CARNE A CUOCERE (1)
postato da untitled io nel suo blog 'diario di untitled io', venerdì 13 ottobre 2006 alle 15,19:
IL TALENTO
Ho due pensieri fissi più circa tre che ballano e s'intrecciano variamente fra di loro, per conseguenza
mi è difficile parlare. Ci provo per più punti, vediamo se me la sbroglio.
Pensiero fisso 1: sto pensando al talento. Al talento no al genio. Il libro di queste sere è la biografia
di Capote, quella di Gerald Clarke da cui è stato tratto il film, che peraltro parla d'altro e che per
giunta non ho visto anche se spero vedrò.
Mi ci sono attaccata, a questo libro, perché parla dei rivoli nei quali si divide e si diffonde, ma anche
si nasconde si protegge, per crepe o capillari, il talento. E' una specie di storia del talento, e di
quanto il talento appartenga alla società, e di quanto e con che mezzi il talento sappia rubare alla
società, e di come il talento venga infine utilizzato, oppure inutilizzato, dalla società stessa che lo
provoca lo produce e se lo mangia, o lo sputa - dei residui indigeribili che sputa, la società, del
talento, di questo tratta il libro secondo me - o potrebbe trattare.
Ora non mi interessa assolutamente di quanto questo libro sia ben scritto, mi basta di sapere quel
che disse Capote a Clarke: ti uccido se non racconti la verità. Io lo leggo tradotto, la traduzione pare
a naso elementare, sarà brutto pure il testo originale in certi punti non lo so, ma davvero non
m'importa perché qui, non è affatto la parola che m'importa: m'importa la questione. E chi racconta
lo sa, che mi sta offrendo soprattutto una questione allo sguardo, e la questione è piuttosto grossa e
ai miei occhi si mette in questo modo: com'è che non abbiamo più nessuna frequentazione (se mai
l’abbiamo avuta) col concetto di talento, pur essendo bravissimi a costruire personaggi?
Il personaggio, voglio dire, ha sempre torreggiato sul talento - pure a volte inglobandolo, ma sempre
che il talento resti servo del personaggio, qui in Italia in particolare questa speciale mistura si
chiama genio, perfino in una stupida recensione si chiama genio - in America invece...
Aha, m'interrompi, parliamo di Capote? il personaggio, Capote?
Appunto è proprio questo che m'interessa, questo limite. Quanto Capote stesso, e la società
letteraria e non letteraria intorno a lui, convivessero e commerciassero col personaggio-genio,
quanto molto e quanto poco (e quando precisamente) questo commercio toccasse la questione del
suo talento, e come infine il talento scivolasse non visto (non pensato) per le rughe di quella
cartapesta, fino a formare fiumi irroranti dove, limpidi quando e se, valutabili in quanto flusso da chi
e come: da noi che non abbiamo parole per pensarlo?
Il talento è urticante e non ha nulla di sacro e non proviene da nulla di inconoscibile e soprattutto la cosa più indisponente - il talento è applicabile più o meno a qualunque cosa, e non chiede
permesso e non si leva di mezzo facilmente, e turba per una certa semplicità della faccenda. Allora
travestiamolo da genio, oppure da stravaganza, da originalità: qualunque piumaggio è buono per
renderlo inoffensivo, un complemento d'arredo direi quasi, e Capote lo sapeva e ci ha giocato in un
certo senso, e Clarke nella biografia sta raccontando soprattutto di queste cose, ed è un racconto
ironico ma duro e lancinante, al quale una società come la nostra non sa bene come rispondere, se
non facendo un film, costruendoci sopra una vicenda, la famosa vicenda-sopra, la vicenda che salva il
personaggio e finalmente lo tralascia il talento - di nuovo e come sempre, per manifesta incapacità
di farne uso. Nel frattempo, ovviamente, il talento prosegue per le vie carsiche ordinarie.
Devo aggiungere una cosa. Non è la prima volta che qui parlo di Capote, ne avevo parlato un giorno
per star dietro a palmasco che mi parlava del film, ma non riesco più a trovarlo quel post.
A questo punto temo una cosa, e cioè: che io non abbia postato, in effetti, niente del genere nel mio
blog – e interrogato Nicola mi rispondeva di non averlo mai letto.
Vado a cercare, allora, da un’altra parte.
Erano mesi che il suo numero non me lo trovavo più, da quando mi rubarono il mio vecchio
cellulare.
È successo che si è assentato dal suo blog, apparendo di tanto in tanto qua e là, solo per dire che
era in pausa di riflessione, o in ascolto degli altri. Poi da ieri è ricomparso, con un articolo dei suoi,
riguardo al tentativo di fare un cambiamento, nel modo di parlare, di tenere il suo blog. Ma appena
rotto il ghiaccio con questo post formale da rientro, ne ha fatto subito un altro, parlando di
“Capote”, un film per cui l’attore protagonista, certo Philip Seymour Hoffmann, ha appena preso
l’Oscar. Ha messo un link poi, al trailer originale di questo film, perché ascoltassimo tutti la voce
vera – non doppiata cioè – dell’attore che fa Capote. E ho cliccato sul link.
E ho cliccato sul link. Ed è venuta fuori una fotografia in bianco e nero, dell’attore-Capote, in un
fantasmatico quasi fosforescente piano americano, sbalzato sullo sfondo di un paesaggio
secchissimo, e in capo alla fotografia sono venute fuori delle scritte nero su bianco, in caratteri da
vecchia macchina da scrivere, e una musica lenta e circolare, e l’uomo ha cominciato a parlare. Con
una voce lontanissima, da bambino o da vecchio, leggermente tremolante, morbida e tremolante
come un budino, e dei sospiri in mezzo rapidissimi, come minimi sbuffi, una voce sospirante e
decisa, tenera e assertiva, leggermente femminea, e quasi ipnotizzante, che ti scavava lo stomaco.
Non ho potuto resistere, ho commentato che era una cosa straordinaria, ci aveva raccomandato, a
noi lettori, di mettere le cuffie se le avevamo – “io lo consiglierei”. Ho commentato che era una
cosa straordinaria, e uno splendido modo di ripartire, a partire da una voce in quel modo. È stato
dopo questo, che ho sentito così forte il bisogno di parlargli.
Ho provato allora a scrivergli una lettera, di nuovo dopo mesi, per raccontargli questo in una forma
pulita, ma alla quidicesima riga già partivo in arrampicata sugli specchi, e non ce l’avevo il fiato per
continuare, e avrei potuto cadere, sfracellarmi, sono debole ho detto, e allora tanto che ho
rovistato che ho ritrovato il suo numero di cell, segnato da qualche parte.
Ho provato alle undici ma niente. Poi ho riprovato all’una, lo sapevo che all’una lo riapriva, gli ho
detto semplicemente – due volte - quando ti posso chiamare? quando ti posso chiamare?, e lui mi ha
detto così: chiamami all’una e mezza.
Allora all’una e venticinque tagliavo velocissima la bistecca a Vincenzo appena tornato da scuola,
all’una e ventisette ingurgitavo la mia, e all’una e trenta chiamavo, ben sistemata col piedone
fasciato all’interno del solito cassetto, il primo in basso dei due della scrivania, che sta all’altezza
migliore. “Come stai”.
Gli ho parlato per tre quarti d’ora esatti. Abbiamo parlato anche di Hoffmann in Capote. Quando mi
ha detto questa vocina acuta, leggera e un po’ artefatta, da omosessuale anni cinquanta, gli ho
detto sorridendo: un po’ come la tua. Dal suo modo di sorridere nel telefono ho capito che l’avevo
spiazzato, sì forse, ha detto incerto.
Era il motivo per cui dovevo assolutamente telefonarti, ho pensato di spiegargli, ma poi non gliel’ho
detto.
E poi dopo, a Nicola:
Oh te l’ho detto, che gli avevo telefonato. Oh sì lo immaginavo, che qualcosa ne avrebbe detto. Che
qualcosa avrebbe, a breve, anzi prima di sera, pubblicato. Perché noi vedi, è in pubblico che si
parla. Perché noi vedi cosa siamo diventati? femmes publiques. Che in francese, come sai, oppure
forse non sai, significa puttane.
Le puttane si parlano contente, microfono alla mano, oppure pulce nel bavero, camminando
elastiche col viso rivolto al sole, in mezzo al traffico. Sono bellissime, non credi? Sono solari,
cambiano trucco e umore, al cambiare del tempo, questa specie di puttane.
Perché infatti palmasco, nel suo blog, qualcosa aveva detto:
Allo scattare del verde, un enorme pullmann ha ripreso a scorrere nel traffico di piccole utilitarie e
lussuose berline tedesche, svolta a destra in corso di Porta Romana, dondola sulle sue antiche lastre
di pavé, e dolcemente i sessanta giapponesi al suo interno hanno dondolato con lui dietro i suoi
finestrini fumé, alcuni sorridendo, altri usando due dita della mano libera per sostenere con
delicatezza il polso della mano che regge la videocamera.
Blasco parla al telefono risalendo velocemente a piedi l'ombra fredda di via de' Pellegrini, quando
sbuca su corso di Porta Romana illuminata dal sole già un po' caldo di marzo, la telefonata è per
molti versi così inconsueta che lo assorbe completamente, quindi sceglie istintivamente e senza
pensarci la posizione più adatta a fermarsi un attimo a riprendere fiato e scaldarsi, una pietra liscia
in piena luce che irradia calore già alla vista, con un palo di regolamentazione della sosta al quale
appoggiarsi.
E' al telefono con un'amica blogger, hanno cominciato ormai quando lui era da BlockBuster a
scegliere un film, l'ha preso e l'ha pagato facendo cenno di scusa con le sopracciglia e il dito alla
ragazza in uniforme, e poi per tutta la passeggiata da via Sabotino fino al corso, ed è sorprendente
che la telefonata sia così lunga e sciolta, perché fin dagli inizi del suo bloggare Blasco aveva
rifiutato qualsiasi contatto telefonico con le persone conosciute via blog, non c'è ragione di
sovrapporre le vie di telecomunicazione era la sua filosofia, i pensieri affidati alla scrittura non
dovrebbero aver bisogno della familiarità del ti dò un colpetto di telefono più tardi, per viaggiare
da una mente all'altra, credeva.
M'è sembrato che non avrebbe senso rimettermi a scriverti, gli diceva lei, ho delle cose da dirti e
sarebbe meglio che ci vedessimo, ma intanto ho pensato che era meglio che ti telefonavo, perché
troppe mail ci siamo scritti che hanno troppi automatismi, non volevo, per dirti le cose nuove che
ho pensato, dirti anche quelle che ci siamo abituati a dirci nel tempo, che poi non so più se per me
sono ancora vere, sì, punteggiava lui per farla continuare, e lei continuava.
Quello che gli stava dicendo del resto era vero, Blasco se ne accorge benissimo, dunque era giusto
dirle sì per farla continuare, ed era giusto che la telefonata continuasse per tutto quel tempo, del
resto sono stato così tanto tempo senza scrivere il blog proprio perché che senso ha, mi dicevo, le
diceva Blasco al suo turno, fare una cosa per quasi tre anni e farla sempre allo stesso modo, e
ancora di più per la scrittura, non ti pare?, le diceva, come sarebbe possibile che ti metti a scrivere
per tre anni e non cambi per niente?, e se cambi tu deve cambiare il tuo modo di scrivere, devi
fermarti un attimo a ripensare tutto quello che stai facendo, prima di rimetterti a farlo, e lei gli
diceva sì a intermittenza per farlo continuare, e parlavano da quando era partito da BlockBuster, e
ora che lui s'era appoggiato a un palo a prendere il sole mentre rispondeva al telefono come se fosse
in vacanza, anche se era al telefono con una blogger, nonstante le regole che una volta s'era dato, e
che ora guardava sciogliersi al sole, come da lontano, cioè senza che gliene fregasse granché, non
vedo perché te ne dovrebbe fregare qualcosa, in effetti, gli avrebbe detto lei se gliel'avesse
raccontato, ma siccome lo sapeva e anche lui non voleva che lei dicesse cose che si sapevano,
insieme alle cose nuove che si stavano dicendo, non le disse dello sciogliersi indifferente…….
Sono andata per le lunghe e non a caso, non voglio lasciar nulla dell’intero ragionamento, se no poi
come faccio a render conto dell’imbroglio di oggi?
E dunque si parlava, ho controllato quassù, della voce di Capote – o era la voce di P.S. Hoffmann che
rifaceva Capote? In ogni caso: il dato che mi mancava, all’epoca che annotavo queste cose, era il
doppiaggio di quella voce in italiano, che ho potuto ascoltare oggi. Ovviamente, tanto in Italia che lì,
con la voce in un film che cosa fai? disegni un personaggio, il personaggio principale del film. E però
che personaggio diverso, fra qui e lì, tanto diverso che con la voce del doppiatore italiano nelle
orecchie, mai e poi mai mi sarebbe venuto in mente di intraprendere la lettura del librone di Clarke
(che fra l’altro ho trovato in casa, non ho comprato io), cosa che invece ho fatto con una certa
risolutezza avendo in testa l’altra voce, la voce americana che palmasco ci invitava ad ascoltare, con
le cuffie per giunta.
Son contenta di citare palmasco, mi succede ogni volta che cerco di fare ordine in un imbroglio, e
ogni volta che tiro fuori un pezzettino, di queste conversazioni o di questi parlari pubblici paralleli,
mi viene in mente che di quella questione, magari un sacco di tempo fa, privatamente ne avevamo
già parlato. In particolare mi ricordo benissimo di quando, con palmasco, si parlò privatamente di
talento, Tanto privatamente che un poco mi vergogno a riparlarne nel dettaglio, ma grossomodo il
fatto andò così: che avendogli mandato un mio racconto, pubblicato per giunta, mi fece i
complimenti per la trovata finale. Allora io gli dissi di non esserne soddisfatta, sinceramente, per
niente – perché mai, mi chiese lui. Gli dissi che non sapevo. Lui mi disse: è il colpo di talento che ti
turba.
Ci pensai su, cazzo se ci pensai. E decisi che era vero, che era un fastidio enorme, quel trovarti
davanti un qualche cosa che non poteva chiamarsi in altro modo che così: il tuo talento.
Poi non ci ho più pensato, e neanche a quel racconto a quel fastidio ho ripensato: ho riposto tutto
quanto in un cassetto, lasciando fuori solo una questione generale irrisolta: come la mettiamo, noi
tutti, col talento? se costruirci un personaggio sopra costituisce in qualche modo un tradimento, o un
voluto e furbesco e utilitario travestimento, o anche soltanto un bell’indebolimento; e se genio non
è, forse neanche bravura, ma qualche cosa di più sottile e impresentabile che ha a che fare con lo
scarto dell’intuizione; se è qualcosa da vergognarsi, se è qualcosa di plastico da ridursi a una forma
convenzionale più presentabile; o anche no, se è l’inverso, se è quello che mai e poi mai potrai
ridurre a carino, benfatto o tollerabile, e neppure arricciolare fino a una comica imitazione del genio
ci cui sopra, e neppure allisciare per ottenere una più becera e moderna genialata, com’è che ci
mettiamo insomma noi, col talento?
…Fu in quel momento, mentre girava leggermente il viso nella direzione del sole, col telefonino
attaccato all'orecchio ormai caldissimo, che il pullmann di giap arrivò in Porta Romana all'altezza di
via Pellegrini, come sul viale sonnacchioso di un paesino polveroso di un tour in un west da
comparse, passò proprio nel momento che lui con un dito spostava leggermente all'indietro il
cappellino da baseball per prendere meglio i raggi solari, e incrociava le gambe sulla pietra calda,
appoggiandosi di più al palo per stare più comodo, passò e sicuramente qualcuno di loro che magari
conosce il cinema americano, avrà pensato che sembrava una di quelle ragazze che sognano soltanto
di essere portate via da lì, in fondo non importa nemmeno da chi.
Blasco si rimette a camminare lungo corso di Porta Romana a Milano
Tra qualche giorno magari, il suo faccione che pronuncia in labiale le parole ... perché sai, la mia
scrittura..., comparirà per un attimo, dondolando dolcemente, nel tubo catodico di un televisore di
un quartiere residenziale di Narita, Japan.
Ok palmasco. Ok Hollywood. Ok tutti. C'è una casa editrice qui intorno a questo blog, non so se ve
n'eravate accorti. La casa editrice si chiama Untitled Editori: editori detitolati, sarebbe. E in quel
detitolato, senza alcun titolo a, ci starebbe tutto un odio verso questo sistema di promozione (ma
prima ancora: di attribuzione di valore) centrato sulla creazione o sull’adozione di un personaggio –
lo sapete.
Si è parlato in passato, e fino allo sfinimento, di scritture de-autorizzate, tenute fuori dall’influenza
onnipotente e universalmente riconosciuta del Personaggio, e tanto si è equivocato su questo punto:
per esempio si è equivocato sul fatto che a Untitl.Ed, dell’autore, non importasse nulla.
Io credo che sia piuttosto evidente, oggi almeno che un po’ di tempo è passato da quelle enormi
discussioni, che invece degli autori a noi importava, e accidenti: così tanto da lavorarci fino quasi ad
innamorarci, spesso e tanto fino al punto di incazzarci, così rigorosamente da innervosirci moltissimo,
quando un autore a caso (l’han fatto tutti, chi più chi meno) cedeva un po’ al sistema-personaggio,
più per farsi capire che per gusto magari. Io credo che questa cosa si sia capita, e proprio adesso che
si è capita, che incomba su questa piccola impresa una grandissima domanda: e allora, dove volete
arrivare?
Sapete tutti che gli Appunti sono Appunti: è consentito origliare, non è permesso commentare, quelle
riunioni sono le nostre veramente, gli Appunti sono gli ordini del giorno di riunioni archiviate, e sono
inizi certo di discussioni accese, aperte e a volte chiuse a volte no, aperte e lasciate in mezzo,
aperte per spaventarci e per capire cosa fare – che cosa fare noi, coi nostri soldi e i nostri pacchi, e i
nostri commercialisti e i nostri debiti e crediti, cioè niente da commentare, soltanto da seguire
dietro al vetro della sede di una Casa – privata, ma non del tutto insonorizzata.
Fermo restando questo, è da un po’ che qui sentiamo, io almeno sento molto, la voglia di dire in
pubblico - di nuovo in mezzo a un pubblico che risponda, che aggiunga, che precisi, che contesti, che
aiuti - in quale direzione stiamo andando, e per creare cosa, e dove stanno i bisogni, e poi i bisogni
di chi.
Io per me (parlando dal mio blog qua dico solo: io per me) vi dico chiaro e tondo che a me non
importava, di creare una piccola editrice di qualità – che m’importava, a quasi cinquantanni? avevo
un altro lavoro, e un milione di altre cose di cui occuparmi. No l’ho creata, e sono ancora contenta di
averlo fatto, per creare uno spazio una zona franca, dove nulla avesse a che fare col teatro dei
personaggi, e dove in scena fossero solo… “le scritture?”
No non proprio, non solamente, “le scritture”. Quelle che cercavamo, e che ancora cerchiamo e poi
in effetti troviamo, sono scritture umane, segnate dal talento (non dal genio né dall’aura) di una
persona. Un talento sostenuto da una voce, da una voce che tutta quanta sia il portato di un corpo,
di una presenza fisica individuata e franca, da non svendere a un qualsiasi agenzia di caratteristi per
ricavarne un personaggio, ma da conoscere da sapere, da sentire. Stiamo parlando, se non ve ne
siete accorti, di scriventi: quelli untitled, riconoscibili non per targa né per titolo ma per voce - vale
a dire: non tutti. Non tutti.
Li ho chiamati scriventi, che a chiamarli scrittori si rischia di vedere un’altra cosa; certamente si
tratta di femmes publiques.
Ethel posa per nudi artistici, ma sogna un avvenire di attrice, cioè di "donna pubblica". L'occasione si
presenta quando un regista la scrittura per una parte in un film da I demoni di Dostoevskij, ma si
trova in mezzo a un susseguirsi di avvenimenti drammatici: la scomparsa di una donna, l'assassinio di
un arcivescovo lituano in visita a Parigi, un incidente d'auto mortale, un suicidio. Terzo film
francese del polacco A. Zulawski, regista che ignora la linea retta e la calma: violento, sregolato,
parossistico, delirante sotto il segno della dismisura e del disordine. Tra attori spinti all'estremo
delle loro possibilità spicca V. Kaprisky, caso raro di un'attrice che rivela l'anima attraverso il corpo
(nudo).
(dal Morandini: La femme publique, di Andrzej Zulawski, 1984))
Femme publique, tu connais bien la musique
(Noé Willer, Toi femme publique, dalla colonna sonora del film di Zulawski)
E con la cima di questo connaître bien la musique, posso legare finalmente quel che individuo
confusamente come talento, a quest’essere femmes publiques - qualcosa che sta in mezzo fra le
attrici, le modelle per nudo come l’Ethel del film, o ancora le puttane di cui sopra – e allora torno a
quella fotografia, di Philip Seymour Hofmann as Capote, che sta nella locandina, che sta sulla
copertina, e mi chiedo dov’è il talento, dov’è la femme publique, dov’è insomma quel sorriso segreto
di chi sa: che cosa sta facendo, come lo sta facendo, e come lo sa fare. E il sorriso segreto del
talento, e della femme publique, secondo me sta qua:
(fine della prima parte)
(prima parte? prima parte di cosa?)
(di un discorso insidioso – segue, ma già ci siamo, pensiero fisso n°2: il diario intimo-pubblico)
IL DIARIO INTIMO-PUBBLICO (Ouverture. Lunga)
Ma a me non interesa la verità, m'interesa l’amore, i teatri. Penso, per colpa di essere-per-te,
scrivere, sono in questa gabbia televisata.
Scrive così Llu, in un suo post che fa parte di un rigirare intorno, e un ritornare incessantemente, al
tema del suo libro che ha scritto per Untitl.Ed. Il tu è un tu vero, cioè non è un tu-lettore, ma il
lettore che legge si sente tuttavia preso per mano, tant’è che il blogger Effe, che conduce una
battaglia tutta sua sulla scrittura separata, netta e autosufficiente, dopo aver, come me, incorniciato
la frase, senn’esce qualche commento più tardi col suo solito: chi legge ne sa più di chi scrive.
Chi legge scrive, chi scrive sta leggendo, la mano sulla tastiera e l’occhio al monitor, e nel monitor
scorrono parole che provengono da altri, la mano le rincorre le acchiappa le fa proprie, tutto un
mondo diverso dal quietissimo procedere in un libro, dove tu sei il lettore, e chi scrive è chi ha
scritto e non è lì, e il mondo che si crea, poco al di sopra del rimbocco di lenzuolo del letto dove
leggi, è proiezione sovrapposta dei due mondi diacronici, condensata in una specie di sottovuoto
spinto (il qui e ora del tuo letto-e-pigiamino, o comodino-e-segnalibro se vuoi). Maria parlava invece,
credo proprio, di una cosa diversa.
Prima di tutto parlava, io almeno questo vedo, di una gabbia televisata, che nel suo
italiano/spagnolo significa assai di più di una gabbia televisiva: significa una gabbia trasformata in
qualche cosa che ha a che fare con la televisione – resa simile, o uguale, trasformata in qualche cosa
di analogo – e parla dello starci o del non starci a questa cosa, dell’accettarlo o del non accettarlo,
comunque del vederla, questa cosa, e del vederla lampante. È per questo lampante che io e Effe,
due persone di web, isoliamo la frase e la guardiamo. E dopo ne parliamo.
Ma è una pagina di diario, quel che leggiamo di Llu, o è altro?
È altro è altro: è un post. Non per lei, non per Chester: per tutti. È una Lettera Generale.
Ora a parte la mia Lettera Generale, di cui avevo parlato qui, che è di un periodo ante-blog anzi
ante-web: se una lettera privata o un tu privato, viene mostrata al pubblico, anzi macché mostrata,
girata, forwardata, anzi proprio pensata per il pubblico, allora non è di diario ma nemmeno di un
libro che qui si sta parlando: stiamo parlando appunto di diario intimo-pubblico.
Quando penso al diario intimo-pubblico, cioè all’oggetto d’interesse primario prima mio poi della
casa editrice che sapete, chissà perché penso a un post particolare (pensi a un pezzo, già direbbe
qualcuno, poi vi spiego - CAPO DA ANNODARE, SEZIONE “IL LETTORE COMUNE”). Una cosa di Tez, di
molto tempo fa (fra parentesi: il primo post di Tez, vera e propria apertura del suo blog, datato 4
novembre 2003, consisteva in una sola strana domanda, che straordinariamente fa il paio con la frase
di Llu di tre anni dopo: “Dovrò iniziare a guardare la televisione?”) CAPO DA ANNODARE, SEZIONE “IL
LETTORE COMUNE”
(e in un mio commento a uno degli innumerevoli post di Tez sulll’impresa Untitl.Ed – ai suoi albori –
mi limitavo a considerare: Certe volte penso che questi libri verranno stampati all'unico scopo di
finire nelle mani di Tez) CAPO DA ANNODARE, SEZIONE “IL LETTORE COMUNE”
…tutte queste parentesi e questi capi da annodare per dire che non ritrovo ancora – e ho scorso tutto
intero il suo archivio di due anni – il post di cui parlavo. Ricordo solo che si parlava di una casa e di
un cancelletto che si apriva, che probabilmente aveva bisogno di essere oliato, di un vialetto e una
casa. Poi ho visto che di una casa e di vialetto, e forse di un cancelletto, Tez parla tante volte nel suo
blog, troppe perché quella “visione di una casa con giardino” non finisca dispersa in una specie di
pulviscolo dal titolo “visioni della casa con giardino di Tez” – che poi potrebbe essere la partenza, dal
punto di vista Untitl.Ed, di un libro da far scrivere a Tez….
…e poi s’inframmezzano, a tutto questo spasmodico cercare negli archivi di Tez, le voci del
muratore, dell’idraulico e mia stessa, che ragionano su una semplice questione: dov’è la perdita. Dal
momento che la perdita non c’è, dove si ipotizzava che fosse. Da una conversazione tranquilla e da
un tranquillo armeggiare coi doppimetri, si è passati nel giro di un’ora sola ai rumori del flex e del
mazzuolo, e poi della scopa che spazza via i detriti, e dall’italiano si è passati a un più economico e
assertivo e preoccupato dialetto, e insomma nel frattempo muri rotti e bestemmie, e io sto sempre
qui, cioè un po’ qui un po’ lì, a cercare di riconnettere i fili e pur sempre rivolgendomi, così piena di
polvere, a qualcuno…
Ho detto questa cosa, quest’ultima, giusto perché sia chiaro, a chi non frequenta il web, ma anche a
chi lo frequenta ma fa finta di non capire, cosa significhi essere intimi E pubblici E immediati, non in
momenti distinti ma tutto quanto assieme nel medesimo momento, il che fa sì che io non parli mai di
“pezzi” o di racconti quando parlo di scrittura del web – e per chiarire che non è ai blog “di racconti”
che noi ci rivolgiamo, ma ai blog.
(Posto che un post NON È, un post come questo qui – questo, così eccessivo, è un’eccezione)
(segue Diario intimo-pubblico: svolgimento)
(madonna!)
NOTA: aggiungo qui sotto i pochi link necessari: sto andando per le lunghissime e ho pensato che a
infilarli nel corpo del discorso sarei stata più d'impiccio che d'aiuto.
post di palmasco su Capote
ultimo post di llu
sulla mia Lettera Generale
il blog di Tez
Commenti (31)
tanta.
carne a cuocere.
cuocerà lentamente, lasciamo fare.
:)
a.
ottobre 13, 2006 at 08:45PM | gio
Se ci pensi, nonostante i fiumi d'inchiostro e di cristalli liquidi (appunto), di questo non si è detto
granché. Dell'uomo o della donna che scrive, del bimbo che scrive, del vecchio che scrive. Si è
parlato assai dello scrivere e degli scritti. Di autori e di generi. Di stili e sintomi. Di tormento ed
estasi. Dicendo spesso accademiche stronzate, ovvero tutto e il suo contrario. Un lavoro necessario,
per carità, tutto un fare cultura che ammiro, in fondo. Ma mi chiedo anche se non sia più utile adesso - ritornare al "di cosa esattamente stiamo parlando?". Perchè io penso che ogni discorso
(riflessivo o narrativo che sia) su questo argomento abbia un non-detto, una posizione storica data
per scontata, una teoria implicita, un pregiudizio negato; tutto questo non è invisibile, ma nessuno si
preoccupa di mostrarlo. (Nessuno no, diciamo pochi). E perchè mai porsi questo come "problema"? La
risposta sta nel proposito (nel desiderio?) di uscire dalla circolarità viziosa delle idee che proliferano
in uno smisurato chiacchericcio che sembra svolgersi fuori dalla vita. Anzi, che si pone fuori dalla
vita, perchè pretende di parlare d'altro. La Vita e la Letteratura, ecco un dualismo che nasconde con
maldestria e rovescia con evidente formazione reattiva (per dirla psicodinamicamente) il vero
oggetto del contendere. Non è la sola risposta, ma è tanto per cominciare a dirsi le prime cose.
Di cosa stiamo parlando, dunque? Della vita umana, del suo posto nel mondo. Ti sembra
un'esagerazione? Un delirio? Ma io ti chiedo: a cosa mai potrebbe rimandare un discorso che si occupa
del pensare e agire discorsivamente ovvero di un processo che incessantemente delinea e ricrea la
realtà vissuta? Così io penso che ogni discorso - ma forse anche ogni azione attinente - su questo
argomento contiene allo stesso tempo un vissuto personale (negato) e una teoria antropologica
(nascosta). Almeno queste due cose. Ed è questa la posta in gioco quando parliamo dello scrivere.
