro terribile e pessimista, ma anche assolutamente
magistrale, Levi arriva a concludere che i veri testimoni, quelli che
veramente potrebbero dire cosa è stato Auschwitz, sono coloro
che non sono più tornati. I morti, i gasati e i mussulmani del
campo saprebbero dire bene cosa è il lager.
Sulla loro pelle, il processo di annientamento è stato esperito
fino alla fine. Fino alla morte, sigillo ultimo di quel processo di
riduzione dell'essere umano a oggetto. Solo un mussulmano avrebbe potuto dire come muore una cosa, quale tipo di barlume,
di idea, di pensiero, o quale spaventoso vuoto passa per il cervello
di un uomo/pezzo, che ha spento ogni desiderio di vita o di sopravvivenza, che da tempo ha abbandonato il mondo. Quando
Amy/Anna sente il sospiro "Oh no" della gente in platea capisce,
che la sua storia acquista uno spessore proprio, perché lei è morta. Per il pubblico lei ha vissuto fino in fondo tutto l'orrore del
lager, e le sue parole diventano una testimonianza, di cui non sì
può fare a meno.
*
- Ma io ce l'ho già un cadavere sulla coscienza - . Il pavimento scricchiolò
là dove i suoi [di Amy] piedi si erano posati all'improvviso. [...]. - Guarda
- Copriti
- Il mio cadavere.
La macchina narrativa di Roth è precisa, e scopriamo che lo
scrittore fantasma, a cui fa riferimento il titolo, non è Lonoff, con
la sua vita da recluso in un cottage di montagna, lontano da tutto
e tutti, ma Amy, che in realtà è Anna Frank, l'autrice del Diario, la
quale vive sana e salva in America.
La grandezza di Roth non sta solo in questo capovolgimento,
ma nel riuscire a tessere una storia verisimile, che ci permette di
entrare nella tragedia dell'Olocausto da una prospettiva diversa.
Non siamo di fronte ad una trovata, ad uno scatto della trama,
ad uno stratagemma narrativo, che sembra essere diventato un
luogo obbligato di tutta la narrativa contemporanea, ma alla verità, che si srotola davanti a noi.
Amy/Anna, sopravvissuta rocambolescamente allo sterminio,
si trasferisce in America, cercando di dimenticare quel passato. La
sua scelta vacilla, quando assiste ad una trasposizione teatrale del
Diario di Anna Frank, del suo Diario. Il segreto diventa insopportabile e quindi chiama e racconta tutto a Lonoff, che decide di
tenerla con sé.
Tutto quello che stiamo dicendo ha molto a che fare con il vero. E l'accenno a Manzoni, prima, non sarà certamente sfuggito.
Un romanzo, o un racconto, che parli di questa terribile realtà dei
lager, deve fare i conti con la verità e con la Storia, che tante volte
si presenta come un manoscritto, da ricopiare e da mandare ai
posteri.
Questa è la storia di due libri, entrambi di incredibile bellezza,
così simili, cosi identici, eppure diversi. E' una storia che Borges
avrebbe saputo raccontare.
I due libri si intitolano, rispettivamente, Il canto del popolo ebraico
massacrato e Yossl Rakover si rivolge a Dio. Medesima è la storia di
questi due manoscritti, il primo ritrovato a Vittel in Francia, dove
l'autore, Yitzhak Katzenelson, cercò di sfuggire con il figlio alla
deportazione, e il secondo nel ghetto di Varsavia, dove trovò la
morte il suo autore Yossl Rakover.
In quest'ultimo libro - la storia di un uomo giusto che si rivolge
a Dio, lo chiama in causa, gli chiede il perché di questa incredibile
sofferenza - la narrazione inizia con una piccola avvertenza
Le donne piangevano. Attorno a me, tutti erano in lacrime. Poi alla fine,
nella fila dietro, una donna ha gridato: 'Oh no'. Ecco perché sono venuta qui.
Volevo una stanza con il telefono dover poter stare finché non avessi trovato
mio padre. [...] se lui lo sapesse, se glielo dicessi, dovrebbero venire alla ribalta, dopo ogni rappresentazione e annunciare: ' Ma lei, veramente è ancora
viva. Non dovete preoccuparvi, l'ha scampata, ora ha ventisei anni e se la
passa benone'. [...]. Ma... e se lo scoprissero!. [...]. Allora ho capito quello
che è sempre stato vero: non lo vedrò mai più. Devo essere morta per tutti.
Amy/Anna decide di 'morire' perché nessuno pensi che il suo
diario non sia vero, o che la sua sopravvivenza sminuisca il potere
del suo racconto.
E' questo un apologo sulla potenza della testimonianza; infatti,
con lei morta, le sue parole (vere di per sé) assumevano una più
profonda e terribile verità. Diventavano un memento per tutti
In una delle rovine del ghetto di Varsavia, tra cumuli di pietre
carbonizzate e ossa umane, sigillato con cura in una piccola bottiglia, fu trovato il seguente testamento, scritto da un ebreo di nome Yssl Rakover nelle ultime ore nel ghetto.
La sua responsabilità, caso mai, era verso i morti: verso la sorella, la madre, tutti i compagni di scuola trucidati che erano stati suoi amici. Questo era
lo scopo del suo diario, questa l'ineluttabile missione: ridare loro, con la carta
stampata, carne e ossa. [...]. Così rinnovò la sua fede nella forza di quelle
quasi trecento pagine e con essa la decisione di nascondere al padre sessantenne, il segreto della sua sopravvivenza. - Per loro, - gridò - per loro, - alludendo a tutti quelli cui era toccata la sorte che era stata risparmiata a lei e che
ora avrebbe finito di condividere.
Con il personaggio di Amy/Anna, Roth entra nel cuore del
problema dello sterminio: l'attendibilità, la forza, la storicità della
testimonianza e delle opere di scrittura. E coglie, alcuni anni pri-
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A sancire la veridicità della testimonianza, è riportata in esergo
una data: "Varsavia, 28 aprile 1943". In quegli stessi giorni, Katzenelson, grande poeta in lingua yddish, fugge con suo figlio e si
imbarca in un'impresa che avrebbe dovuto portarlo salvo in
Honduras. Il suo viaggio, una montatura messa in atto dai tedeschi, si conclude del campo di prigionia di Vittel in Francia. Qui,
in uno stato di disperazione e di prostrazione, scrive Il canto, che
rappresenta di certo una delle più alte opere poetiche sul lager.
Entrambi i testi, quindi, hanno delle caratteristiche comuni. I due
autori non sono sopravvissuti alla barbarie, ma le loro opere sì. In
questi testi la deportazione degli ebrei e la soluzione finale diventano lo squasso intero di un mondo, che porta ad una sorta di
nuova teologia. I cieli dei due libri sono vuoti, esausti. Senza più
Dio
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deve avere autore. Ed è forse questo il segreto magnetismo di
Yossl Rakover si rivolge a Dio.
In Se questo è un uomo Levi immagina che i suoi personaggi e
le sue storie facciano parte di una nuova bibbia, che racconti la
storia di un'altra umanità. La vicenda di Yossl e del suo autore
hanno questa medesima stoffa. leggendo il libro di Giobbe o la
Genesi, non ci chiediamo chi abbia scritto il libro, ma cosa quelle
parole dicano a noi. L'autore, quello che materialmente ha scritto
il testo, è per noi trasparente. Riconosciamo che in quelle parole
c'è qualcosa che va oltre le semplici strutture narrative.
Così a chiudere questa storia di un falso che è vero, di una
scrittura laica che diventa sacra, di un autore che scompare, c'è un
fatto. Nel 17 luglio 1994, una bomba esplode a Buenos Aires, devastando la sinagoga e il centro studi ebraico.
In quelle stanze - ironia della sorte? - è conservato l'originale
del testo di Yossl Rakover si rivolge a Dio, l'unico manoscritto
che testimoni che a scriverlo è stato Koltiz. La deflagrazione è
tremenda, ai soccorsi si presenta il solito tristo spettacolo: morti e
macerie dappertutto.
Ora, nel silenzio irreale che regna dopo un'esplosione, finalmente si può affermare che "tra cumuli di pietre carbonizzate e
ossa umane, sigillato con cura in una piccola bottiglia, fu trovato
il seguente testamento, scritto da un ebreo di nome Yossl Rakover".
Perché questi sono libri che hanno a che fare non tanto con il
bello, quanto con il vero.
E il vero prima o poi accade.
*
Il vero è una gorgone, non sempre facile da guardare. La verità
ti ustiona, ti brucia ed è così enorme che quasi vorresti che non
fosse stata. Il desiderio è quello di rimuovere quel passato, mettere tutto in un'enorme parentesi.
E' quella che vive per anni Jorge Semprun, e che ci rene nota
ne La scrittura o la vita.
O cieli, vuoti e abbandonati, cieli senza vita come un vasto deserto
Io ho perso in voi il mio unico Dio, e a loro tre non bastano Il Dio degli ebrei, il suo Spirito e l'ebreo di Galilea, che hanno ucciso, non
bastano:
hanno voluto spedire tutti noi in cielo - o miserabile malvagia idolatria.
Rallegratevi, cieli, rallegratevi! Eravate poveri, ma ora siete ricchi:
che raccolto benedetto, che fortuna vi è concessa: un popolo, tutto un popolo!
Rallegratevi, cieli, lassù con i tedeschi, e i tedeschi si rallegrino quaggiù con
voi,e un fuoco salga dalla terra fino a voi, e un fuoco scenda da voi fin sulla
terra.
***
Dio non esiste, anzi no. Esiste ed è condannato a prendersi sulle spalle
tutte le sue responsabilità in questo massacro.
Non posso dire, dopo aver assistito a tanto, che il mio rapporto con Dio
non sia cambiato, ma posso affermare con assoluta certezza che la mia fede in
lui non è cambiata minimamente. Prima, quando ero nel benessere, [...], nei
suoi confronti rimanevo sempre in debito. Ora quello che ho con lui è un rapporto con uno che anche a me deve qualcosa, che mi deve molto. E poiché sento che anche lui è in debito con me, credo di avere il diritto di esigere ciò che
mi spetta.
I due testi, scritti praticamente in contemporanea, vengono
pubblicati nell'immediato dopoguerra. Nel 1945 Il canto del popolo ebraico massacrato è pubblicato a Parigi; nel 1946 una piccola rivista argentina dà alle stampe il testamento di Yossl Rakover.
Sin dal loro apparire le due opere suscitarono una profonda eco
nel mondo ebraico e divennero una sorta di "sacra scrittura laica",
un tentativo di raccontare il dolore e la lotta contro l'iniquità. Divennero testi da tramandare, da mandare a memoria.
Ad accrescere l'autorevolezza, c'era il sigillo della morte dei due
autori e la salvazione delle loro parole, arrivate indenni, attraverso
bombardamenti, razzie e quant'altro; scampate ad una massa di
rovine, loro stesse ultime vestigia di quel mondo spazzato dalla
barbarie; un' immagine, forte e profetica, della superiorità della
lingua poetica, della possibilità che ci fosse un argine alla barbarie,
e che questo fosse rappresentato dalla scrittura.
Ma la liturgia del ricordo non ammette modificazioni. Si può
quindi immaginare il pandemonio, che scoppiò quando, Zvi Kolitz, giornalista e agente segreto, un lituano di origine ebrea, scappato in Palestina allo scoppio della guerra, disse di essere l'autore
di Yossl Rakover si rivolge a Dio.
Pochi gli vollero credere, quasi che la verità di quelle parole potesse essere affermata solo da un morto.
Nel corso degli anni, più volte Kolitz cercò di convincere le
persone della paternità di quel libro. Niente. Yossl Rakover non
era più un personaggio, ma era diventato carne e sangue, storia.
La sua richiesta costo a Kolitz attacchi e denigrazioni.
Per i suoi detrattori, ammettere che Yossl non fosse un'opera
di verità, ma di letteratura era "un precedente pericoloso, così facendo, non ci vuole nulla poi per sostenere che anche Auschwitz
è un'invenzione".
Koltiz scrive delle lettere di smentita, risponde e argomenta, ma
infine sembra rassegnarsi all'idea di aver scritto un libro, che non
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Niente, di primo acchito, svelava dove avevo passato gli ultimi anni. Io
stesso tacqui su questo argomento. Il mio non era un silenzio affettato, né
colpevole, né tantomeno pusillanime. Ma un silenzio di sopravvivenza. Un
silenzio frusciante dell'appetito di vivere. Non divenni, dunque, muto come
tomba. Muto perché stupito della bellezza del mondo, della sua ricchezza,
ansioso di vivervi cancellando le tracce di un'agonia indelebile.
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Parole, queste, che starebbero perfettamente cucite addosso a
Nonno Rosenstein, personaggio di un romanzo di Marco Bosonetto, che rappresenta il tentativo della nuova narrativa contemporanea di provarsi e confrontarsi con questa agonia indelebile.