Vorrei fare un esempio. L'autore-personaggio. Se ne dà il più delle volte una piatta spiegazione socioeconomica, come se tutto si riducesse alla questione dell'uso comunicativo di alcuni tratti distintivi in
ottica pubblicitaria. Dicono: le cose funzionano così, è il sistema che produce l'esigenza del
personaggio e non importa se si tratta di un professore, un criminale o un ex-comico. Alla fine la
barca è questa e chi vuole approdare da qualche parte deve remare (tutti sulla stessa barca? e se
fosse una galera?) Bene, questo è in effetti un discorso che pretenderebbe di esaurire la questione,
nascondendo e negando. Non si tratterebbe cioé di un discorso innocente. L'accettazione dello "stato
di cose", la mancanza di critica e la chiusura disciplinare sono i caratteri di un discorso che
anestetizza rispetto al proprio contenuto implicito. Dice sì alcune cose, ma non va fino in fondo. Non
si vuole (non si deve) dire che si considera l'opera come mezzo narcisistico e la maschera come
destino invalicabile, ovvero che si vede il mondo umano come teatro in cui esisti solo nei ruoli di
pubblico passivo o di attore sovradeterminato. Questa ideologia ha una realizzazione esemplare nel
reality show, vera e propria volgarizzazione di un'idea antropologica regressiva, la stessa che puoi
trovare nei discorsi apparentemente specialistici e neutri sullo "scrittore". Recitare per i media, è
questa l'esperienza che integra la scrittura nella rete di rapporti sociali? Non si legge dunque, ma si
assiste? Le parole stesse denunciano la natura mortifera di questa prospettiva.
Questo esempio ridotto all'osso mi serve solo a presentare una modalità normale ancorché
normalizzatrice di fare cultura. Che non è criticabile tanto in sé ma per il fatto che non si
accompagna quasi mai alle proprie implicazioni antropologiche.
Ecco dunque che emerge, secondo me, un elemento di chiara distinzione del tuo approccio untitled.
Il fatto di portare in primo piano, nel discorso e nel lavoro editoriale concreto, quello che in genere
viene nascosto e negato. Il tuo discorso è infatti pieno di vissuto, anzi è un vissuto discorsivo, con una
storia, un quando, un dove, con chi. E' un discorso aperto, in cui entra ad ogni passo un po' del
mondo, percezioni, eventi, accidenti. Non è tutto un io, io, io. Proprio quando sembra divagare senza
meta ti riporta al nucleo più denso di elaborazione "antropologica", ad un' idea dell'umano come
costruttore di significato. Dire che questo riguarda tutti è rivoluzionario, perchè chi ha il potere (e
chi vorrebbe averlo) vuole o pretende una delega in bianco per poter definire ciò che ha valore, ciò
che è importante. Se dici che questa attività è essenzialmente diffusa e attiene al rapporto che ogni
individuo (e ogni gruppo) ha con il proprio mondo, togli legittimità a chi privilegia un giudizio con
certificazione di titolarità. E anche a chi è ben contento di marciare in parata, senza dare un
contributo personale a rischio di conflitto.
Tutto questo è assai difficile da digerire. Penso infatti che molti capiscano abbastanza bene quello
che state facendo, ma scelgono il malinteso, non deliberatamente, piuttosto difensivamente. Li
rassicurerebbe molto la rivendicazione di un'aristocratica differenza "qualitativa", che tu hai
giustamente negato. La differenza c'è, ma non è dove la si immagina. Temono infatti assai di più il
contagio graduale e orizzontale. L'orgoglio detitolato. Il terzo webstato. Alcuni possono ammettere
un'astratta affinità di pensiero, poi però non ci stanno a farsi superare e vi arruolano. Ma sono le
reazioni stizzite e gli assordanti silenzi che mi sembrano la prova di un effetto urticante del progetto
con le sue implicazioni (perdipiù esplicitate) di critica degli assetti mentali e dei ruoli che li
perpetuano. Critiche e silenzi che vanno presi come medaglie da portare sulla giacca. Perchè occorre
dimostrare di saper portare la detitolatezza, l'abitus di chi ha fatto la storia senza lasciarci la firma.
ottobre 14, 2006 at 09:18PM | omniaficta
ieri lessi che virginia woolf quando è morta katherine mansfield che lei considerava una fuoriserie,
nel suo diario scrisse "una rivale meno" e poi, linee dopo, "e adesso perchè scrivere se katherine non
potrà leggerlo?
con l'altra mano pensavo a un'avvertenza di kundera che lui prendeva di kafka. Disse nessuno è più
insensibile che la gente sentimentale. Siccittà del cuore dietro uno stile straripante di sentimenti"
qua la carne a cuocere si chiama "caldeirada"
ottobre 15, 2006 at 07:34PM | llu
non so come si chiama la carne a cucire
ottobre 15, 2006 at 07:40PM | llu
le coincidenze mi stupiscono sempre. Ho appena finito di leggere "A sangue freddo" di Capote stasera
mi hanno prestato il dvd con il film "Capote" con Hoffman.
Pura coincidenza leggere ora il tuo post.
Il talento.
grande incognita. Si dice che da quel libro lui sia uscito prosciugato.
E' il libro di un genio. Mi ha lasciato senza fiato.
E poi leggevo, Susan Sontag, dal suo diario, di come lei considera la scrittura."Non posso scrivere
finchè non trovo il mio ego. L'unico tipo di scrittore che potrei essere è il tipo che si
espone....Scrivere è spendersi, giocarsi d'azzardo. Ma fino ad ora non mi era piaciuto nemmeno il
suono del mio nome. Per scrivere devo amare il mio nome. Gli scrittori sono innamorati di se
stessi...e i libri che scrivono nascono da quell'incontro e da quella violenza"
Sono convinta di questo incontro tra un sè esplorato ed una specie di ossessione a renderlo pubblico.
Sono convinta che accanto alle parole di un libro, accanto all'autore, premano continuamente,
pervicacemente, un'urgenza, una necessità, una violenza a se stessi, un'esposizione più o meno
celata.
Mi pare che sia questo quello che, voi di untitled, cercate nei vostri autori "detitolati". Mi pare che
sia questo che vi interessi veicolare.
ottobre 15, 2006 at 10:38PM | bri
Ah lo sapessi io, come si chiama la carne a cucire.
Quello che sto cercando è il modo in cui una questione va a finire in un'altra. Mi sembra di aver
capito che non si possa parlare, di diario intimo-pubblico, se non parli della gestione del talento. E
che se parli del talento non puoi evitare di parlare del problema dell'attribuzione di valore, che col
talento dovrebbe avere a che fare ma pure a volte non ce l'ha - ed è un male, ed è un bene, e non è
nulla. E che se parli del problema dell'attribuzione di valore non puoi evitare di parlare del
pregiudizio, e dal pregiudizio te ne vai dritto a questa storia della detitolatezza, e dal detitolato vai
a finire all'orizzontalità, alla presunta democrazia della rete, ma dalla democrazia te ne vai a finire
non ai discorsi, ma alle "discussioni", le discussioni ti portano alle prese di posizione, le prese di
posizione alla politica - e l'espressione, e la poesia se vogliamo? no allora te ne vai verso il
"letterario", ma dio mio il "letterario" ce l'ha già, un vocabolario fondante, e poi c'è la letteratura
lassù, mentre noi ce ne siamo tutti orizzontali a discutere quaggiù, ma discutiamo PER ISCRITTO
allora cazzo, questo provoca sbandamenti, figure del letterario si calano piano piano nei cestelli dai
piani alti al piano strada, dove un'orda di ragazzini & ragazzine (dai 13 ai 90 anni), tutti col-diarioonlàin portato a zaino, fanno quel cavolo che gli pare, e dunque signora mia chi ci capisce più niente,
e intanto andiamo a Mantova perché no, tutti a Mantova a Torino, a inedita o al convegno di
Tecnocoso.
Più o meno su questo genere di confluenze e raccordi avevo voglia (HO voglia) di ragionare - ma come
ho detto: è proprio negli innesti che si rompono i tubi.
Vedo di andare avanti un altro po', poi torno qui o lì, dove state più comodi.
ottobre 15, 2006 at 10:46PM | untitled io
Scusa bri non t'avevo visto. L'idea di "libro" si vaporizza e si ricondensa, come vedi. E' un fenomeno
interessante, credo sia molto utile l'esercizio di osservarlo per un po' - magari senza troppa
preoccupazione, come se fosse un fenomeno naturale. Se noi riusciamo a farlo (facendo e leggendo
libri, scrivendo e leggendo blog) non si capisce perché non possano farlo gli altri. Vedi è divertente:
appare/scompare....
ottobre 15, 2006 at 11:11PM | untitled io
La carne a cucire a Genova si chiama cima. Vedi la canzone di De Andrè. La cima è una cosa molto
elaborata da fare, grande attenzione, cura, e stando alla canzone, anche un po' di giaculatorie e di
riti apotropaici. Credo che in un certo senso ci voglia talento.
Il talento è quella cosa che gli orientali (giapponesi) chiamano "chi". Assolutamente necessario per le
arti marziali. Il talento è quella cosa che nel primo Karate Kid il maestro fa tirar fuori al ragazzino
ingiungendogli: Metti la cera, togli la cera.
Però non faccio testo: non so cucire la cima e ho fatto solo un paio d'anni di Tai chi chuan
ottobre 15, 2006 at 11:11PM | caracaterina
gabbia televisata era per dire tutta questa scrittura senza i confini della carta, dei quaderni, dei muri
di casa, non so se dell'io. Con l'altro sempre 24 ore sul collo immediatamente lì. Questa estate Hanna
mi diceva spesso, già non si raccontano storie nei blog, non c'è trama, non si narra. Credo parlassi di
questo. Denait, credo fosse Denait, una volta feci un racconto, lo ricordo svagatamamente di uno
scrittore in una vitrina. Scriveva lì alla vista dei passeggianti. Forse se stai 24 ore in una cassa di
cristallo senti certa obligazione di fare il santo o l'eroe, provi ogni poco a conciliare il mondo privato
dei post col mondo inevitabile pubblico dei commenti, degli incontri. L'io permanentemente in
mostra, sempre guardato, inizia a rappresentarsi, si copre, si divide o la scrittura scivola verso il
teatro, inizia a essere, come per gli attori, qualcosa che passa col propio corpo, con la propia voce,
coi gesti
scrivo senza appena articolare, vado sparata al lavoro. poi vengo
ottobre 16, 2006 at 08:37AM | llu
non ho capito bene, panna.
Mi interessava il concetto di talento-genio.
Capote è un talento geniale. Mi pare che tu voglia distinguere i due concetti, come se la definizione
pubblica di genio "sporcasse" in qualche modo quella di talento.
Ho capito bene?
Per caracaterina il talento è duro lavoro "togliere-mettere" (un piccolo cult per me quel film)
:)
al Tai chi ho rinunciato. Ci vuole troppa concentrazione.
Quanto alla scrittura teatro, come dice Llu, credo che in questo sia, stia il pericolo, l'esaltazione, il
fascino, la morbosità della scrittura su web.
la continua esposizione.
La reazione, immediata del lettore, il sentirtelo addosso, subito.
Il sentirsi esposta, nuda.
E allora, per difendersi, per salvarsi, o si adotta una scrittura fumosa, contraddittoria, in cui dici
tutto e il contrario di tutto in un continuo gioco di specchi, in cui, alla fine lasci il lettore
disorientato, con in mano delle mosche e alla ricerca di una spiegazione, di un nuovo post, o ci si
espone, veramente, e, allora, per saper restare bisogna essere forti.
E non è da tutti.
Nel blog, al contrario di un libro in cui c'è la distanza, tra il lettore e lo scrittore, tutto è ravvicinato,
compresso, confuso.
Si mescola la realtà con la finzione.
Credo che ci voglia un po' di tempo per abituarci a questa modalità di espressione. Credo che non
siamo ancora pronti a vederne tutti i pericoli e le potenzialità.
Insomma.
Ci sto pensando da un po' con un misto di repulsione, di desiderio di fuga, e di attrazione.
una cosa così.
ottobre 16, 2006 at 09:06AM | bri
credo che se tu non giudicassi la scrittura necessaria e sufficiente, non avresti creato, con le
consorelle, "questa" casa editrice.
Ma aspetto (al)la distanza.
ottobre 16, 2006 at 10:35AM | Effe
perchè?
d.
ottobre 16, 2006 at 02:44PM | demetrio
"metti la cera- togli la cera": non mi riferivo all'atto ma al fatto che questi gesti suggeriti dal vecchio
maestro sono laterali rispetto all'obiettivo da raggiungere. L'obbligo della finalizzazione, secondo me,
non fa emergere il talento che si sviluppa con un esercizio a latere. Giorni fa ho scritto in un post di
un gatto che, in corsa sparata lungo una direzione di fuga, si alzava di scatto a catturare un
calabrone di lato, pur continuando a correre dritto. Mi si dirà: istinto. Dico, invece: talento, capacità
di attenzione al laterale. Nelle arti marziali è esattamente questo che si esercita. Bri parla della
fatica della concentrazione nel Tai chi. Infatti è sbagliato "concentrarsi", questo è un termine che
usiamo noi ma non è quello che intendono gli orientali che ti insegnano a fare il gatto che caccia
mentre fugge. In un'operazione del genere noi ci distrarremmo, abbandoneremmo la concentrazione.
Ma è una dicotomia occidentale. Il talento è, invece, questa attenzione per noi ossimorica,
concentrato-distratta.
La scrittura in rete, la nudità della scrittura in rete, ha spesso qualcosa di questo. Il che significa,
anche, abbandonare l'habitus della finalizzazione, spesso egocentrica, senza che per questo,
l'operare sia inconcludente.
E qui quoto omniaficta:
"E' un discorso aperto, in cui entra ad ogni passo un po' del mondo, percezioni, eventi, accidenti. Non
è tutto un io, io, io. Proprio quando sembra divagare senza meta ti riporta al nucleo più denso di
elaborazione "antropologica", ad un' idea dell'umano come costruttore di significato. Dire che questo
riguarda tutti è rivoluzionario."
ottobre 16, 2006 at 05:41PM | caracaterina
sì, è vero.
Il metti togli-la cera non è solo lavorare duramente per arrivare allo scopo. Questo è solo uno dei
significati.
L'attenzione laterale, il gatto che fugge e caccia,
la concentrazione- distratta.
mi piace molto caracaterina
:)
uno spunto interessante su cui riflettere.
ottobre 16, 2006 at 07:21PM | bri
chiarisco anch'io che per teatro intendevo che la rete mi sembra più vicina al corpo, alla voce, alla
divisione o molteplicità della voce. sulla voce pensavo a quella che va dietro le contradizioni e gli
andirivieni del desiderio; non più vicina all'inganno
ottobre 16, 2006 at 07:29PM | llu
condivido la tua precisazione, llu, ma oltre a questo che tu dici, pensavo, anche e forse
"soprattutto", all'effetto di straniamento che la molteplicità di voci, la molteplicità di sguardi, può
causare qui nel web.
Io non riesco ad essere "straniera" rispetto allo sguardo altrui e, nemmeno allo sguardo che io
lancio/concedo/volgo verso l'altro.
Per straniera intendo estranea, distante.
Il contatto qui è ravvicinato nel tempo, nelle risposte, nelle reazioni. Questo cambia la scrittura,
cambia la lettura, cambia i rapporti tra le persone (non le voglio chiamare nicks, non lo sono)
ma è un discorso cominciato da tempo e mai concluso, credo.
del resto, si può concludere?
ottobre 16, 2006 at 09:08PM | bri
Letto lettissimo tutto tuttissimo.
Io quando c'è un gruppo femminile che discute mi metto lì da una parte e ascolto cosa dicono.
Poi rimugino, ci penso. Passa del tempo, cambiano i luoghi, cambia il corpo e mutano i pensieri.
Cambai tutto così tanto che non si riconosce più niente. Qualche volta anche scrivo. Poi certe volte
le parole scritte diventano di tutti, ma non tutto però.
ottobre 16, 2006 at 09:09PM | mics
cerco di fare un po' di ordine per evitare fraintendimenti e per chiarire il mio pensiero.
Allora.
Io ho capito questo.
Si parla di talento e della ricerca di una sua definizione.
Si parla, anche, di Capote e di quanto, forse, il capolavoro del suo romanzo " a sangue freddo" abbia
costruito un per"sonaggio" che poi ha influenzato il successo, la "percezione" degli altri suoi scritti.
Quindi non più attenzione alla scrittura, ma allo scrittore.
(concetto che ho chiamato di genio riconosciuto"
Si parla di scrittura "teatro" e giustamente, llu, per non essere fraintesa specifica che per teatro lei
indica la molteplicità di voci... (anch'io specifico che per "finzione" non indico "inganno", ma
racconto)
terzo, mi viene spontaneo, allora, sempre sul concetto di personaggio, chiedermi quanto , nel web,
soprattutto nelle scritture del tutto o parzialmente "nude" la lettura e la presenza ravvicinata tra
scrittore e lettore, favorisca, senza alcuna colpa da perte dello scrittore, e nemmeno del lettore, ma
per la qualità intrinseca di questo mezzo e delle sue caratteristiche, il crearsi di "personaggi",
impedisca una distanza, per cui la lettura/scrittura viene, in qualche modo, sporcata, cambiata, da
questo sguardo.
Si instaura una specie di "conoscenza" o di desiderio di conoscenza.
Questo cambia la scrittura successiva, credo, la rende più cauta o ancora più esposta. Insomma, la
limita nella sua espressione che sarebbe più libera se ci fosse la famosa "distanza".
Ne avevamo parlato ancora, se ben ricordo, nel passato.
Qui.
discorso vecchio dicevo.
Spero di essere stata chiara.
Poi c'è molto altro, ma io mi sono soffermata su questo.
spero di essere stata chiara.
ottobre 17, 2006 at 09:38AM | bri
Sì, sei stata chiara. O almeno: credo di aver capito, e la tua è una domanda sensata, alla quale per
esempio non so rispondere.
Perché questa è una ricerca non è una discussione, né uno schierarsi di posizioni, né una sequenza di
domande e risposte. Tu stessa circoscrivi: "io mi sono soffermata su questo".
Vorrei che fosse chiaro. La tua è una domanda sensata. Ed è chiara. Da parte mia posso solo farti
notare che il personaggio Capote è nato addirittura PRIMA che uscisse il suo PRIMO libro, e l'ha creato
lui non qualcun altro per lui. Il personaggio Capote è una figura DI capote. E' affascinante, il talento
che mi interessa è quello che permette creazioni di questo tipo, la creazione di un sé scrittore - io mi
sono soffermata su questo.
ottobre 17, 2006 at 10:05AM | untitled io
ecco, il talento.
per me è proprio questo, esserci prima.
esserlo prima.
allora sono d'accordo con te.
Scoprire e valorizzare un talento già presente.
questo è il compito.
Questa è la parte affascinante del lavoro.
ottobre 17, 2006 at 10:22AM | bri
per esempio, il talento di Llu c'era ben prima della scrittura del suo libro e continua ad esserci.
Mi chiedo solo quanto la sovraesposizione webbica può, in qualche modo, influenzarlo in futuro o se
può influenzarlo o meno.
Nel caso accada in positivo spero lo faccia come sensazione di attenzione amichevole da parte degli
altri, può diventarlo, in negativo, invece, se lei, lo sente come uno sguardo prolungato e/o
soffocante (mi pareva di aver colto questa sua preoccupazione)
ottobre 17, 2006 at 10:37AM | bri
ad esempio a me la sovrapposizione webbica ha portato nocumento. io ho perso il talento. e lo dico
senza ironia.
d.
ottobre 17, 2006 at 12:08PM | demetrio
Non ho difficoltà a credere, conoscendo il tuo modo di parlare, che l'abbia detto senza ironia. In che
senso dici di averlo perso, il talento?
ottobre 17, 2006 at 02:50PM | untitled io
temeraria che non sei altro eccola:
"ad esempio a me la sovrapposizione webbica ha portato nocumento. io ho perso il talento. e lo dico
senza ironia.".
ho scritto così sotto il lungo pezzo (io lo chiamo pezzo, perché anna per i giornalisti ogni cosa scritta
è un pezzo, comunque) di anna, rispondendo alla preoccupazione di bri riguardo alla troppa
esposizione che il web potrebbe dare ad alcune scritture. In quel caso era per Maria.
Ma io posso dire che per ciò che mi riguarda nel mio piccolo io ho perduto quel talento, quella strana
luminosità, quel modo di mettermi a nudo che avevo prima e che mi veniva naturale.
tutto quello che una volta, quasi inconsapevolmente mi veniva quasi facile, un po' come un pesce che
nuota, ora mi fa fatica. E questa fatica è andata aumentando dalla pubblicazione de Il pasto grigio in
poi.
Una fatica che paradossalmente ora è diventata sempre più insopportabile, tanto da farmi decidere
di mandare in vacca tutto, per tutto intendo il blog: mi sono messo pure a fare le catene di
sant'antonio...
io capisco la posizione di noantri (stefano). Quella era la mia posizione: io volevo solo scrivere,
volevo dimostrare che questa stramba cosa che era mettere giù delle storie e farle sentire al
pubblico faceva per me.
Qualcosa si è poi rotto. Non so bene cosa, ma è avvenuto.
E' avvenuto anche un certo fastidio per tutte queste discussioni, che non so non riesco a seguire. Il
discorso di anna, ad esempio, capisco, sento e comprendo che è importante, ma non riesco a
seguirlo. Così di primo, mi verrebbe da dire che non mi frega se Capote era "personaggio" prima o
dopo la pubblicazione del suo libro, ma mi interessa "A sangue freddo" a prescindere da questo.
Credo che questo sia dovuto al diverso mio punto di vista: che continua a stare tutto nella letteratura
e starci così dentro che non riesco a vedere gli altri mutamenti. E' possibile, anzi no, quasi certo.
Così come succede tutte le volte che io provo a entrare nel merito di una 'costruzione', come nel caso
di un post di palmasco: mi arrivano da destra e da manca bordate sonorissime e giustificate. Io non
so leggere i blog, o meglio non so leggere questo tipo di 'scritture'; non ne ho gli strumenti, non credo
neanche di volermeli dare e prendo atto di una effettiva ignoranza. Per un certo periodo, un periodo
felice, inconsapevolmente ho usato questa 'scrittura'.
(mi viene in mente che io ho questi perido 'felici', mi è successo a calcio balilla, c'è stato un
momento quando ero ragazzino che non ne prendevo una, poi un giorno di colpo al bar divento
bravissimo, ma tipo da andare in giro a fare i tornei, e vincerli, poi di colpo smetto... ho qualcosa nel
dna).
Ora per motivi diversi, non riesco più.
Si parla di talento etc etc. Io ho avuto sempre delle strane ammissioni di talento. A partire dal mio
prof., che mi disse: non venire in università, prova a scrivere, tu hai talento per quello.
Io non sapevo cosa voleva dire 'talento': io ho l'impressione che certe volte, per motivi strani e felici,
scrivo una storia e questa storia piace.
E' talento questo? Boh, io penso di no, almeno non è il talento che ad esempio descrive anna, che un
è un certo senso è 'prima' della scrittura o dell'atto artistico. E' una sorta di disposizione dell'anima,
una sorta di modo d'essere.
E' preventivo a tutto questo: la ricerca di anna è, se ho ben capito, andare a ricercare quando questa
cosa si riverbera nella scrittura.
In questi mesi ho avuto una lunga consuetudine, per il saggio che sto scrivendo, con editor di tipo
classico, gente che lavora per einaudi o per rizzoli. Mi sono reso conto che il lavoro che ad esempio
ho fatto io con erica non era editing. A Erica non interessavano certe cose della scrittura né cercava
altre.
Provo a chiarire io ho scritto un raccontone lungo lungo e l'ho mandato all'editor del mio saggio, le ho
detto senti un po' guarda sta cosa e dimmi cosa ne pensi. Lei l'ha letto e mi ha detto: bellissimo, ma
qui il lettore si aspetterebbe questo, qui dovresti mettere così etc etc etc...Aveva ragione? Sì. A lei
interessava cosa sentiva il lettore nel leggere il mio testo. Ad erica interessava, secondo me, che
uscisse sulla pagina una certa attitudine, un certo modo di essere della storia stessa. Per questo
dovreste trovare un termine diverso da "editing" qualcosa di più stringente.
Ed è forse per questo motivo che io non scriverò mai più nulla di simile a Il pasto grigio.
Perché non tornerò più in quella disposizione d'animo; è un po' come è successo per il calciobalilla.
C'è stato un momento che facevo i tornei e li vincevo; poi più niente.
Avevo il talento e l'ho perduto.
(scusate la sfiancante lunghezza)
ottobre 17, 2006 at 03:29PM | demetrio
(posso certificare che la lettera era esattamente questa)
ottobre 17, 2006 at 04:01PM | untitled io
odio quando mi costringi a fare l'outing...
d.
ottobre 17, 2006 at 04:10PM | demetrio
volevo dire che ho postato una versione riveduta e corretta sul mio blog
d.
ottobre 17, 2006 at 05:52PM | demetrio
quest'ultima cosa che hai scritto, demetrio, è una delle più belle che ho letto di te.
se hai dovuto scrivere mille cose, poi un blog, poi un romanzo, pubblicarlo, poi 'perdere' il talento
per scrivere oggi questo e così, bèh _fa la pecora_, e per quel niente che vale il mio punto di vista_
ne è valsa la pena.
è una cosa dolce e pubblicamente intima, è un pezzo dello svolgimento del tema "diario intimopubblico".
sei uscito, credo, da una scatola. e, certo, non ci puoi più tornare.
è una scatola d'identità, e questo è l'interstizio vuoto nei pezzi che compongono la matrioska.
e mi piace molto anche il ricordo del ragazzino che sei stato e del calciobalilla.
perchè, in definitiva, il talento è, per me, come la felicità inconsapevole ma assai intensa e totale
che sanno provare, nell'attimo, i bambini quando fanno quel che fanno. il totale assorbimento,
l'assoluta presenza, senza passato nè futuro.
ché loro lo sanno che domani saranno altro. noi lo abbiamo dimenticato e dobbiamo ricordarlo.
qualcuno, poi per grazia, non dimentica mai.
questo post e il successivo e i commenti e tutto il resto e il tema proprio, quello del diario-pubblico,
mi assediano non poco in questi giorni, come un profumo persistentissimo. anche di notte, in verità,
chè chi mi sa sa quanto per me sia sottile il velo tra una parte e l'altra.
perchè, temerariamente, sì, anna mette al centro della riflessione il centro della questione ,almeno
per me, un tormentone che ho in mente quasi tutti i giorni da circa tre mesi da quando l'ho aperto
anch'io un blog, e che riguarda il senso di questo.
mi vengono in mente trecentomila cose e nessi,pure tra le cose, e letture ma anche fatti che si
portano su come ami pezzi di me, di quello che sono, che non sono, che voglio e che non voglio, _e
niente di questo so_ graffiandomi a destra e a manca.
mi girano per la testa come mosche fastidiose post su post che non scrivo o mille commenti, e
neppure quelli scrivo, fatta eccezione di questo perchè demetrio mi ha proprio tirato come quando ti
si lancia la palla e un impulso fisico ti muove.
le mosche sulle grigliate di carne non sono un bel vedere e bisogna farci attezione sventolando.
ecco. io, a parte questo momento di distrazione, sto sventolando perchè le mosche non si posino
dove non devono.
poi, ieri, andando al mercato in una giornata calda e di sole e vociante assai che faceva tornare gioia
d'essere, di respirare e muoversi _pur con le mosche fastidiose in testa_ ho sentito quanto il talento
sia legato per me al verbo 'osare'.
'osare' esistenzialmente, intendo.
e che il mio periodo di prova del blog _chè tre mesi sono un buon tempo per sapere qualcosa di più_
poteva chiudersi con una e-mail diciamo ad esempio a manginobrioches che m'è parso di capire abiti
un certo meridione anche se non so quale e chiederle: cosa fai domenica, ci incontriamo?
sì perchè, devo dirlo francamente: io, la dimensione 'televisata', non la reggo.
ottobre 17, 2006 at 09:03PM | solotu
Si parla della "lettera di demetrio", oltre che nel suo blog, nei commenti al post successivo (carne-acuocere-2).
Che disordine infinito, il solito disordine.
Mi accorgo che qui dentro, spesso mi succede di far fare una fatica maledetta, a tutti: guarda lì, poi
vai là, poi torna qui. E che idea spezzettare tutto in molti post.
Non è tanto che ragionare per cunicoli mi diverta. Mi accorgo che tutto questo è violentemente
centrifugo.
Me lo dicono sempre: in rete non si fanno cose così centrifughe (il peggio è che a me sembrano
centripete, anche!) - allora uso pochi link, preferisco usare le parole e le mani, dire vai di qua poi
giri a destra, sali le scale...
comunque questa è molto poco una situazione "televisata", sarà questo il problema.
ottobre 18, 2006 at 06:57PM | untitled io
Interventi in altri blog
postato da tez nel suo blog the wreck, domenica 15 ottobre 2006 alle 20,34:
Talenti
Stanotte ho fatto un sogno, credo, oppure devo aver immaginato, con uno degli angoli della mente
dei quali non ho il controllo, qualcosa che aveva a che fare con libri, i calcinacci e salsedine, libri
con la copertina piegata in su come un ricciolo vezzoso, al mare, oppure, non lo so. Adesso che
ricordo, mentre scrivo cerco di ricordare meglio, non si trattava di un sogno (o giù di lì) che parlasse
di libri, oppure c'entravano ma come ingrediente. Il punto centrale era che avevo scritto un post in
cui ci fosse questa unione tra libri e calcinacci, intonaco che cade, un post che effettivamente non
ho scritto e che al risveglio si è polverizzato come un mandala.
Tutto nasce, credo, dal fatto che untitled ha parlato del mio blog, non di me. Non ha cercato di
descrivere un personaggio quale io potrei essere - qualsiasi descrizione di persone ne fa personaggi ma ha indicato quello che a tutta prima viene chiamato prodotto, tecnica, arte. In genere pensiamo
che c'è qualcuno, che viene prima, che produce qualcosa che viene dopo. Credo di aver capito che lei
non ama un ordine gerarchico di questo tipo, ma ama la scrittura che si mostri priva di tassonomie
del tipo scritta da x, che ha la storia y, e dunque ne esce un quadro che è già vittima, da subito, di
preconcetti di tipo psicologico, sociologico, critico letterario (ah, ha scritto così per questo questo e
questo). C'è, o ci dovrebbe essere, anche una scrittura nuda, come venisse direttamente da Marte.
Scrissi un po' di tempo fa, che da ragazzino prendevo libri di cui non conoscevo l'autore, né
m'importava, e li leggevo, così, scrittura nuda, che esplodeva o comunque si espandeva senza troppi
laccioli. Anche adesso ho questo vizio, di ricordare solo la scrittura, ma ho imparato a emendarlo,
perché se scrivo un post divento impreciso, vago. Tra l'altro, la scrittura da blog mi ha insegnato una
sorta di disciplina, che sarebbe anche quella di rispettare l'autore. Ma fondamentalmente dell'autore
ho poca cura. Ho finito di leggere, di Saramago, Saggio sulla lucidità, e di lui non so nulla di
sostanziale, ma non m'importa, poi posso venirne a sapere tante cose, alcune delle quali potrebbero
persino rovinarmi la lettura.
Stasera, che sono fuori per lavoro, vado a una cena dentro un ristorante enorme. C'è un complesso
che suona, due cantanti, poi persone che lavorano nel mondo dello spettacolo, quasi famosi,
intervengono esibendo le loro doti. Cosa vuol dire essere quasi-famoso? Ne parliamo a tavola mentre
uno di questi quasi-famosi canta e ha una bella voce, poi sale sul palco un altro che canta in modo
più roboante, più fastidioso, sgraziato, ma si muove meglio. Constatiamo che i musicisti sono bravi,
hanno studiato, e anche i quasi-famosi sono bravi, magari hanno studiato tanto anche loro,
concediamoglielo, hanno speso anni a sputare sangue, e poi arriva un complesso, che tecnicamente
sa fare le cose la metà di loro, magari un decimo, e diventa famoso, fa accendere le fiammelle ai
concerti, arriva uno qualsiasi dal niente e buca lo schermo e va in prima serata. Un po' come le
donne, alcune sono bellissime ma non dicono tanto quanto altre così così ch e faresti follie per
conoscerle perché hanno una luce, qualcosa, un che di ineffabile, un richiamo pur senza avere curve
mozzafiato.
Davanti a me siede una ragazza che avrà vent'anni, è molto bella, ma non è appariscente, sa d' essere
attraente e ancora non sa gestire questo vantaggio (mi direte, come fai a dirlo, e rispondo, ho visto
un sacco di cose nella mia vita, un sacco di volti, di donne, ho imparato a guardarle, le conosco in un
certo senso) la guardo per capirne il volto, o per carpirlo, mettere una didascalia simbolica sotto, ma
appena volto lo sguardo me ne dimentico e riprendo a parlare del fatto che alcuni complessi suonano
da cani e hanno successo. Mi chiedo "come potrei innamorarmi di una così?". So che ora non sarebbe
possibile, non saprei cosa dirle, lei non avrebbe nulla da dirmi. Innamorarmi significherebbe fissarla
tutta la sera e struggermi dal desiderio di conoscerla, il cuore che evade e si posa sul suo piatto,
palpitante, e lei può disporne come vuole, può uccidermi o salvarmi e dipende solo da lei. Ecco, mi
dico, questa è un'azione stolta e vana e assolutamente necessaria (direi meravigliosa e meravigliante)
che avrei compiuto a vent'anni. Che ho compiuto a vent'anni. Sarei stato male per una così, avrei
sofferto fisicamente. Questa constatazione mi ha fatto tornare in mente Murakami, che in Dance,
dance, dance fa sì che il 34enne protagonista dica alla giovane Yuki, se avessi quindici anni mi
innamorerei di te. Non dice: ora non potrei, ora non posso, ora non mi innamoro di te, ma sceglie
una forma indiretta. Forse pensa di farle un complimento, io invece non lo direi mai. Mettiamo che
avessi la possibilità di parlare alla ragazza che ho di fronte, che lei capisca la forma quasi tragica che
assumono le parole, non le direi mai se avessi vent'anni mi innamorerei di te, perché la considererei
un' indelicatezza. Non mi piacerebbe. Le direi ora non posso innamorarmi di te. Forse sarebbe
peggio, forse sarebbe meglio. Glielo direi, no, non credo, cosa sarebbe, una forma di difesa? In
effetti non ho capito perché il protagonista del libro dica una cosa del genere. Non c'entra niente.
Qui mi si presenta davanti il discorso sul talento, che untitled affresca, ed è così, qualcuno che fa
arte e conosce poco, sa poco, ma fa arte e chi ha studiato da matti guarda e dice. Non so, non
capisco. Il talento è quando uno non dovrebbe saper fare le cose e invece le fa, e le fa in un modo
speciale. Poi studia, si migliora, Kant ci teneva a questa cosa della cura del talento, ma all'inizio è
così, non si sanno le cose ma si riesce a farle in un modo speciale..
CARNE A CUOCERE (2)
postato da untitled io nel suo blog diario di untitled io, martedì 17 ottobre 2006 alle 11,09:
DIARIO INTIMO-PUBBLICO (prova di svolgimento)
Vabbè svolgimento. Mica siamo a scuola. In effetti non mi ricordo neanche più, cos’è uno svolgimento
- ma se fosse una matassa, dopo aver sbrogliato la parte iniziale, diciamo che puoi iniziare a
srotolare.
Ma c’è un imbroglio ancora: l‘imbroglio più sottile e più fitto, e cioè che mi pare di star parlando di
un fantasma, di una cosa che c’era, che sembrava ci fosse ma in effetti, se nessuno la vede, può
benissimo darsi che non ce l’abbia fatta, a esistere davvero – o almeno: che non ce l’abbia fatta a
diffondersi così capillarmente, così profondamente nei modi di parlare e di parlarsi, nel comune
sentire.
Intimo-pubblico: è una possibilità. Chi ci crede, chi l’ha sempre frequentato questo spazio, sa del
comfort che tale spazio può offrire: insomma ci si sta comodi, si acquista una bella voce per parlare,
si può dire di tutto senza troppa …paura? No che c’entra: ostacolo principale, motore anzi rotore, di
parole e mutismi, nel diario intimo-pubblico, è appunto la paura. Ma paura di che?
Ti spiego. Se inizi a far confusione, fra un’opinione e un atto di parola, passa poco e ti accorgi di
ridurre te stesso, le parole che dici, in forma di opinione e ti domandi, giustamente: perché? Ah beh:
perché l’ambiente è sportivo. Tu dici come la pensi, e io da parte mia mi oppongo o ti lancio un assist
col come la penso io – nel caso si fa una gara si fa un torneo, e poi qualcuno vince qualcuno arriva
secondo, qualcuno viene espulso, e poi ne facciamo un’altra.
Ieri mi sono data una scorsa al nuovo blog di Inedita, Piublog. Fino a quando non mi sono imbattuta
nell’intervista. Una piccola intervista, inutile e brillante come tante, una cosa leggera, seguita da
commenti, leggeri naturalmente, gentili che ci costa, fino a che…
Fino a che arriva uno, che dice non ci sto per me è uno schifo. Apriti cielo si addensano gli interventi
le posizioni, e i dimmi perché e percome, e che cosa intendevi.
Il ragazzo lo dice, che cos’è che intendeva, com’è che si è sentito, lo dice due o tre volte, e non è
un’opinione è un’altra cosa. Tanto che è un’altra cosa che il ragazzo, per sottrarsi io credo, a questo
incrociare spade d’opinione, si rifugia nel diario, nello spazio intimo-pubblico della sua abitazione
con veranda su strada, e continua a parlare: non s’incazza, né sostiene opinioni, esattamente fa il
ragazzo in pigiama e svegliato storto, che nell’intimo della sua abitazione si prepara un caffè, e non
si sente obbligato a vestirsi: parla solo, ad alta voce, e con la finestra aperta. Qualcuno dalla strada
si affaccia in casa sua, volentieri il ragazzo gli si rivolge, continuando a parlare, non gli chiede che
pensi tu, se ne fotte per meglio dire, in qualche modo, dell’opinione di chi si affaccia, ugualmente
gli piace che la sua voce si sia sentita, si senta e allora no, non si vergogna per niente (di fatto si sta
dando del cretino da solo), purché non lo si spinga ad argomentare più di quanto abbia voglia, non
voglio argomentare dice lui che facciamo, a che gioco giochiamo che non volevo giocare, non siamo
in un talk-show volevo solo parlare - e siamo a casa mia, vi ricordo.
Se davvero era una partita allora è un fallo da ammonizione. L’ammonizione arriva, lui si aggiusta il
pigiama e guarda storto anche l’arbitro, rischiando l’espulsione diremmo noi ma invece no ha ragione
lui: non è partita questa, è spazio di parlare – espulso? chissenefrega.
Ti aspettavi che parlassi del diario che mi ricordo di mio nonno, del diario dei tempi andati e
dell’amore che m’ha mollato? E come mai? No perché qui parliamo del diario intimo-pubblico non di
quello che tenevamo a quindici anni nel cassetto, vale a dire: parliamo del parlare, del parlare a
finestra aperta su strada, e del parlare infine e sempre per iscritto, scrivere con la voce sapendo che
la tua voce viene sempre da qualcuno ascoltata, far teatro con la tua voce provocare, provocarsi da
sé.
No non parlo dell’espressione del sentimento, neppure del racconto: sto parlando dell’esserci e
siccome ci si sta, di mettersi fin da subito affilando ammorbidendo la voce, nudamente (o anche
molto vestitamente, a seconda dell’attitudine) a parlare.
Sto parlando da qui, da casa mia. Non ci metterei nulla, a esprimere un’opinione su quanto letto,
ma invece mi ci sono semplicemente incantata, vedi mi sono detta, che differenza passa, fra armarsi
di un’opinione e scrivere ad alta voce? Posso dirti che mi è piaciuto questo ragazzo, e per giunta che
non ho la necessità di guardarlo in faccia, più di quanto già non lo veda appena sveglio, nel suo
pigiama, davanti alla finestra di casa sua, che s’incazza. E questo è un caso limite, situato sul
confine fra il confidare e la discussione, o il talk show. Il fatto è che i talk show, chiamiamoli talk
towers, stanno aumentando di numero, e le case con finestra stanno diminuendo a vista d’occhio,
per questioni di tempo si dice spesso, per economizzare sui tempi far convergere le esigue risorse
d’attenzione del chiunque passante, questioni di decoro perfino aggiungerei, questioni dell’agorà che
volevate e ve la diamo – ma chi aveva mai parlato, di agorà?
Perché non è di un’agorà che si tratta. Ci ho pensato e ripensato, quando ho letto il libretto di
Granieri, all’agorà. Ho pensato che a vederlo dall’alto, questo gran formicaio, come a guardare
dall’alto le città, ti viene di individuare le piazze – però sai che le piazze non sono le persone e tu
vorresti, dall’alto, vedere le persone a una a una… Si può!, t’è venuto in mente all’improvviso, la
prima volta che hai messo lingua nel web. La prima volta che hai messo lingua nel web, è stato
soltanto dire: sono qui, so parlare, anzi sono un discorso. Poi subito, tu discorso, tu log, ti sei
guardato allo specchio e ti sei chiesto: che tipo particolare di discorso? E il ragazzo ripete – due,
anzi, quattro volte - nel pieno della sua incazzatura, la parola: talento. Talento?? Non volevi,
solamente, discutere o raccontare? e che caspita c’entra adesso, il talento con questa storia? di’,
ragazzo, a che gioco stai giocando? talento che ti permetta di fare cosa?
Di scrivere dei libri, piuttosto ingenuamente ti risponde: di scrivere racconti, rilegarli, portarli a
vedere in giro, raccomandarli in giro. Poi lui stesso si pente, e dice: sai che c’è? c’è che non me ne
frega niente qua non vedo nessuno che gli possa importare di me e dei miei racconti, quindi al
diavolo tutti quanti, male che deve andare scriverò tutta la vita nel blog. Dentro di me a quel punto
mando al diavolo pure lui: come male che deve andare? il talento ti serve per alzarti e parlare in
pubblico come hai fatto qui ora, altro che a rilegare e trasportare e andare a cena con questo e
quello – per ottenere che cosa, a fronte di questo lusso che ti ritrovi? Io ti ho udito e ti ho visto, non
voglio la tua raccolta di racconti.
Ma sì che lo sapevo: tiri in ballo il talento, e sei già su una lastra saponata.
Stop un attimo con la storia del ragazzo e dei racconti e del talento. Ci sta in Giappone un certo tipo
di motel – i Bagus Gran Cyber Cafés - l’ho letto in un articolo su D qualche mese fa.
Potrebbero sembrare normali spazi per navigare su internet ma se li si guarda più da vicino,
attraverso le caratteristiche luci soffuse, sono molto diversi. Quelle che di giorno sembrano
anonime sale di consultazione di biblioteche universitarie, di notte assumono un aspetto più
visionario e incarnano la realizzazione architettonica della vita privata e sociale del futuro. "I
giapponesi amano gli spazi di confine e le zone grigie", spiega Con Isshow, uno scrittore che ha
pubblicato numerosi articoli sulla cultura giovanile. "Grazie all'anonimato e ai giochi di ruolo offerti
dai Gran Cyber Cafés, non è necessario comportarsi secondo rigide norme sociali", precisa. "La tua
identità può mutare continuamente. Non vai in questi posti per presentarti, quanto piuttosto per
perderti. Perdere il tuo nome, perdere la tua posizione sociale, il tuo orgoglio".
E vabbè. Segue descrizione dettagliata di questi posti e di ogni tipo di gadget. Poi però:
Hidenori Kimura, un sociologo che pubblica articoli sugli incontri tra culture diverse, ritiene che il
Gran Cyber Cafés soddisfi un desiderio culturale forte e profondo. Il competitivo sistema giapponese
nell'ambito dell'istruzione, della carriera e del prestigio sociale, spiega il dottor Kimura, costringe i
giovani a provare una sorta di ossessione nei confronti dell'auto-presentazione, che li priva sia della
fantasia che dell'anonimato, due classici privilegi dell'infanzia. Ai suoi occhi, i giovani giapponesi
vogliono avere la possibilità di liberarsi del proprio status sociale. "Secondo la nostra tradizione",
spiega, "la cerimonia del tè e le feste avevano la funzione di privare gli individui del proprio status
sociale e di aiutarli a diventare "nessuno". Le cerimonie del tè privavano l'élite feudale del proprio
status e trasformavano tutti in persone qualunque, pronte ad assaporare una tazza di tè, mentre le
feste di paese offrivano ai contadini una sorta di enclave anarchica, durante la quale era possibile
liberarsi delle norme e delle regole imposte dal regime feudale". I Gran Cyber Cafés svolgono oggi la
stessa funzione, sostiene Kimura. "A nessuno importa quello che fai, e questo permette di
immergersi completamente nelle proprie fantasie, dedicandosi alla navigazione in internet, a un
particolare videogioco o alla lettura dei manga. In ogni caso viene soddisfatto il nostro timido
desiderio di appartenenza. Frequentare i Gran Cyber Cafés", conclude, "rientra nello jibun-sagashi,
la ricerca del vero io". (…)
Virginia Hefferman © New York Times.
In realtà in questo articolo si parlava di web, di manga, di giochi di ruolo, di infomania e
infotainment, insomma di un sacco di faccende che per ora non m’interessano più di tanto – mi
interessava il signor Kimura, però. Mi piaceva questa storia dello jibun-sagashi. Quando ho letto
quest’articolo mi sono sentita catapultata in un mondo sconosciuto, accidenti però, mi sono detta
all’improvviso, credo proprio di stare in internet più tempo di loro al giorno.
Più tempo di una teenager giapponese ossessiva? più tempo del ragazzino giapponese con i capelli
fucsia che paga per entare nel cubicolo a luci soffuse dotato di connessione iperveloce? io untitled,
47 anni, che uso parole come peraltro e nondimeno? che uso la rete per ficcarci dentro parole come
peraltro e nondimeno?
Certo, e non solo io. Che sarebbe da andarglielo a raccontare al signor Kimura. Che una Capsicum,
con la sua borsa da medico e il suo camice e la sua busta della spesa, sta più in rete del ragazzino di
Tokyo con i capelli fucsia, perché mentre lui smanetta lei trasporta se stessa e quel che fa nel suo
blog, e scrive per noi un libro di quella stessa sostanza, e questo libro va a finire nelle mani di
professori e studenti di medicina, mentre il blog lei non lo lascia sia ben chiaro, lo tiene lo accudisce,
lo usa anzi lo fa…
Scherzavo, non c’è niente da andare a raccontare al signor Kimura. Che poi mi piacerebbe conoscerlo
e parlargli, ci mancherebbe. Volevo solo dire che, da un certo punto di vista, si è capito benissimo
anche qui come funzionava, direi abbastanza al volo – noi dico che a fatica rientreremmo in qualcosa
come culture giovanili. Fin da subito s’è capito che cosa c’era da prendere, e pure cosa in cambio
dovevi o potevi dare. Faccio parte di quel gruppo di persone (non dico del primissimo web, ma del
secondo senz’altro, di quando il ragazzino color fucsia avrà avuto otto anni) che ancor prima di
capire com’è che funzionava ci si è buttato in mezzo, ma faccio ancora parte come ho detto, di
quella generazione che tiene nella testa una bilancia col prendere da una parte e con l’offrire
dall’altra – non quelli, per intenderci, che si chiamano utenti. Ne ho conosciuti tanti di non utenti.
In tanti si cercava un laboratorio, in tanti lo si è trovato. A questo punto saremmo giunti al signora
mia non son più i tempi di una volta ner web. È da mesi, in effetti, che le conversazioni muoiono a
questo punto. Sta di fatto che tutti lugubri a questo punto, ci ritiriamo a turno, dalla mezza giornata
alla settimana filata, per poi un giorno sbottare e dire no, checcazzo tengo un blog, voglio parlare e
parlo, e adesso faccio un post. E da quel punto in poi si ricomincia a lavorare. Per portare se stessi in
veranda, con tutta la fatica l’attenzione che ci vuole, a trasportare un corpo dal privato di un letto
al pubblico di un balcone dove passando ti vedono, pure se stai in pigiama, e possono ascoltarti
quando parli, sia pure con la voce impastata dal sonno o dalle rabbie - e pure quella voce, te la devi
tarare. Tutta la cura che ci avresti messo, solo dieci anni fa, a scrivere un racconto, o un “pezzo”
come dicono alcuni, adesso ce la metti nel tragitto casa-blog, intimo-fuori, per trasportarti in
pubblico. Forse come Capote si trasportava alle feste, con la sua lunga sciarpa ciclamino – come una
sciarpa scritta, scrittura sciarpizzata da imprimersi nella retina di chi guarda veloce. Con le sue mani
in vista o non in vista, a seconda di chi guarda, come ci mostra Hoffman, come mi dice llu o le dico
io:
- Sì le mani possono dire il talento di esserci
- Quelle della foto di chi sono?
- Sono dell'attore che ha fatto Capote, nel manifesto del film e sulla copertina della biografia di
Clarke
- Sono strane. come gonfiate. come di un morto. Come il sorriso della gioconda
- Secondo me, uno in rete si presenta con un "io so fare questo”. Comunque è vero. E'
impressionante. Sembra che possano dirlo solo ad ALCUNI
- Vado a lasciarti quella cosa della woolf. Ti dicevo prima che freud, analizzando da vinci, scrisse
che gli angeli hanno il sorriso degli idioti
- Sì
- Il sorriso di quelli che hanno conosciuto tutto l'amore, non vogliono più sapere niente
- Quelle mani,. come quel sorriso, sono uno schiaffo a chi non può vederle. Un conforto per chi le
vede. E una dimenticanza per chi le ha :)
- Bene, ho già messo la cosa di woolf. Più di cuocere che così non mi occorre
L’ha messa (nei commenti alla sessione precedente di appunti, carne a cuocere 1). Sono andata a
risfogliare (dal momento che quella cosa di woolf tira in ballo la Mansfield, cioè la “rivale in meno”
della Woolf) le pagine segnate con le orecchie del Diario della Mansfield – perché è un diario
ovviamente, pieno di nudità di cattiverie, e anche naturalmente folgorazioni, di natura privata. Un
diario che però, la Mansfield gioca spesso a immaginarsi pubblico (come molti scrittori d’altra parte),
e c’è un punto in cui questa immaginazione viene fuori in un modo un po’ buffo, che pure forse parla
della paura (mista a una certa forma di eccitazione e apportatrice di movimento o di cambiamento)
di cui parlavo prima. In fondo di cosa parla, la Mansfield? Parla del repentino sbriciolarsi di un
“lavoro privato letterario” (contrapposto in qualche modo a un ipotetico diario pubblico), in favore
dell’atto di predisporsi – teatrale, recitante, fatto forse della stessa sostanza del lavoro di scrittura o
di lettura cui prima stava attendendo, che a un tratto diventa assai meno importante – verso un
qualsiasi visitatore imminente. E mi pare che la frattura fra vita e letteratura (o forse: fra vitale e
letterario), di cui parla omniaficta (sempre in uno dei commenti al post di prima) sia mostrata qui in
modo molto dolce, e schietto:
10 febbraio. Non sono andata in clinica, a causa del raffreddore. Ho trascorso la giornata a letto,
leggendo i giornali. La sensazione che qualcuno debba venire a trovarmi è troppo forte, perché io
possa mettermi a lavorare. È la medesima sensazione che si prova quando, seduti su una panchina,
all’estremità di un lungo viale in un parco, si vede qualcuno in lontananza dirigersi verso di noi. Si
cerca di leggere: si tiene il libro aperto fra le mani, ma soltanto per darsi un contegno, ché il libro
potrebbe benissimo essere capovolto. Si leggono degli annunzi, come se fossero articoli.
Questo ha poco a che fare col teatro. Un letto, una panchina, una signora predisposta - per citare il
mio aiutante metrapansèr: e loise de neval, e la part du fafì, e no ma de la val. Perché adesso, in
assenza di testo, ci rimane il pre-testo. Una luce.
- Come si chiama lei?
- Katherine Mansfield.
(segue terza puntata, o terza caldeirada)
Riferimenti:
Notte manga al cyber cubo
il “ragazzo in pigiama” sulla veranda di casa sua
Reader Comments (36)
Mi piacerebbe cominciare da due ballerini di tango in pista, una figura ormai talmente riprodotta, da
essere familiare a tutti credo, come modello di fluidità ed eleganza all'interno di una scenografia di
passione. Così che sia facile visualizzare il talento dei due artisti, anche senza averli sotto gli occhi.
In quel momento i due si trovano sotto la guida della musica, che alle loro orecchie è, nel momento
in cui la esprimono ballando, costrizione, di ritmo, di tempo, di pausa. Si trovano anche sotto la
sintassi della tradizione del tango, che per i loro corpi è, nel momento che la attualizzano ballando,
costrizione, di passi, di movimenti, di figure.
Il talento sta, nella sua espressione più pura, nel passaggio segreto che collega le costrizioni a cui
s'assoggettano, alla capacità di significare eleganza e fluidità per chi li guarda.
Ci sono altri ballerini bravissimi, nei quali vedo l'esecuzione perfetta del movimento e mi esalto, ma
non vedo necessariamente quella facilità, quella naturalezza d'assoggettarsi a costrizioni scomode,
che chiamo il talento.
Quando guardo un ciclista di talento, io non m'accorgo che pedalare in quella posizione è scomodo, e
se lo so già, lo dimentico. E' il suo talento a farmi dimenticare.
La leggenda del talento di Truman Capote, lascia dimenticare facilmente che In Cold Blood è uno
degli attacchi più spietati che siano stati fatti al sistema della condanna a morte, quanto inefficace.
Spietato perché portato dall'interno del sistema, cioè dal cuore di un condannato che più colpevole
non si può, colpevole oltretutto di fatuità della strage che compie.
Come è chiaramente esposto nella prima parte del libro.
C'è poi tutto il resto del libro, nel quale pagina dopo pagina ci si dimentica del crimine, avendo sotto
gli occhi un uomo. Un uomo guardato in ogni suo aspetto, con una ricerca che inaugurava - che io
sappia - lo stile della nonfiction, e guardato anche dalla prospettiva, allora certamente inesistente,
della responsabilità sociale della sua colpa, che poi diventerà un tema anche troppo attuale una
ventina d'anni più tardi.
La forza della visione poggia sull'osservazione dei fatti e dei contesti, sulla ricerca sul campo,
sull'intervista a tutti quelli che abbiano avuto qualche tipo di relazione con gli omicidi, ma la
leggenda del talento di Truman Capote lascia dimenticare facilmente che quella ricerca la svolse alla
fine degli anni '50, nel midwest degli usa, un omosessuale abbastanza conclamato e, se non fosse
sufficiente in una società che ancora oggi ha grandi resistenze ad accettare i gay come essere umani,
un omosessuale con quella voce, perché quella di Hoffmann che recita, è molto molto simile alla
vera voce di Capote...
M'interessa, credo che sia evidente dalle mie parole, il tuo tentativo di definire il talento nella
relazione tra il singolo e il gruppo.
C'è poi un altro asse, mi pare, che riguarda la distinzione fra parlare e proporre un'opinione, tra
esporsi e proporsi, tra esprimersi e opporsi.
Al quale mi riferirei mettendo in campo, ma non ti preoccupare, non adesso, la differenza tra
esprimersi nella scrittura e nella scrittura crearsi.
Il primo in ultima analisi un discorso di rappresentazione, il secondo d'invenzione.
Una differenza che secondo me ci aiuta a comprendere il comportamento poco dialettico, che hai
tratteggiato così efficacemente, del tizio che lascia il salone dove le persone di buona volontà
argomentano, per affacciarsi in pigiama da casa sua e dire quello che gli preme.
Non quello che gli pare, quello che gli preme.
E forse di comprendere anche un po' meglio Capote, che giustamente disse che in fondo la storia del
suo condannato a morte dai tanti talenti espressivi, era la sua propria storia, soltanto con un finale
diverso.
ottobre 17, 2006 at 05:36PM | palmasco
io mi ricordo un natale vecchissimo. una notte che denait venne a prendere panna che era un poco
ciucca. nei tempi di maudi e derrida. qua diluviava tale quale oggi. l'amore nei tempi della pioggia
sembrava. lo dicco un po come questo incontro che hai fatto tra talento e carne a cucire nel tavolo
di operazioni
ottobre 18, 2006 at 09:50AM | llu
Non so: abbiamo messo questo santino di capote a capotavola, ed è improvvisamente una strana
conversazione: ogni tanto lo guardo, ma non è una conferenza o un dibattito su di lui evidentemente.
Teniamolo così. Tu per esempio dici crearsi, io dico esserci, anche se non penso a nessun tipo di
presenzialismo, piuttosto a un ingombro. Occupare uno spazio precisato, rendersi evidenti, da un
certo punto di vista ingombranti. Poco eludibili. Farlo a partire dalla propria intimità, o meglio non
aver paura di costruire un discorso pubblico anche su elementi che hanno a che fare con la propria
intimità. Perché in fondo, quello che "preme" dire (non quello che si può o che si deve) è sempre in
relazione all'intimità. Lo percepisci, in un discorso, l'elemento intimo. Io personalmente ne sono
attratta.
ottobre 18, 2006 at 09:54AM | untitled io
devo spiegarla, la faccenda della rosa ubriaca? è una vecchia storia intima-pubblica.... PERO' non
avrei nessuna difficoltà a spiegarla, llu palmasco, se me lo permettete. Altrimenti non importa, ma
nessuno capirà nulla qui :)
ottobre 18, 2006 at 09:58AM | untitled io
(( si che adesso nel mezzo sembro una sicogenesi freudiana))
scapo al lavoro
:)
ottobre 18, 2006 at 09:58AM | llu
no, non spiegarla. anche cancellala meglio. fu un impulso. ho fatto un mucchio di note su questo
post. non bene trovo un po di tempo, le metto
ottobre 18, 2006 at 10:07AM | llu
Llu si riferiva a un piccolo avvenimento nel web. Io entrai nel web per tentare un altro modo di
scrivere. Forse per giocare. Un po' meno per incontrare persone (ero impaurita, come tutti all'inizio
credo). Trovai un piccolo ambiente che mi piaceva molto, al centro c'era una persona (gino tasca,
molti dei lettori di questo blog l'hanno conosciuto, è morto l'anno scorso) che si occupava di
traduzioni dei sonetti di shakespeare. Io mi affezionai sia alla persona, sia all'aria che tirava lì
dentro, sia ai sonetti di shakespeare. Facevo parte della "congrega delle traduttrici strafatte", come
ci chiamava affettuosamente gino (non so perché usando il femminile per tutti) - le mie traduzioni,
in effetti, più che eretiche erano inaudite. Tutti presi da quella strana attività, di tipo letterario ma
molto poco accademico, e in un'atmosfera di grande libertà ma in un certo senso anche di disciplina
(ci metto in mezzo anche la metrica, la "lettera") avevo si può dire trovato un meraviglioso posto per
STARE, per lavorare, per iniziare timidamente, forse anche, a provocare. Ma la sera di un sabato (il
nuovo sonetto da tradurre arrivava il sabato mattina) mi presentai lì dentro completamente ubriaca.
Completamente. Il sonetto era il numero 54:
O, how much more doth beauty beauteous seem
By that sweet ornament which truth doth give!
The rose looks fair, but fairer we it deem
For that sweet odour which doth in it live....
Io mi presentai completamente, "fisicamente" ubriaca, come "una rosa spampanata impresentabile".
Mano a mano che mi passava la sbornia elaborai, anche, la mia traduzione del giorno, a partire da
quella rosa impresentabile gualcita che mi sentivo. Fu uno strano miscuglio di lavoro, senso del
dovere, senso di libertà, incoscienza completa. In quell'occasione palmasco (allora denait) mi fece
notare al volo (e in pubblico, come additandomi nuda) che uno scatto in avanti era avvenuto: da
scolaretta che ero, tutta contenta di mostrare una speie di suo opinabile talento, tutta COPERTA da
quell'essere scolaretta tutta contenta di far vetrina delle proprie presunte capacità, da ubriaca
diventavo (più semplicemente, più problematicamente) una persona che scrive nel web. Mostrando,
invece delle cose che in qualche modo sapevo fare, me stessa - o qualche parte consistente di me.