In Nonno Rosenstein nega tutto siamo di fronte alla scelta di
scrivere su Auschwitz, servendosi di una prospettiva insolita; a
dominare la scena e le pagine, oltre alla scrittura sempre fresca e
mai didascalica di Bosonetto, è Simon Rosenstein, clarinettista e
sopravvissuto all'Olocausto, ma anche anima in fuga, migrante,
tombeur de fammes e gran bevitore. Ironico e lucidamente folle,
anima inquieta e delicatissima, sembra essere spuntato fuori da un
libro di Singer o dalla fantasia dello stesso Semprun, che amerebbe quest'vecchio sempre in bilico, tra una euforia esagerata e una
strana cupezza.
Il libro è il racconto di un altro libro, che Rosenstein sta componendo. Un testo tremendo, che dice una verità semplice: ad
Auschwitz le camere a gas non sono mai esistite.
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Lessi: "Una bugia lunga quarant'anni. Quarant'anni. Non ce la faccio
più. Voglio che si sappia. Voglio chiedere perdono. Ma non credo che riuscirò
a farlo da vivo". Ebbi la sensazione che un iceberg mi navigasse nelle vene.
"Lo avete…"
"Noooooo! Come può pensare una cosa simile", si scandalizzò il colonnello. "Il signor Levi si è ucciso. Si era risolto a dire la verità ma non sopportava di pagarne le conseguenze. Noi ci siamo limitati a far sparire le sue ultime
volontà […]".
Si moriva per un mucchio di ragioni ad Auschwitz. Di fame, tifo, dissenteria, botte, fucilazione, impiccagione, disperazione. L'unica cosa di cui non è
mai morto nessuno è lo zyklon B. Le camere a gas camuffate da docce le
hanno inventate quelli del direttivo sionista. I russi trovarono l'idea entusiasmante. Il Progetto Resurrezione avrebbe seppellito la nazione tedesca
sotto le macerie di una colpa incancellabile. Bastava cambiare a qualche centinaio di migliaia di deportati superstiti, traslocati in Palestina o in qualche
continente lontano con identità nuove di zecca e inventare milioni di vittime
sterminate da una gigantesca fabbrica della morte: l'Olocausto.
Bosonetto si muove per una via difficile. La scelta però è chiara: cambiare prospettiva alle cose. E' necessario ricordare il punto
di vista di chi racconta. Nonno Rosenstein non è un occhio qualunque o una lingua qualunque. Lui è sopravvissuto ad Auschwitz
e i suoi sono un occhio e una lingua menomati, privati e deboli.
Dietro quell'aria da uomo di mondo, da musicante impenitente,
da romantico e vagabondo, dietro quella maschera comica e buffa, c'è il destino di un sopravvissuto. Il personale inferno di vivere invece di altri, di essere un traditore degli amici: "Non ho usurpato il pane di nessuno/ Nessuno è morto in vece mia. Nessuno". Rosenstein sa, lo sa sulla sua pelle, il perché di quelle parole, smozzicate, storticate, che noi leggiamo e fatichiamo a capire,
tenendole per false. Le sue sono parole sopportabili, ma facilmente manipolabili. Il libro assume un tono picaresco, quando alcuni
gruppi dell'ultra-destra vogliono che Nonno Rosenstein dica al
mondo la verità, che si alzi in piedi durante una conferenza stampa organizzata per l'occasione e pronunci la verità: le camere a gas
non sono mai esistite, molti degli ebrei 'morti' in realtà vivono in
paesi lontani e hanno acquistato una nuova identità. Rosenstein
decide di seguire questi quattro scalcagnati, volendo portare fino
in fondo la sua testimonianza. E le vicende rocambolesche e clownesche, dove si intrecciano sedicenti gruppi "razzisti" e santoni
new age con l'occhio al portafoglio, fanno da giusto controaltare
alla domanda finale del nipote Silvano.
La testimonianza di Nonno Rosenstein non è un totale rovesciamento della verità. Il protagonista non nega tutto, non nega la
disumanità dei lager; ce ne restituisce una sorta di versione edulcorata.
Sopportabile.
La versione di Rosenstein è sopportabile, ma è anche collimante con quella che alcuni storici revisionisti hanno elaborato, sostenendo l'assenza di vere prove documentali a prova dell'avvenuto eccidio per gas di milioni di ebrei.
Bosonetto conosce benissimo questa teoria, come conosce altrettanto bene gli scritti di letteratura concentrazionaria, e il difficile equilibrio che le memorie del lager devono mantenere tra autobiografia personale, testimonianza e sfogo.
Il suo testo è una sorta di esasperazione di questi temi, una sottolineatura, un calco esagerato. Bosonetto guarda certamente a
Semprun che, ne La scrittura o la vita e ne Il grande viaggio, aveva più volte ribadito la necessità di dimenticare per poter ricordare. Una sorta di oblio ragionato e pensato, per sopravvivere ai ricordi e per poterne un giorno raccontare; quasi che la smemoratezza potesse porre uno spazio di vivibilità tra lo strazio dei ricordi e la scrittura degli stessi.
C'è un momento, però, in cui Semprun decide che è ora di ricordare. L'11 aprile 1987.
Il giorno della morte di Primo Levi.
Quel giorno, per caso?, Semprun scrive l'inizio di un nuovo
romanzo, sono 10 pagine fitte, le salva e le chiude in una cartellina, e ci scrive subito il titolo - un fatto che gli capita di rado- : La
scrittura o la vita.
"Perché ti sei messo a scrivere quelle memorie false, nonno"
Simon mi guarda disorientato. "Era solo per… scappare dai miei veri ricordi…" sussurra.
"Non potevi immaginare qualcos'altro? Di essere fuggito prima della guerra. Via dall'Europa. O di essere riuscito a nasconderti. Perché ripetere quelle
cose ignobili".
"[…] L'unico modo per non soffrire più sarebbe stato che non avesse sofferto nessuno. Che tutti si fossero salvati, non io soltanto. […]. Avevo visto
una moltitudine infinita di uomini e donne passare dal camino di Auschwitz,
ma avrei avuto la forza di inventare un'esistenza per ognuno pur di saperli
ancora vivi. […], ho provato a tenere a freno la rabbia e ho riflettuto sulle
conseguenze: i miei amici non erano morti, il mio popolo non era stato distrutto, Rebecca Abramowitz viveva in Florida, le famiglie non erano passate
dai vagoni piombati alla camera a gas, coltivavano kiwi in Nuova Zelanda,
aprivano kibbutz, studi legali, negozi. […] Era come se tutte le persone che
avevo visto morire tornassero in vita. Avrei potuto ancora abbracciarle, scherzarci, discutere e litigare. […]".
L'11 aprile 1987, insomma, quel sabato in cui il fantasma del
giovane deportato che ero stato compariva, d'improvviso, dietro
una frase, in un romanzo in cui non era né previsto né atteso, per
portarvi lo scompiglio e proiettarvi uno sguardo colmo di incertezza, Primo Levi sceglieva di morire gettandosi nella tromba delle scale di casa sua a Torino.
Quella data è il punto di volta nella scrittura di Semprun, che
fino a quel momento aveva raccontato la sua vicenda di deportato
solo per accenni ed ellissi. Anche Nonno Rosenstein ha un personale ricordo di quel giorno. La morte di Levi è letta sotto un'altra luce. Diversa. Oscura.
"[…] due giorni fa è morto un uomo molto conosciuto e stimato. Suicida.
Lo sa?"
"Primo Levi", risposi.
"Primo Levi. Una settimana prima di uccidersi consegnò questi fogli ad
una persona di fiducia, con l'incarico di renderne pubblico il contenuto se a lui
fosse accaduta una disgrazia. Guardi come inizia", disse porgendomi il plico.
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È solo un sogno dentro un altro sogno. Rosenstein nega tutto
per confermare, per sancire una bancarotta della parola. L'oltraggio è così profondo che o lo subisci fino alla morte o lo rimuovi.
Rosenstein, ubriaco di dolore, che nega ciò che è vero solo per
avere un attimo di pace, è simile al vecchio marinaio di Coleridge,
che Levi aveva preso a modello di reduce, che tornato racconta.
Poi ad un'ora incerta l'agonia ritorna. Ritorna l'agonia dei ricordi e
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dei dolori, e Rosenstein inventa una storia, prova un lieto fine,
che è falso, ma non per questo meno tragico. Un finale che accresce il senso doloroso di questa immane tragedia.
*
Il romanzo di Bosonetto ci mostra la possibilità di come sia
possibile scrivere su Auschwitz un romanzo. C'è il rischio, quello
di osare troppo e di cadere nel ridicolo o nel patetico. L'autore di
Nonno Rosenstein nega tutto è riuscito a tenersi fuori da queste
due ipotesi, grazie alla figura di Simon e alla sua grottesca scelta di
non negare ciò lui aveva esperito in prima persona.
Forse ora, dopo questa lunga teoria di libri e di personaggi limite, potrà certamente essere più chiara l'ipotesi di questo breve
scritto. E' possibile scrivere del lager, solo quando si scelga l'opzione del grottesco, che è una sorta di tragedia dissimulata, nascosta, un'assurdità raccontata a termini di ragione.
In uno dei suoi racconti Primo Levi parla di un giovane bibliotecario, che sta recandosi ad un appuntamento. È una giornata
normale e il nostro protagonista fa pensieri banali, per nulla speciali, di quelli che si fanno quando si cammina per strada. Entrato
in una via stretta e buia, incontra dall'altra parte un marinaio, forte e nerboruto. I due camminano e si vengono incontro. Poi il
marinaio, senza motivo apparente, picchia il povero malcapitato,
che si ritrova alla fine pesto, insanguinato e stupefatto, perché
l'uomo se ne è andato senza proferire parola. Il protagonista si
alza e considera il fatto
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da che parte prenderlo. Mica è facile relazionarsi con lui. Sembra
sempre in cerca di qualcosa, anche nel sonno.
A volte lo vedi, nel suo studio che sarebbe in fondo solo un
angolo pieno di aggeggi strani che non si sa che siano ma solo a
cosa servano, e ti chiedi cosa stia cercando. Sta fermo, magari seduto, però ne senti il movimento per la stanza. Questo accade
molto più spesso dopo che ha bevuto il distillato. Non è alcolico,
credo. Non l'ho mai sentito. Ha detto che non posso. Non posso
perché "Tu leggi!!!".
Questa solo è stata la sua spiegazione. Io leggo. Lui no. Ma non
è che non sappia leggere, in effetti, solo che non può più. Il suo
occhio che era capace di leggere è diventato cieco. Gli abbiamo
fatto fare un'operazione ma non c'è stato niente da fare. L'occhio
che ci vede ancora non è in grado di leggere. A volte si mette una
benda nera sull'occhio vecchio e allora sembra un pirata. Un pirata un po' come John Silver, ma senza essere un vero pirata. Certo
è che fa un po' paura.
Fossi stato Frank Herbert, forse quando l'ho incontrato la prima volta l'avrei chiamato qualcosa come "abominazione". Invece
no. Per un po' è stato senza nome, fin quando non ho visto a cosa gli serviva tutto l'armamentario che si portava dietro. Strizza
fogli. Prende i libri, ne strizza i fogli con le sue macchine e beve.
Ho provato a convincerlo a raccontarvi la sua storia, ma mi ha
detto che no, lui al massimo l'avrebbe raccontata a me e poi io a
voi.
Il duello non aveva corrisposto ai suoi modelli: era stato squilibrato, sleale, sporco, e lo aveva sporcato. I modelli, anche i più
violenti, sono cavallereschi, la vita non lo è. Si avviò al suo appuntamento, sapendo che non sarebbe stato mai più l'uomo di
prima. (natale di guerra)
Non è facile ragionare con lui, ho provato a farlo per "Dentro
la metafora", ma cambia idea ogni giorno. Ogni strizzata, direi.
Capirete, mettere d'accordo un vecchio ed un bimbo con mani di
donna.. Pensavo che nella mia vita ho conosciuto vari esseri frankensteiniani, fatti di parti diverse, e in genere fanno una brutta
fine. Lui spero di no.
Proprio come Lazzaro che risorto ebbe per sempre addosso
l'odore estraneo della morte.
continua...
Mi ha detto che questi sono
Il ragazzo dagli occhi glauchi e il Minotauro
PICCOLO STRIZZAFOGLI
di ANDREA BRANCOLINI
Piccolo Strizzafogli scalpita. Piccolo Strizzafogli è un essere deforme, un essere che cerca qualcosa attraverso qualcos'altro. Non
è Harry Potter, né Huck Finn, non è certo un personaggio originale, è uno che viaggia e che sta fermo, che osserva, ma è dentro,
che influenza e che fa cambiare le cose, nonostante tutto. Un po'
gobbo di Notre-Dame, ma anche Sandokan.