Mi ha fatto piacere raccontare questa storia e trovo che c'entri abbastanza, non vedo perché non
avrei dovuto, llu, visto che anche tu te la ricordavi benissimo quella sera di (mi pare) cinque anni fa.
Non posso neanche dire che mi dispiace di personalizzare un po' troppo, visto tutto quello che ho
detto fin qui. E non è un album dei ricordi che voglio fare, questo è certo.
ottobre 18, 2006 at 11:15AM | untitled io
La storia di Demetrio, che si viene a tuffare tra questi commenti, casca a pennello, non vi pare?
Ed io l'ho letta volentieri perché è appassionante.
Da quando ho scritto il mio libro ho perso il mio talento, dice.
Io che l'ho seguito in giro per la rete, prima della pubblicazione del suo libro e dopo, che l'ho visto
imbarcare la sua scrittura all'interno di alcuni dei blog noti nel circolo editorial/letterario, e
giustamente evidenziarlo sul suo blog, spero di non risultare cattivello se dico che la sua storia casca
a pennello.
Ecco uno, mi viene da pensare, che viene qui a capofitto a confermare l'idea del talento che ho
cercato di dare qui, come la capacità di scovare e mantenere senza sforzo apparente una posizione
scomoda.
M'inoltro, spero generosamente.
Da una parte la storia di Demetrio è quella tipica del genere romanzo di formazione, un archetipo
che prevede che a un certo punto della storia, l'eroe perda le sue armi i suoi poteri, e le peripezie
per ritrovarle - ed è dunque fisiologica di un passaggio di crescita.
Dall'altra spero di non suonare cattivello, se dico che nella scrittura del nostro eroe, dal libro in poi,
si sente un'avversione evidente verso la scomodità, nella forma specifica di un abbandono alla
leggerezza che non appartenendogli veramente, di carattere dico, da quanto si può giudicare da qui,
cioè leggendolo, suona appunto come fuga dalle scomodità. E' andato in giro e l'hanno trovato
giustamente bravo e bello, cioè anche attraente, lui s'è divertito molto, tanto che quando s'è trattato
di rimettersi nella posizione scomoda della bici da corsa, non ne aveva più tanta voglia. Capita
spesso, a tutti, ed è molto comprensibile, non sarò certo io a dare un tono critico a un fatto
naturale, ma:
non dice proprio questo, quando dice ho perso il mio talento?
Aggiungo, per chiarire meglio l'idea del talento di cui scrivo qui, che secondo me non succede di
rifiutarsi consapevolmente di assumere posizioni scomode, semplicemente non se ne vedono più
tutt'intorno, e magari sembra davvero che la vita si sia raddrizzata come per miracolo.
Penso anche, per esempio, al talento di Messner, che ha reinventato completamente l'alpinismo, cioè
il modo stesso di andare in montagna. Le idee che lui ha realizzato in Himalaya e nel mondo,
potevano venire soltanto ad uno capace di essere naturale in quelle posizioni estreme, e decisamente
scomode, è stato quello il suo talento. Non era mica soltanto un arrampicatore migliore degli altri, se
mai lo è stato.
A questi fatti si collega secondo me la seconda parte del tuo tema, unts, e cioè: davvero è andato a
cacciarsi nel tormento di quelle cime per ESPRIMERSI, cioè per rappresentare un suo io segreto o
nascosto, o larvale, oppure possiamo provare a pensare che l'abbia fatto per CREARE qualcosa, legato
a lui di certo, ma non necessariamente nel senso dell'appartenenza originaria.
Da una parte io rivelo qualcosa che esiste, come per esempio diceva di fare Michelangelo con le sue
statue, togliendo il marmo in eccesso, dall'altra invece io affianco qualcosa di nuovo alla natura
esistente, qualcosa che parla del rapporto che nei miei anni, con la natura ho avuto.
Da una parte, per dirla in modo diverso, negli anni il mio diario, con l'esperienza e l'apprendimento,
parlerà sempre meglio di me, mostrandomi finalmente agli altri per quello che sono; dall'altra, tanto
più negli anni e con l'esperienza imparerò a scrivere, tanto più esisterà qualcosa che parla, anche se
di me non si saprà mai molto di più di quello che s'ascolta - e non è importante che si sappia.
:-)
ottobre 18, 2006 at 05:09PM | palmasco
Bene adesso capisco decisamente meglio.
A me è piaciuta tanto la lettera di demetrio nei commenti al post di prima, gliel'ho detto.
Lui per tutta risposta, se l'è messa nel blog.
A me fa effetto lì, incorniciata lì, come un "pezzo" dei suoi - ma è un passo naturale nel suo modo di
muoversi, e poi davvero adesso, che importa dove l'ha messa, o come è venuta fuori e dov'è andata a
finire: importa che l'abbia scritta - se era, come lui dice, qualcosa che gli premeva.
Litigo molto con lui. Ma oggi invece di litigare, abbiamo parlato della
malinconia
ottobre 18, 2006 at 06:34PM | untitled io
provo a raccontare ancora.
sapete tutti, perché avete ascoltato, o meno, la storia degli u2.
Loro fanno un album bellissimo, secondo me e non solo, The jhousua tree.
Dopo fanno un doppio, una specie di live, che si intitola Ruttle and Hum.
Lo stile è quello, Ruttle and Hum, è pure più bello.
Sono comodi: potrebbero scrivere centinaia di canzoni così.
Ma poi stanno zitti 4 anni e tirano fuori Achtung Baby.
Fu un colpo. Per i fan. Per tutti. Inzialmente lo trovai anche io 'fuori tutto' scomodo. Però ora posso
dire che è il loro album più bello.
Cosa centra questo con le cose che dice palms.
Io nel mio piccolo ho scritto il mio 'the joshua tree' Il pasto grigio. E poi mi sono fatto il mio giro, il
mio tour, sono entrato in certi circuiti, diciamo così.
Il libro era attraente, io non ero male.
Insomma se devo dire quando qualcosa cambiò fu la vittoria al blog rodeo, il penultimo credo.
Li ho capito che ero nella situazione di Ruttle and hum.
Il problema è: io posso ritornare nella disposizione, o meglio nella posizione, in cui ero mentre
scrivevo Il pasto grigio?
Niente me lo vieta.
Io non lo voglio, perché anche quella, come scrivere cose che mi fanno vincere il blog rodeo, è una
posizione comoda.
Così ho scelto sinceramente di scrivere la mia achtung baby.
Ed è una trasformazione che un po' gira già in certi racconti nel blog (penso al Brutto poter ascoso) o
che saranno pubblicati su rivista (penso ad Appunti per una giovinezza). Ci sono, poi, altri due
progetti uno concretissimo e l'altro meno (è una ipotesi), che rappresentano quella che sarà la mia
posizione faticosa. Perché la dico così: io ci provo a fare lo scrittore.
giuro che non c'è nessuna superbia in questo.
non sto dicendo che sono un grande scrittore, ma ci provo a fare lo scrittore.
E' una situazione che crea imbarazzo, molte volte.
potevo fare in eterno quello de "il pasto grigio", quello che hai conosciuto tu palms, quello con cui
anna litigava meno.
Oppure potevo fare quello che scriveva su vibrisse e da altre parti.
fortunatamente tertium datur.
provo a fare lo scrittore, che è una cosa così imbarazzante come decidermi di sposarmi o di avere un
figlio, che provo vergogna a dirlo.
E' una cosa del genere: tanto sei convinto nel farlo quanto poco riesci a spiegarlo per bene agli altri.
non so se questo aggiunga o tolga niente alla mia, convinta, sensazione di aver perduto un certo tipo
di talento.
Tu, palms, hai raccontato dell'archetipo del romanzo di formazione: l'eroe si trova ad un certo punto
sprovvisto dei suoi 'poteri'. Potrebbe riprenderli oppure decidere di trovarsene altri, diversi forse
anche più deboli.
ecco. io ho fatto questa scelta qui.
d.
ottobre 18, 2006 at 07:27PM | demetrio
ps. (è lo so è che ci ho messo un po' al ps)
perché gli u2 spiazzarono tutti con Acthung Baby?
perchè noi li avevamo sempre visti come genuini 'rocker' e di colpo: vedevi Bono con il vestito di
pelle nera, gli occhiali scuri, scendere da un macchinone. Non erano loro, si dicevano, il successo gli
ha dato alla testa.
era un modo invece geniale di 'sabotare', Bono in una intervista disse: siccome sono una rock star, la
gente mi vuole isterico, ricco, menefreghista e io li accontento... e proprio la consapevolezza di
essere 'dentro' li ha portati a scrivere quelle canzoni lì.
Sono ben più miseri adesso, che invece invocando uno 'presunto ritorno alle origini' scrivono canzoni
'patetiche'.
d.
ottobre 19, 2006 at 08:57AM | demetrio
sì però, lo rivedi da ragazzino (l'ho rivisto l'altroieri un filmato), come una scimmia magra, elastico,
potente: proprio ti piomba addosso, ti seduce, coi capelli così, con quella voce netta da ragazzo
importante e tutta quella PRESENZA (poi io non sono "gente", non chiedevo, non avevo parlato
proprio).
Mi disturba, che si presuma di me, dei miei "ovvi" desideri. Non volevo una cristallizzazione, e poi gli
uomini cambiano, ma non le sopporto più, le "lucide riflessioni" sul mercato sullo starsystem. Voglio
dire: già allora non le sopportavo, figuriamoci ora che son passati quindici anni, o venti non mi
ricordo. C'è un fondo di disprezzo per il pubblico, quando decidi di smettere di sedurlo, "tanto non se
lo merita".
Voglio dire: quale pubblico poi? se solo si continuasse a pensare (come agli inizi) che il pubblico
davvero non lo conosci, forse sarebbe meglio.
ottobre 19, 2006 at 10:23AM | untitled io
anna perché 'disprezzo del pubblico'?
non mi sembra che in quello che dico io ci sia disprezzo per il pubblico o per il lettore. Uno può
dicidere di non sedurre più, perché questa cosa gli pesa intimamente. Lo affatica.
E' necessario disprezzare per smettere qualcosa?
Non è possibile che uno smetta qualcosa, diciamo il talento, perché questa cosa gli fa più male che
bene?
d.
ottobre 19, 2006 at 10:43AM | demetrio
"la gente mi vuole isterico, ricco, menefreghista e io li accontento" - ripeto: la gente chi?
ottobre 19, 2006 at 10:51AM | untitled io
lo diceva bono: immagino la gente che sentiva le sue canzoni. i suoi fans
d.
ottobre 19, 2006 at 10:59AM | demetrio
ma cosa significa, dire che il talento è la capacità di esserci, di perdurare in quelle che per altri sono
impossibilità?
Significa occupare uno spazio, occupare un tempo.
Il talento è qualcosa di fisico - intendo, qualcosa che ha coordinate, quasi un oggetto.
Se mai si potesse disporre di un'unità di misura adeguata, si arriverebbe anche a determinarme la
massa, il peso specifico, la carica elettrica.
Questo signifca che il talento è dare corpo al Qui e Adesso.
Altrimetni non lo saprei, il talento, non lo sperimenterei, al di fuori di queste coordinate.
Allora: Esserci, Qui e Adesso.
Ad esempio, io sono molto attratto (chi non lo è?) da quei personaggi di talento che si manifestano in
una circostanza ben precisa, e poi mai più.
Per restringere, ed è un peccato, il discorso alla scrittura, penso a un Salinger, che dice quello che
deve (che DEVE) dire, e poi scompare.
Non averebbe potuto scriverne altri, di libri?
Probabilmente sì.
Ma aveva realizzato l'Esserci, Qui e Adesso.
Ma non so: è del talento, che stiamo parlando qui?
ottobre 19, 2006 at 11:16AM | Effe
Salinger non ha scritto solo il Giovane Holden, ha scritto i "Nove racconti", "Franny e Zoey" e "Alzate
l'architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione". E ti posso dire che sono molto più belli del Giovane
Holden.
Questo per dire che non è vera, per quanto affascinante, è la tua posizione, effe.
quello che sembri descrivere tu effe, la capacità di stare in un determinato momento in un detto
luogo è qualcosa di più simile ad una sorta di 'abilità' televisiva. (non gli do una patina spregiativa,
dico che è un'altra cosa dal talento come inteso da anna e un'altra cosa ancora da come, credo, lo
intenda io).
io dico solo che Salinger poteva scrivere altri 40 anni il giovane holden, invece non l'ha fatto, e non è
vero che non ha scritto altro. Ha scritto altre tre libri, tutti divesi dal Giovane Holden, tutti e tre
bellissimi.
d.
ottobre 19, 2006 at 11:46AM | demetrio
No invece lo capisco abbastanza, quello che dice effe. Tu dici demetrio: abilità televisiva - di fatto io
penso a qualcosa di lontanissimo dall'abilità televisiva: penso al "saper stare al mondo" (come si dice
di una persona: sa stare al mondo). Penso alla capacità di afferrare, convogliare, dar voce, farsi
portare, distrarre anche. "Cogliere il punto" - o anche, in molte occasioni, "scartare" per trovarsi
faccia a faccia col "punto". L'abilità televisiva si fonda sul consolidamento di certi cliché, fino a
incrostazione totale - dopodiché, se quel cliché non funziona più, se ne prende un altro: un altro
limone da spremere fino all'ultimo.
Detto questo non credo che il talento sia qualcosa come un'apparizione puntuale: talento può essere
anche un insieme di attitudini e nessun "prodotto".
Voi volete portarmi a discutere del libro "in sé", come oggetto magico. Io il libro lo vedo come una
cristallizzazione: forse una frazione circoscritta, in un dato momento, di un movimento più ampio. In
questo senso capisco il qui e ora, mentre non so dir nulla sull'"irripetibile" - cioè, che ne so? che me
ne importa, se è ripetibile?
ottobre 19, 2006 at 12:29PM | untitled io
Demetrio,
dove avrei affermato che Salinger ha scritto solo The Catcher in the Rye?
Il fatto che tu abbia letto tra le mie righe quello che non c'era, vuol forse dire che non hai letto
quello che c'era.
Il Qui e Adesso non sono legati a una toponomastica e al segnale orario, ovviamente.
Sono un fatto fisico, una modalità dell'Esserci.
Sono la voce del Talento - avevo scritto "la voce del Salento".
Io credo che il talento non sia il quotidiano, o l'eterno.
Credo sia legato, come detto, a precise coordinate, per cui c'è un Prima, e c'è un Dopo; ed è
Durante, che si manifesta il talento.
Per questo, io credo, Salinger non ha scritto altri libri (corerggo: non ha pubblicato altri libri), perché
c'era stato un Prima, e poi un Durante, e infine, in modo necessario, un Dopo.
Tutto questo per dire che il talento è qualosa di molto netto, anche se difficilmente definibile,
qualcosa su cui si può prendere la mira, e fare fuoco.
(ma non si parlava di Capote?)
ottobre 19, 2006 at 12:37PM | Effe
Unts: se tu definisci il talento come un fascio di attitudini allora è giusto che tu dica "che me ne
importa, se è ripetibile?" (il talento, suppongo)
Io vedo l'attitudine più come un fatto di scientificità. Ha scientificità un accadimento che è ripetibile
in laboratorio, e diventa regola (attitudine) se i risultati della ripetizione sono coerenti.
Ma forse è solo una questione lessicale e non di sostanza.
Specifico infine che qunado parlo di talento come fatto fisico, come un esserci, uno stare (al mondo,
sì) non mi riferisco a una sua cristallizzazione fisica - a un libro, a un prodotto, che sono
conseguenze, sono tracce.
Per dire, io credo che si possa incontrare una persona, mentre cammini sul lungofiume, e la notte è
al suo limite, e la notte ti scivola nella bocca e ha lo stesso sapore spesso e amaro dei tuoi pensieri, e
questa persona che incontri, mica un'apparizione, una persona concreta, e nemmeno bella, e
nemmeno seducente, magari quella persona può salvarti la vita, o cambiartela, che ne so, o evitare
che tu stesso la cambi in peggio, e questo è il suo Esserci,il suo Talento.
Perché, questo forse voglio dire, quali sono le conseguenze, quando si incontra il talento? La vita
resta la stessa, come niente fosse, o ha uno scarto, una deviazione, un impulso - minimo,
inifinitesimale, incongruo?
ottobre 19, 2006 at 12:51PM | Effe
Si parlava, anche, di Capote e di Perry.
Ma uno uscì di casa dalla back-door.
ottobre 19, 2006 at 01:39PM | bri
Si parlava di diario intimo-pubblico veramente. Si parlava anche del talento, prima. Credevo che ci
fossero, o mi pareva di vedere, possibili versamenti di un discorso nell'altro. Personalmente non mi
interessa definire il talento, veramente non mi interessa definire niente, mi interessa di più
osservare. Come si trasforma una cosa se la si guarda attraverso una lente, piuttosto che un'altra cambiando le lenti come fa l'oculista per farti mettere a fuoco meglio.
Mi viene da pensare che della dimensione intimo-pubblica, di quello spazio che da tempo abitiamo o che abbiamo abitato, o almeno frequentato di tanto in tanto, stando in rete e tenendo un diario
pubblico voglio dire, come qui tutti - non interessi molto a nessuno. Come se fosse assodato,
"pubblico" che cos'è. Come se "intimo" non significasse o non esistesse, o esistesse per sbaglio.
Davvero avverto una resistenza enorme (al di là di tutte le chiacchierate che ci possiamo fare e che
ci siamo fatti) a mettersi davanti serenamente a questa faccenda.
Della lettera di demetrio a me interessa poco quel che ci dice del suo futuro di scrittore, cioè di cosa
farà, di cosa non farà. Dico in questo momento. Mi interessa una certa esposizione, un certo modo di
leggere in se stesso e di seguire col dito questa lettura a beneficio degli altri, mi interessa il suo
modo di disegnarsi, mi interessa il calciobalilla, lo stupore. Ma non ho fatto in tempo a dirlo che lui
stesso ha ammantato tutto di enunciati. Non faccio che vedere cappotti che si chiudono non appena
si rendono conto di aver mostrato qualcosa... di indecente?
ottobre 19, 2006 at 03:54PM | untitled io
a parte il fatto che il calciobalilla è scivolato via, e io invece volevo invitare Demetrio a fare qualche
partitina; tu non credi, Unts, che sia naturale? Che ogni scrittura sia un denudarsi anche quando il
suo scopo è l'opposto?
E che che alla svestizione al corpo che si mostra, segua per forza il pudore, e l'ammantamento?
(questo ha a che fare con l'intimo/pubblico)
ottobre 19, 2006 at 04:23PM | Effe
No non credo che ogni scrittura sia un denudarsi. Ci ho pensato e non lo credo. Anche il pudore è un
segnale di intimità, il pudore anzi lo vedi nell'atto del mostrarsi, non ha pudore una persona nascosta
ma una persona esposta, o che si sente tale.
A me sembra di vedere sempre meno persone esposte, di conseguenza quasi mai pudore. Una serie
infinita di facce toste, per così dire, che sta affollando il web, in luogo degli imbranati di prima, che
si sono semplicemente ritirati come paguri - o si sono scafati. Uno sbilanciamento verso il pubblico,
insomma.
Forse hai ragione tu, è fisiologico. Oppure forse prima c'erano meno persone, si parlava fra pochi, si
avevano meno remore, o un modo un po' diverso di portarsi in avanti. Ma la sfida non era proprio
quella, attribuire valore a quanto veniva considerato ininfluente, o troppo particolare? a un modo di
parlare che tirasse dentro, continuamente, energicamente, il proprio modo di essere, i "fatti propri"?
Sì che i fatti propri diventavano pretesto, anzi struttura, l'unica "trama" portante: molti scrivevano
post, non racconti, per esempio. O fatti propri travestiti (piuttosto sommariamente) da racconti, che
era proprio una forma del pudore: a me piaceva tanto, piace ancora moltissimo quel modo.
ottobre 19, 2006 at 04:56PM | untitled io
(per fatti propri intendo, naturalmente, intimità)
ottobre 19, 2006 at 05:02PM | untitled io
ho parlato molto di intimo-pubblico, nel post precedente e del web, così come lo vedo io, cos come
può diventare per chi legge, per chi scrive.
Anche a me piaccciono i post che parlano "dei fatti propri", qualche volta li scrivo anche, ma poi mi
viene il panico e spesso li cancello.
Mi viene anche, un certo pudore a leggere quelli degli altri, quelli di questo tipo, ma anche una
curiosità di capire, conoscere meglio la persona che scrive.
Non so se questo è sano.
A volte lo trovo morboso.
Esposizione da blog.
Scrittore-lettore.
Lettore, scrittore.
spesso la trovo violenta, difficile da affrontare.
e allora parlo di capote e di perry.
Per dire, e qui torniamo all'intimo-personale , che Perry poteva diventare Capote se fosse uscito dalla
porta davanti. Avevano la stessa storia alle spalle e, forse, lo stesso talento.
E mi viene da pensare che Capote, in Perry descrivesse un possibile se stesso.
E allora, ci risiamo con l'intimo-personale.
un capolavoro.
Insomma.
ottobre 19, 2006 at 05:36PM | bri
quello che tu dici anna è vero. Enunciando mi disinnesco e disinnesco tutto. Credo che sia un modo
diverso, ma simile, a ciò che è successo a davide bregola, che ha detto: ok bellissimo! ma mo' basta.
io non lo faccio perché ho un sentimento d'affetto per il mio blog ad esempio; però capisco quello
che ha portato davide a fare quell'annuncio.
quello che tu vorresti che io facessi - io per dire, che vorresti vedere fatto in generale - è qualcosa
che a me peserebbe.
allora preferisco fare il 'cialtrone' per dirne una.
questo perché ciò che tu chiedi è qualcosa di troppo urticante. troppo forte. troppo difficile da
sostenere.
ad esempio. tu dici questo, che vorresti questa tensione 'intimo-pubblico', ma quanti post riesci a
reggere così? Ne hai scritti due, anzi mi correggo.
Ne hai pubblicato due, da quanto non ne pubblicavi?
Come mai è passato così tanto tempo?
il denudarsi è sempre una questione delicata: c'è di mezzo la salute - o per rimanere nella metafora
nottura di effe - c'è di mezzo la salvezza.
e la salvezza, per quelli come me, è una conservazione di un piccolo resto, un grumo di cellule e
carne...
d.
ottobre 19, 2006 at 06:11PM | demetrio
io per esempio mai, mai, mi avrei immaginato che un giorno scriverò in italiano. un giorno forse
scriverò in italiano. è una cosa che mi sorprende ancora ogni volta che scrivo. è un piacere tutto
privato come un amore riuscito. non so durante quanto tempo accadrà questo, pùo finire domani il
desiderio. visto che mai lo cercai, non entrava nei miei progetti, non è siccuro che dentro un mese
sia ancora qua -io vorrei restare- . Uguale che è venuto l'italiano, una speranza, potrebbe arrivare
l'inglese o la voglia di suonare chitarra flamenca. Col plus, un regalo untitled, di venire pubblicata.
Forse suona un poco calciobalilla. Lo dicco solo in qualità di carne a cucire
ottobre 20, 2006 at 09:55AM | llu
Davvero?
Forse sono io che ho difficoltà ad aderire oltre un certo livello, ma non è che l'enfasi sulla "nudità",
qui è forse un po' esagerata?
Se anche fosse così attraente come dite e sembrate credere davvero, qui che parlavamo di talento e
d'intimità vs dispersione e pubblicità, sarebbe davvero buffo, perché da come ne parlate voi, la
nudità sembra soltanto una "scoperta" (qui la lettera delle parole è quanto mai appropriata),
piuttosto che una condizione naturale.
Peraltro io sono completamente d'accordo: la nudità contemporanea è una scoperta, molto più che
una condizione naturale.
Ma se è anche un valore, come la rappresentate voi qui con enfasi, che valore sarà mai, e di chi?
A me viene in mente l'esperienza psicanalitica, dai padri fondatori a oggi.
Il discorso del paziente nella seduta.
Lui è il depositario della storia originale, delle esperienze di base, della lingua e di quello che la
impedisce, cioè il sintomo, ma non sa andare al nocciolo, alla nuda matrice del suo passaggio nel
mondo - e non soltanto nella terapia ma, più importante, neanche nella vita. Dunque lo impara
parlando con l'analista.
Quello che impara, credo ci sia una sostanziale concordanza generale, è che la nuda matrice può
essere utilizzata per vari e diversi flussi di senso, cioè io posso dirmi e contraddirmi, anche dicendo
sempre e soltanto la verità, fino ai limiti della mia capacità di essere soggetto, mentre qualsiasi
sovrastruttura richiede invece un ordine prefissato e rigido, che è impossibile imporre alla realtà, da
cui la sofferenza.
Il sogno cambia valore e significato nell'esperienza quotidiana, così come lo stupro o la frustrazione
che ho subito.
La "nudità", dell'esperienza e della lingua, è valore in quanto qualsiasi oggetto, senza strutture
intorno o addosso, diventa flessibile e utilizzabile all'interno di un'esperienza di senso.
Se ne ricava che noi, come civiltà occidentale del XX e XXI secolo, la nudità la possediamo attraverso
un'esperienza di laboratorio, in una dimensione intima. E qual è la chiave d'accesso a quel
laboratorio? Tutti gli storici sono d'accordo nel dire che sia il sintomo isterico. Ovvero la
rappresentazione perfettamente mimetica, ma del tutto insignificante.
Io sono felice che tutti mi stiano intorno perché ho paura, ma non traggo nessun beneficio reale
dall'attenzione che tutti rivolgono al mio malessere, invece che a me...
Se la nudità è quindi fondamentalmente la DISPONIBILITA' dei materiali, che il talento permette di
ordinare nella configurazione che li rende propri, cioè chiaramente appartenenti ad uno specifico
soggetto, mi chiedo perché mai venga celebrata con così tanta enfasi, da un gruppo di lettori, così
come noi siamo e ci presentiamo qui nelle note a questi due post.
La scrittura nuda, e scusatemi se uso anch'io questo linguaggio da chat che avete fortemente
proposto, se ha un valore per qualcuno, potrebbe averne semmai per lo scrittore, per l'autore, che
insegue la disponibilità dei materiali, per poterli poi riordinare come sente.
Ma perché mai il lettore dovrebbe essere interessato alla rappresentazione isterica della nudità,
piuttosto che, invece, come credo io, alla COSTRUZIONE di un soggetto narrativo?
Penso a Fellini, che ha fatto per vent'anni una famosissima psicoanalisi, e che nel suo cinema ha
detto tante cose importanti, senza che mi pare si possa dire di lui che si sia messo a nudo come
uomo, perché direi che di lui resta e rimarrà la forza e la pulizia di un punto di vista (pulizia che
assimilerei alla nudità della scrittura, ma come valore di costruzione, piuttosto che di scoperta...).
O penso a Woody A., che negli anni ha raccontato un personaggio che tutti sono convinti che sia lui
anche nella vita privata, mentre lui stesso ha in realtà collaborato ad una sua biografia che dimostra
proprio il contrario, cioè di quanto W. Allen sia un uomo pienamente in controllo della sua vita, abile,
sportivo, perfino di qualche successo tennistico, sport che pare pratichi a un livello più che medio,
abile al punto da essere anche, in quanto amante della musica, un performer musicale di livello
professionale.
La sua scrittura cinematografica appartiene quindi, nei limiti del discorso che facciamo noi qui,
molto più alla costruzione di un soggetto, che alla nudità di una scoperta.
Siccome unts parlava di talento come funzione di relazione, in questo senso possiamo dire che la
costruzione è l'arte del reperimento e dell'assemblamento di materiali, contrapposta a un'estetica
della nudità che potrebbe arrivare, nei casi migliori, soltanto alla celebrazione della scoperta.
Ovvero un gesto riflesso, almeno per quanto riguarda la scrittura.
:-)
ottobre 20, 2006 at 10:13AM | palmasco
a iº- unossia costruzione- e carne a cucire -un vestito. altro sintomo dell'isteria è la passione di
mettere a tutti nudi
ottobre 20, 2006 at 10:26AM | llu
Ho parlato, molto più sopra, di "miscuglio di lavoro, senso del dovere, senso di libertà, incoscienza".
Ho detto che "da ubriaca diventavo (più semplicemente, più problematicamente) una persona che
scrive nel web". Che scrive ho detto, non che fa una sfilata nuda, che mai mi sognerei. Ho parlato,
sto cercando di parlare, mi pare, dei modi sperimentali di costruire (creare) a partire da certi
materiali esposti - scelti sì, ma aggiungerei: non sempre attentamente, a volte con una certa anche
incoscienza. Diciamo per consuetudine - o meglio: per attitudine - o addirittura: di preferenza.
Seguo agevolmente il tuo discorso, palms. Il punto di maggiore difficoltà (in cui è possible incepparsi)
mi sembra quello dove parli dell'estrema lucidità dell'"artefice"- presumo per opporla a una specie di
spontaneismo d'accatto. Mi sembra un punto problematico perché ti fa pensare a un meccanismo di
finzione dove finzione, realmente, non c'è: non c'è nel senso che non si tratta di una costruzione che
se ne sta completamente fuori dalla realtà, priva di appigli.
Mi ha chiesto una volta una persona: ma davvero palmasco va in bicicletta? Cosa dovevo dirle? Mi
rendo conto che sarebbe più CHIARO, in qualche modo, rispondere che no, che palmasco non ce l'ha
manco una bicicletta. Ma cosa ci guadagniamo?
Insomma vedi qui. Stiamo facendo un discorso che ogni volta che pretende di essere più chiaro, in
qualche modo si sterilizza, si "convenzionalizza", fa ricorso a degli abstract. E' normale, in una
discussione accademica. Ma facciamo finta che questa non sia né una discussione, né una discussione
accademica. Facciamo finta che sia una riunione di condominio. Facciamo finta che si tratti di
sapere, anche, se possiamo continuare a tenere le piante sui balconi così come le teniamo oppure
no. Questo mio modo di fare solito, "parliamo di capote/chi se ne frega di capote" (mettici allen,
mettici la mansfied, mettici chi vuoi) è il modo che mi permette di non omologarmi a un certo stile mi permette, se vogliamo, di evitare di mettermi i tacchi per andare a una riunione di condominio. E
mi permette di non esibire un diploma di perito agrario se devo parlare di piante sui balconi.
Naturalmente dicendo questo, scrivendo questo, faccio un'operazione: mi metto davanti, abito
mentre parlo, uno specifico condominio, fisicamente esistente anche se di difficile riconoscibilità
(sarà il mio condominio? il condominio di persone che conosco? un condominio universale risultante di
tutti i condomini che ho conosciuto in vita mia?). Mi riferisco a un immobile specifico (ma non
specificato), a una specifica (ma non specificata) riunione di condominio, parlo di un dato di realtà
come se fosse un'invenzione ma vi dico implicitamente (ve lo dico per come ne sto parlando) che non
si tratta di un'invenzione - e per soprammercato ci sto ficcando del senso dentro. E mi stordisce sia
che intorno si continui a parlare strettamente di balconi e di piante, sia che NON lo si faccia strettamente: parliamo delle piante sui balconi / chi se ne frega delle piante sui balconi. E perché
poi non far ricorso a un "linguaggio da chat", se questo viene a pallino? Che poi: se davvero stessimo
parlando di web da dentro al web (cosa della quale, certe volte, mi viene da dubitare) non avremmo
di queste remore, non più.
Mi fermo. Sì che ho appena fatto confusione, e parecchia. Ma non ho chiamato questo post, questi
post, "dibattito su X", o su Y: li ho chiamati carne a cuocere. Così facendo mi dono dotata (e ho
dotato tutti, sia chiaro) di permessi particolari :)
In modo divertente effe ha iniziato con una specie di tormentone: "ma stavamo parlando di?".
Ebbene, non è questa una domanda che ci rincorre, e che pervicacemente eludiamo, scrivendo in
web? Non è un ambiente, questo, dove possiamo darci il tempo di cercare, di "crescere" detto in
senso meridionale (come "crescere" un figlio, "mettere a crescere" una panella di pasta), quello di cui
stiamo parlando? di organizzare un tema, in qualche modo, invece di darcelo da svolgere, o già ben
cotto da mangiare?
ottobre 20, 2006 at 11:30AM | untitled io
allora, infatti, volevo dire che Perry è diventato il vestito di Capote, che, attraverso di lui, attraverso
la sua "immedesimazione" così assolutamente umana e "imbarazzante" in un certo senso, ha creato un
capolavoro.
E lui aveva anche e soprattutto il talento, ma ha avuto anche il coraggio. Non è da tutti perchè ha un
prezzo, a volte molto alto, da considerare attentamente e con lucidità.
ottobre 20, 2006 at 11:33AM | bri
(alla domanda di demetrio più sopra, potrei provare a rispondere nella "caldeirada" successiva)
ottobre 20, 2006 at 11:38AM | untitled io
Ironia e acuta leggerezza.
nessun credito,nessun debito.
Talento e' la capacita' di esistere con gioia.
ottobre 20, 2006 at 04:11PM | stravedere
scrivevo delle cose a proposito di questo post e del precedente (in attesa della terza parte). ma è poi
venuto troppo lungo e lo metto di qua:
http://fuoco_e_dintorni.blog.tiscali.it/kw2912192/
:)
a.
ottobre 20, 2006 at 07:58PM | solotu
Interventi in altri blog
postato da solotu nel suo blog fuoco_e_dintorni, venerdì 20 ottobre 2006 alle 20,54:
e la trova in un peep-show
voleva essere un commento a questo e questo post. poi è
diventato troppo lungo e l'ho messo qui.
io ho tenuto il contatore in bella vista, appena sotto l'archivio,
che ha solo tre mesi, e sotto il calendario. l'avessi messo chessò
sotto gli ultimi commenti (che mi servivano a non perdere di
vista qualcuno che magari commentava un post d'agosto _si
vede che non so niente di blog, ché nessuno commenta un post
d'agosto se siamo in ottobre, solo lincenziamentodelpoeta pensa
il contrario_) e sotto penne&piume (che diventa man mano più
lungo) l'avrei visto più di rado, e sarebbe stato meglio.
ma l'ho messo lì e magari dopo questo commento posso spostarlo, chè è ora.
il blog l'ho registrato nell'ottobre dell'anno scorso quando ancora non sapevo che l'inverno della
passione sarebbe stato così definitivo _che se l'avessi saputo non l'avrei certo chiamato 'with a
passion' che è la cosa scritta per ultima nella pagina di tiscali blog-area personale_ ma ho cominciato
a scriverci diciamo il 25 luglio di quest'anno, in una fase della mia vita che non starò qui a
commentare.
e che mi sono in parte voluta e in parte mi è cascata addosso.
da allora, e sono passati meno di tre mesi, meno di 90 giorni, vacanze comprese, sono registrate sul
contatore (adesso) 3396 visite. più di mille visite al mese, anzi considerato che nel primo mese non ci
sarà venuto nessuno tranne untitled io, insomma un numero.
credo che in tutto i commenti lasciati siano stati dieci, (esclusi i miei di risposta, per non essere,
almeno all'inizio, scortese, che a volte sono un istrice). nè tanti nè pochi, non ho niente da dire, però
una sproporzione enorme con il numero delle visite (ma poi 'sti contatori siamo certi che
funzionino?).
io arrivo al blog dalla casa editrice untitlededitori, quindi il mio percorso è quello del gambero.
non che non sapessi prima cosa fosse un blog, che qualcuno l'avevo pure frequentato negli anni scorsi
tra un disegno in autocad e un altro e soprattutto un blog a quattro mani amiamolostessouomo
tenuto da due lune, luna saturno e luna calipso (lui era poi tale saturno, pianeta notoriamente con
molte lune) a cui ero arrivata con una ricerca in google alla voce calipso perchè avevo scoperto che
uno dei numerosissimi asteroidi che si possono usare nella lettura astrologica c'aveva il suo nome, e
la cosa m'aveva affascinato, scoprire dove ce l'ho io calipso nel mio tema e congiunto al cosa di chi
(magari!!, ma non trovai niente di rilevante affatto, e l'ho pure dimenticato).
ecco.
ma ai blog ci arrivai veramente più tardi, solo l'anno scorso, in verità, quando una sera (il ventinove
settembre, per l'esattezza) la incontrai (untitled io) sotto la casa in cui sono nata ma dove non abito
più da quarant'anni (ma ancora me lo ricordo il trasloco e i pianti per tutte le cianfrusaglie che mia
madre buttava) e lei cominciò a parlarmi di questa cosa e della casa editrice e dei blog e del resto e
io le dissi una cosa come 'fatelo scrivere a me un romanzo!' sotto gli occhi fissi di gianni, più per
esasperazione che per vera richiesta, chè io uso la scrittura moltissimo ma in modi o del tutto
pubblici o del tutto privati (ma questo è un discorso che ha bisogno di uno spazio suo, per il momento
dico quello che ne ha detto lui qui) e la uso anche generalmente per sommergere il malcapitato di
turno, almeno fino a quando un turno c'è stato, con lettere e lettere, e romanzi epistolari ne
sarebbero potuti venire fuori almeno tre o quattro, forse cinque, dall'inizio della mia attività ad ora.
lei mi rispose: prima apri un blog, ma io non ci feci molto caso perchè ero contenta di questa idea
della casa editrice (che in quel momento non era un'idea perchè la prima terna era già fresca di
stampa), ero contenta che fosse una sua idea, che intorno a questa si fosse creata una cordata, ero
ammirata dal coraggio e tutto, dalla voglia di intraprendere, dalla concretezza del progetto, dalle
palle, insomma, che si mostravano discretamente tra una sigaretta e quell’altra, a mezza voce.
mi offrì di trovare una libreria che potesse vendere i libri a venezia e partì. lei mi regalò la prima
terna, che lessi tra un treno e un altro (ma questo è ancora un altro discorso: i posti della lettura,
per me). la libreria fu poi trovata dopo alcuni giri e alcuni contatti, e via.
poi lo apro effettivamente un blog. volevo vedere se ero capace a smanettare, in ottobre. non ci
scrivo nulla, però.
ecco, ma adesso.
diciamo che quaranta persone al giorno entrano in media in questo coso dove scrivo delle cose con
delle foto (sempre rubate a destra e a manca, spesso sgranate e pessime)
diciamo che qualche volta delle persone ci entrano più volte nel corso della giornata, magari per
errore. diciamo che in questa cosa 'televisata' (grazie, llu), ma intima, ogni giorno in media ottanta
occhi guardano senza essere guardati, incontrati.
diciamo che come capita anche a me leggono alcune righe e poi vanno via, oppure leggono tutto e
non hanno niente da dire, oppure trovano sia troppo intimo e non lasciano segno, oppure trovano che
non ci sia niente da aggiungere, neppure ciao che non c’entra, oppure non vogliono disturbare,
oppure trovano che faccia schifo e non ci passano più, alcuni passano per ringraziare di essere
passati, pochissimi un commento sul merito, se c'è poi un merito. se c'è.
io non amo lo shopping, non l'ho mai amato e mi riesce impossibile leggere tutte quelle cose fighe
delle malvestite e dintorni, diciamo i blog di costume o cose così. non amo le vetrine, neppure dove
servono a mostrare quel che c'è, la merce.
ricordo spossantissimi shopping con uomini infinitamente più vanesi di me che accompagnavo in
Mercerie e che rimanevano incollati per interi quarti d'ora ai negozi di gioielli (orologi) piuttosto che
alle ultime brutture di dolce&gabbana (mi direte che scelgo male gli uomini e io vi dico che non li
scelgo e che è la legge della compensazione) e mi sono trovata persino una volta seduta su questo
trono rococò e dorato degli ultimi (d&g) a vederlo sfilare a cinquant'anni con i jeans sfilacciati,
comunque a settecentocinquanta euro, e una maglietta rosa che poi per fortuna dimenticò da
qualche parte dopo averla pagata.
quindi non amo. entro in negozi in cui non ci sono neppure le commesse a servirti e posso guardare
tutto, prendere tutto, provare tutto senza nessuno che mi selezioni le cose che mi starebbero bene e
poi pagare quel che mi piace alla cassa.
pensavo qui ad un'esposizione, certo,c'è come un vetro.
pensavo di utilizzare un mezzo diverso da qualsiasi cosa io abbia mai utilizzato prima, anche
fisicamente, anche senza pensare ai commenti, ma proprio al tipo di pagina, per esempio e come si
può costruire (chè questo mi viene spontaneo perchè sono architetto e pensare a come il mezzo si
adatti o non si adatti al fine _e qui lo dico e non so se poi lo nego la scrittura nel blog non si adatta
alla lettura!!).
pensavo forse anche ad un'interloquire ma è una cosa difficile a parte dirti brava o no, non è facile
sempre interloquire su qualcosa che altri ti sottopongono, magari non è il centro della tua attenzione
in quel momento.
però questa cosa della possibilità di commentare neutra non è affatto per chi ci sta, dentro alla
scatola. sapere di tutti questi occhi che si sono posati che hanno guardato che hanno tramestato che
hanno letto e giudicato che hanno cambiato pagina non è uguale a non saperlo.
capisco bri quando dice del panico e non è che bisogna essere nudi per provarlo.
mi viene da pensare ad una riunione di molti anni fa ad un’associazione ingegneri e architetti della
mia città (18 o 19 novembre 1999). era straordinariamente molto affollata perché il tema della
variante al prg interessava non poco, ché ancora si discutevano le linee essenziali e non come adesso
che non se ne sa più nulla di dov’è finita. erano tutti uomini, un centinaio di persone, il sindaco,
l’assessore, i dirigenti dei settori, il progettista. io ero l’unica donna, non conosciuta perché ho
sempre vissuto e lavorato altrove, ma in quel periodo ‘prestata’ alla pubblica amministrazione.
e ad un certo punto ho preso la parola. mi sono alzata, nella fila in cui ero, e ho fatto un discorso
appassionato e contro corrente, puntando dritto il sindaco che credeva in una certa panacea e
dicendo quel che pensavo senza riserve ed infingimenti, secca, come mi capita quando ho veramente
qualcosa da dire, senza farmi intimidire, dagli sguardi puntati su di me a laser di tutti quegli uomini
che si voltavano dalle prime file, sorridevano, ammiccavano, si davano piccole gomitate, _non
registrando nulla di tutto ciò, cioè registrando tutto ma tenendolo per dopo il nastro_ ,e mettendo
tutta l’intenzione solo su quello che a me premeva comunicare, nient'affatto un'opinione.
il mio corpo ha però registrato. tutto.
dopo l’esposizione, di idee, sì, ma di me stessa in fondo, corpo, voce, gestualità, differenza sessuata,
nei giorni successivi, tutte le impressioni raccolte mentre parlavo ma deliberatamente non ascoltate
e tenute sullo sfondo, chè se no mi sarei persa e sarei tornata a sedere, _se solo mi fossi concessa di
sentire l’impatto fortissimo di tutti quegli occhi di uomini puntati su di me, duecento o poco meno_,
si sono srotolate come un nastro. per alcuni giorni dopo sono stata in preda ad una nausea costante,
ad un senso di vergogna retroattivo, a quell’essermi sentita espostissima.
io ho qualcosa da dire, la dico perché non c’è nulla che mi possa trattenere, perché c’è un’urgenza
ad essere, ma il rinculo di questa cosa non è affatto eliminabile, né censurabile.
c’è un effetto se c’è un commento, se ce ne sono dieci, se non ce n’è nessuno.
e non che sia meglio o peggio qualcuna di queste ipotesi.
c’è un effetto di non incontrare veramente gli occhi che vengono qui, di non poterli intercettare.
c’è un effetto di niente corpo e contatto che porta a me, che nel mondo delle idee ci sto benone
come in una tana, la comprensione che mi sento veramente viva quando sono ‘totale’, con tutto quel
che ho, intera, anche se questo sfida il mio senso di protezione, il tenermi dietro ad un vetro.
e ancora. di questo vetro prendo atto quando in certi spazi che si allargano dopo certi post non miei
può capitare, anche se intervengo, che nessuno mi veda. che davvero stia diventando invisibile per
gli altri, mentr’invece io ancora mi vedo, allo specchio?
e si attiva, di qui o di là, da me o da te, un gioco di proiezioni molto sottile ma non per questo meno
forte.
e mi viene in mente il vetro tra i personaggi di paris texas e lo scambio di ruoli e del vedersi e non
vedersi, chè uno vede, l’altro no.
e di quanto questa cosa all’inizio e normalmente connessa con un meccanismo erotico come
‘guardare dal buco della serratura’, possa poi essere rivoltato come un calzino per riportare un
bambino al suo posto, da sua madre, e riprendere il viaggio dopo l’amore perso. o con l’amore perso.
si parte sì da un vetro in mezzo, da un vedere senza essere visti, ma si arriva a trovare ciascuno la
propria reale dimensione esistenziale. con un semplice scambio di posizioni d'identità. con una
rottura di routine e di ruoli.
io, invece, qui non so come rivoltarlo il calzino.
e ce ne ho urgenza.
forse non si può, e devo uscirne semplicemente in punta di piedi. mettendomi dall’altra parte del
vetro, con parrucca.
e se si vuole essere femmes publiques, o se ne ha il talento, malgrado se stessi, voglio esserlo
d’essere.
CARNE A CUOCERE (3)
postato da untitled io nel suo blog 'diario di untitled io', martedì 17 ottobre 2006 alle 11,09:
MALINCONICI ORIZZONTALI
talènto, s.m
etim. (nella 2a accezione): dal greco tàlanton, bilancia
Datemi le mani, le punte delle dita, e si continua a parlare. Ciascuno con i toni viziati che si ritrova,
modificati da una miriade di occasioni, pungolati da uno sprone insistente, generico e persuasivo:
parla e ti sarà dato. Ti sarà dato cosa?
Ti sarà dato un agevole scorrere e mostrarti un po’ effimero, su un piano molto liscio e orizzontale,
come un piano di vetro, dove tutti diciamo siamo uguali e totalmente ininfluenti, tipo paste colorate
pochissimo viscose che si mischiano per lento dilagare e per casuale attrazione: ora ci vedo un rosso,
più in là vedo avanzare un blu petrolio, da destra arriva un giallo, si mischiano per un poco si
separano, perdono precisione, il piano orizzontale è naturalmente multicolore, nessuna possibilità di
isolare tonalità.
Si parlava, parallelamente alle parlate di qui: al telefono, per chat, per email, per cunicoli, come
usciti lentamente da un sonno, con timidi “cosa intendi?”, baldanzosi “lo so io cosa intendi”,
dubbiosi “riflettevo”. L’effetto, ti dicevo, è stato di una speciale malinconia.
Mentre ci si invita gentilmente a un convegno, poi c’è da prepararsi a un “incontro”, fra poco devo
fare un’intervista, e ogni volta le domande articolate diverse sono uguali nella sostanza, e al fondo di
tutto questo, noi stessi siamo obbligati a parlare del piano orizzontale, dal piano orizzontale, quando
i nostri monocromatici libri contengono uno un blu (elettrico), uno un verde particolare, uno un rosso
screziato, come dire di questi singoli colori? No: dire dell’orizzontalità, sempre e comunque, Bagus
Cyber Cafés gli sconosciuti, gli idioti modificabili dal talento vaporizzato, le voci compresenti delle
quali non rimane più niente se non forse, la multicolorità.
Amo molto gli archivi della rete, li sfoglio con dedizione, usando la memoria come dita che scorrono
sui dorsi dei faldoni alla ricerca di qualcosa, quel preciso colore che ricordavo, dov’è? che fine ha
fatto? Faldoni tutti uguali tipo aprile 2003, maggio 2004, giugno 2005, e cosa facevo io, e com’ero
vestita, quei giorni in cui lui diceva quella cosa in particolare? era estate o era inverno? Succede che
dopo ore la ritrovo, la cosa, la sensazione è di imbattermi in un reperto archeologico, in una giornata
fredda in un campo spazzolato da venti orizzontali, dove non c’è nessuno perché stanno nell’altro
campo, adesso, tutti quanti, qui solo due o tre corvi, lumache sugli steli, desertificazione. La
senzazione netta, fredda, che di quel coccio, non importi a nessuno.
Sto trattando l’acquisto di un pezzo di deserto.
Sto parlando di qualcosa di molto meno colorato ed eccitante dello stabile pubblico pullulante di
ateliers di una qualsiasi metropoli europea (non italiana, certo, che noi non sappiamo fare –
finanziare - se non cose di formazione, non fisiche cioè). Sto pensando piuttosto al depliant
pubblicitario col quale poi ti vendono, viaggi tutti uguali, livellati nel prezzo e orizzontali. Andare a
Sharm el Sheik vale uguale che andare a Genova, oppure nel basso Lazio nell’alto Laos, non vedete
che sono uguali le foto dell’arrivo, della partenza? come un camaleonte somiglia a un gatto del
colosseo, come una collanina di semi somiglia all’acqua di lourdes, come una cocorita somiglia tale e
quale a un falco pellegrino? Guarda meglio… Ma certo, queste sono banalità – poi anche quegli
ateliers sono spazi di metratura stabilita, basic-cellette di un alveare operoso – ma in questo alveare
qui, l’operazione base delle api è quella di guardarsi e complimentarsi l’un l’altra: ma guarda come
siamo operose! (o nell’ottica di una certa operazione-nostalgia, che ormai come dice erica sta
proprio prendendo piede e mi ci metto pure io: ma guarda come eravamo operose prima!)
Tutto questo ho cominciato a guardarlo come pezzi di carne. “A cuocere” (un’espressione
meridionale), parla di cosa a farsi (a completarsi: la cottura) ma che pure si sta facendo, alla quale
in qualche modo, già abbiamo messo mano – di fatto carne a cuocere significa da una parte che la
mettiamo sul fuoco, dall’altra che sorvegliamo che si cuocia, dall’altra che ne aggiungiamo
dell’altra. Una mano nel presente, magari con un bel guanto da fuoco, e poi una valutazione “a
memoria” del passato, e uno sguardo al futuro che ci compete (mangiare, possibilmente).
Mi piace così tanto stare a leggere nel web che ne ho fatto un lavoro. È una cosa talmente fuori dai
cardini che in effetti, a raccontarla così, quasi nessuno ci crede. È molto facile che ti credano se dici
che sei entrata nel web essenzialmente per scrivere e per vedere se piaci, moltissimo più facile che
ti credano se racconti che era per farti promozione – di evidenza solare, come di dice, se racconti
che era per farti un po’ di soldi o per collocarti qualche gradino più in alto sulla piramide che sai.
Scusa quale piramide che sai.
Ho cominciato a essere letta, a essere letta davvero, come sai, il giorno che ho cominciato a tirar
bordate, o meglio il giorno che me n’è scappata una, lucidando il cannone Se ti dico che non pensavo
di far niente di straordinario, mi credi?
Oh no, che non mi credi. È del tutto evidente, mi hai visto fare altro, dare inizio a una strategia.
Impaurita da questo equivoco incombente – tanto incombente che lo vedevo perfino io - ho alzato
alcuni paletti, che se ne stanno perfettamente impizzati ancora adesso: che io non ne scrivo libri,
prima cosa. Secondo: che non mi chiamo. Terzo che faccio quello che mi pare. E quarto che voglio
avere a che fare con chi mi pare. Così adesso, ripeto: a me piace molto leggere, nel web. E scrivere,
nel web. Difficile slegare le due cose: se non mi sentissi in grado di raccontare a mia volta, non mi
sentirei in grado di leggere e di capire alcunché. Così adesso posso dire che la capisco (ci metto, in
generale, dai due ai tre anni per capire le mie proprie dichiarazioni) una cosa che ho detto un giorno
nel vecchio blog: che per me leggere e scrivere sono proprio la stessa cosa. Io da questa posizione,
postazione, pensavo di potermi permettere di parlare (e oltretutto, ragazzi!, non è la democrazia?).
Parimenti: di leggere. E invece qualche cosa è andato storto, va storto, e quello che va storto non è
la prima cosa che ti verrebbe in mente.
Nessuno t’impedisce di parlare, di scrivere: qui dentro, ti s’impedisce di LEGGERE!
(pausa di riflessione dopo l’alzata di voce)
…
(fine pausa)
Sì è detto tanto, di orizzontalità, e ci si è sempre riferiti al parlare, al poter prendere parola senza
bisogno di mediazione: è questo che fa la rete ci hanno spiegato, è questo che ci regala – e noi ce la
siamo presa, la parola, non è che ci abbiamo messo gran tempo. Ma dare una lettura, cioè produrre
pensiero, leggere non mediati, proporre un io che legge, in tempi di promozione della lettura di
insegnamento della lettura (ma poi lettura per fare cosa?), è come una perturbazione nel weekend:
rompe il cazzo. Già ci vuol tempo a leggere (che qua nessuno ha tempo), figurati per leggere di
letture di io - e poi questi io chi? chi sono questi io che non conosco, che si mettono a leggere, che si
mettono a cuocere? Che parlino, che scrivano, che prendano la parola, ma dare cioè produrre?
No bello lascia stare, a dare c’è chi ci pensa, il preposto.
Sul prendere che ha un dare come risvolto necessario, sulla bilancia insomma, vi ho già detto: suona
come un allarme, nelle pance di chi è cresciuto in un certo modo (forse in un certo tempo), il cigolio
sottile del braccio del diritto. Se poi è il diritto a dare che scarseggia sul piatto, piuttosto che un
meno raro, più abbondante in natura, più pop diritto a prendere, di questo si può discutere – ma
ancora? dico ancora, discutere separare?
Mi e ti
Questio e quest’altro.
Prima e dopo.
Sempre.
Tuto cussì.
Un intervalo e do tempi.
El tempo.
Ma po’ la torna e la me dise che.
La torna e la me dise si-no.
La va e la me scrive:
“Non ho parole per”
Non-ho parò le-per.
Tuto cussì va via par gnente e.
Tuto se ilude da se stesso
e casca.
E ti te credi che.
Varda qua la balanza.
Do piati e in mezo la misura.
Te pesi tuto. Te pesi gnente.
La balanza no pesa mai giusto
e.
Questa cosa di Ernesto Calzavara, è stata sempre con me; e ha sempre rappresentato, per me, la
malinconia. La tengo da una parte e non la tiro fuori spesso, solo in certe grandi occasioni, cioè
quando si tratta di pubblico, di scontro, e di venire avanti, sottrarsi alla schiavitù dell’opinione, del
peso delle opinioni o quando l’aria si fa pesante e di peso hai la sensazione, di essere trasportata, da
un posto dove puoi stare a un posto dove è meglio che tu non stia, e quando parli di peso come dal
fruttivendolo, valutazioni a peso a quantità, buon peso, e pomodori sani che si mischiano ai marci,
quando infine hai la sensazione d’essere lieve, porosa, di non pesare gnente
perché io come ho detto, a un disporsi possibile dei piatti su un piano orizzontale, pure ci crederei –
ma i piatti, chi ha parlato di quel piano vischioso. Che, ne farete un quadro?
Sto procedendo piano perché mi sfuggono i fogli. Mi son stampata tutto che credete. Non che sia una
cosa che faccio abitualmente, è così tanto comodo che tutto stia nel computer anzi in rete, che
accedi a un megarchivio da qualsiasi internet point, che sono queste stampe? – ma ho stampato
perché
devo portarmele a letto queste pagine, che ho scritto che avete scritto.
Le persone che stanno parlando qui, io le conosco tutte. Le conosco perché le leggo perché le so. E
non mi posso sbagliare sull’umore di caracaterina o sull’umore di bri o sull’umore di palmasco. Non
sono i miei amici o i miei fans, sono persone che si sono avvicinate, nel tempo e non mi lasciano. Dal
modo che ha ciascuno di mettere le parole, di fare un’apertura, di tenere perfino le carte in mano,
puoi trarre un’infinità di informazioni se vuoi. Ognuno si porta in giro, a strascico con la propria
scrittura, non solo il proprio pensiero non la propria opinione (che poi quale opinione, su questi temi
costantemente slittanti), ma un loro fiato riconoscibile, come fossero ottoni. E guarda non sto
parlando di una faccenda estetica, o anche (capito Tez) non m’interessa se l’esito sia un affresco,
che me ne faccio che ve ne fate di un affresco, m’interessa il colore. Oggi m’interessa la tonalità
malinconica. Io avverto (fate voi, ditemelo se sbaglio) una stanchezza profondissima di parlare, e
un’ansia un volerlo fare, le due legate insieme. Come una sensazione di non senso, di pura inutilità.
Come un affaccendarsi esasperato come da fine del mondo (di questo mondo, di quale?).
la musica che appena cominciata / è già finiiiitaaaaa….
e casca.
E ti te credi che.
Non sono venuta qui all’improvviso, sabato scorso, a parlare di talento, semplicemente perché stavo
leggendo di Capote. La miccia stava tutta da un’altra parte – mi sono ricordata all’improvviso di dov'è
stato, tempo fa, che mi sono trovata in mano la parola talento. Scritta molto chiaramente, da
prenderci una piccola scossa.
E questa è la cosa lampante– innanzitutto l’individuare,
e dunque l’occhio come talento o come viva presenza
dell’esserci e del sapere sempre, non abbastanza non,
del mondo e dei conterranei fin dentro alle loro case,
alle piccole cose nervose e interiore, proclama, erigere
chiese agli umani ed ancora, l’individuare innanzi, poi
l’occupare gli spazi molti ma non a scapito se non del
volgare, ormai ubiquo, l’indefinito tale, al ché ritorna
l’occhio misericordioso e critico, pulito e necessario,
quindi dell’incoraggio l’incoscienza costante di osare
in crescendo e in diffusione del buonoebbello, scherzare*
la gentile parola, per dire, s’insinuerebbe volentieri
negli uffici ai tredicesimi piani e nelle aule delle torture,
lei che sola saprebbe farlo, se solo, se il solo scopo
fosse missione, non altro o vanità, interferenze prima
vissute e poi a zero, grado, ché la saturazione del bello
non genera, come dicono, il brutto, ma l’insostenibile
non concepito luogo, divino mi chiedo, infine, questa
è “le” verità– ogni sera una madre amorevole bacia
il figlio prima del sonno
* più, e più, e più volte.
(qui mancano dei link, che lui mette).
Che poi se proprio devo pensare a un affresco, o a una specie di rappresentazione, del piano
orizzontale, non riesco a non tornare continuamente a Coro – che una volta ne ho parlato, di Coro,
una videoinstallazione interattiva che ho calpestato quasi venti anni fa, di Studio Azzurro. Che poi
non ne ho detto niente in questo diario, l’ho soltanto linkato. Che importanza poteva avere voglio
dire, sentire me parlare, descrivere o ricordare, quando lì c’era qualcosa da osservare, di solido di
parlante, da leggere? Mi sono immaginata di indicare col dito l’ingresso di quella stanza, di dire “fate
voi”, mi chiedo però in quanti ci siano entrati, quel giorno in quella stanza, che poi studioazzurro
chi, sono scrittori? e che c’entra col web, e che c’entra con la Letteratura, che c’entra con l’editore?
e poi: di vent’anni fa? e che c’entra con noi? Certe volte m’incazzo veramente.
Allora, nei commenti alla puntata precedente, demetrio mi domanda:
questo perché ciò che tu chiedi è qualcosa di troppo urticante. troppo forte. troppo difficile da
sostenere. ad esempio. tu dici questo, che vorresti questa tensione 'intimo-pubblico', ma quanti post
riesci a reggere così? Ne hai scritti due, anzi mi correggo.Ne hai pubblicati due, da quanto non ne
pubblicavi? Come mai è passato così tanto tempo?
Ma che strana domanda da prete in confessionale: sto allineando degli appunti, mettendo carne a
cuocere, i miei post sono tutti intimo-pubblici, da quando sono in web, perché sono questi due a
saltarti all’occhio?
Perché sono un’invasione di campo, ecco perché. Sono post di lettura, per questo non ti trovi, non ti
tornano i conti.
Come non tornarono i conti, un giorno, a georgiamada.
Mi sono irritata moltissimo, oggi, dopo che ieri sera ho segnalato a giorgiamada, in un commento
sotto il suo post "'d'ordinanza" riguardante coniugi registi Straub, l'esistenza di un mio post recente
sull'argomento ("un mio sguardo strabico sulla coppia", l'ho chiamato).