Se fosse una poesia, sarebbe Il viaggiatore mentale di Blake, ma
diverso. Ammetto che questo personaggio prende un po' di questo e un po' di quello e quando lo vedrete, pardon, ne leggerete,
avrete forse un moto di disgusto, perché è anche talvolta irrispettoso, anche se mai con cattiveria. Si rifà a tutti quei personaggi
deformi di cui voi siete più informati di me.
Così, Piccolo Strizzafogli. Non ha nome, perché ne dovrebbe
avere almeno due, e forse ce l'aveva. Si individua per quello che
fa. Ma il "piccolo" non si riferisce al suo fisico, se lo volete sapere. Adesso ha pure mani di donna. Se lo guardi non sai come fare,
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Da molti anni desideravo scrivere
Scusa, non posso parlare più forte
Dove stiamo andando?
Ma riuscirai mai a sentirmi?
Perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle più
nuove?
Ho bisogno della tua voce, quando la mia viene meno
I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli
vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono
morti, che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre
stati morti.
Però, adesso che dici così, mi fai pensare che anche gli etruschi
sono vissuti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli
altri
Per quanto possa ricordare, egli ha sempre vissuto in un edificio gigantesco, completamente vuoto, in cui ogni parola pronunciata ad alta voce provoca un'eco destinata a non spegnersi.
Per quanto possa ricordare. Che cosa significa?
Il mio nome è Hor
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Quando ripartimmo era buio
Della città portuale. I vicoli.
Una camera da letto per una signora creola. Una donna di facili
costumi fa la Madonna al Louvre, morta in un canale, per Caravaggio l'assassino.
"Preferisco di no. "
Lei sorrise.
"Hai detto "preferisco di no", come Bartleby. "
Io mi chiamo Hor.
" Jor, è il cane.>>
Perché chi, a parte me, mi chiama per nome?
Il giardino oggi non esiste più.
"Vuoi che ti faccia venir dentro? Se vuoi, ti insegno subito come devi fare."
Una comunissima porta di casa, chiusa, dipinta di un color verde-mela, senza targhetta, e lì conducono tre gradini di pietra molto consumati.
"Finora nessuno è mai tornato indietro. La nostra memoria si
arresta davanti a questa soglia. Colui che la varca ha lasciato il nostro sogno. "
"Allora vuoi, o non vuoi? "
La raggiunsi sulla soglia del pertugio. Oltre, non c'erano che tenebre.
La poca luce proveniente dall'alto era concentrata su di lui, ma
bastava appena perché potesse scorgersi i piedi.
Filtrando attraverso il cunicolo, veniva da dietro qualche debole raggio di luce, adesso me ne accorgevo. Alla fine mi ritrovai
all'aperto. E il suo ultimo sguardo, prima che scomparisse di là
dal muro, era stato per me.
"No, non posso darti niente, neppure questo bacio. "
"Hai già preso la tesi? "
"Per prenderla l'ho presa: su Emily Dickinson, sai quella poetessa americana dell'Ottocento, quella specie di donna terribile…"
Ma furono subito fatti tacere. La regina veniva a sapere tutto e
con lei c'era poco da scherzare. Le membra lisce come avorio, il
tronco, il seno erano di immacolata bellezza, eppure la sua nudità
produceva un effetto clinico, come quella di un corpo in una sala
anatomica.
- E tu sarai come quel mucchio immondo,
quell'orrenda infezione,
tu stella dei miei occhi, sole della natura,
angelo mio, mia passione!
Sarai così, regina delle grazie,
dopo l'estrema unzione,
discesa sotto l'erba, sotto i grassi cespugli,
a muffir fra le ossa.
E allora ai vermi che ti mangeranno
di baci, o mia bellezza,
di' che in me sono salve la forma, l'essenza divina
dei miei marciti amori!
"Làttimi? Che roba è? Da mangiare? "
"Ma no, no. Sono vetri. Bicchieri, calici, ampolle, ampolline,
scatolucce: cosette, in genere scarti d'antiquariato.
Le schiere dei làttimi, baluginanti in penombra sui palchi dei loro scaffali: gli unici oggetti, lì dentro, nel sogno apparsi diversi da
quel che erano in realtà.
"Passerai attraverso molte trasformazioni, da un'immagine all'altra. E ogni volta crederai di svegliarti e non ti ricorderai del sogno precedente. "
Così ero partito.
Il giramondo decise di porre fine alla sua passeggiata per i vicoli
della città portuale.
SETTEMBRE 2004
10
Io.
Chi sei, tu?
Non ci siamo mai incontrati.
No.
Solo parole, mie, ho incontrato in questo tempo, nell'eco, ma
non le riconoscevo quando tornavano a me.
Tu ed io siamo diversi.
Dici?
La sognavo ogni notte. La mia mente non si è mai stancata di
lei.
Io non sogno. E la casa è vuota. Il tempo.
Ogni notte.
Qua non c'è notte, ma una penombra perpetua.
Non dormi mai?
Dormo, quando ho sonno.
E mangiare?
Le pareti sono commestibili.
Una casa di marzapane. Sei del Nord?
Mmmhhh, anche. Anche Sud.
I tedeschi l'hanno uccisa.
E tu?
Io?
Tu non l'hai uccisa?
No.
Allora non è morta.
Si, che è morta. Anche le cose muoiono.
Oltre a?
Oltre a?
Dici, anche le cose muoiono. Oltre alle cose, cos'è che muore?
Le persone.
Ah.
Davvero non hai mai incontrato nessuno?
Non ricordo.
Chi ti ha dato il nome?
Tu.
Ci siamo conosciuti adesso, e tu l'avevi già il nome.
Solo perché sei arrivato tu.
Mi disse "tu e i tuoi bellissimi occhi glauchi".
Disse "è una testa di toro, un mostro, una malformazione della
natura, uno che richiede sacrifici umani!"
Chi lo disse?
Hor non sogna e non ha neppure ricordi propri.
Allora come fai a dire "disse"?
E tuttavia la mia intera esistenza è piena dei terrori e delle estasi
legati a esperienze che assalgono la sua anima a mo' d'improvvisi
ricordi.
Non capisco.
Ciao.
BOMBASICILIA
ANNO IV NUMERO 1
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E tu chi sei?
Chi sei, tu?
Io sono io.
…
…
Quello che vi ha fatto incontrare.
Come hai fatto?
Un uomo sceglie una porta. O un giardino. Un labirinto, anche.
Sceglie di scendere dal pennone di una nave. Sceglie di non entrare. Ecco, così.
Io l'amavo.
Anche io.
Avete amato entrambi, allora.
Ma lui è un Minotauro!
E lui ha bellissimi occhi glauchi…
Sono passati venti anni da che ti hanno generato, ed erano passati venti anni e più, da che ti hanno generato. E siete stati generati nella morte. Per oltrepassarla. E adesso, lei è morta. Lei che
era l'altra. E allora vi ho fatti incontrare. Dove l'altra era morta,
uno è nato. Tutto un caso.
Ma sei stato tu a farci incontrare.
Sì.
Allora non è stato un caso.
Sì, è stato un caso.
Destino. Un sogno?
Un giardino, un labirinto, hanno confini. Ci sono cancelli, o
porte, piccoli pertugi. Ci sono scale a pioli per superare i muri. O
non ci sono finestre che danno in un esterno. Ma solo con un
giardino, o un labirinto, si può dire cosa sta dentro o fuori.
Dentro o fuori?
"Metafora…" e cos'è la metafora, maestro? "A volte come una
moneta/ s'accendeva un pezzo di sole tra le mie mani" Non capite perché?
Metafora…
Metafora…
pagina vuota. Però poi devi affondare di più la lama, tentare di
forzare la mano e guadagnare il tuo punto di vista.
Provi ad assorbire lo stile di "commentatori" famosi, capire dove loro hanno piazzato il cannocchiale per penetrare dentro la poesia di Celan. Ma a chi giova? La tesi, diciamolo, è la prima grande prova della vita. Almeno per chi crede che scrivere dia
senso e spessore al pensiero. Che quest'atto tanto semplice è così
potente da far impallidire stati e dittature. Che bastano sillabe
storte e diritte intrecciate con passione per recuperare addirittura
il senso di una vita. Recuperare perfino la dolce madre che i nazisti ti hanno strappato per poi spararle un colpo in testa perché
inabile al lavoro. Lei, che insegnandoti a leggere, t'aveva aperto le
porte del meraviglioso mondo della poesia.
La poesia di Celan l'ho trovata per caso. Dovevo fare
una tesi sulle riflessioni "estetiche" di Heidegger. Ma Salvatore
Tedesco, il mio Maestro, mi indirizza verso un parallelismo tra
Bernhard e Celan. Assaggio Bernhard e lo rimando tra i libri da
leggere in un prossimo futuro. Preferisco Celan, ci sono immagini
che ti lasciano svacantato. E' l'unica parola possibile. Spiazzano.
Come la celeberrima Todesfuge che, a sentirla letta dalla voce dell'Autore, non può lasciarti intonso.
Ogni lettura di una poesia di Celan lascia mutati. Perché, se
continui a leggere nell'unico modo possibile - pagina dopo pagina,
poesia dopo poesia - sino a digerire tutte le 1300 e passa pagine
del Meridiano (!) curato da Bevilacqua, alla fine come minimo
sottoscrivi i giudizi entusiastici di George Steiner e di Paul Auster.
Ti sembra di aver perso una vita a leggere SCUOLA DI POESIA
sullo Specchio della Stampa. E' una miniera di immagini, potresti
perfino ricavarne almeno quattrocento meravigliosi sms d'amore
e conquistare altrettante donne con le poesie di Papavero e Memoria. Continui a leggere e arrivato a Sprachgitter capisci che è
vero che Celan non ha mai fatto letteratura. Quello che trovi sulla
pagina è vita.
È impossibile separare le due componenti, ha scritto sino alla
fine, sino alla scelta tragica del suicidio. Lo ha fatto per combattere contro quell'assordante silenzio delle sirene, per usare un'immagine di Kafka: Odisseo poteva resistere al canto, ma nessuno
ha mai potuto schivare il silenzio delle sirene. Non ci sono rimedi
o tappi di cera che tengano. Lo stesso silenzio che martoriava il
Lenz di Büchner.
Contro il silenzio si può combattere, si può cantare, gridare. Si
deve fare soprattutto contro chi vuole zittire la Storia.
Osservo il tempo aspettarmi
sulla soglia, porta di specchio…
Per una migliore comprensione (se è possibile. D'altronde, siete dentro la
metafora):
Brani tratti da: Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, Milano,
Mondadori; Michael Ende, Lo specchio nello specchio, Milano, Longanesi
& C, 1986;Charles Baudelaire, I fiori del male e altre poesie, Torino, Einaudi, 1999; Pablo Neruda, Venti poesie d'amore e una canzone disperata,
Firenze, Passigli Editori, 1996.
In più, richiamo al film Il postino, di Michael Radford, con Massimo
Troisi
Mi metto in gioco, lasciando da parte il plurale maiestatis e altri
orpelli perché, se la lettura di Celan è un rischio, io voglio rischiare in prima linea. Devo farlo perché sono in una condizione favorevole: ho 22 anni, la stessa età che aveva Celan in quel tragico
1942 e perché m'immedesimo totalmente nel rapporto che un
figlio costruisce con la madre.
Pietruzze su sentieri interrotti
ALLA RICERCA DELL’ATEMKRISTALL
di TONINO PINTACUDA
Tra gli spazi bianchi della tesi - Quando scrivi capita che prima o
poi becchi la bonaccia. All'inizio confuso e felice batti veloce sulla
tastiera, vuoi riempire gli spazi bianchi. Sfuggire al silenzio della
SETTEMBRE 2004
11
La prima volta che ho letto ATEMKRISTALL, io la poesia l'ho vista. Proprio davanti agli occhi mi si è presentata una
scena completa e compiuta d'impareggiabile bellezza. L'ho ottenuta mischiando quello che mi porto dietro nella mia comprensione del mondo, la mia valigia di necessari pregiudizi, per dirla
con Gadamer. C'era dentro Charlie Chaplin nella FEBBRE
DELL'ORO che per rimediare una tazza di caffè simula un con-
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gelamento, ci ho messo pure qualche scena dalla COMPAGNIA
DELL'ANELLO e ho chiuso il tutto dentro una di quelle bocce
che vendono nei negozi di souvenir, quelle con la neve dentro
che basta girare per veder nevicare sul Colosseo o sulla Torre Eiffel.
Ma torniamo al ciclo. Inizia il fluire.