Mi sono irritata per il tono di sufficienza col quale georgiamada (troppo presa dalla conversazione
con l'amico critico cinematografico militante, che per giunta Straub lo chiama amichevolmente
Jean-Marie, e ce lo fa immediatamente sapere) si è rivolta alla sottoscritta ragazzina che si
addormenta davanti al film (assolvendola poi, bonariamente, col buon argomento che beh, tutto
sommato, era un film sugli Straub, non degli Straub).
O poi c’è un’altra cosa, che non c’entra ma c’entra. Sto scegliendo i brani di libro "dimostrativi" da
apporre in calce ai miei Appunti. Ti sei accorta di quanto sia un'operazione difficilissima, ed
esaltante insieme, ricordarsi l’esatto merito del discorso? Naturalmente si ha davanti lo spettro del
lettore che ci dirà che "non ha capito" il perché del pezzo in calce a questo o quell’Appunto - ma che
importa, "fa niente” se non si vede quello che c’è: tanto, sono trailers. Naturalmente è questa, la
risposta ufficiale - di che mi lamento allora?
Mi lamento per il mal di ginocchia, di denti e di tutto il resto. Mi lamento per il tuo amore e per la
tua sincera curiosità, che hanno davvero quei ragazzi come unici destinatari - mentre il pubblico
digerisce senza avere mangiato, contento di essere più acculturato di quelli lì. Di quei
quattordicenni!
Ok, la smetto. Ti chiamo fra un po', eventualmente.
Quest’ultima parte della lettera si riferisce a un recente post in cui caracaterina, la professoressa
caracaterina, parlava dei suoi studenti e del loro modo di leggere - non sguarnito, ma guarnitissimo
già. Quel post fu un’occasione d’incomprensione perfetta: qualcuno si alzo e disse: d’Orta! – gli altri
sorrisero, e annuirono. Lei invece non rideva, non cercava nessuno con cui ridere, e amava così tanto
quegli studenti, prendeva così sul serio quello che le dicevano, che oggi mi dice al telefono: sai mi
sono assentata dal web, per il gran lavoro a scuola. Quest’anno m’interessa moltissimo il lavoro a
scuola, mi dice.
Lo credo bene, penso, e penso pure a dei lettori-modello che abbiamo qui - segue ennesimo
commento che non postai, stavolta provocato dai commenti entusiasti a una delle puntate
dell’iniziativa vibrissica Come si leggono i libri (che sai come sono loro: te lo devono spiegare, che è
divertente e multicolore far costruzioni didattiche, vuoi giochi di società - che è adattissimo il web
per queste cose, sai come sono loro).
Splendido, acuto, accattivante?
Scusate, a me sembra veramente una matassa di luoghi comuni.
Non me la prendo tanto con l'autrice, ma col procedere di questa strana operazione "come si leggono
i libri". Trovo assurdo il tono vagamente autoincensativo, e insieme un po' annoiato, da connoisseur,
che sta prendendo piede in tutti gli interventi - per dire poi che cosa? Siamo veramente alla festa
della banalità: un libro ci porta altrove, ringrazio l'autore per il suo genio, declamo prima di
dormire le righe migliori, spiegazzo/non spiegazzo, brandelli di salvezza, e i libri accatastati sul
parquet, ma che è? Naturalmente tutto finisce con una panoramica su quantità indicibili di libri, su
case che esplodono di libri, su libri che troneggiano invadenti, una vera grande bouffe. Qui c'è
persino una legge familiare, "vietato addormentarsi senza leggere": siamo in casa d'intellettuali. E
mi sfugge grandemente l'utilità di tutto questo.
Non lo postai, naturalmente, perché appunto si trattava di un’opinione, e per esprimere un’opinione
ho preferito mettermi a fare libri o a fare post, o a fare caldeirade, piuttosto che continuare ad
allineare in calce ai post, commenti equivocabili.
Perché io non sto più parlando da un piano orizzontale, ma da un giardino verticale – sono sveglia,
cioè.
E ti te credi che.
(chi non ha visto malinconia in questo post, può andare da un’altra parte)
(niente link di riferimento, stavolta, tranne lo psichedelico – cercateveli, oppure: ricordateveli)
(segue quarta puntata, o caldeirada, dal titolo provvisorio: non è un servizio pubblico questo)
(no è uno scherzo, si chiamerà: il lettore comune – oppure: detitolati)
Commenti (76)
sì, la malinconia, dici, d'accordo.
ma una malinconia graffiante.
non la malinconia pseudo-balsamica dell'oblio nettuniano ma una malinconia aspra e petrosa del
ricordo preciso e dell'occhio affilato, della lama che fende.
il corpo.
della scrittura, della lettura.
che si vede che per te non c'è differenza.
si sente.
a.
ottobre 23, 2006 at 07:42PM | solotu
Io leggo le persone. Per lavoro. Chi mi vedesse lavorare, potrebbe dire: ma no, tu le ascolti, le
guardi, insomma le "assisti". E invece no. Io non assisto (al)le persone. E pur perdendomi un poco in
questo gioco di parole, mi ritrovo ogni giorno di più nell'immagine di chi legge l'altro. Ora forse so da
cosa ho tratto la contrapposizione che mi era venuta fuori, senza molta intenzione, in un precedente
commento. Quella "leggere" versus "assistere". Leggere vuol dire porsi attivamente in rapporto con il
mondo, con fatica e con adeguata strumentazione (anche culturale). Assistere richede solo il fatto di
essere passivamente presenti, accettando il ruolo di contenitori di rappresentazioni altrui che
parassitano e omologano. Il leggere è sempre un atto irripetibile, è un'azione e una relazione
trasformativa che differenzia l'individuo in una reciproca valorizzazione. L'assistere è ripetibile
indefinitamente, è una disposizione che riproduce un asservimento rendendo l'individuo più
omogeneo allo standard culturale.
Ora, si potrebbero fare molti esempi, ma credo che non servano. Più importante mi sembra il dire
tutta la necessità di una scelta, nel momento in cui si diventa consapevoli di differenze così rilevanti.
Se crediamo che siano rilevanti. E probabilmente lo sono qui, se parliamo di detitolatezza.
ottobre 23, 2006 at 10:42PM | omniaficta
Che poi spesso si confonde, il leggere con per esempio "l'interagire". Equivoco in aggiungere: si
confonde il concetto di interattivo con la censibilità di chi assiste. "Conosci il tuo pubblico" ti dice il
report dei referrers, ma ti dicono anche i commenti, se vuoi leggerli a questo modo, cioè come una
possibilità di "tarare lo spettacolo" a seconda del target, del tuo tipo di pubblico - o del tuo pubblico
tipo.
Si parla di interazione e se tu pensi ai link: i link sono un bel modo di conoscere gente nuova, ma
sono anche un bel modo per far precipitare qui in teatro il citato, che poi ti "recensisce" lo
spettacolo...
Troppe le similitudini col mercato dei libri o della cultura in generale, perché il web non diventasse
terreno di esercizio, di scontro o di conquista relativo a un mercato. Prendi noi (noi untitlededitori),
per esempio, quanti problemi ci poniamo riguardanti la relazione col nostro "pubblico": è che
pensiamo, da blogger, a un pubblico di "leggenti", non di semplici "interagenti"- morale ci sollevano
l'obiezione, che il nostro sito è poco "interattivo".
Incensibile e non incline a essere manipolato, vuol dire? vuol dire che pure se distribuiamo "omaggi"
(per esempio: offriamo letture), non possiamo contare i grazie-comprerò?
Ci siamo messe in un bel casino, questo si sa. Ma ti sembrerà strano, a me questo fa riflettere più in
relazione alla mia presenza, alla mia esistenza-in-web, che in relazione all'efficacia del nostro agire
sul mercato. E lo so che è da pazzi. Ma.
(scusa questo è un pezzettone ancora mezzo crudo...)
ottobre 24, 2006 at 09:43AM | untitled io
Ma. Ho parlato di irritazione, prima nel post, e mi dispiace di aver tirato in ballo una persona che
oltretutto è stata sempre gentile, con me con noi. Ma la mia irritazione stava nel fatto che io
pensavo che si sarebbe trattato di ragionare di una lettura, cioè di leggere, ancora e ancora, mentre
invece la mia segnalazione è stata presa (più o meno consapevolmente, perché questo è un
meccanismo), come un invito ad assistere a un mio spettacolo - non a leggere/leggermi. Questa la
natura, di quell'irritazione. E' un tipo di irritazioni di cui è difficile parlare, si diventa
immediatamente "sgradevoli" (e siamo ancora lì).
ottobre 24, 2006 at 09:54AM | untitled io
"lamentosi" (e siamo ancora lì)
ottobre 24, 2006 at 09:56AM | untitled io
e poi certo, c'è la detitolatezza: hai tenuto il tuo spettacolo, tu che diciamolo francamente chi cazzo
sei, il tuo spettacolo è visibile dappertutto, "di che ti lamenti"?
io mi lamento. Trovo il lamento molto sensato certe volte. Quantunque insopportabile, è evidente.
ottobre 24, 2006 at 10:00AM | untitled io
Stanchezza, sì.
Più che di talento, una questione di carattere. E fisarmonica, si sa.
Leggo qui e penso alla sprovvista che tu detesti la pazienza, ma perché lo penso, già?
Ci va carattere e fisarmonica, ma nessuno mai conta che ci va pazienza.
La pazienza che ci vuole. Per. Lasciarsi credere. Questa pazienza. Qualche volta. Stanca.
ottobre 24, 2006 at 01:34PM | zwie/dikanka
No sai cos'è zwie, è che la pazienza, non è che si esaurisce a poco a poco: si snerva e va a rottura per
snervamento, come un elastico che apparentemente è estensibile a dismisura. Tiri titi tiri finché è
elastico, segue irrigidimento (perdita di elasticità), segue rottura per snervamento. In questo senso,
la mia pazienza è un elastico.
Mi sono messa a parlare e tu ci vedi una "perdita della pazienza": è anche così, rifletto, ma se lo è, è
per un motivo assai grosso.
La sensazione è che in molti diamo per assodato di trovarci in un AMBIENTE - un ambiente
particolare, che significa di per sé delle cose (un particolare linguaggio, una particolare gestualità,
un particolare modo di procedere, una diversa modalità di attribuzione dei valori. Ci sono segni di
appartenenza, di riconoscibilità reciproca, ci sono promesse di orizzonti nuovi. Tutti noi che ci stiamo
intrecciando in questo discorso, siamo convinti che ci sia qualcosa di peculiare in questo ambiente ma prima ancora: siamo convinti di abitare uno specifico ambiente. Ma i molti altri? la maggior parte
degli altri?
Tu sai di star parlando all'interno di un contesto ben preciso, e anch'io. Chiunque pretenda di
decontestualizzare il discorso che stiamo facendo ci fa una specie di torto, è così? E allora perché.
Perché nel momento in cui ti metti a lavorare seriamente per questo ambiente, da questo ambiente,
IN questo ambiente, non puoi rivendicare l'esistenza di un contesto. E' da qui, dal fatto che molti non
siano d'accordo sul fatto che stiamo parlando da un contesto particolare (non VEDANO l'ambiente
nella sua evidenza), che nasce l'irrigidimento, per esempio un'improvvisa indisponibilità a "tradurti",
cioè a spiegarti attraverso codici differenti, che si pretendono più universali (più comprensibili), più
ASSODATI.
Sto facendo un discorso da blogger, da persona che tiene un diario online, che parla in rete da anni e
da anni costruisce i suoi rapporti (e perfino la sua stessa identità) in rete - non da sociologa, non da
critica, non da esperta di comunicazione, né da scrittrice, né da editrice, né da architetta, né da
artista, ma da abitante di questi luoghi. Se in molti continuano a negare (nei fatti, non a parole)
l'esistenza geografica stessa di questo luogo, io sono abitante di nulla, non sono nessuno, mi viene
sottratta persino l'unica identità forte che mi sono creata in questi anni, l'identità nella quale mi
riconosco di più.
Io credo in rete di essere più io che da qualunque altra parte - sono convinta di quel che dico. Non
posso parlare di QUESTO a persone non disposte ad accettare l'esistenza di uno stato.
Io sono più io nella rete che in mezzo alla strada: puoi accettarlo? e se puoi accettarlo, puoi
accettare il fatto che gli abitanti della rete tentino di darsi dei propri codici, dei propri linguaggi,
delle proprie modalità di attribuzione di valore?
E poi: sei proprio convinto, tu che neghi l'evidenza di questo ambiente (che la neghi in profondità,
non in superficie) che un giorno sarà il TUO ambiente, ad adeguarsi a questo? D'accordo non tieni un
blog, non hai mai fatto vita di rete, ma le email le scrivi, sì? o comunichi ancora leccando
francobolli? un sms lo sai scrivere sì? ti accorgi di quanto oggi "parliamo scritto" in maniera molto più
abituale e più fittamente di soli vent'anni fa? e allora perché continui a pretendere che in rete si
utilizzino modalità e scale di valori da secolo scorso?
Apprendo via Mitì che Paolo Ferrari si è aperto un blog. Paolo Ferrari, l'Archie Goodwin di Nero Wolfe,
hai capito bene.
Sono andata a vederlo. Mi è sembrata una cosa NORMALE: se Archie è una persona intelligente (che
importa se ha ottant'anni) oggi apre un blog. Chiunque abbia la mia età si può accorgere dell'estrema
stranezza, e insieme dell'assoluta normalità, di questa cosa. Chiunque abbia la mia età può
accorgersi, da questo, di quanto sia cambiato il mondo. E cosa vedi nei commenti al suo primo, goffo
post? (goffo come il post di chiunque si affacci al blog per la prima volta, sia chiaro)? Vedi commenti
"da fans" (o semplicemente da vippofili) che vanno nel camerino del teatro a farsi fare l'autografo e
la Fotografia con l'Attore, questo vedi. E' davanti a questo, che perdo la pazienza: davanti al fatto
che a nessuno dei visitatori sia venuta in mente l'opportunità di misurare il proprio immaginario di
ragazzino parlando finalmente in via diretta con Archie - e certo, specularmente: che a lui non sia
venuto in mente di chiamare il suo blog Il Blog di Archie, tanto per fare un esempio. Ma è più grave la
posizione dei commentatori (gente di rete?) che la sua: probabilmente, a una certa età, lui aveva
solo bisogno di un posto per chiacchierare. Forse se lo imaginava diverso dall'uscita del suo camerino
- in questo caso, vedi?, avrà anche lui la sua prima delusione da web (non dissimile dalla mia, per
certi versi).
(Ah naturalmente: parliamo di archie goodwin / chi se ne frega di archie goodwin)
ottobre 24, 2006 at 05:05PM | untitled io
Io accetto quello che dici: che in rete sei (ti senti) più te stessa che in qualunque altro posto.
Credo che sulla tua pazienza (averne/perderla) ci sia un malinteso, mi sono spiegata stupidamente.
Avere pazienza stanca, esatto. Per stare in rete ci vuole pazienza, «lasciarsi credere» da chi ti legge
(cioè esporsi all'interpretazione). (Spesso questo va molto al di là delle intenzioni di chi si espone.)
Perciò credo che tu abbia (avuto) molta pazienza, e che tu sia stanca di averne. Volevo dire questo,
sì, poco chiaramente.
Non capisco a chi ti riferisci quando parli di coloro che negano l'esistenza della rete. Che ti importa
di loro, se davvero esisti nella rete, insieme ad altri?
ottobre 24, 2006 at 05:28PM | zwie/dikanka
M'importa, per esempio, perché abbiamo costruito una casa editrice che lavora sull'ascolto
quotidiano e sulla "valutazione" di alcune voci in rete. M'importa del fatto che è quasi impossibile
spiegarsi quando ne parli - e passi quando lo fai con persone che nella rete non ci mettono piede, ma
con persone che nella rete ci stanno?. Se dico a certe persone "che m'importa di uno che sa scrivere,
m'interessa il movimento che fa, su quali tonalità costruisce il suo blog, la sua POSTURA", già stop,
non ti capiscono. Ti chiedono: ma che tipo di libri sono? tipo A? tipo B?
ecc
Ma poi m'importa anche al di là della casa editrice. Quando mi accorgo che il modo di parlare e di
stabilire relazioni in rete si è andato omologando, col tempo, al modo di parlare che avevamo prima prima della rete dico. Una certa "vivacità di conversazione" non riesce a mimare se non molto
goffamente, per esempio, la velocità di azione e reazione, di trasformazione e accrescimento delle
parole dette, che poteva stare alla base (e in effetti certe volte sta ancora) di un modo di parlare in
rete molto peculiare che abbiamo tutti quanti, chi più chi meno, sperimentato. Per esempio, chi
l'avrebbe mai detto, che in rete sarebbe resuscitato il famigerato "dibbattito", e proprio nelle sue
forme più convenzionali e pallose?
Per dire.
ottobre 24, 2006 at 06:00PM | untitled io
Entrare nella rete da adulti - un tempo,secoli fa, si entrava dai forum, ora moltissimi entrano
direttamente nel blog,- continua ad essere un'esperienza trasformante. Non so per i ragazzini: se li
guardo alla tv mi stupisco sempre della totale semplicità e disinvoltura "spettacolare" che mostrano
nei confronti della telecamera, come se ci fossero nati dentro, alla televisione. E in effetti. Forse
sarà così, naturale, anche l'uso del web, fra poco. Ma per chi si è formato diversamente, la
percezione della differenza della rete, del virtuale rispetto alla realtà fisica è spesso sconvolgente,
per tutti del tutto innegabile. Tranne che per chi ci è entrato già corazzato e "televisato" ma non nel
senso che diceva Llu. E, sai unts, non credo che uno come Paolo Ferrari, che purtroppo a me fa
venire in mente più il dixan che archie, non sia corazzato e si aspetti qualcosa di molto diverso dalle
chiacchiere da camerino. Ma la mia è un'illazione irragionata e pessimista. Per i "normali", invece, le
domande, lo stupore, lo straniamento, le perplessità, il che ci faccio io qui? il che cosa sta
succedendo? vedo che si ripetono costantemente, a ondate quasi regolari e sempre allo stesso modo,
ad ogni chiamiamola generazione, che entra. Basta andare su piùblog e lo si vede subito. Ma ho letto
anche gli ultimi post di solotu.
Dura un anno, un tempo almeno due, se non di più. Poi accade la retroazione, l'omeostasi. Il ritorno
alla condizione precedente: la maggior parte se ne va abbandonando il "virtuale" oppure resta a
condizioni statiche, omologate, televisive, salottiere. Succede persino con la guerra, con le
condizioni più sconvolgenti, che la gente si adatti, facendo il più possibile, appena possibile, "come
se" la situazione non ci fosse. Evidentemente la torsione percettiva indotta dalla rete, la
stimolazione intellettuale ed emotiva sono mediamente troppo forti e molti cercano di non
prenderne davvero atto. Sì che la rete, e il blog, è una rivoluzione. Ma è un po' come fu, presumo,
con le invasioni barbariche nella storia. Non è un caso che siano di moda :) Non credo che Tullio Acilio
Pincopallone di chessò Adria Maris, nel 408 d.C. abbia poi visto lacerarsi la propria vita rurale "solo"
perchè nel 405 l'Urbe era stata messa a ferro e fuoco da Alarico.
ottobre 24, 2006 at 08:39PM | caracaterina
Certo ci sono sempre state le campagne. Ma la loro persistenza non ha mai impedito il cambiamento
nel cuore di qualche altrove più agitato. E intanto il trisnipote di Pincopallone era già un po' diverso
da lui, e manco lo sapeva perché.
Dico qui. Spogliarsi di quello che si è intravisto è difficile, tanto più quando pensi che si sia trattato
di qualcosa di essenziale. Si può rimanere muti, per un po', però poi si finisce per parlare. Borbottare
almeno. Rivendico l'esercizio di un borbottio fastidioso, almeno.
Sì voglio proprio borbottare fastidiosamente. Non era il borbottio fastidioso che provocava terremoti
dall'altra parte del pianeta? Ah no quella era la farfalla.
Sfarfallerò un altro po'. Scusate l'aria divagante ma mi hanno distrutto la casa, per via della celebre
perdita
dell'impianto di riscaldamento. Polvere dappertutto e si vede il cielo da un buco nel solaio.
ottobre 25, 2006 at 12:21AM | untitled io
nella parte che mi tocca gabbia televisita -ho visto che in italiano dite teletrasmettere, allora
sarebbe gabbia teletrasmessa- voleva dire. Per esempio. Io (io narrante) faccio Isaac, tu (tu
immaginario) fai Dio tuonante. Altro io, per esempio, Stiller, si passa le sere sperando la revisione
d'un vecchio processo. Ha le provi tutti in contro e poi già sono state giudicate e lui condannato nella
prima istanza. Nella corte d'appello non si possono aportare altri provi. Tranne se fossero di fatti
posteriori. Nel web ogni giorno ci sono fatti posteriori, retroscene invisibili, che modificano le acque
come le onde il mare. Tu, tu, immaginario, hai a favore la tua non esistenza. La non esistenza ricorda
a volte lo spazio scivolante qua dentro. Senza muri nè palco, col pubblicco e gli attori mischiati, tutti
in piede più la scena sempre cambiando secondo dove punta la luce dei canoni, le parti che restano
temporaneamente in ombra. Un cane che entra per caso, si confonde tra gli attori e cambia la
marcia dell'argomento, scava nella sabbia un bucco. Una porca anche lei mezzo sognata entra e grida
e non sai se grida di dolore o di allegria. Io ho un poco di febbre adesso, è la prima influenza di una
stagione che si prevede con pioggie di ottobre ad agosto. Piovve tutta la notte e le gocce urtano
contro l'ondolux. Io il diario intimo pubblico lo capivo come l'intimità privata che ognuno da solo
stabilisce con certi blog pubblici, la stessa solitudine che si da tra uno e un libro. È una cosa solo a
due, come la scena amorosa dove spesso ci sono 3. Poi, stavo leggendo un post di mics. Parla del volo
di notte di Exùpèry. Exupèry l'ho letto per animarmi a non andare a Trieste in bici. Nonostante
Exupèry al finale spariva nell'aria, anche il pilota Fabien, doppo toccare Patagonia. Tocca San Julian,
Patagonia, lo giusto per invidiare la vita a terra che si sta perdendo, le piazze e le luci e i vicoli, ma
lui deve salire, entrare nel cielo come nell'oceano. Prima di sparire ASE, inaugura la posta notturna
Francia-Argentina. C'e nei blog, nel web, tanta posta notturna e di mezzogiorno. È quasi il rovescio
della parte visibile, la micropunta dell'iceberg. Io adesso vado a farmi un te rosso meglio
ottobre 25, 2006 at 10:44AM | llu
televisita, che lapsus. io non credo nella ricerca giaponessa dell'io a distanza, contro un cristallo
illuminato
ottobre 25, 2006 at 11:10AM | llu
"Per i "normali", invece, le domande, lo stupore, lo straniamento, le perplessità, il che ci faccio io
qui? il che cosa sta succedendo? vedo che si ripetono costantemente, a ondate quasi regolari e
sempre allo stesso modo, ad ogni chiamiamola generazione, che entra"
è così, come dice caracaterina, è così e mi trova d'accordo e forse non è la direzione del discorso che
preme a panna.
ma, si sa, nel web uno posta e poi le risposte vanno per conto loro
Volevo manifestare un disagio, mio personale.
Forse era meglio stare zitta.
é un disagio che ci ha attraversati tutti, però, credo, chi più chi meno. Io evidentemente sono tra i
più.
Vi leggo, mi piace leggervi, qualcuno di voi mi incanta addirittura, scrivo, ogni tanto, senza
particolari velleità letterarie, dato che conosco i miei limiti, posto foto.
Ma il disagio arriva, ogni tanto ad ondate, quando non capisco, quando credo di non essere capita,
quando mi sento scrutata, quando scruto.
Invidio chi sta in questo mondo con leggerezza. A me sembra sempre di starci con "lacrime e sangue"
Leggo anche "lacrime e sangue" e magari invece non lo sono, sono solo racconti.
Mi identifico, mi rattristo.
Penso.
Un piccolo disastro, insomma.
Per non farla troppo lunga.
Del resto sono di una generazione che non ha acquisito i fondamentali per tempo.
In effetti, non è obbligatorio che resti.
Probabilmente non sono adatta al web.
Che ci faccio qui?
ottobre 25, 2006 at 01:33PM | bri
pesci in un acquario
"un'immagine come un'altra, abbastanza vera d'altra parte. La ripetizione all'infinito di un'ansia di
fuga, di attraversare il cristallo e di entrare in un'altra cosa.
"Chissà, - disse la Maga - "A me pare che i pesci non vogliano più uscire dalla loro vasca, quasi mai
toccano il vetro con la punta del naso"
Gregorovius pensò che da qualche parte Chestov aveva parlato di vasche per i pesci con un tramezzo
mobile che, al momento voluto, poteva essere tolto senza che il pesce, abituato al proprio settore, si
decidesse una sola volta a passare dall'altra parte.
Arrivare fino a un punto dell'acqua, girare, tornare indietro, senza sapere che l'ostacolo non esiste
più, che basterebbe continuare ad avanzare..."
"Il gioco del mondo" di Julio Cortàzar
ottobre 25, 2006 at 01:53PM | bri
cortázar a peri rossi gli disse una volta, cazzo, quanto "mate" metto nei racconti, sempre mi trovo
qualcuno leggendolo. e però io l'odio il mate, mai lo bevo
ottobre 25, 2006 at 02:38PM | llu
bevendolo il mate, leggendo il te, forse
ottobre 25, 2006 at 02:43PM | llu
ecco, sì, forse dovrei fare così.
leggere il te e bere il mate.
ci provo.
ok?
magari mi trovo meglio.
ottobre 25, 2006 at 02:58PM | bri
a me pare, se è possibile dirlo così: un discorso di economia. che tipo di rapporto io ho con il mondo?
con gli altri? con gli altri e il mondo nel web?
questo mi sembra la costante di tutte le discussioni e che l'intervento di caracaterina me lo ha reso
lampante. Non arrivo a dire, e a fare uno dei miei soliti sermoni, sul fatto che la maggior parte dei
rapporti si basa su forme d'uso: ma la rete è uno strumento in cui io stringo rapporti con altri (li
possiamo vedere come lettori, come amici, come altri da noi comunque) attraverso l'uso che faccio io
di un mezzo.
anna, ad esempio, ha scritto questi post, che a me hanno ricordato quelli che scriveva nel post di io e
palmasco su tiscali. In quella sede lei usava il blog così, come avete visto in questi ultimi tre. Da
quando ha aperto il suo blog nella piattaforma qui, per molto tempo è divenuta un'altra cosa. Io per
cercare anna, andavo nei sine link, mentre confesso che ancora ora provo un certo 'fastidio' per il
cinetoscopio.
Leggere questi post, gli ultimi tre, mi ha fatto tornare a io e palmasco e quel blog.
Domanda perché non scrivi più in quel modo lì? Perché non usi più il blog in quel modo lì?
ora neppure io uso il blog in quel modo lì. MI ricordo sempre che alice quando dovevo andare in
Olanda, si è messa a leggere il mio blog anche negli anni che io e lei non ci si frequentava
bloggescamente.
Ogni tanto mi arrivava una sua mail, con un link ad un mio pezzo e mi diceva: ma perché non scrivi
più così?
io a quelle mail rispondevo solo: ehehhe ehehhe.. con una risatina.
perché è difficile spiegare il motivo che ti porta ad abbandonare certi sentimenti. In questi giorni nel
mio blog ho postato degli appunti per un racconto che non so se scriverò mai. e sono lì messi così,
perché io non so se *voglio* tornare lì.
così come non so se voglio tornare a un certo modo che avevo di fare blog.
ecco volevo dire che certe volte calano i barbari e a me piace leggere ammiano marcellino, per dire.
ottobre 26, 2006 at 08:59AM | demetrio
sì anch'io ho avuto la sensazione di tornare a ioepalmasco. Ma se mi permetti, a differenza di te, io
da me non me ne sono mai andata mi pare :)
dove "me" sta per: ioepalmasco + questo blog + sinelink + cinetoscopio = il discorso che faccio. Non
solo fatto di parole, ma anche fatto di azioni, allestimenti e accordanze. Almeno, così è
confusamente nella mia testa.
La domanda "perché non fai di nuovo così?" (rivolta a me) non ha proprio senso mi pare. Perché lo
devo venire a dire a te? Ho le mie ragioni. Il mio discorso, il mio b-log, ha le sue ragioni interne.
Rivolta a te invece, la stessa domanda può voler dire: perché vuoi abbandonare definitivamente il
tuo discorso "individuale"?
Dal momento che penso che il blog si regga su una voce individuale, individuata, individuabile, voce
umana, voce, discorso individuale, quella rivolta a te mi sembra una domanda sensata - quella rivolta
a me, no :)
ottobre 26, 2006 at 10:47AM | untitled io
(oggi ho dato per la prima volta una definizione di "blog", a una persona che me lo ha chiesto. Le ho
detto: il blog è il discorso che fa uno, in rete)
ottobre 26, 2006 at 10:50AM | untitled io
ora che ci penso, sta cosa può aiutare a spiegare molto bene cos'è che cerca di fare Untitl.Ed. E'
come se si mettesse ad ascoltare uno che parla per un anno, due, tre: lo sente dire delle cose,
raccontare fatti, muoversi, assumere delle facce, dei modi, vede come fa, come si mette, come si
porta in avanti, e alla fine, affascinata, dice a questa persona: se tu scrivessi un libro, io lo leggerei.
ottobre 26, 2006 at 10:58AM | untitled io
sì, ma c'è dell'altro.
dov'è il punto di snodo tra intimo e pubblico?
Dove non è solamente intimo-intimo, o pubblico-pubblico?
E' forse là dove chi legge ritrova in quello che è scritto qualcosa che gli appartiene (non dico che sia
un principio di identificazione).
Può trattarsi di una sitassi, un respiro, un modo di esserci, o anche di cose del tutto sconsociute e
inindividuabili (e allora la cosa che appartiene sarà lo stupore di fronte allo sconosciuto e
all'inindividuato).
Cioé, c'è un discorso a monte, un discorso magari mai fatto prima, ma che in qualche modo c'è, in
qualche modo potenziale esiste, per cui ci si riconosce, ci si sa (dove quel "ci" è polivalente; noi, voi)
Io allora risponderei così; il blog è il discorso dei presupposti, del riconoscersi (noi stessi, gli altri)
ottobre 26, 2006 at 03:44PM | Effe
dov'è lo snodo?
I punti di snodo secondo me sono nascosti. Forse stanno nei non detti, come suggerisci, ma non è
detto. Niente è catalogabile, se parliamo di questa specie di mescola. Per la verità, appunto,
neanche parlerei di snodi: non vedo un confine netto fra intimo e pubblico, a me sembra che sfumino
continuamente l'uno nell'altro. Al massimo, se di mescola si tratta, mi interesserebbero le percentuali
- ancor di più, m'interesserebbe il processo grazie al quale si ottiene l'omogeneizzazione (relativa,
certo) di quella mescola (dio, mi sembra di essere un tecnico della pirelli!).
L'intimo-intimo e il pubblico-pubblico non sono mescole, quindi a rigore starebbero proprio fuori da
questo discorso.
ottobre 26, 2006 at 04:01PM | untitled io
L'intimo-intimo (irriconoscibile come un pezzo anatomico fotografato su un manuale di medicina) e il
pubblico-pubblico (noto e stranoto, oggettivizzato dall'emissione continua di "opinioni" che lo frullano
e lo rendono, ancora una volta, irriconoscibile) sono vie di fuga, per evitare la mescola. E' come
quando la maionese impazzisce, come quando va a male lo yogurth. E' la degenerazione del blog,
quella che, fra l'altro, finisce con grande frastuono di grancassa fuori dalla rete. Quella mescola si
produce soltanto quando si sta dentro e si regge il viraggio che si viene a creare nel momento che è
descritto da Umberto Fiori nella prima delle poesie che ho postato di là. Se si riesce a stare dentro a
quell'imbarazzo, dentro a quel gelo di sangue, a quel perdersi, ecco lì si forma il discorso di "uno",
che "è lì", "bruno e magro", "a parlare al muro".
ottobre 26, 2006 at 09:53PM | caracaterina
l'intimo-intimo e il pubblico-pubblico, credo, *sono*, e non *comunicano*.
Hanno una loro funzione estetica, ma sono inappropriabili - che è un altro modo per dire che sono
inconoscibili - perché la comunicazione sottointende l'appropriazione, eventualmente anche indebita,
come d'altro canto la sottointende la lettura.
Lo snodo, o la mescola (che è pur sempre la dimensione in cui due vettori diversi si incontrano, si
sovrappongono, si uniscono) potrebbe essere allora proprio il momento dell'appropriazione
(allora continuo; il blog è il discorso dei presupposti, del riconoscersi, dell'appropriarsi)
ottobre 27, 2006 at 09:23AM | Effe
effe lo sai che stavolta non ho capito una parola?
ottobre 27, 2006 at 10:12AM | untitled io
cioè dai, effe, stiamo cercando un po' di senso. La conclusione non può essere non c'è senso, tutto
sfugge, nel momento in cui mi approprio vengo derubato, m'approprio in quanto stante rapace in
quest'imbroglio di miscuglio, o sono un presupposto (che è, un presupposto?). Non c'è vettori in una
mescola, la mescola è diversa fisicamente da uno snodo - volevi dire biella?
Dai dai dai dai. Non possiamo, noi, metterci a fare ORA questi giochini. Non più, credo. E guarda che
sono una che si è tanto divertita giocando. Ma mo non mi diverto: il problema sono io?
ottobre 27, 2006 at 10:20AM | untitled io
(mi sono dimenticata la funzione estetica dell'intimo-intimo e del pubblico-pubblico. Guarda che sto
agguerritissima)
ottobre 27, 2006 at 10:26AM | untitled io
secondo me strettamente legato a questo c'è questa cosa che ha scritto matteo.
Matteo si lagna giustamente che qualcuno su Nazione Indiana abbia preso alcuni suoi pezzi di blog e
l'abbia copitati pari pari nei commenti e si sia firmato "colti sbagli".
Oltre a lamentarsi dice una cosa matteo, che il tipo che si voleva spacciare per lui in realtà non
aveva capito niente, perché non aveva campito come Matteo si comportava in rete, soprattutto per
quanto riguarda il modo di commentare
Mi cito il passo, perché credo che involontariamente metta altra carne a cuocere qui.
"il bello è che chi ha finto (il cretino/a) per qualche commento di essere me, copincollando vecchi
post, lasciando intendere di esserne l'autore, lasciando citare il mio cognome, non sapeva
assolutamente come io scriva e commenti. Cioè non sapeva affatto come io mi "comporti" in rete.
Questo è interessante: in rete una posizione "comportamentista" sembrerebbe funzionare molto
bene. Forse non siamo quello che scriviamo sulla Rete, ma come ci comportiamo in essa. Vale a dire
la somma di atti di scrittura, commenti, silenzi, omissioni, prese di posizione, (quelli che io
chiamerei "giochi") che lì pratichiamo per un dato tempo."
interessante no?
d.
ottobre 27, 2006 at 11:04AM | demetrio
(snodo, biella, che ne so, per me la meccanica si ferma all'invenzione della vite parker)
E allora, didascalico:
la comunicazione è appropriazione. Dici che questo non ha senso? Io credo che la comunicazione
avvenga SOLO se le parti si appropriano, in questo movimento, di qualcosa (un'informazione, una
suggestione, una presunta verità).
Se la comunicazione è inappropriabile, non è comunicazione. E' un oggetto, magari bello, che magari
ha una sua giustificazione estetica, ma è inappropriabile.
Come dire: non cambia la direzione in cui sta andando chi guarda quell'oggetto..
E uno.
Poi, l'appropriazione può anche essere indebita, non consentita, travisata, adulterata, fatta senza
permesso, come nel caso di Matteo segnalato da Demetrio. Eppure, in questo caso illegittimo e
indebito, evidentemente una comunicazione è avvenuta.
I presupposti, poi.
Ecco: come ci si può appropriare di qualcosa (cioé: come ci si può avvicinare a qualcosa e
comprenderlo) se non c'è una sintassi condivisa? Se non scatta un meccanismo per cui si dice: io
questa scrittura, questa mescola, questo [accrocchio meccanico di cui non consoco il nome) la riconosco, in questa lingua mi ri-conosco.
Il publico-pubblico e l'intimo-intimo, sono invece irriconoscibili, per ecesso nel primo caso, per
difetto nel secondo.
Ora: a che gioco giochiamo?
ottobre 27, 2006 at 11:25AM | Effe
sì certo dem, interessante. E non mi stupisco che questo sia avvenuto in nazione indiana, dove
notoriamente non c'è nessuno che abbia mai capito nulla di blog, e dove si creato il più grande
equivoco sul blog, cioè quello che si tratti del luogo mitico abitato dai Troll - troll coi quali la
maggior parte di noi non ha mai avuto a che fare.
Sto dicendo appunto questo (e scusa se non raccolgo la corda che mi lanci): che questo modo di
parlare per slogan, per proverbi, per scombìni e ricombìni semantici sintattici, è sì un bel modo di
vestirsi "accessoriati", o a festa, nel senso di festosi, ma è anche un modo per essere fraintesi, o
peggio non intesi per niente. Diventa, mi pare a me, una specie di mormorio di sottofondo che ti fa
dire: sì ecco, SIAMO IN RETE.
In rete che, a far che?
Quindi va bene il modo di comportarsi, è un segno della persona, e matteo come pure effe sono
persone "che si distinguono", ma di quel tipo che spinge all'imitazione, "fai il re? sì, sì, giochiamo a
re!".
Spesso quando me la prendo con loro, con matteo per esempio, o con Effe, dico "con tutto l'affetto"
(tipo: "con tutto l'affetto, smettetela"). Lo dico sinceramente. Penso che dovrebbero smettere di
giocare . Certo, dire a uno che in rete si chiama Giocatore (Matteo) di smettere di giocare è un
controsenso. Ma i tempi sono tempi, bisognerebbe avere, anche un po', l'elasticità per riconoscerli, i
tempi. Qui tutti stanno facendo del web una cosa diversa da quello CHE E', e noi giochiamo e
facciamo gioco.
ottobre 27, 2006 at 11:27AM | untitled io
scusa effe rispondevo a demetrio non t'avevo visto. Ecco vedi cosa dicevo? è così semplice parlare :)
...perché io DESIDERO che tu parli, hai capito? "ad Anna piace il prossimo suo", era uno dei primi
sinelink. Quando ti vedo smettere di giocare, all'improvviso, è lì che ti riconosco, lo sai?
Grazie per aver interrotto immediatamente di giocare - perché lo so che è irrefrenabile per te,
quando ti prende non ti sai trattenere. E poi i giocattoli si rompono, lo sai? certe volte si rompono, o
te li rompono.
ottobre 27, 2006 at 11:33AM | untitled io
Chissà se è proprio off topic run rimando qui, ai post di oggi:
http://www.vibrissebollettino.net/archives/2006/10/gino_tasca_isai.html
http://www.vibrissebollettino.net/archives/2006/10/con_il_cuore_de.html
http://www.vibrissebollettino.net/archives/2006/10/afasia_malattia_1.html
ottobre 27, 2006 at 12:24PM | zwie/dikanka
un, no run
ottobre 27, 2006 at 12:25PM | zwie/dikanka
(run, Anna, run)
Il non sapersi trattenere, il non delimitare, il non raffrenare, non è forse una forma di intimopubblico?
ottobre 27, 2006 at 12:38PM | Effe
sì
ottobre 27, 2006 at 12:59PM | untitled io
avevo scritto un commento bellissimo, illuminante, definitivo, che ci chiariva a tutti come stanno le
cose, mica come questo qua che scrivo adesso. ma se l'è mangiato internet e non riesco a ritornarci.
1) scrivere nel blog ti dà dei momenti di disforia tragici, quando vorresti chiudere su tutto: non è
mica facile guardarsi così in uno specchio - e tu sei la matrigna, c'è sempre qualcuno di più bella nel
reame
2) scrivere nel blog è essere fedeli a se stessi: se ti tradisci la paghi
3) quando superi quei momenti che vorresti chiudere su tutto e superi il fastidio per quel te stesso
che hai scoperto e messo a nudo (mon coeur mis a nu?) prendi delle vie nuove
4) un po' casuale, un po' distratto, attenzione fluttuante, leggero, nonchalante: a me piace così
5) ben scritto: ti fa stupire
6) e soprattutto è un RACCONTO: quel discorso lì che si fa in rete E' UN RACCONTO
7) (è un racconto così complesso, che non ci provo neanche a raccontarlo)
mics
ottobre 27, 2006 at 04:22PM | mics
Commento fra parentesi, fra molte parentesi.
Per zwie, che un po' più sopra ha citato i post di vibrisse che parlano di gino.
Io quando sento parlare di gino vado di là e mi rileggo centinaia di lettere fogli roba scritta che ci
passavamo, pettegolezzi lettere furibonde soprattutto.
Poi entro nel silenzio e punto e basta, questo è intimo questo è pubblico questo è tuo.
I commenti ripartono da questo è tuo tralasciando il resto credo e le fuorvianti classificazioni,
scusate e chiudo a scrigno tutte le parentesi, dico a scrigno.
Ah, OT. Ho scoperto che se uno qui non riesce a commentare, può essere che sia perché mette il suo
URL. Nel caso, riprovate senza mettere l'URL, certe volte funziona.
Dicevamo questo è intimo questo è pubblico questo è tuo, ma anche questo è specchio come dice
michele.
ottobre 27, 2006 at 05:48PM | untitled io
(secondo me "questo è specchio" è la cosa che più ti tiene schiacciato sul piano orizzontale)
ottobre 27, 2006 at 05:52PM | untitled io
RACCONTARE, Anna, non RACCONTARSI: attivo, non riflessivo
mics
ottobre 27, 2006 at 08:30PM | mics
sì certo, raccontare. E' che pensavo alla più bella del reame :)
ottobre 27, 2006 at 09:51PM | untitled io
voglio dire, io per me non faccio la pura, mi guardo molto allo specchio qui. Diciamo che con un
occhio guardo il prossimo mio, e con l'altro mi controllo allo specchio. Ecco, mi controllo, forse è più
esatto che dire "mi guardo". Comunque sempre specchio è. poche palle (poche palle me lo dico da
sola, non sto dicendo a te...)
ottobre 27, 2006 at 09:55PM | untitled io
...a proposito di miroirs, qui forse val la pena aggiungere il link a un mio vecchio post. Non tanto per
il vecchio post, più per la foto, ma soprattutto per i 66 commenti che ci stanno sotto (se no che
parliamo a fare, nel tempo?):
http://www.untitlededitori.com/dir/2005/11/6/come-fanno-a-vivere-ou-des-miroirs.html
ottobre 27, 2006 at 11:03PM | untitled io
umh, dici che se non metto l'url il mio commento forse viene pubblicato... clic
ottobre 28, 2006 at 03:03PM | mauro wreck
wow!
ottobre 28, 2006 at 03:03PM | mauro wreck
That's All Folks :)
ottobre 28, 2006 at 03:38PM | untitled io
state aspettando altra carne vero? :)
difficile organizzarsi, quando un bel po' di carne è ancora sulla griglia...
vi annuncio che fino a quando non mi si libera la griglia, non posso mettere più carne a cuocere...
e comunque, fintanto che c'è ancora carne, al fuoco bisognerà pur metterla.
Prima o poi.
ottobre 30, 2006 at 09:21AM | untitled io
mi viene da dire che lo specchio oltre che a specchiarsi serve anche per incendiare le navi nemiche a
largo di siracusa.
ottobre 30, 2006 at 10:10AM | demetrio
"Con spada orrenda i Titani violarono Dioniso che guardava fissamente l’immagine mendace nello
specchio straniante" :-)
ottobre 30, 2006 at 10:36AM | l.ireni
sì, sono uno di quelli che aspetta altra carne, slurp, e a proposito di specchi, sto leggendo un saggio
di Deleuze che interpreta gli scritti di Lewis Carroll e... va beh, c'è un elefante da mettere sul fuoco
qui
ottobre 30, 2006 at 11:50AM | mauro wreck
io mentre, continuo pensando che i blog, della scrittura in carta, si differenziano specialmente per il
fatto che in carta la scrittura è diferita, chissà quando si trova coll'altro, uno, due mesi, 5, un anno
dopo essere stata scritta, mentre l'incontro qua è immediato come per gli attori o per l'ªmore. Senti
subito, in diretta, il fallimento o la fortuna delle cose che hai detto, scritto. Credo che questa
consapevolezza segna il web.
Poi, altra banalità, siccuro, il sabato, parlando con hanna, pensai che l'immortalità -io mai pensai
all'immortalità però. Che parolona- in certo senso, qua, -che hai la vita a mano, come entrare nel
mare in luglio- perde forza. Quell'altro invisibile, al cui ti diriggi, che cerchi o eviti, che un tempo si
giocava in solitudine, a lungo termine, adesso te lo trovi già, subito, tutto il tempo. Quello che
capita con le parole, coi pensieri, capita adesso, non c'è altro futuro, uno spazio altrove al cui
rimandare. Il titolo della carne io l'ho tradutto in questo senso, Corpo. Corpo a cuocere. Corpo a
cucire. Penso che nel web siamo consapevoli tutto il tempo dello essere, dello stare, sostenere col
corpo le parole che diciamo, dirimpetto ad altro che sta anche qua, ascoltandole col suo corpo.
boh. sono note in fretta, forse banalissime.
vado in ufficio
ottobre 31, 2006 at 09:26AM | llu
Mi trovo in quel punto del commentare, al centro del labirinto, dove uno non sa quale filo del
discorso incendiare. Hai presente quando si brucia la corda per sigillarne la fine? Solo che nessuna
bruciatura può sigillare nessuna fine corda. Non ti dico poi il piacere di trovarmi così citato.
E' inutile che riassuma la mia posizione "teorica" sul tutto qui in questione. La coazione a giocare per
me è "ontologica" (l'ho detto, m'è scappato) e mentre tu mi dai lo scappellotto affettuoso "e non
buttare sempre tutto in vacca, smettila di giocare!!" (pur riconoscendomi l'onesta e la coerenza di
distinguermi per questo tratto o in questo tratto) io vedo noi due, o noi tutti, affacciati sul vetrino
che ci contiene e dove si svolge l'azione di tu che mi inviti a smettere di giocare. (smettere di giocare
è costitutivamente impossibile...non solo per me). Basta intendersi sul concetto di "gioco".
Ma, ti chiedo, in che modo potrei smettere di giocare? quali miei comportamenti di rete, scritti,
commenti, ti farebbero dire che ho smesso di giocare? Quali sono "le gambe", l'altitudine, il
linguaggio dal quale potresti riconoscere tale scarto, tale cambio di passo? Un "interpretare i tempi"
fuori dal tempo?
Io cosa è il web non lo so. Non so nemmeno cosa dovrebbe (considera che io al posto di "dovere" uso
"potere" ogni volta che posso...o che devo), potrebbe, diventare. Ne abito una minuscola porzione,
ne gioco una piccolissima piastrella. E poi qui fa molto più freddo che su "ioepalmasco". E il divano è
più scomodo.
ottobre 31, 2006 at 09:49AM | Matteo
A proposito del *giocare* mi viene in mente quel breve saggio (Homo ludens)in cui Huizinga cerca di
articolare un discorso intorno al gioco e dice una cosa che sembra paradossale, scrive *tutto ciò che
può essere interrotto è gioco*, e io sono saltato sulla sedia perché questo significa annullare ogni
differenza tra gioco e vita (anche la vita può essere interrotta) e che ogni attività seria è anche
gioco. Un'altra cosa, legata a questa premessa, era relativa al *guastafeste*, cioè colui il quale viola
sistematicamente le regole del gioco che si sta giocando per smascherarne la natura, appunto,
ludica. ad esempio uno spettatore che si alzi durante una rappresentazione teatrale per dire che
quella è solo una recita e mettendosi ad anticipare le battute. Ma anche, e qui Matteo può
intendermi, uno che frantumi il linguaggio (quale gioco) seguitando senza tregua a cercare un
fondamento e quindi negando tutti quelli che vengono proposti. Un esempio di guastafeste del blog
potrebbe essere lo spam? Sono andato OT? boh, 'sti giorni seguo le nuvole.
ottobre 31, 2006 at 11:11AM | mauro wreck
Beh qui hai smesso di giocare per esempio, giocatore. Certo è solo un commento, ma che commento,
da che posizione scomoda. Non stai giocando affatto, adesso, cioè.
A me pare che nel momento in cui si smette di giocare (perché non sei stato e non sei l'unico, a
giocare, anch'io ho giocato e a volte gioco, so com'è), si comincia a "stare", ad abitare. Ha a che fare
con quello che diceva llu, prima di te. A a che fare col fatto che senti freddo, che senti scomodo il
divano. A a che fare con questa scomodità penso.
Io sto tutta, adesso, in questa stessa scomodità. Credo che sia questo (una persona che all'improvviso
dice: sto scomoda) che ci fa stare tutti qui: io a cercare di postare ancora su questi argomenti (sì: i
soliti), a sentirmi addossso l'obbligo, in un certo senso, di farlo, e voi a cercare di commentare, con
la sensazione forse che sia giusto esserci, in qualche modo.
Io ho questa impressione. Che dal gioco in poi, dal fatto di mettere in discussione che si tratti di un
gioco di cui imparare le regole e a cui giocare, stiamo tutti un po' a bocca aperta come pesci, a
chiederci e adesso che si fa?
Io intorno al che-si-fa, una risposta parziale ho cercato di darla, mettendo in piedi questa cosa della
Casa, per esempio. Un'operazione che si propone di mantenere il web come campo principale di
interesse - non una cosa che si propone di uscire dal web, per andare su carta o per strada o cosa.
Una cosa che tutto riconduce al web, assumendo il fatto che il web sia LA COSA IMPORTANTE - non
uno spazio di passaggio, e nemmeno di diffusione o di amplificazione, non uno spazio come un altro
cioè, ma LO spazio, lo spazio che ci tocca adesso abitare, dove è meglio abitare stabilmente adesso.
Se pensi alla vita che ci passiamo qua. Pensaci un attimo. Io continuo a stupirmi, e in presenza di
questo stupore, ho la sensazione di non trovarmi più davanti a un gioco - o Grande Gioco che sia.
Insomma io non credo che la rete sia la rappresentazione di uno spazio, ma veramente uno spazio. Da
qui nasce una tensione dalla quale mi è sempre più difficile parlare, spiegarmi, e a quanto sento non
mi pare di essere la sola. Molte persone mi stanno esprimendo disagio per questa specie di
discussione,m anche privatamente. Fosre perché non si tratta di una vera e propria discussione, ma
del prendere possesso consapevole di uno spazio - col corpo, come dice llu. Non è una cosa da poco,
mettersi ad abitare.
ottobre 31, 2006 at 11:18AM | untitled io
(scusa mauro non t'avevo visto. Sì che ti stai rivolgendo a giocatore, ed è interessante...)
(e intanto mi chiedevo: sono io guastafeste? io che le feste le ho sempre organizzate, io?)
ottobre 31, 2006 at 11:21AM | untitled io
(per Mauro, ma qui dove è che si piega la vanga? Perché la mia idea è che qui la vanga non trovi mai
dove piegarsi. Per questo poi, forse, sembra che io ritenga più importante il "fuori" del
"dentro"..boh...mentre non penso affatto ad un fuori -rete- ed un dentro -rete- gerarchicamente
organizzati e orientati.)
Anna, io appunto sostenevo che non ci sia un punto esterno dal quale tu possa dire che io smetto di
giocare o no. L'opposizione non è tra "giocare" e "con-sistere". Perché l'abitabilità di cui parli è, di
necessità, uno spazio linguistico. Se non è uno spazio linguistico, invece, l'abitabilità di cui parli
potrebbe assumere i tratti di una "nevrosi" (la "tensione" indescrivibile cui accenni).
Per me il tema è quello del co-abitarsi. Lo spazio linguistico, e logico, di un reciproco co-abitarsi.
Poi, magari, domani io smetto di firmarmi "giocatore", mi compro un dominio coltisbagli, unifico
tutte le esperienze di rete, mi faccio pubblicità etc. etc.
ottobre 31, 2006 at 11:55AM | Matteo
Non so, se si intende che il guastafeste rientra in qualche modo nel gioco (ad esempio, lo spettatore
importuno è in realtà un attore e la recita prevede il suo intervento) allora il suo essere guastafeste
non è altro che un'applicazione del gioco stesso. A integrazione di quello che ho scritto sopra, direi
che il guastafeste non è solo chi smaschera il gioco, ma è quello che lo interrompe, che lo fa morire,
lo priva del suo scopo, fa sì che ciascuno dei partecipanti se ne vada deluso e frustrato. Insomma non
mi sembra proprio che tu possa essere una guastafeste, neanche di te stessa ;)
ottobre 31, 2006 at 11:56AM | mauro wreck
io direi che ovunque c'è linguaggio la vanga può scavare e anche piegarsi, tutto qui. Ma io vivo nella
credenza che il linguaggio crea, modifica l'agire. Io sono cambiato per colpa vostra, prima non ero
così.
ottobre 31, 2006 at 12:39PM | mauro wreck
Colpa e merito, indistinguibilmente.
ottobre 31, 2006 at 01:00PM | Matteo
Stavo per metterlo il merito, che è solo quello, ma per inferenza mi sarei lodato/imbrodato (come
dire, m'ero cacciato in un vicolo cieco)
ottobre 31, 2006 at 01:11PM | mauro wreck
giocatori di scacchi per corrispondenza.
amo perdere.
ottobre 31, 2006 at 06:37PM | Matteo
c'è qualcosa che non capisco. Mi sembra che spesso si parli di "gioco" come della cosa più simile a
quanto succede qui. Allo stesso tempo, mi viene da pensare ai concorrenti dei giochi televisivi,
quando stanno per vincere o perdere tanti soldi, fanno un sorriso storto e dicono: tanto è un gioco.
E' pure vero che dire "gioco", per molti, significa soprattutto marcare la gratuità - se no matteo non
direbbe "poi, magari, domani io smetto di firmarmi 'giocatore', mi compro un dominio coltisbagli,
unifico tutte le esperienze di rete, mi faccio pubblicità etc. etc". Se non mi sbaglio sta dicendo: se
poi questo è un mercato, allora non è più gioco, e allora al diavolo: matteo non è più aggratis,
matteo è un marchio.
Beh. Noi qui, io e le mie amiche, ci siamo messe a fare un'impresa coi soldi per esempio, "da dentro"
la rete. Ma non ci siamo vendute o svendute i nostri blog, né l'abbiamo fatto coi blog degli autori, né
tantomeno con gli autori stessi, e poi ci chiamiamo untitled tutti quanti, e poi rischiamo di perdere
tutti i soldi che ci abbiamo messo, etc etc. Per cui nessuno ci può dire che abbiamo tentato di
"sfruttare economicamente" quello che facciamo qui: stiamo solo facendo il tentativo di attribuire un
valore assoluto a ciò che normalmente ha solo valore relativo, cioè che normalmente ha valore solo
qui dentro al web - fra blogger, e per di più limitati alla più o meno piccola fetta di "pubblico" di
riferimento. E' un'operazione di attribuzione di valore (con assunzione di tutti gli oneri del caso) più
che un tentativo di "guadagnarci sopra", e questo strano modo che abbiamo di NON volerci fare
pubblicità -o almeno: di non volercela fare in modo canonico- sottolinea il senso dell'operazione,
ovvero che la nostra è un'operazione di senso.
Ora io, nel mio blog, cioè io-io, come dire, sto tentando di ritornare a monte del ragionamento. E'
che voglio evitare di essere ricondotta di forza entro un ragionamento economico corrente, di
"sfruttamento" dell'attività in rete, che non è mai stato mio. Nondimeno parlo, ho parlato sempre, di
grosso "investimento" nella rete da parte mia. Investimento in termini di energie, di tempo, di
attenzione. E' che mi chiedo: se ci ho investito così tanto, è perché questo mi sembra uno spazio
importantissimo, da esaltare nelle sue peculiarità, e anche da "preservare" nella sua struttura più
dura e originaria.
Per questi motivi, in questo momento, faccio difficoltà a vedere le cose in quanto "gioco":
facendolo, mi sembra di sottolineare in modo ormai troppo debole, e in qualche modo molto
accademico, un concetto che purtroppo è già diventato assai sfumato e opinabile, e cioè che le
azioni interne alla rete siano caratterizzate da una sostanziale gratuità. Io dico chiaro: la rete è uno
spazio dove si fanno azioni gratuite, dove le parole si dicono non si vendono, CIO' NON TOGLIE che
queste parole, queste azioni che si fanno abbiano un VALORE - anzi, è proprio la gratuità che
aggiunge valore, all'impegno. Non c'è bisogno che mimiamo "gioco" per mostrare che, qui, si
sperimenta liberamente e appassionatamente.
Non credete voi che mantenere un aria "giocosa" sia, anche, un volersi ostinatamente mantenere
differenti? e non pensate che "giocare" questa carta possa nuocerci, alla fine? quando a chi "gioca"
sempre più spesso si risponde: vabbè voi giocate, noi qua invece si fa sul serio?
Lo so che in questo mio "giocare" non c'è nulla ma proprio nulla di "ontologico". Sto dicendo solo, anzi
ripetendo, che quella del "gioco" può purtroppo esser presa per una bandiera da sfigati. O da
rinunciatari. O da furbacchioni, a seconda dei casi (e ce n'è).
Allora io voglio dire, per esempio, che questo non è il gioco del barbecue, ma è un vero barbecue. E
io posso dirlo, e voi potete credermi, perché tutti quanti qui sappiamo scrivere in rete. Per esempio
sappiamo (da qualche parte del cervello, da qualche parte del nostro essere blogger lo sappiamo) che
ogni volta che in rete si parla simbolicamente di cibo, il discorso si fa estremamente serio. O mi
sbaglio?
ottobre 31, 2006 at 07:51PM | untitled io
Alla *gratuità* del gioco personalmente non credo (penso a un giocatore professionista da cinquanta
milioni di euro all'anno, o alla roulette russa, o al gioco di borsa, o anche al gioco dei bambini). Di
conseguenza questa cosa del blog non l'ho mai pensata come un che di futile. La mia sensazione però
è che tu Unt. quando dicevi che a un certo punto occorre smettere di giocare, insistevi su
un'operazione affatto diversa, che reputo di svelamento. Mi sembrava più un'esortazione a togliere la
maschera. O sbaglio? Poi noi, sul termine *gioco* da te usato, ci siamo un po' messi a giocare (va bè,
passami questo gioco di parole) :D
novembre 1, 2006 at 12:05AM | mauro wreck
e qui che altrove nudo sto bene. ma nudo, propriamente detto, cioè senz'altro che me. qui che
altrove che questo mi sembra chiaramente uno spazio, abitabilissimo. le parlate, come quotidiane,
come sempre portano qui ad un grado alto la presenza corporea.
questa evidenza, metti che parliamo di evidenza.
novembre 1, 2006 at 01:15PM | n.
metti che parliamo di evidenza. di presenza corporea. di quello che è lontano dal senso tutto,
troppo, intellettuale della vista, della visione.
Niente di più intellettuale che la visione. Nudità è tatto, niente di meno intellettuale. Tatto è
presenza corporea. Semplice presenza del corpo, la nudità, l'assenza di gioco, inteso come finzione
partecipata, che si conclude. Metti che parliamo di evidenza, di tatto, e di nudità.
novembre 1, 2006 at 01:20PM | n.