È uno scrosciare d'acqua: "fiumi verso nord" e "rapide
di tristezza". Acqua su cui naviga il relitto della memoria, qua
m'immagino una galeone scheggiato come quello di "COME IN
UNO SPECCHIO" di Bergman. Il poeta prosegue da lì il suo
viaggio, schivando lastroni di ghiaccio e tronchi scheggiati. tronchi che sono 40 come le decine vissute dal poeta, e solo chi l'ha
salvato dall'assideramento può accarezzare questi tronchi, lo fa
navigando contro-corrente, come fanno i salmoni. In questo relitto il poeta è in preda a uno di quei mal di testa che manco una
fornitura industriale di aulin potrebbe scacciare, è uno di quei mal
di testa da pensieri fissi. E qui si capisce che il senso di colpa per
la morte dei genitori accompagnerà l'io in questo viaggio. Ci sono
altre navi, almeno una flotta di relitti che spiccano il volo. Come
quei fantomatici galeoni fantasma che terrorizzavano i marinai.
L'io poeta scorge l'equipaggio di quei relitti, è la ciurmaglia d'anticreature, il Mob, la feccia umana che nel 20 gennaio del tragico
1942 ha deciso di stilare il documento in cui si metteva nero su
bianco la modalità d'esecuzione della soluzione finale. Ma l'io
canta, può cantare insieme al Tu e questo canto va oltre gli uomini, oltre il Tempo. Scacciati i relitti del cielo, l'io assiste impotente
allo sferragliare dei vagoni piombati che inghiottono i perseguitati
e li conducono lontano, in una cava di pietra dove riceveranno un
nuovo nome tatuato sulle braccia. Il tu è tra quelli ma si riesce a
distinguere perché era già scritto che era destinata all'altra fonte,
quella della memoria. E' quella predestinazione che rende possibile il viaggio dell'IO.
Ho visto L'io del ciclo - che nella mia visione aveva ovviamente la faccia di Celan - che camminava piegato in due da
una tormenta di ghiaccio, lì in una terra desolata perso tra le nevi
perenni. Camminava e i piedi affondavano sempre di più, arrancava esausto col peso di quella scelta-destino di scrivere in tedesco. Il vento gelido gli schiaffeggia la faccia, lui prova a restare in
piedi ma cade a faccia in giù. Sta lì per un tempo che deve essergli
sembrato quasi infinito. Lì, azzannato dal vento e dal nevischio.
Lì, nell'apoteosi di tutti i deserti di ghiaccio e freddo.
Quando tutto sembra perduto, qualcuno si avvicina all'Io intorpidito, si china e gli offre un pò di neve, neve che prima
ha riscaldato tra le mani per tirarne fuori qualche goccia d'acqua.
E' una figura indistinta, l'IO accecato dal riflesso del sole sulla
neve non riesce a distinguerla, è una visione a contorni sfumati.
Però il naso gelato sente comunque un odore che lo scaglia nella
dimensione soffice dei ricordi. E in mezzo ai souvenir che ha accatastato lungo una vita, rivede la sua patria, rivede il gelso, sotto
quello stesso gelso forse una ragazza bionda s'è presa la sua verginità.
Sta lì, si riprende lentamente e la misteriosa figura che l'ha salvato gli resta accanto. Come solo le mamme sanno fare. E qui
dalla valigia delle mie visioni snocciola fuori un'indistinta figura di
madre in cui s'addensano tutte le madri che ho incontrato: c'è un
pizzico della madre santa di Aleksej Karamazov, il cappellino della madre di Forrest Gump e poi l'archetipo della madre-guida,
Concezione Ferrauto, la mamma di Conversazione in Sicilia.
Perché l'IO del ciclo ATEMKRISTALL e l'IO di Conversazione in Sicilia hanno più di qualcosa in comune. Entrambi si trovano in uno stato terribile, la quiete della non speranza e ritornano
all'origine. Una Sicilia che diventa terra del mito e la landa di
ghiaccio. Ed entrambe le ricerche iniziano con qualcuno che offre
cibo che attiva il recupero faticoso e incessante e inevitabile di un
passato che si credeva sepolto. L'io del ciclo mastica quella neve e
Silvestro l'aringa ma la sostanza non cambia, quel condividere cibo con le rispettive guide diventa la chiave per accedere a una
dimensione nuova, altra. Lasciamo stare VIttorini e torniamo a
Celan, l'io si scopre sempre più simile al poeta. Perché il poeta ha
scritto l'ATEMKRISTALL nel 1962? Azzardiamo una risposta.
Perché solo a 42 anni, dopo aver raddoppiato la sua età lontano
dalla sua "patria" può tentare il recupero da una postazione ottimale. Non c'è più l'impellente bisogno di gridare al mondo "Sì,
sono vivo! malgrado tutto sono vivo". E poi in questi 20 anni Celan s'è sposato, è diventato due volte padre, ha provato il dolore
di perdere il suo primogenito dopo solo 30 ore. Vedere una parte
di se stesso così piccola spegnersi dopo neanche due giorni di vita. Ha trovato l'amore di Giselle e la Francia. E, fatto principale,
sua madre aveva la stessa età quando gliela portarono via. E avere
la stessa età illumina scie di senso che prima non si potevano neanche accarezzare. Forse da qui dipende pure la scelta di scivolare
nella Senna prima di compiere 50 anni. Celan, forse, non voleva
vivere una decina in più dell'amatissima madre - cancellata dalla
vita a 47 anni.
SETTEMBRE 2004
Il pellegrinaggio nella dimensione della memoria continua, l'IO trova la forza di continuare la sua ricerca, affrancato da
quel pasto di neve che gli ha ricordato l'estate della gioventù, si
rimette sulla strada.
Marco Aurelio, l'imperatore-filosofo, scriveva che "ognuno vale quanto ciò che ricerca", è l'unico parametro su cui è possibile
valutare il senso di una vita. L'IO lo sa, capisce che da questo
viaggio uscirà cambiato per sempre. In ogni caso, qualunque sia la
conclusione.
I ricordi si addensano, martellano in testa, chiedono il
loro tributo d'attenzione, riaffiorano come iceberg lucidi nella testa. Appaiono case smantellate tegola dopo tegola, arrabbiature
contro un certo sistema di valori religiosi. L'io va avanti, non vuole fermarsi, pure che il dolore è lancinante. E scava, scava tra la
neve che si è addensata tra i suoi versi, gli occhi accecati rimpiazzati dalle dita quasi gelate. Una candela in bocca per far un pò di
luce in quel ripostiglio in cui si sono accumulate quelle notti che
mutarono l'IO e il Tu.
Tutto avviene nella testa dell'io, è chiaro. Ci muoviamo nello
spazio del suo cranio rovesciato dall'insonnia, dentro la voce del
fiotto dei ricordi. L'io ha trasformato la sua memoria in un tempio di ghiaccio, un diario di cristallo dove ritrovare quello che è
stato perduto per sempre.
Il viaggio diventa anche recupero del tempo perduto e l'io continua perché né il freddo, né i colpi del mal di testa possono arginare la sua volontà di ritrovarsi.
12
BOMBASICILIA
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Cammina, tenta di valicare l'ombra della mano del tu, da
lì estrae una benedizione pietrificata, la accoglie e continua col
vento che gli schiaffeggia la faccia, senza cercare riparo.
L'erba sparto arriva portata dal vento e con lei la sabbia, scivolata da quelle urne in cui il poeta aveva sigillato il suo dolore prima di dedicarsi a notti d'amore. Il vento gl'impedisce di vedere
oltre il suo naso, come se il suo occhio fosse stato affettato da
quella tempesta di sabbia e neve.
I ricordi avanzano, riguadagnano terreno. Forse è questa la
funzione principale della scrittura: filtrare i ricordi. Sì, l'IO ha
scritto e ha usato le pagine come uno scolapasta per i pensieri. Ha
filtrato decidendo cosa portare con sé nella nuova soglia e cosa
lasciarsi alle spalle. Ma quei chicchi di passato ora riesplodono, gli
scoppiano in testa come pop-corn conditi col carbonchio.
L'IO ha una visione, come Giuseppe il sognatore della Bibbia.
Vede il luogo natio, nel mese del suo compleanno, novembre.
Una terra che la rimozione del ricordo ha fatto ammalare. La
pannocchia, l'oro giallo, se l'è portato via la pestilenza e i vermi
s'ingrassano strisciando in quel pezzo di cuore che è la patria perduta.
Il tu prende il filo, riallaccia un legame. Diventa il capocordata
di questa spedizione della memoria e lega la corda ad una freccia.
Freccia che scaglia lontano. Forse verso l'aria, sì, in quel cimitero
azzurro che è quel pezzo di cielo dove s'involarono i 6 milioni di
perseguitati. C'è spazio per tutti e non c'è bisogno di parole lì, la
grande cicatrice nell'aria non rimargina. Il Tu ora accompagna
l'IO nella sua ricerca, suona un corno come a richiamare qualcosa
e a quel suono risponde un traghetto che li raggiunge arrancando.
Salgono l'IO e il TU, forse il Tu ha cercato nel suo palazzo della
memoria, l'ha costruito con neve come i castelli che i bambini di
sette anni fanno girando secchielli di sabbia.
In una stanza c'era quella lettera arrivata dal lager, l'io la rilegge,
la rilegge sino a straziarsi. E' il biglietto da pagare a Caronte. La
traversata dura sino al mattino, nei sedili scheggiati ci sono altri
perseguitati, altri nessuno che forse stanno facendo la stessa ricerca.
Il mattino li trova, scendono dal traghetto, di nuovo sulla neve,
il calcagno a ogni paso affonda, "scrive e incide" la neve con le
sue orme. Seguiamo queste tracce.
Il sole scivola sull'IO e sul TU, filo dopo filo la luce intreccia
un nuovo giorno su quella neve che va sporcandosi ad ogni passo. Forse il TU è ancora bagnato dal fiotto nero della fonte della
Memoria. il Tu ricorda, ricorda il treno che sferragliando l'ha
strappata all'Io in quel giugno del '42, ma il Tu non si è arreso, ha
cavalcato l'onda, l'ha fatto sino a riuscire fuori per respirare di
nuovo, fuori da quel budello d'odio razziale.
Esce e si ritrova all'aperto, lì dove fermò il suo treno, in una
cava di pietra che pare l'ingresso dell'inferno. L'io assiste a questa
risalita. impotente. Tutto avviene nella dimensione dove non è
lecito toccare nulla. L'io guarda il quadrante del suo clinometro,
l'ha puntato verso le parole del TU e la lancetta segna il Nord del
vero e la Chiarezza del sud. Continuano a camminare, manco fossero Virgilio e Dante a zonzo tra i diavoli dell'inferno. Scivolano
verso un cratere. Il viaggio diventa quasi una discesa al centro della terra. Ci si troverebbero bene i personaggi di Verne. ma avviene qualcosa: una parola erutta, schizza via verso la luna, diventa
parola lunare, parola che muove le maree. Parola che forma un
nuovo cratere, a forma di cuore. Abbracciato da quella nuova
SETTEMBRE 2004
conformazione l'io trova la forza di parlare. Per ora ha solo ascoltato, si è fatto orecchio per cogliere quelle parole vive, vere e vitali. Il cratere diventa una parentesi sulla pagina. E l'io dice: "Ti conosco". Dirlo lo spiazza, sta per svenire trafitto dall'avvenuto riconoscimento o da quella freccia che il Tu aveva scagliato verso il
cielo, lo stesso cielo dove già un tempo era rifiorita la rosa di nessuno. Il tu lo sostiene, lo abbraccia, lo sostiene come la Madonna
sostenne il Gesù morente.
L'io reagisce, chiede: "Dove divampa un verbo che sia d'entrambi testimonianza?" é la domanda che il TU aspettava.
Avviene qualcosa di meraviglioso, il TU riacquista densità, il
suo parlare diventa vento che spazza via ogni remora dell'iopoeta, scaccia via la nullesia, la poesia che s'è baloccata dando una
patina di colore ai fatti vissuti, ammorbandoli in vuote chiacchiere. La parola agisce come acquaragia per ogni reticenza passata e
presente.
Il vento turbinando apre un varco, è l'accesso che l'io aveva
cercato con tanto ardore. Lo attraversa. Da solo, il TU gli ha mostrato la strada, l'ha condotto sino a lì ma ora sta al poeta calarsi
in fondo alla neve.
Lì, nel cuore dei ghiacciai perenni, lì dove il tempo perduto si è
nascosto attende il cristallo. L'io l'ha finalmente trovato. Ecco la
teca di ghiaccio, il respiro fattosi cristallo, cristallo luminosissimo,
voce condensata, testimonianza incontestabile. Lì, inglobata in
quella piccola bara di ghiaccio, lì dove il tempo l'ha risparmiata.
C'è solo una cosa da fare, l'IO lo sa: inspirare, riempirsi i polmoni con la forza di quella voce vera e viva. La poesia diventa ora
respiro, l'atto creativo coinciderà con l' ATEMWENDE, la svolta
del respiro, quell'istante in cui il fiato-testimonianza espirato sta
per essere inspirato.
Storie Nostre
LA CASA DE LA ABEJA
di LAURA CARONITI
13
Lassù, la pioggia si stava addensando sui monti in nuvole nere,
nuvole grasse.
Il verde gravido del bosco tra i sentieri si apriva in spazi umidi
di rami affastellati e pietre grigio-verdi nascoste dai primi accenni
della notte. Le piantagioni s'indolenzivano sotto la calura compatta.
Laggiù, da qualche parte nella vallata, un asino ragliava.
La casa, la casa de la abeja com'era conosciuta dentro e fuori il
Paese, era distante dal villaggio una decina di chilometri, sull'altura da cui si distingueva in lontananza uno scampolo del Parco
Nazionale del Volcan de Pacaya; nel patio erano state lasciate alcune ceste con del cibo, tortillas e guacamole, coperte da stracci
logori.
Delle piante rampicanti bivaccavano nel portico.
Una sorgente di luce tremula compariva da dietro le vetrate
chiuse, ma restava serrata nel buio annerito delle strisce nere dipinte sui muri calcinati e sfiancata su quelle che il giorno scopriva
gialle.
Strisce nere e strisce gialle sull'intonaco; strisce nere e gialle
lungo le grondaie che decoravano le finestre e le modanature del-
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la casa coloniale a un piano, dal soffitto basso e le camere ampie,
essenziali.
L'abeja, l'ape, com'era conosciuta Vitalba Suárez a Escuintla e
dentro e fuori il Paese, viveva lì.
E lì stava per morire.
Dentro la stanza ogni cosa sembrava accatastata con un disordine accurato e senza tempo. Pile di libri, negli angoli, e tele di
varia misura, alcune visibili altre coperte da panni scuri, gouaches,
pennelli, prove di colore.
Due stracci lisi sulla spalliera di una sedia in acciaio smaltato,
tre candele deboli, una blu, una arancio, l'altra viola, panciute tutte, sul davanzale interno delle tre finestre sbarrate. La luce fiacca
schiariva appena la parete dipinta con una pittura murale: era
l'immagine allungata di una donna, braccia al cielo, dita contratte,
occhi chiusi e stava gridando.
Lì sotto, due cassapanche in fila, chiuse, e una scrivania con
delle ceste di vimini appoggiate sul piano con dentro pastelli, gessetti e carboncini; discosto, a muro, un flacone di solvente.
Al posto della porta, una tenda di garza avana a fare da divisorio con l'altro vano.
Al centro della stanza, un letto.
E Vitalba Suárez, là, distesa come la donna dipinta, occhi chiusi, pugni stretti -le altre dita a proteggere il primo- , una smorfia a
slabbrare la bocca, solo che lei non stava gridando.
Era lì a sfogliare le pagine della memoria, nel replay della propria vita fissata in dieci cento mille e mille immagini; abbozzi,
schizzi alcuni, disegni, fotografie altre, ricordi come trailer.
Istanti. Attimi. Momenti. Secondi. Minuti. Ore. Giorni. Mesi.
Anni. Fasi. Tempo. Tempo e tempo e tempo. E basta.
Una vita, punto.
Una vita riavvolta che parlava piano, per figure.
Si rivide a tre anni -codini biondi e piedi scalzi, un vestitino di
batista rosa- con la Memé a inseguire farfalle -mani piccole, ceree,
alzate; lo stupore nel sorriso e del sole negli occhi-.
Sua madre Miranda, rughe attorno agli occhi verde-rame, viso
tondo e naso adunco.
Suo padre Santiago, pertica d'uomo, capelli radi e occhi pieni
d'ombre.
L'estate sul lago Atitlan e l'ultima gita insieme, come una famiglia, prima che l'unione si sfaldasse, al Rio Motagua.
E le lacrime di suo padre- quell' uomo bruno, ladino, era curvato su una sedia e singhiozzava come un bimbo- prima di andarsene di casa.
Non l'aveva mai amata, sua madre. Mai.
Non l'aveva più rivisto, suo padre. Mai, mai più.
E la fuga. L'Europa girata in Inter Rail. I primi quadri a Montmartre e i ritratti ai turisti, l'Italia nel letto di un uomo.
Istanti. Attimi. Momenti.
Il ritorno alle Tierras Templadas e il silenzio che urlava tra le
fauci dell'Esercito sotto il governo del generale Osorio e quello di
Laugerud García.
Secondi. Minuti. Ore.
Una macchia di colore rosso a allagare la vista sotto-palpebra.
Rosso. E incupirsi in malva. E amaranto. Lacca solferino.
E l'urlo al silenzio del vento che era diventato uragano, -era il
1974-, sembrava volesse spazzare la terra, la terra tutta, e il sangue. La paura.
Giorni. Mesi. Anni.
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La cattività familiare -per quanti e quanti anni l'avevano tenuta
in casa? Anni. Anni a non mettere fuori nemmeno il naso. Nemmeno il naso. Per tutela diceva Miranda; per prudenza le faceva
eco l'amico di casa, il colonnello ReyesFasi. Tempo. Tempo e tempo e tempo.
La sua pittura, le vernici e gli oli, le tele gridavano per lei -non
aveva più parlato, anni muta, anni occhi e mani…oh, com'avevano urlato per lei, le mani- quando Marcelo Reyes -una stampella
d'uomo, azzimato e triste, occhi cenerini, piccoli e distanti, capelli
neri tirati indietro e come unti- entrava nella stanza, mentre lei
dipingeva, chiamandola populista, - si gonfiava il petto da tacchino e inclinava il mento in avanti-, degna figlia di suo padre e degna solo di fare la stessa fine, di quel padre.
14
L'aveva presa un paio di volte per le braccia, fiatandole in faccia
parole su parole, un disprezzo educativo negli intenti, ricordandole che lui era l'ordine, la legge, dentro e fuori quella casa; e che lei
era niente e niente erano le sue croste, che dipingesse nature morte, cieli e laghi, ma la smettesse con quelle tele allusive, che la politica si faceva con le armi e non con i pennelli, che anzi la smettesse punto di perder tempo dietro a quelle stronzate e che imparasse finalmente le maniere degne di una donna onesta.
Avrebbe voluto le sue lacrime, forse, e la sua voce, voleva la
sua paura, Reyes, ma lei lo guardava fisso in quegli occhi piccoli e
inferociti, così distanti che sembrava schizzassero ai lati, ognuno
per conto suo, e, niente, non faceva niente.
Lo guardava.
Cercava di non perdere il bersaglio degli occhi, mentre la strattonava, da parte a parte, i piedi a volte si staccavano da terra, secondi-, le braccia sembravano scollarsi dalle spalle.
Lo guardava.
Senza pathos, senza odio né paura.
Lo guardava.
E stava muta.
Non avrebbe mai sentito la sua voce, Reyes, non l'avrebbe più
sentita, sua madre.
Era successo un paio di volte, non di più, ma non ottenendo
nulla da quella matta mezza scema, Reyes preferiva dedicarsi alle
grandi pulizie, così di tanto in tanto, con una certa regolarità, entrava nella stanza di Vitalba e fracassava le tele, sfasciava i cavalletti.
Lei muta, lui senza dire una parola.
Poi se ne andava -non aveva più una porta quella stanza da
quella volta quando Reyes l'aveva trovata chiusa a chiave e a spallate l'aveva scardinata, per qualche giorno era rimasta sbilenca, ma
saldata ancora a un perno, fino alla ronda successiva del colonnello che, tra un paio di acquarelli accartocciati e alcune matite spezzate, aveva trovato pure il tempo di svellerla e portarla a spalle
fino al patio; e lì era rimasta un'estate e un inverno, a marcire-;
Vitalba allora iniziava a riparare quel che poteva essere aggiustato.
E…
Una macchia gialla le allagò la vista sotto-palpebra. Gialla. A
incupirsi in ambra. Zolfo. E arancio.
Una vita riavvolta dietro gli occhi che parlava piano, per figure.
L'immagine, il boato, della terra che tremava, oscillava, si
squarciava, a pareggiare carnefici e innocenti in vittime tutte. Era
il terremoto. Era il 1976.
Odore di zolle, odore di fame.
Lampi. Flash. Figure.
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Visi.
Uno su tutti. Quello di Angel Salvador Guerrero.
Era il 1982, a due settimane dall'insediamento alla presidenza
del generale Angel Aníbal Guevara, il totalitarismo era solo passato di mano in un'altra staffetta col Golpe che aveva insediato la
Giunta Militare capeggiata dal generale Efraín Ríos Montt che, tre
mesi più tardi, sarebbe diventato il nuovo presidente, dopo aver
esautorato la Giunta e sospeso la Costituzione.
Il coprifuoco, la censura, operarono da manuale.
I militari -visi dipinti per non essere identificati- presidiavano le
strade, garantendo quell'ordine che tradotto in altra lingua si sarebbe potuto rendere con il termine: terrore.
I quartieri periferici s'immiserivano ogni giorno di più e non in
pochi legarono la propria sopravvivenza alla Chiesa Cattolica,
stimata peraltro dalle Forze Armate come covo e focolaio di preti
marxisti e strettamente sorvegliata.
Bastavano tre uomini riuniti in strada senza autorizzazione per
attirare l'attenzione di una pattuglia. Per meno si finiva nella lista
degli indesiderati, per altro in quelle nere.
La pena di morte era stata ripristinata.
I più fortunati ottennero l'asilo alle Ambasciate, altri lasciarono
il Paese, alcuni fuggirono grazie a contatti interni, specie della
Chiesa militante e della rete che aiutava i ricercati, ma molti
scomparvero nel nulla, da una notte all'altra, prelevati dalle case
da squadroni e portati via per interrogatori dai quali non tornavano più.
In certi quartieri popolari le famiglie vennero private delle figure maschili e lasciate alla mercé della necessità, le previdenze sociali furono abolite come il diritto allo sciopero e di riunione; e
l'ironico contrappasso dell'illusione imposta di una sicurezza militare garantita, di un generale benessere e di un crescente sviluppo,
era la massa disperante di disoccupati che si assiepava attorno alle
imprese della capitale offrendosi come manodopera per un lavoro
che, di regola, per il minimo salario esigeva sempre e solo la massima resa.
I malcontenti, se mai ve n'erano, si circoscrivevano a semplici
lamentele tra le mura domestiche e, spesso, neppure lì, perché
erano tempi dove la fiducia non conosceva parentele e filiazioni, e
qualsiasi reazione poteva sollevare accuse di sovversione o comunismo.
Lo squilibrio era così evidente che l'intero Guatemala poteva,
di anno in anno, essere ridisegnato a colpo d'occhio in zone che
separavano i quartieri alti da quelli della classe media e dai sobborghi più indigenti che stavano, inesorabilmente, divorando i
secondi.
Solo tra le maglie clandestine operavano i gruppi organizzati.
Erano reti umane che si coadiuvavano per far uscire i proscritti
dalle frontiere, nascondere i rifugiati, medicarli, e raccogliere informazioni, registrare interviste su torture e inchieste sui desaparecidos, da inviare all'estero nascosti in pastorali e negli arti di
bambole biscuit.
La resistenza, invece, seguiva altre vie, assumendo di continuo i
contorni di faide civili tra squadroni e guerriglieri che sfrangiavano i giorni e violavano vite.
Questo, e altro, tutto l'altro che passava attraverso la pelle di
chi viveva in quella terra, Vitalba Suárez non lo vide, chiusa nello
sbarramento ermetico che il colonnello Marcelo Reyes aveva eretto attorno a lei da quando era andato a vivere nella stessa casa.
Non era un assassino, Reyes.
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Non era così impavido da morire per la Patria ed era così vigliacco che non sarebbe stato nemmeno in grado di uccidere per
il suo nome.
Era un uomo gretto e un militare sciocco con un buon parentado, qualche santo in paradiso e il culo al riparo dai vertici.
La sola macchia nella sua moralità prêt-à-porter era stata Miranda Despatie, la bella moglie del sindacalista Santiago Sebastián
Suárez.
Continua…
Storie Nostre
DIDASCALIE PER FOTO SFOCATE
di DEMETRIO PAOLIN
Sono andato in vacanza senza una biro o un quaderno. Ma con una macchina foto. Ho fotografato e ora, invece di usare quelle immagini, ne scrivo le
didascalie.
#1
Se non fosse per quell'imbarazzo, questa foto la butterei 'ammare'.
Dico proprio così.
Lei storce un poco la bocca, fa come segno di non capire.
Eppure questa foto è chiara. Nitida. Precisa. Didascalica, direi.
In primo piano una figura umana, dietro le colonne doriche del
tempio di Hera a Selinunte. Anche il cielo è così azzeccato da essere fuori luogo.
Azzurro. Profondo. Netto. Senza nubi. Vuoto come un vaso
spaccato e liscio.
In primo piano, io.
E mi pesa mettere insieme queste due vocali. La maglietta scura, i pantaloni color terra bruciata, le scarpe sporche di polvere e
sabbia. Le gambe stanno diritte, e le mani sono appoggiate alla
vita.
Le dita della sinistra stringono un cappello di paglia, comperato
in una bancarella a Siracusa.
- Quanto fa?
- Sette euro, faci
- Sette euro, per due fila di paglia
- Pe vui, facimu cinqu..
- Meglio
- ...
- Bene..
E' una foto. Un brutta foto. Di quelle che vedi spesso al ritorno
dai viaggi. Appoggiato ad un lampione in Trafalgar Square. Oppure seduto sugli scaloni del Duomo di Orvieto, o piantato in
piazza San Marco, tra stucchi, mosaici e piccioni.
E' una foto da turista, e ne possiede tutta la naturale sciatteria
di gusto.
Eppure.
Se mi guardo bene, se stringo gli occhi al centro, c'è qualcosa di
diverso. Una strana postura nello sguardo e nel viso, un sentimento strano quello che mostrano le pieghe del volto, gli arzigo15
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goli degli occhi, i capelli secchi di mare e salsedine, meno neri e
più spuriti, e le labbra provate a tendersi in un sorriso.
Forse è imbarazzo.
Certo è imbarazzo. Perché se guardi bene, quel sorriso è un
ghigno storticato, come gli ulivi che hai visto per giorni e giorni, è
forzatura. E' un taglio di pietra, uno scoglio che cade verso il mare, o il dorso di qualche collina sassosa e irta, povera di bestie
e acqua.
E' un sorriso innaturale, una sorta di esistenziale vergogna di
chi (s)tenta ad essere felice, ma dentro reclama il suo diritto - la
sua libera scelta - di non esserlo.
Come una magica malia. Ed è lava intorno. Roccia nera. Rigetto di terra e magma.
Sì. Vorrei possedere nella mia carne quelle ginestre, sentirle che
entrano in me, che mi succhiano, perché il sangue è nero. E loro
profumerebbero di questo seme che si tende, e che si spreca fuori
da corpi, che si ostina a rimanere verginale e sterile. Poi far fiorire
la lava, che devasta e modifica, che brucia e rigenera.
Vorrei che quei fiori, malvagi e benefici, mi soffocassero le ossa, le gambe e la pelle, che trovassero spazio nelle orbite degli occhi, che sorgessero osceni e stupiti dalla mia bocca.
E il corpo sbocca e il vero sparisce.
Non c'è vero. Solo il profumo che mi fotte. Che penetra in me
come un ladro di notte.
E allora, anche questa la foto diventa pudica.
Silenziosa. Silente.
Umana.
Sotto pelle qualcosa si tende, urla, impreca e prega.
Non tremo.
Non tremo.
Non tremo.
#2
Nello spiazzale alcuni caravanserragli.
La solita cianfrusaglieria commerciale. Limoncelli. Miele dell'Etna.
Souvenir di Padre Pio. Lava chimicamente trattata. Un gran baraccone.
Non c'eravamo fermati per comperare, ma per domandare. Eravamo ad un bivio ed entrambe le strade portavano al rifugio
Sapienza e quindi all'Etna.
- Scusi dovremmo andare al rifugio Sapienza
- Dovete girare a destra..
- Ma le indicazioni ci dicevano che potevamo andare anche a
sinistra
- Quella era la deviazione, quando iddu fece lultimo botto
- Ma è passato un anno
- Sì
- E ci sono ancora i cartelli..
- Se li saranno dimenticati.
Torno in macchina, quaresimando, lei intanto salta da un muretto di pietra nera. Nerogrigia.
- Ho fatto una foto
- ...
- Alle ginestre e alla lava.
- ...
- Nero e giallo.
È solo l'odore di ginestre in un purissimo azzurro.
#3
- A Nord Est
-…
-…
- Dove?
- Verso Catania
Il milanese molto abbronzato è appena sceso dal pullman che
ci ha portato ai 2920 dell'Etna. La guida ci ha accolto, sorridendo.
- Scusi, ha detto il milanese, ma qui dove è il ripetitore…
-…
- Il mio cellulare non prende…
La guida ha fatto un sospiro e ha guardato l'uomo. Giacca a
vento di
grido, scarponcini, brache giuste, abbronzatura pronta e burro
cacao
per non screpolarsi le labbra.
- A Nord Est
-…
-…
- Dove?
- Verso Catania
Lo lasciamo mentre cerca rabdomantico di trovare il segnale.
Ma è il profumo che stordisce, che ti schiaffeggia. Non esiste
un profumo così in natura, non può esserci, perché ti si infila nelle ossa come un coltello, con una precisione chirurgica e ti strina
le midolla. Senti l'odore, odore di carne e di sangue, di lava, di
morte vitale salirti dalla schiena a serpe strisciando. E' un fiotto
nel cervello, sputo di saliva o getto d'acqua.
Violento.
Vacillo.
Il paesaggio è lunare: cenere, puzza di zolfo e un lucore abbagliante del sole. Camminiamo con una fatica diversa, i piedi scivolano e il vento, che qui ha no alberi, no rocce no case no pali no
uomini davanti, ci piega manco fossimo un foglio di carta.
C'è una leggera foschia, una nebbia apparente che nasconde il
vuoto cielo. Sono i fumi, i vapori dei crateri che escono e ci danzano.
Sembrano demoni o angeli trasandati e ci ciondolano intorno e
ci molestano i polmoni e le narici.
Io tengo una pietra rossastra. Ancora calda.
La tengo tra le mani, un'arma nel caso che spuntasse un satanasso o una chimera e mi chiedesse conto del mio fatale andare.
- Ci farei l'amore con quelle ginestre.
E il pensiero diventa bocca e bocca parola.
- Cosa?
- Niente
Sto in silenzio e guido.
Salgo tornante dopo tornane.
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E salimmo al cratere che sbuffò lava e magma e scese fino a
valle.
Troncò cavi e pali, bruciò vegetazione e dall'alto una lingua nera a lambire la schiena del monte e la vegetazione.
... come vedete sono decisamente più larghe nella parte superiore. Questo perché molti si facevano seppellire in posizione fetale. Vedete?...
E mentre parla fa come un disegno nell'aria stantia o ombrosa
di queste catabombe a Siracusa. Il dito disegna una specie di goccia e aggiunge: - Le gambe venivano portate al petto e si stringevano intorno le braccia.
La lava lecca la terra, che trema e freme sotto di noi.
Perché qui è tutto vivo. Assolutamente. E ci cammini in tondo
con circospezione. Senti il calore e quel fumo pare che ti dica:
vieni, su. Vieni dentro. Lasciati andare, in questo vorticare. In
questo scendere. Sei salito per scendere. E' un venire.
E' la Gorgone, forse.
O un Erinni.
E' Kore che ti chiama: Demetrio. Demetra.
E' Kore che chiama sua madre, dagli inferi. Dallo zolfo e dal
caldo.
In questa terra devastata, dove a fiorire sono pietre verdi, rosse
o nere o grigie.
E' Kore che chiama: vieni, su. Vieni dentro. Lasciati andare, in
questo vorticare. In questo scendere. Sei salito per scendere. E'
un venire.
Ci fu un momento di silenzio. La gente si chinò verso quei buchi,come se perdesse l'equilibrio
Come u' baminuzzu inta a panza, disse poi. Quasi con tenerezza.
Guardiamo. E io ci metto le mani dentro a questo tufo e pietra.
- Non dovresti
- Perché?
- Sono morti...
- E allora?
- Il rispetto...
Io prendo una manciata di polvere proprio, è una terra friabile,
umida al tatto e consistente. La faccio scivolare tra le dita, e questa cade, precipita in quell'antro nerissimo.
- Vedi?
- Cosa?
- Non si sono lamentati...
- ...
- Cosa c'è?
- La tua indifferenza è certe volte disturbante.
Più alto, il fiato è una memoria, c'è un biancore.
- Sembra neve, dico.
- Sì.
- No, fa la guida, quello è zolfo.
Lucido e mezzo verdastro, con una vaga vena di giallo, lo zolfo
ci appare distante come una cometa, un lenzuolo, un bavaglio una
speranza. E' forse Orfeo che si fa sasso, ad un passo dal posto
dove si voltò. E Euridice divenne un filo di capello, da tenere.
Era giusto voltarsi. Perché chi sopporta la vita sapendo come si
muore?
Orfeo torse il suo volto. Euridice fu solo quel capello, trattenuto.
Poi si consumò e divenne come lei. Inferno. Pietra puzzolente
e zolfata, ma bianca di luccichio che afferra e ti incanta.
Camminiamo vicini e stretti, per questa città bassa, dove la luce
è una menomazione di buio. Le pareti dovevano essere affrescate,
un tempo.
- Hai visto questo colore?
- Sì
- Verde?
- Verde...
- E quest'altro...
- Rosso?
- Sì...
Le neve è più insù.
Nera
la neve
e capovolta
non splende né abbaglia.
Neve nera. Come un latte andato a male come un'alba negra.
Sigillo al mondo che non c'è.
Così alto, da essere dabbasso.
Giriamo sempre a destra, come in un labirinto, e arriviamo ad
una tomba in buono stato di conservazione. Nella parte superiore, tre buchi. Piccoli.
- Questi tre piccoli fori, servivano per il refrigerium...
...
- Il refrigerium era una consuetudine romana ovvero quella di
venire presso la tomba del caro defunto e fare una sorta di festa,
con cibarie e bevande. Questi piccoli fori servivano per inserire
delle cannucce, per poter dare bere al morto.
...
- Pur essendo questo un rito pagano, anche i cristiani nell'anniversario della morte, dies natalis, si ritrovano qui per
festeggiare.
...
- Nel caso specifico questa era la tomba di un ragazzo, giovanissimo. Praticamente un bimbo.
- Ho fatto una foto alla neve
- Ma è nera
- Appunto.
Come se la foto fatta, si fosse estinta.
#4 REFRIGERIUM
- Molte di queste tombe, come vedete, hanno una forma particolare.
La guida molto bruna ci indica una serie di rettangoli, scavati
nella roccia, e illuminati appena dalla luce.
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Insomma, qui c'è gente che ha pasteggiato e bevuto.
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L'uomo porta alla bocca un chicco d'uva bianca, grande sugoso, lo porta alle labbra e lo inghiotte, poi prende della carne e la
mangia con le mani, i denti strappano pezzi e masticano. C'è un
rumore festoso come se fosse un carnevale. La madre prende una
brocca di vino e ne versa un po' in quelle cannucce...
e quasi sussurra...
scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint
e poi come sorridendo, ma qualcuno giurò di averla vista piangere, gridò alzando la brocca
nunc est bibendum....
- Appunto. Niente.
Fuori ci siamo disabituati. Al sole. All'aria abbacinante. Il bar è
proprio vicino, abbiamo fatto solo pochi passi.
Entriamo.
Un coca cola e una succo di frutta alla pesca.
Certo.
Nel dehor c'è un po' ombra, e noi la teniamo tutta tra le mani.
Lei mi fa una foto, me la ruba come di soppiatto.
Il barista ci porta le bibite.
Beviamo ingordi e accaldati, quasi senza dire una parola. Io
succhio la mia cocacola da una cannuccia rosa.
- Ecco
- Cosa?
- Mi raccomando
- Cosa?
- Quando farai il refrigerium mi piacerebbe una cocacola così
fresca...
Sinite Parvulos ad me venire
Sinite Parvulos ad me venire
Sinite Parvulos ad me venire
C'è da tirar su festa quando muore un bambino.
Bisogna vestirlo da sposo o da sposa. Non bisogna piangerlo,
ma portare da bere l'anno dopo.
Sinite Parvulos ad me venire
Sinite Parvulos ad me venire
Sinite Parvulos ad me venire
Poi ci alziamo.
E mi rompe la nostalgia di ricordare che gusto ha il latte di mia
madre. O quello di lei che ora mi cammina davanti.
Allungo la mano...
-...
- Cosa?
- Ho cambiato idea..
- ...
- Niente cocacola...
- ...
- ma del latte materno.
ma che dio è quello che chiama a sé i suoi figli?
E' questa la sua volontà?
E' giusto, quindi, uccidere un bimbo, farlo a pezzi, ucciderlo,
torturalo, e gettarlo dalla finestra? E' giusto abusare, masticare
questi corpi innaturali e puri, e poi vomitarli?
E poi vomitare tutto?
Sembrerebbe di sì.
Dopo morti, non importa con quale crudeltà, i bimbi salgono
diritti su nei cieli vuoti e assenti.
Bianco. Lampante.
Come un angelo.
Come uno shock di magnesio.
c'è un gelo.
c'è un gelo.
Qui è tutto strano. Rovesciato.
Facciamo festa per i bimbi morti.
Prendiamo la cannuccia e infiliamola nelle ferite, e sputiamogli
la nostra saliva, mista di sangue.
- Cosa pensi?
- A niente
- ...
- ...
- Sicuro?
- Certo...
- ...
- E che mi sembra sbagliato
- Cosa?
- Festeggiare
- ...
- Insomma i morti sono morti
- ...
- Cosa festeggiamo?
- ...
- Cosa dobbiamo festeggiare?
- Niente.
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Storie Nostre
IL SOGNO DEI BABBALUCI
di TONINO PINTACUDA
Ha dormito sotto una vecchia barca scrostata sulla spiaggia di
Aspra e il mal di schiena e il torcicollo gli danno il buongiorno, il
depuratore continua a scatarrare alla sua destra. Ulisse Cerami si
siede sul bagnasciuga e chiude gli occhi, gli occhiali sono nel loro
fodero, nella tasca interna della giacca. Sta lì a seguire libere associazioni di pensieri. La barba gli punge il collo, pensa che forse è
venuto il momento di spacchettare il Mach 3 che la madre gli ha
regalato con l'augurio di rendersi presentabile con abbastanza triple passate. I capelli si sono beccati l'alito dei cessi di Aspra che
scaricano nel mare. Qualcosa lo prende alle spalle e lo fa sbilanciare. Finisce a sputare sabbia tra cacche di topi di fogna e mozziconi spolpati dalla risacca della notte. Si gira e sorride.
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- Carrie! Cucciolona! Ma che ci fai qui?
Il cane gli risponde scodinzolando.
- Nonno, che minchia ci fai qui?
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- Io lo sapevo ch'eri qui. Tua madre stamattina mi ha svegliato
alle 5.22 per venirti a cercare. Dice che ieri sera hai sbattuto la
porta e te ne sei andato senza dire niente. Le ho detto che avevi
solo bisogno di riflettere. Lei è stata irremovibile, la conosci pure
tu mia figlia… E dato che ero già in piedi sono passato da casa
tua, ho preso la picciridda per il guinzaglio e mi sono fatto tutto il
rittufilu senza manco fare colazione. Ma chi facisti tutta a nuttata?
- Avevo bisogno di rivedere un amico.
- Hai una faccia serena. Ti sei calmato? E 'sto tuo amico l'hai
trovato?
- Sì. Vieni che ti offro un caffè e un cornetto con la crema gialla. Non saranno buoni come quelli del Bar Ester ma meglio di
niente - Si rimette le scarpe e entrano nel chioschetto sul lungomare. Il ragazzo paga un cornetto e due caffè e vede che l'orologio sopra la cassa del chiosco segna le 7.23, se corre abbastanza
svelto riesce a arrivare a casa di Lisa prima che lei esca per andare
al Liceo. Non ha bisogno di spiegare niente a suo nonno, Nonno
Enzo lo conosce bene: non chiede nulla e resta ad Aspra e decide
che oggi mangerà babbaluci. Ha visto due cesti pieni pieni di lumache con tutte le corna uscite. Suo nipote prende la picciridda e
si mette a correre come un folle lungo il rittufilu. Enzo tornerà
con l'autobus, i vecchi come lui hanno il tesserino gratuito. Deve
comprare pure due pacchi di sale nel deposito al lato della stazione perché se dopo aver tolto la bava ai babbaluci con uno stuzzicadenti non si mettono al sole in una pignata con i bordi fatti di
sale non escono dal guscio: il sole gli fa uscire le corna, il sale sui
bordi della pentola non li fa scappare fuori. Poi basta bollirli e
insaporirli con qualche spicchio d'aglio e sale e olio e poi viene la
parte più divertente, sucarli fuori dalla scoccia. Solo qualche anno
prima suo nipote lo accompagnava in campagna a prenderli, il
piccolo Ulisse teneva il suo vecchio ombrello girato e lui scotolava la sterpaglia per farli staccare e cadere dritti dritti nel paracqua.
Tutto prima che spuntasse il sole.
la sera, nel divano del salotto di Casa Cerami con un babbo Natale guardone sullo sfondo e le songs di SGT. PEPPER'S LONELY HEARTS CLUB BAND per colonna sonora. La sorella
era a una tombolata con l'azione cattolica e i genitori erano alla
veglia di Natale ad aspettare la nascita del Bambin Gesù. L'avevano fatto sul divano di pelle bianca sull'aroma delle candele quadrate alla citronella che Lisa aveva tirato fuori dallo zainetto onyx.
John e gli altri Beatles cantavano nel loro migliore ellepì. Si ritrovarono abbracciati sulle note di "A day in the life", gli occhi neri
di Lisa li vide per la prima volta alla luce indecisa e aromatizzata
delle tre candele.
***
Suonò il campanello con Carrie che già aspettava il suo
biscotto friskies seduta sul gradino di marmo. Dovevano essere le
otto meno un quarto, già suo padre era partito col treno delle
7.07 per Palermo e sua sorella Simona era andata all'Università.
Suonò un'altra volta saltellando insieme a Carrie. Finalmente
qualcuno rispose. Era sua madre. Salì le scale a due gradini per
volta, lasciò Carrie nello studio del primo piano e si precipitò in
bagno. I vestiti puzzavano di sambuca. Li gettò nel cestone del
bucato e si infilò nella doccia. Sua madre gli stava preparando la
colazione ma lui si vestì con un paio di jeans e una camicia di cotone felpato e scappò via con sua madre che cercava d'inseguirlo
per le scale alla ricerca di qualche spiegazione. Lui doveva andare
da Lisa. S'infilò nella R4 e vide con stupore che suo padre aveva
fatto il pieno di Senza piombo.
Guidò sino a casa di Lisa, erano le 8 e 7 minuti, almeno quelle
quattro cifre nel display digitale dell'orologino che aveva appiccicato nel cruscotto dicevano così. Citofonò e si mise ad aspettare
sistemandosi il pizzetto con le mani, i capelli avevano bisogno di
una sfrondata. Rispose proprio Lisa e dodici minuti dopo erano
già sulle curve della 113, verso Palermo.
***
***
Ulisse corre sotto i platani e tutti gli altri alberi che abbracciano le due fette di marciapiede, Carrie gli sta dietro attaccata al guinzaglio. Le suole delle scarpe picchiano le foglie che si
sono fatte uccidere da un altro autunno. Ulisse è di nuovo a Bagheria e sta correndo da Lisa. In testa ha solo due ricordi: a dicembre se l'erano buttata tutte e due, tanto lui aveva il liceo autogestito e lei la soporifera lezione di francese; tredici minuti di seconda classe ed erano già a Palermo. La destinazione era la Feltrinelli di via Maqueda, ci arrivarono fumando due diana blu con in
testa già due o tre titoli da comprare assolutamente. Lisa s'era
comprata le poesie di Silvya Plath e già le stava leggendo mentre
Ulisse ancora era indeciso tra i trecento paper-back che s'era segnato nel suo taccuino. Prese Uomini e no di Vittorini e il giovane
Holden. Il primo gli serviva per finire la tesina per il diploma, l'altro per scrivere meglio.
La mattinata era finita al caffè al Caffè dell'Opera a farsi
spennare per due caffè, li sorseggiarono al rallentatore per stare
ancora un pò seduti a venti metri dai grossi leoni del Massimo.
Ricordò pure quando le aveva regalato il vinile di Bleach dei Nirvana. Il loro primo Natale assieme, doveva essere speciale. Lui
aveva speso tre mesi di risparmi per quel 33 giri, lei per tremila
lire aveva recuperato la raccolta delle poesie di Pavese nelle bancarelle di Via Libertà. L'avevano fatto la prima volta proprio quel-
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Qualcuno ha suonato il campanello. Ulisse si alza dalla
sedia e va verso la finestra. Si sporge oltre i vasi di gerani con
Carrie che gli scodinzola tra i piedi. - Michele! Un minuto solo,
salvo il file e scendo ad aprirti- dice spegnendo la sigaretta nella
terra del vaso di gerani. Ha ricominciato un'altra volta a fumare.
Si avvicina alla tastiera e schiaccia il tasto delle maiuscole e F12
per salvare l'ultimo racconto che stava scrivendo. Suo nonno gli
ha dato il primo piano della sua casa del Corso Umberto I. Da tre
mesi abita lì, con suo nonno al pianterreno e con Carrie tra i piedi. Sua madre non ha fatto poi tante storie, il nonno ha ormai una
certa età e Ulisse può aiutarlo per qualsiasi evenienza.
L'ha sistemato lui il suo mini appartamento, solo 30 metri quadrati ma lontani quasi sette chilometri da casa Cerami. Settemila
metri dai menù monotematici, settecentomila centimetri dalla radiolina grundig sempre fissa su radio Maria. Ha sistemato un tavolo tondo sotto la finestra, tre abat-jour sparsi dietro il divano e
il letto, i quattro ripiani della libreria che gli ha fatto suo padre li
ha riempiti con la collezione di Dylan Dog e con tutti i suoi libri.
Sua madre gli ha regalato quel notebook di seconda mano e lui
passa il tempo libero a scrivere in compagnia del piccolo busto di
Kafka che Simona gli ha portato da Praga. Michele e gli altri vengono spesso a trovarlo, forse un po' meno spesso del solito ma i
ragazzi hanno capito che Ulisse ha preso finalmente sul serio la
facoltà. Passa le nottate sui libri di filosofia e su una mensola ha
messo in bella mostra la Metafisica di Aristotele, il mattone con
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tutti i dialoghi di Platone a cura di Giovanni Reale e altri classici
del pensiero occidentale. Santi e Nino vengono almeno due volte
alla settimana a scolarsi le birre del minibar, spaparanzati sul divano bianco. Stanno lì a tirar fuori sempre le solite storie sulle
ragazze e leggende metropolitane sui vari professori universitari.
Ulisse ogni volta mette su qualche cd dei Beatles ma mai Sgt.
Pepper's, quello l'ha messo in fondo al baule ai piedi del letto, si
porta dietro troppi ricordi. Carrie la lascia nel balcone e scende ad
aprire a Michele, non c'è l'apertura automatica. Suo nonno a quell'ora è a giocare a carte a Piazza Garibaldi, seduto su un quadrato
di carta, con tutti gli altri pensionati di Bagheria.
Michele lo saluta stringendogli la mano, entrambi pensano che
siano inutili tutti quei baci sulle guance che si usano in Sicilia.
Forse tutto dipende dalle barbette che si sono fatti crescere, pungono come spilli quelle chiazze di pelo scomposto che hanno sulla faccia.
e gli diceva solo di cavalcare, al resto pensava lo zio Angelo. E se
faceva il bravo ci scappavano pure due o tre caramelle di quelle
che frizzano sulla lingua. Ulisse si faceva tagliare i capelli cavalcando silenzioso, manco fosse stato Tex Willer o uno dei suoi
pard. Suo padre stava seduto a leggersi il Tex del mese o la pagina
sportiva del Giornale di Sicilia, alzando ogni tanto lo sguardo verso le zizze di Miss Giugno '86.
Ulisse e Michele agganciano la vespa con la catena bullock a un
palo. I caschi li lasciano penzolare nell'unico gancio libero dell'attaccapanni. C'è solo un signore di una sessantina d'anni che s'era
appena tolto la coppola per farsi fare i capelli come Tom Cruise
in Mission Impossible 2. Sua moglie li aveva visti al Cinema e ora li
voleva sulla testa del consorte. Solo che il vecchio aveva due ciuffi ai lati della testa e qualche peletto grigio e indeciso sulla calotta.
Angelo gli stava assicurando che se la sua signora voleva Tom
Cruise, la sua signora avrebbe avuto Tom Cruise. Pettinò, fischiettò, sudò, tagliò e ripettinò e alla fine era soddisfatto. Il vecchio cliente lasciò perfino una mancia per i ragazzi, addirittura
mezzo euro. I due ragazzini di nemmeno tredici anni si guardarono dicendo contemporaneamente: - ziccusu! 'un ti sciupari! -, Angelo ricordò a entrambi l'educazione con la cinghia di pelle su cui
rifaceva il filo al rasoio.
- Come va? L'hai scritto il romanzo del secolo? Aspetto ancora
di vederti al Maurizio Costanzo Show col vestito color caki e i
capelli lucidi di lacca. Tutto impupato sotto i riflettori col tuo libro che ancora puzza d'inchiostro nascosto tra la sedia e la gamba. Me la vedo tutta la scena: aspetti che il nano baffuto finisca di
leccarsi per la trecentesima volta le labbra, aspetti che lo schizzato
di turno racconti di come gli gnomi gli hanno rivelato il segreto
della felicità. Dietro di te Demo Morselli si scrolla con un giro
completo di zazzera tutta la forfora. Poi senti che il nano baffuto
dice: "ha appena scritto il romanzo del secolo!" il pubblico si lascia andare a gesti inconsulti, le stratettute che ho visto solo nei
calendari di Max sono in prima fila che ti muoiono dietro, tutte in
fila col tuo romanzo da farsi autografare. Poi Maurizio dice: "Boni, boni: ecco Ulisse Cerami” - Michele prende un pacco di wafer
dalla dispensa e si va a posizionare sulla poltrona di vimini.
- Sogna, sogna Mitch! Hai più fantasia di me… e con Valentina
come va?- Ulisse prende due tuborg dal minibar e cerca sotto il
lavello le arachidi tostate e i salatini.
- Va. Lo sai che ci lasceremo almeno un altro milione di volte
prima di esserci stancati l'uno dell'altra. E Lisa? L'hai vista più?
-No.- Ulisse si toglie dagli occhiali una ciocca del ciuffo. Michele beve una sorsata di birra e guarda la mensola dei testi di filosofia, poi sposta lo sguardo sul faccione di gesso di Kafka.
- Non la vedo da un anno. Ho pensato di telefonarle almeno
settecentomila volte. Ma poi resto bloccato con la cornetta in
mano e penso che poi è così che doveva finire. Le storie a vent'anni sono così. Sembrano tutte eterne ma poi si bruciano in fretta… ma proprio di questo dobbiamo parlare? Hai un bel pizzetto,
dove vuoi fartelo arrivare? All'ombelico?
-Parli tu con quel cespugliaccio di capelli e quella barba riccia?
Sai che ti dico? Sono le 11, a quest'ora dal barbiere non c'è quasi
nessuno, andiamo a darci 'na potata che male non farà. Angelo
non ci vede da quando ci facevamo la riga come due piccoli
lord…
Tirano fuori il vespone dal garage e si allacciano i caschi,
poi scendono per via D'Amico, verso il bar la Caravella.
Angelo tiene ancora fuori quella colonnina a strisce che deve
aver visto nei film americani. Ha un riporto che parte dall'orecchio e con sputi di gel, lacca e bestemmie arriva quasi sino all'altro
lato. Nell'angolino sulla sinistra c'è ancora quel seggiolino con la
testa di cavallo. Antonio piazzava sempre Ulisse in quel cavallino
SETTEMBRE 2004
Per primo va sotto le forbici Michele, Ulisse sta leggendo un
vecchio Dylan Dog senza copertina che qualcuno ha lasciato lì.
Le vignette erano state colorate con pastelli a cera da qualche
bambino. Dylan aveva la faccia gialla Simpson e la camicia, rossa
su quasi tutte le copertine della serie, era stata tinta di verde cedro. Sicuramente qualche padre aveva tenuto buono così il suo
marmocchio. Ulisse quel numero l'aveva già letto. Era l'albo in cui
per la prima volta compariva Hamlin, il pelato dalle orecchie a
punta che vendeva cianfrusaglie nel suo Safarà. La sceneggiatura
era di Tiziano Sclavi ed era tutta incentrata sulla possibilità di infiniti mondi paralleli. Hamlin faceva soldi a palate vendendo per
poche sterline le sue cianfrusaglie, poi passava il varco e finiva in
un'altra dimensione, in un'altra Londra dove le sterline valevano
miliardi di volte il loro valore. Dylan anche quella volta s'era innamorato della sua cliente, una bella moretta che era finita per
sbaglio nella Londra sbagliata. Vedeva scomparire le persone che
la circondavano perché c'era qualche specie di distorsione tra i
mondi derivata dal ciondolo che aveva acquistato a Safarà. Alla
fine scompariva dalla Londra di Dylan e Hamlin diceva qualcosa
che Ulisse sapeva troppo bene. Michele aveva già finito, s'era tolto il pizzetto e i capelli li aveva sistemati all'insù.
Ulisse s'era bloccato su quella vignetta di pagina 94. Il pastello
del bambino l'aveva risparmiata.
"... Ma alla fine cosa rimane? Solo il banale orrore di due persone che si trovano per caso, si piacciono, si amano... magari pensano che l'amore sia qualcosa di eterno...finché una delle due abbandona l'altra... e scompare..."
***
20
Ulisse si alza dal letto e si mette sul naso gli occhiali. Carrie
dorme ancora acciambellata sopra due cuscini, sul suo divano di
vimini. Ulisse non ha mai usato le ciabatte, gli piace camminare
sul parquet a piedi scalzi. Si avvicina verso il baule e prende dal
BOMBASICILIA
ANNO IV NUMERO 1
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fondo quello che cercava. Ci sono stampati in quadricromia otto
Beatles e una folla di personaggi. Legge sul tamburo che i quattro
Beatles di destra, quelli con le divise giallo-rosa-celeste-rosso psichedeliche, hanno sui piedi "Sgt. Pepper's Lonely Heart Club
Band". Poi lo infila nel lettore cd e manda a palla la stessa canzone che l'ha accolto quella mattina ad Aspra. Correva da Lisa. Correva da lei dopo gli aquilotteri e gli scolapasta nootici.
Poi ci ripensa e prima del ritornello cambia canzone. Gli piace
il sound di "When I'm sixty-four" e canticchia con i 4 fab four
che gli fanno da coretto:
-When I get older losing my hair,
Many years from now.
Will you still be sending me a valentine
Birthday greetings bottle of wine.
If I'd been out till quarter to three
Would you lock the door,
Will you still need me, will you still feed me,
When I'm sixty-four...
Smette di cantare con il caffè che brontola già nella moka. Sveglia Carrie e si mette a ballare con lei che, mezza intontita, si mette a scodinzolare esaltata. Programma la ripetizione continua, tanto il treno per Palermo parte alla 9.56. E sta lì, a ballare con la sua
picciridda con la coda e senza pulci.
Suonano alla porta. Il ragazzo abbassa il volume dello stereo e
spegne il caffè che stava già per bruciarsi. Il nonno Enzo sta incominciando a odiare i Beatles, da nove mesi suo nipote ripete
quel rituale tutte le sante mattine. Aspetta sulla porta, le spalle
stretta nella vestaglia di Titti e Silvestro che sua figlia gli ha regalato per la festa del papà; aspetta e si mette a ballare pure lui con le
ciabattone con la faccia di Duffy Duck. Gli piace vivere con suo
nipote, è un bravo ragazzo il suo Ulisse.
- Nonno, un secondo che arrivo - grida Ulisse dietro la porta,
poi, finalmente, si decide ad aprire.
- Stavo mettendo radici! Buongiorno Carrie! Come sta la più
bella signorina del globo?- si avvicina al cane che ancora s'inseguiva la coda sulle note della Lonely Heart club band e gli carezza
la testa.
- Ma ancora non s'è consumato 'sto cd? Metti sempre questo
da quando sei qui! Anzi, se mi ricordo, facevi ascoltare questo
pure agli imbianchini e all'idraulico che ha cambiato i tubi del bagno!- Enzo sorride e carezza il cespuglio di capelli che suo nipote
si porta in giro. Si siedono tutt'e due sugli sgabelli della cucina e
sorseggiano il caffè. Ulisse lo prende amaro con due gocce di latte, suo nonno lo corregge con un pò di grappa, proprio come faceva quando era negli Alpini delle Fiamme Gialle. Ha tutta una
serie di foto con i suoi commilitoni, messi in posa, tutti con il capello con la penna d'aquila e sullo sfondo le alpi innevate sui confini con la Svizzera.
-Ti sei sistemato bene, proprio bene. Hai fatto diventare il deposito di cianfrusaglie della nonna, pace all'anima sua, un bell'appartamentino, bravo. E soprattutto ti sei messo la testa a posto. A
sentire tua madre dovevi andare a piedi sino a Lourdes per mettere giudizio. E invece… tutti 30 e 30 e lode sul libretto e mi aiuti
pure con le commissioni!- Ulisse ride passando mezza ciambella
mister day a Carrie e abbraccia suo nonno, non gli ha mai chiesto
niente su quella notte ad Aspra. - Forse dovevo solo cambiare
aria…- ammicca sornione e suo nonno si accende il Toscanello
che teneva nella tasca della vestaglia. Posa l'accendino e aggiunge:
21
SETTEMBRE 2004
- Ieri da Maurizio ho comprato due chili di babbaluci, li ho tenuti
tutta la notte nell'acqua, ora vado a metterli al sole per fargli uscire le corna a quei cornuti! Te l'ho mai detto che da noi dire babbaluci è un'offesa che ti autorizza a rompere quattro denti a
chiunque te la dice?Ulisse sa a memoria le storie di suo nonno ma gli piace sentirlo
parlare con la sua voce sincera e pulita. Nessuno s'addormenta
quando Enzo racconta un aneddoto a Piazza Garibaldi. Pure che
è la stessa storiellina da ventisei anni. Perché Enzo sa raccontare.
Quando Ulisse passa la notte a leggere i dialoghi di Platone e legge le battute di Socrate, pensa sempre a suo nonno. Già, suo
nonno è sempre stato il suo Grande Maestro, con la sua barba
bianca e i baffi ancora mezzi rossicci.
- Quattro denti, non uno solo! Proprio quattro e nessuno ti
può dar torto! Babbaluci è quattro volte un'offesa: curnutu, vavusu, porta n'cuoddo e strica n'tierra! Quattro offese in una sola
piccola e dolce parola, quanto mi piace il nostro dialetto! "Babbaluci", più dolce del semplice "lumaca", senti quasi il gusto ancora
prima di succhiarli dal guscio.- Il Socrate più divertente di tutta
l'opera platonica non avrebbe saputo fare di meglio.
-Le lumache non mi piacciono. Le ho viste urlare con le loro
boccucce mute troppe volte. Urlano quando l'acqua incomincia a
bollire e poi smettono, di colpo. Preferisco una pizza. E poi le tue
si ruttano sino all'Epifania. Ci metti troppo aglio…- Non capisci niente di cucina e tradizioni. Una pizza, magari
pure surgelata, vero? La nostra cucina è un rito. Sarà pure pesante
da digerire ma ha tutto un suo fascino che una pizza non avrà
mai. Pure che vedo il pizzaiolo che se la fa girare sulla mano prima di condirla… Ma ero venuto per un'altra cosa…- Enzo spegne il Toscanello nel posa-cicche e prende qualcosa dalla tasca
destra della vestaglia. La posa sul tavolo tondo.
- Una lettera? Per me?- Ulisse guarda la busta bianca e i suoi
bordini blu e gialli.
- Solo che non so se devo dartela. So come ci hai sofferto l'anno scorso. Sarò pure pensionato ma ancora rincitrullito non ci
sono. Ma la scelta è tua. Lei mi ha incontrato davanti alla Posta
Centrale e mi ha detto solo di dartela. Ora vado a farmi una doccia, tu hai la tua scelta da prendere. E devi essere solo.- Enzo si
alza e apre la porta. Poi solo le ciabatte sui gradini.
Carrie aspetta sotto il tavolo, leccando le dita dei piedi di Ulisse.
“È solo una busta” pensò “dentro ci saranno gli auguri per il compleanno o qualcosa del genere. Magari mi vuole fare sapere solo che sta bene. Sì,
sarà proprio questo. Magari ha trovato uno sceicco che la vuole sposare. O si
sta facendo suora. Oppure ha smesso di essere vegetariana, no, no è una richiesta di riscatto da parte degli alieni. Sì, i venusiani l'hanno rapita e hanno
cercato nei suoi ricordi. Dovrei esserci pure io nella sua testa, me lo auguro,
almeno. Sì con la loro sonda hanno visto la mia faccia e poi nel loro computer
hanno cercato un tramite per farmi avere la lettera. Sanno tutto, loro. Nella
loro nave galattica hanno uno schedario migliore dell'FBI. E poi non potevano contattarmi direttamente, ho visto tutte le serie di X-files e li avrei smascherati. Così hanno creato un simulacro semovente di Lisa e l'hanno mandato da mio nonno. Furbi i venusiani, ma non per me!” Stava continuando
a partorire altre assurde ipotesi quando si ricordò delle ultime parole del Dottore Obliquo che lo veniva a trovare nei sogni: I pensieri inutili ci impediscono di arrivare all'essenza delle cose. Comprese che stava solo perdendo tempo. Gli bruciava ancora il petto
per Lisa e aveva paura di quella busta. Guardò Carrie e prese la
sua decisione.
BOMBASICILIA
ANNO IV NUMERO 1
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Si accese una marlboro e aprì la busta. Dentro c'era solo
un piccolo quadratino di carta, lo prese tra le mani e capì. Capì
ogni cosa e sorrise, felice. Era innamorato, lo sapeva lui e lo sapeva anche Carrie.
SETTEMBRE 2004
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trimestrale per macchiafogli mortali e innamorati
direttore
tonino pintacuda
vicedirettori
laura caroniti & demetrio paolin
macchiafogli
andrea brancolini
costantino simonelli
il Timoniere
antonio spadaro
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bombasicilia - Pupi di Zuccaro