Cara Anna,
mi fa piacere che tu mi abbia seguito con attenzione. In questi anni. Io ho seguito te con attenzione,
meglio, con affetto. Non so se i miei giochi siano stati sofisticati, ho cercato che fossero miei, ho
sperimentato diverse cose (il documentario familiare, il concorso di scrittura, il fotoblog, l'identità
fittiza etc. etc.) cercando di far somigliare tutte queste cose a come sono io, o a come vorrei essere
io. Tenendo ferma l'dea del blog come "modus". (ricordo una lunga lettera in pdf scritta per Erica,
dove mi "giustificavo" rispetto ad alcuni suoi rilievi....chissà che ne pensò....). Quando scrivevo quel
"ma voi sapete giocare?" forse pensavo a voi, ed è stato bello che tu ti sia sentita interpellata e mi
abbia risposto così, io non gioco; pensa che p.p.p io l'avevo presa per tutt'altra cosa, come una firma,
la tripla p la lego solo a Pasolini. Pier Paolo Pasolini, così pare a me, non giocava affatto. La sua
scrittura e la sua vita non giocavano affatto. Ma io qui uso un significato di "giocare" differente da
quello che ho usato fin qui. Ed ho sempre visto e letto Pasolini con timore, rispetto, distanza.
Soprattutto il suo epistolario. Ecco, quel tuo commento io l'ho letto come firmato da Pasolini, cioè
firmato da un modo determinato di intedere la scrittura tutta. Ma questa è una parentesi. Ora, non
so nemmeno se copincollare questa mail nei commenti (e lo farò) perché l'acustica delle due stanze è
diversa e le stesse parole suonano molto diverse nei due "ambienti" diversi. Le stesse parole? Così qui
fonderò risposte a quel che mi scrivi nella mail alla quale sto rispondendo e ai commenti che
precedono questo. Ci provo. E tu sai quanto mi costa diungarmi così tanto, in ossequio al detto che
un bel gioco dura poco....quindi io per essere bravo mi impongo sempre la brevità. allora, prima mi
sistemao un cuscino dietro la schiena:
a) la pochezza del rimando di palla. Sì, è successo. Ma accade che uno getta una palla, e l'altro gliela
rimanda come può, oppure la nasconde, oppure se la porta a casa, oppure te la buca. (chissà se è
consapevole o inconsapevole il tuo uso di una bellissima metafora wittgensteiniana....e su Witt. io
poi devo di necessità tornare, perché è un virus davvero potente al quale sono stato esposto per anni
- come Mauro capirà - e che ancora influenza molte delle cose che dico qui...). Ma non ho sofferto
del rimando mancato. La gratuità del gesto e del gioco non può pretendere da nessuno lo stesso
gusto e felicità nello stesso gesot e nello stesso gioco. Io non chiedo niente a nessuno. Forse.
b) dici "in una specie di circo di virtuosismi, col pubblico che mima l'ultima parte dell'esercizio,
quello senza salti mortali.". Quale sarebbe il salto mortale? dire di sé, rischiare, rischiarsi, metterci
la faccia, metterci i soldi? Non lo so. Il virtuosismo è vuoto, forse, ma c'è una parte di scrittura
"circense" che a me piace frequentare e che considero utilissima. almeno per me.
c) il bel clima da web. Io nel bel clima da web ho incontrato persone interessanti, addirittura
qualche amico. Forse sono troppo ingenuo per prestare attenzione o per accorgermi di chi il bel
clima lo sfrutta per altre finalità, che non siano l'incontro di "anime". Ti ricordi cosa aveva detto
Player una volta: che tu, Mauro, Demetrio eravate (cartesianamente) dotati di un'anima?
d) mi fa piacere che tui mi aspettassi. Anche perché tu mi diagnosticasti con esattezza l'astenia
cronica "Tu hai paura di stancarti", mi scrivesti non so più dove su coltisbagli, o su Player. Sono
proprio io quello lì, che in rete, scrivendo ha paura di stancarsi.
e) su gioco e gratuità e sul fatto che io passi ad un dominio. Per me gioco è "tutte le interazioni
linguistiche regolate". Quindi, anche il gioco dle silenzio è un gioco. C'è il gioco del silenzio nei blog e
nei commenti dei blog? Per me l'esperienza dei blog è, è stata, "palestra di co-abitazioni linguistiche"
e "modus". Passerò ad un dominio quando alla gratuità affiancherò un libro da vendere. Perché un
libro si deve vendere. E il giorno in cui avrò da vendere un libro - spero presto - cercherò di venderlo.
Di pubblicizzarlo. Tra vendere e svendere non è la s a fare differenza. Ma, qui torno ad una mia
vecchia fissa, la differenza tra gratuità del gesto (e in questi anni mi sono inventato iniziative di rete
solo per il gusto di spedire in giro per il mondo, le carte e i libri che più mi piacevano, come
premio...) e libro in vendita deve stare, da qualche parte, nella grammatica del contenuto. Perché il
Pasto grigio non è pubblicato in rete o non si può scaricare gratis in rete? (considera che io non vorrei
questo). Perché la sua grammatica e il suo progetto sono differenti dagli appunti, dai frammenti, dai
saggi che Demetrio pubblica in rete. Secondo me. Quindi "matteo aggratis" e "matteo brandizzato"
potrebbero convivere.
f)" Beh. Noi qui, io e le mie amiche, ci siamo messe a fare un'impresa coi soldi per esempio, "da
dentro" la rete. Ma non ci siamo vendute o svendute i nostri blog, né l'abbiamo fatto coi blog degli
autori, né tantomeno con gli autori stessi, e poi ci chiamiamo untitled tutti quanti, e poi rischiamo di
perdere tutti i soldi che ci abbiamo messo, etc etc.". Io trovo che questo argomento, talvolta, ti
limiti (vi limiti, voi chi?) nell'argomentare. Perché è naturale che tu difenda l'idea, lo sforzo, la
passione che avete coltivato, ma, ogni tanto, potreste dare l'idea di farne una "religione"
purificatrice del mondo (non so se Demetrio dandoti della talebana si riferisca a questo) delle lettere
e del web. Mentre è una opzione. Io ho paura degli integralismi. Siamo tutti delle possibilità, insiemi
di possibilità che si incontrano, o scontrano. L'argomento ad personam, "io c'ho messo i soldi", merita
tutto il rispetto possibile, ma non agevola lo sviluppo della discussione perché suona vagamente
ricattatorio. (a parte teatrale: qui vi sto provocando)
g) siamo ancora tutti parenti di Untitled.
ps.
io la bandiera da sfigato che gioca l'ho issata su tutti i miei modellini che faccio navigare in rete.
novembre 2, 2006 at 10:19AM | Matteo
...intanto riporto qui le due lettere precedenti, se no non si capisce niente. Oggetto delle lettere:
"non gioco più".
DA MATTEO AD ANNA:
Cara Anna,
mi accorgo che il tuo avvertimento mi era già arrivato, minaccioso e asciutto, qui:
(mo al posto di questo ci starebbe il link a un post di matteo in cui in calce a molti commenti io
dichiaravo "io non gioco - p.p.p.", solo che sto sito del cazzo non prende gli url, sono quattro volte
che cerco di postare sta cosa, ndr)
un abbraccio...
(alza un poco il riscaldamento, se puoi, e porgimi un cuscino per la schiena...)
matteo
DA ANNA A MATTEO:
Oh sì, me lo ricordo.
Naturalmente ppp stava a significare "per presa posizione" (sì vabbè, non te lo devo dire io...).
Ecco vedi (nel post linkato, ndr) i dieci commenti prima del mio. A me facevano l'effetto di un lavoro
a maglia collettivo, e neanche ben fatto. Bene, mi sono detta: non sono qui per fare lavori a maglia.
Io ti ho sempre guardato giocare con interesse. Spesso con partecipazione. Ho seguito, nel tempo,
molti tuoi giochi sofisticati, che aprivano non varchi, ma vere voragini di senso. Ma sinceramente:
credi di essere riuscito a innescare quello che ti aspettavi? non hai mai avvertito la pochezza del
rimando di palla? non hai mai avuto la sensazione, che ne so, di aver apparecchiato una bella tavola,
di aver offerto un piatto molto curato e preparato con affetto e attenzione, e di esserti ritrovato un
sacco di "avventori" (nel senso di gente che si avventa) a mangiare come se fossero crocchette
surgelate, giusto perché erano aggratis, come a un banchetto della festa del santo?
No voglio dire: anche per te. In quel post, il mio commento era per te, non ti minacciava.
E poi certo l'ho alzato il riscaldamento.
E anche il tiro, di là.
Demetrio mi dà della "talebana" un giorno sì e un altro pure. Ma le mie non sono minacce ti ripeto,
sono solo avvertimenti, sono preoccupata, E ho l'impressione che "i giochi" in giro non siano più così
puliti. Tutti hanno preso, dal web, il tono "giocoso": è quello che paga di più, garantisce più afflusso,
partecipazione. E' glamourous. E vende. E' per questo che sono preoccupata,. Le considerazioni che
fate tu e Mauro sono preziose, ma si perdono in un ascolto distratto: loro (loro chi?), da voi (voi chi?)
vogliono questo: che giocate. Vogliono "divertirsi". Ho visto morire molte cose belle in rete in questo
modo: in una specie di circo di virtuosismi, col pubblico che mima l'ultima parte dell'esercizio, quello
senza salti mortali. Beh io a un certo punto non mi sono rassegnata al fatto che un certo numero di
persone come noi (forse esiguo, non lo so) finisse per tirare la volata (creando "il clima", quel bel
clima da web) a gente che con la rete, con lo stare in rete, col cercare un bel modo intenso (e anche
faticoso) di abitare la rete, non ha mai avuto, né mai avrà, niente a che fare.
Ecco più o meno - ma sto rispondendo ancora nei commenti come vedi.
Baci e grazie. Grazie perché ti aspettavo :)
novembre 2, 2006 at 11:17AM | untitled io
Il post di cui non riesco a mettere l'url è del 3 settembre 2006 e si chiama Nodi, sta nel blog di
matteo/giocatore, ovvero giocatore.splinder,com. con l'http davanti
(ma che mi tocca fare, maledizione, questa è scrittura creativa proprio!)
novembre 2, 2006 at 11:25AM | untitled io
(a margine: "Ho visto morire molte cose belle in rete.." fa molto Blade Runner,o meglio il monologo
retorico del replicante sotto l'acqua, che a me ricordava un saggio di Gottfried Benn, di cui parlavo in
un post anni fa, qui non linkabile...)
Quindi l'ultimo periodo della tua mail l'avrei sceneggiato così: tu lo pronunci sotto la pioggia su un
cornicione ed io sto sospeso nel vuoto ad ascoltarti... (scusami, perché ho ripreso a giocare...ma è
stato più forte di me)
novembre 2, 2006 at 12:10PM | Matteo
E poi ti ricordi il road-movie (inedito) col quale infestammo, proprio Effe ed io, nell'estate 2005,
l'ultimo commentario di ioepalmasco? Là dentro ritrovo questo tuo appunto che mi pare a tema e a
tono:
"E non capisco perché ho l'impressione che stiate giocando col fuoco, facendo finta di niente. Non c'è
niente che mi atterrisca, certi giorni, quanto la leggerezza mimata." (1 giugno 2005, pag. 5 del
commentario)
novembre 2, 2006 at 12:48PM | Matteo
ohibò, qui la cosa si fa seria
novembre 2, 2006 at 12:51PM | mauro wreck
Ho iniziato varie volte ad aggiungere un commento, qui. Ho sempre desistito perchè ero arrabbiata.
Se penso al gioco mi vengono in mente due modalità: 1) quella "divertente", ovvero che distrae, fa
voltar via lo sguardo, fa ridere e sorridere senza impegno, da passatempo, è la modalità debole ma,
forse per questo, vincente; 2)la modalità "forte", quella che implica un rischio, come ricorda mauro
tez più su, in cui si *mette in gioco* qualcosa che per il giocatore ha un *valore*. Ero arrabbiata
perchè so, per ragioni di famiglia, quanto *vale* questa seconda modalità.
Ora Matteo mi chiama giustamente in causa e mi ricorda che lui aveva, in qualche modo,corso un
rischio, almeno io lo vidi così, quel pdf, non ricordo bene se di maggio o di giugno. Fu questione di
tempi e di spazi: stampai il pdf, lo misi lì, dove adesso l'ho ritrovato, e aspettai. Avevo altri *giochi*
da giocare, allora, e non divertenti, non gratuiti, per quanto regolati e ripetitivi. Mentre in quel pdf
io sentii gratuità, anche in un senso piuttosto alto, senz'altro, ma, forse potevo sbagliarmi, (ho corso
il rischio :)) non sentii la *necessità*. Era importante, ma si poteva soprassedere. Infatti, dopo, in un
post del 26 giugno, Matteo scriveva: "Quel file pdf, ad esempio, è un ritratto fedele di come mi
relaziono agli altri in rapporto ai blog e alla scrittura. Ma anche lì c'è il sottinteso che il Senso sta da
un'altra parte."
Ecco, io sento che molta dell'offerta gratuita che sta in rete è condizionata - e quindi necessitata,
non libera - dall'idea che, tanto, il Senso (e maiuscolo, poi) sta da un'altra parte. Spesso, però, si
spaccia per una gratuità libera, quando, invece, è solo "divertente". Si passa il tempo, senza urgenza.
Ben lontana dall'idea talebana che ciò sia male, non fraintendiamoci, eh?
Anche perchè, tirando in ballo i talebani, a me viene sempre in mente non solo quello che hanno
fatto e fanno alle donne e alla popolazione tutta, ma anche - e non è secondario - ai buddha e al
patrimonio artistico in generale. E allora il discorso si dovrebbe allargare allargare allargare e di
carne a cuocere ce n'è già abbastanza.
Ma, per concludere per ora che devo andare al festival della scienza, insomma: va benissimo il gioco
divertente ma dov'è, nella scrittura in rete, e quanto vale, il gioco con rischio? E quanto è possibile
prendersi dei rischi in assenza di un valore monetario?
novembre 2, 2006 at 03:39PM | caracaterina
per rispondere all'ultima domanda di erica, dico solo: la poesia.
d.
novembre 2, 2006 at 04:40PM | demetrio
Voi conoscete, vero, l'origine dell'espressione "il gioco non vale la candela"? Ma questa è una
digressione...un altro filo....
Ma l'Altrove non vi risultò, ad un certo punto, necessario? (un nowhere/now-here chiamato
pincopallo, o Paganico, o Trieste....?)
Se io, invece, penso ad un luogo che condensi ad un tempo "urgenza" e "senso" mi viene in mente il
Pronto Soccorso. Il che è in parte una battuta (vale a dire l'ennesima delle mie uscite di sicurezza da
giocatore che "biasimate") e in parte no.
novembre 2, 2006 at 07:48PM | Matteo
Interventi in altri blog
postato da caracaterina nel suo blog 'il mio stupido blog', lunedì 23 ottobre 2006:
DAL LIBRO DEGLI ESEMPI DI UMBERTO FIORI
Intervenuto
Quando uno alla fine
in una discussione
interviene,
anche se fa
una premessa intanto,
prende le cose alla lontana,
e prima di arrivare proprio al punto
vorrebbe distinguere bene,
chiarire i termini,
anche se può sembrare fermo,
sospeso sul limite
di quello che sta per dire,
è già in pieno argomento.
E’ dalla testa ai piedi
già lì che parla.
Tutti lo vedono ormai,
nel suo angolo.
Mentre precisa e anticipa,
tasta il terreno
e mette le mani avanti,
tutti lo sentono.
Il rumore che fa
il discorso
di colpo gli gela il sangue.
Si è perso.
Ormai gli sta uscendo nudo
dalla faccia nuda, il suo verso.
Qui
Stare fermi, ridere, dormire,
muoversi voglio dire, correre,
si può. Ma non si può mancare
a quello che porta via,
che porta qui dove si è sempre, nel posto
dove i posti si trovano, qui, dove
qualcosa importa.
E qui si sta, come un cane
lasciato chiuso in una macchina
al sole, in un piazzale quasi vuoto,
una bestia che per ogni cric nella ghiaia
drizza le orecchie, e si scuote al minimo suono
di passi, lontano, o di risate.
Io provo a pensare, e ragiono,
e dentro sento tutta la testa che abbaia.
Un parere
Come il respiro caldo
e pesante di un animale
si sente a volte
soffiare in un discorso l’interesse di tanti.
Quando viene il momento
fa quasi male
dire cosa ci pare,
tirar fuori la voce, confessare
di essere bruno, magro,
di essere lì, di essere uno.
Persona
A insaponarci le mani,
a tirare il fiato, ad avere
il buio dietro
e in faccia le cose vere
non siamo i primi.
Sono talmente chiari,
talmente luminosi
i nostri limiti.
Chi li potrà perdonare?
A volte, mentre parla qualcuno,
la senti la voce come suona
lontana e grande
nel cavo della persona.
Muro
In certe ore
sopra il distributore di benzina
un muro nudo si illumina
e sta contro l’azzurro
come una luna.
A un certo punto uno
abita qui davvero,
e guarda in faccia queste case, e impara
a stare al mondo,
impara a parlare al muro.
Impara la lingua,
ascolta la gente in giro.
Incomincia a vedere questo posto,
a sentire
nel chiaro dei discorsi
la luce di questo muro.
CARNE A CUOCERE (4)
postato da untitled io nel suo blog 'diario di untitled io', domenica 5 novembre 2006 alle 23,57:
DOV’È FINITO IL VOSTRO SORRISO NASCOSTO?
Questo potrebbe essere il titolo della domanda-documentario, o del documentario-domanda. Perché
se parliamo di web-spazio, come di un web da abitare, va da sé che parliamo di persone, di certa
razza di persone, che questo spazio abita, o almeno (in qualche modo) occupa.
Più di una volta sono venuti fuori, paragoni alle case ai caseggiati, alle strade alle piazze ai balconi,
mi chiedo ancora se si tratti di un paragone sensato – l’immagine contraria e perturbante, a memoria
altrettanto ricorrente, mi sembra essere stata quella scura ed enigmatica dell’acquario, più
inquietante perché i pesci, anche se colorati, splendidi e in movimento costante, sono muti come
tutti sappiamo, o almeno così paiono ai non-pesci.
Se ripercorro il tempo (non sono la sola a farlo), alla ricerca di una specie di storia raccontabile, più
che di parole mi sembra fatta, questa storia, di stili. Ancora analogie col letterario, strumenti
dell’analisi letteraria che ci sembra di poter applicare facilmente ma vedi… non funzionano!
È successa una cosa in rete, parecchio tempo fa. Mentre da una parte consolidavano clarence, che
poi avrebbe dato vita a una parte potente della blogsfera, e costruivano forse il primo piano di
splinder, da un’altra parte lo spazio web veniva utilizzato per sfidarsi… a duello!
(due punti esclamativi in sole tre o quattro righe, il discorso si fa vibrante… mi sa che abbonderò in
puntini ed esclamativi, stavolta. È la storia che lo richiede, fate conto che sia un teatro dei pupi –
per dire delle voci, e a parte tutto, la possanza…).
da porcozio: Se non risponderà alla sfida entro le 24 del 5 dicembre la considererò "non accettata".
Ribadisco, molti non han capito, la sfida è tra me, porcozio e lei, asino. Chi perde muore. So bene
che lei, tasca, potrà assumere uno dei suoi altri nick o adottarne uno nuovo. Quello che non
capiscono è che lei, tasca, in caso di sconfitta, non dovrà più essere asino neanche nella vita.
Infinitamente peggio che non essere più tasca in questo forum. (ovvio, vale anche per me.)
I giudici dovranno essere sette. propongo di scegliere 4 candidati a testa. (uno fungerà da riserva).
I miei sono: mionome, palmadoro, tashtego, _violet_.
Il duello sarà alle 6 di mattino, il giudizio entro le 7. Quindi capisco se rifiuterete, vi pregherei, in
ogni caso, di comunicare la vostra decisione in questa stanza.
Il padrino ha valore formale, quindi vitale. Ci accompagna al duello, è parte integrante di noi e,
quindi, della sfida.
Il mio è _melo_, mi faccia sapere, Asino, chi è il suo e chi sono i suoi 4 candidati.
da melo: !!!
da asino: Ha notato una "lievissima" discrepanza?
Io sono Asino e tutti sanno i miei altri nicks e lei può giocare perfino con il mio cognome che io amo
e non mi pento di aver detto da tutte le parti (tasca, tasca, tasca ...) mentre lei non ha ancora
trovato che sia il caso di dire che Porcozio - oltre ad essere un orribile nick - è la reincarnazione di
ben altro nick.
Il duello si svolgerà la mattina del 10, sul presto, ma non alle sei: non ho la sveglia e mi rifiuto di
comunicare alla mia sposa il motivo per cui dovrei far trillare il telefono - capisce, vero? Quello che
a noi può sembrare estremamente serio – e lo è - fuori può sembrare solo dannatamente ridicolo.
Non vorrei dover sfidare a duello anche lei, la mia compagna ...
Capisco che ciò toglie romanticismo alla cosa ma, non disponendo di un convento dei Carmelitani
Scalzi, potremmo adattarci a qualche rimaneggiamento del rito, non crede?
I giudici - cristo santo! Perchè giocare un così brutto tiro a persone che stimo?
Ma se la sono voluta: per il semplice fatto di essere qui e di essere stati nominati.
Io - in fin dei conti - sono ancora fermo allo stadio papausico.
Allora : Billy, Melo, Boycotto, Virgola.
Non voglio padrini - si figuri! Neanche il mio cuore fa parte integrante di me e recito tutti i giorni il
Padre Nostro di cui il Padrino è solo una caricatura oscena.
"Venga il tuo regno".
Amen.
da porcozio: Le ho risposto nell'altra stanza.
Non c'è alcuna discrepanza, evidentemente avevo erroneamente valutato il suo modo di pensare.
per me lei può essere tasca o altro, non mi importa. io parlavo ad asino, la sua provenienza non mi
interessa. e le parlava porcozio, nessun altro.
si consideri vincitore.
Le parole di panna mi hanno convinto a non annullare il duello. ma, siccome le diedi vittoria, decida
lei. O la mia morte o il duello.
da violet: io no, grazie.
(e magari era meglio se me lo chiedevi, ti avrei evitato un no pubblico, porcozio)
se Asino ha davvero deciso di partecipare a questa DisfidaDellaPorchetta, preferisco fargli da
cheerleader.
Quindi convoco testè il casting per le truppe caRAmellate, il GruppOso di Emergenza (Sacher!
ehehe) e le altre PonPon Girls capitanate da Melange in versione MoulinRouge.
Ovviamente sono benevenuti anche i maschietti: si ricordino di depilarsi, che i gonnellini sono assai
corti.
da asino: Ma lei, Porcus, è completamente pazzo.
Cioè, adesso io dovrei, con un superiore atto di nobiltà, evitarle la morte rimettendo in gioco una
SECONDA volta la mia vita?
Non sono Pierre Bezuchov e non sono così nobile: non con tutti almeno.
E lei - da quel seduttore che è - gioca troppo fatuamente con i simboli.
Si ricordi che Dioniso giocava e i Titani lo fecero a pezzi.
Quindi lei - da una persona che non stima - non merita alcuna pietà: crepi da solo nel suo stesso
cuore entropico.
Ma, ma, ma ... siccome anch'io amo i giochi - ma più di lei ne conosco la crudeltà - le offro ancora
una chance.
Umiliato dalla sua stessa vigliaccheria - così ben descritta da Panna - la mattina del 10 farà apparire
un suo racconto in questo forum e non potrà sapere se io, all'ultimo minuto, annoiato dalla
conversazione con Madame Verdurin, non riterrò opportuno fare un salto da lei per scambiare
qualche colpo di fioretto, ribadirla morto ed andarmene o non presentarmi affatto e lasciarla tirare
le cuoia osservato dagli scoiattoli incuriositi.
Veda un po' lei.
da porcozio: vigliaccheria un paio di coglioni.
é che mi hai deluso, imbecille.
che cazzo di senso avrebbe la tesi "codardo" se ti ho sfidato io?
sei proprio un bluf, ha ragione melo.
allora, la sfida io voglio farla, dimmi sì o no, e smettila di fare il buffone.
Più di me conosci la crudeltà nei giochi? Dubito, asino, dubito.
da asino: "Vigliaccheria un paio di coglioni".
Sfidare qualcuno e poi trovare che lo sfidato non merita la sfida è da vigliacchi: come le aveva detto
Panna: doveva sparare in aria il giorno del duello. Quello sarebbe stato vero disprezzo.
"è che mi hai deluso, imbecille."
Ma una volta non ci si colpiva con un guanto? Ora si fa così?
"Sei proprio un bluf(f), ha ragione Melo."
Ognuno a i maitres à penser che si merita.
"allora, la sfida io voglio farla, dimmi sì o no, e smettila di fare il buffone."
Ma allora lei non sa neanche leggere - le ho dettato le mie condizioni in maniera piuttosto chiara:
lei essendosi ritirato dalla sfida e avendomi ceduto la vittoria non è in grado di chiedere più niente
a nessuno, le è chiaro?
Se vuole, il 10 mattina, passi dietro al Convento e depositi il suo racconto, vedrò se sarà il caso di
risponderle o di pisciarci addosso. Lei ha, comunque, già perso.
"Più di me la conosci la crudeltà nei giochi? Dubito, asino, dubito."
Qui ci vorrà molto più spazio anche perchè le racconterò quell'episodio di spiritismo cui le
accennavo in chat.
Con ordine: io conosco la crudeltà dei giochi, lei la pratica.
Lei si crede signore dei giochi e ne è la vittima principale anche se l'elenco delle sue vittime, nella
realtà, è lungo come quello che Leporello canta a Don Giovanni.
Moltissimo tempo fa mi chiesero se volevo partecipare ad una seduta spiritica, sa, quelle cose con
piattino e cartone con le lettere scritte e "sì" e "no"... Bene, risposi, ci sto ma solo se non mi
chiedete quelle cazzate tipo "concentrarsi" "tenersi per mano".
La tazza si mosse e cominciò a scrivere le più svariate cose tutte più o meno poco interessanti. Ma
un giorno apparve una "cosa" che faceva "ah ah ah ah!" e che dichiarò di essere il "diavolo che ride".
Io - e ancora me ne pento amaramente - lo sfidai (vede dove si va a parare?) dicendogli che non
avevo nessuna paura di lui.
Ora, lei, in altra vita, non faceva di nick "Abraxas" - un demonio, appunto?
(Anche se nella vita - quella che lei e molti come lei vi ostinate a credere "altra" da questa - fa
"alessandro" che ha una più quieta sonorità, quasi cortese, ma, si sa, lei preferisce il suo
maledettismo che, peccato, spesso scambia per maleducazione.)
da porcozio: E dovevi dire tutte 'ste cazzate?
facevi prima a dire "mi hai dato la vittoria, mela prendo"
e il vigliacco sarei io?
E, poi, di grazia, se ho perso, ritirandomi, perché mai dovrei darti il mio racconto? per pisciarci
sopra?
suvvia, cazzone, riprenditi, la tua logica è sbilenca.
da domani non ci sarà più porcozio.
Ah, i teorici della cattiveria sono come le suore che leggono riviste porno.
ah, cafoncello, in entrambi i casi (che io sia abraxas o che non sia) dire un nome (alessandro) è
davvero bieco. Io dissi tasca perché sei tu a dichiararlo.
Abraxas un demonio? ma ne sei sicuro? ma che libri leggi? dilandog?
da asino: Continui a non capire niente - oltre ad essere un gran maleducato.
Io non ho detto che non accetterò la sfida: ho detto che il tuo oscillare tra sfido/non ti sfido più
perchè non ti stimo/ ti sfido ancora ma tu hai già vinto, ti condanna a venire sul luogo del duello
senza sapere se mi ci farò trovare.
(Per quanto riguarda la tua "morte" ... ma vedi un po' di fare come ti viene di fare: io ti posso
garantire che la cosa mi è del tutto indifferente.)
(Bruttissimo il paragone finale ((restiamo sempre un luogo di scrittura, no?)).)
da porcozio: No, tu hai detto "hai già perso"
allora asino, due i casi.
O "ho già perso" e la finiamo qui.
O "non ho perso e c'è la sfida". E tu, da bravo, pisci solo nel tuo water, e ti presenti per la
competizione.
da mionome: devo aver perso qualche dettaglio della querelle, perchè non ho capito un cazzo circa
i motivi della sfida (ma so bene che le sfide di norma non hanno mai come vero motivo quello
dichiarato, vedasi il film "i duellanti").
insomma: mi manca lo storico, e forse è un bene.
se c'è da decidere io ci sto: apprezzo entrambi gli sfidanti, sono obiettivo, imparziale e
umanamente molto bastardo, quindi sarei un perfetto giudice.
ah, avendo praticato per anni la scherma (dua campionati italiani), sono pure capace di dire
"ètvuprè? allè!", casomai servisse.
mionome
da sulla strada: Non richiesta - è troppo facile farsi votare dai nick che simpatizzano per te zietto
(Riporto: 7 nick. sette voti. vince chi ne ha di più) - do il mio incitamento: alla MORTE CRUENTA del
nick porcozio.
da mionome: Fate tacere la scarmigliata popolana, quella là in fondo, o faccio sgombrare l'Aula!
da porcozio: sullastrada, non ti preoccupare, porcozio muore alle 24 di oggi.
sia fatta la volontà dell'asino schifoso.
festeggia pure la tua e sua imbecillità.
Vorrei sapere, solo, quali sono i nick da ma proposti, a me favorevoli?
Non credo di essere stato disonesto nella scelta.
Ma non preoccupatevi, o faziosi, domani suonerà solo la campana dell'asino, e tutti penserete:
giustizia è stata fatta.
da azur: Interviene un'altra popolana,con i capelli a chignon:
ritengo che asino abbia già sparato in aria nel dichiarare che "forse"non sarà presente nel campo di
battaglia. Non è S.Silvestro.
Trovo tutto ciò fatuo ed invoco più virilità.
Impugnate le armi,invece di ciarlare.
da violet: azu, torna SUBITO agli allenamenti delle pon pon girls e, già che ci sei, portati dietro
pure panns, magari senza il seggiolone che secondo me salta meglio, senza.
Vernella! Levati il cappellino da puffetta, passi per la canottiera e i codini, ma il cappellino proprio
no!
Sacher se non la pianti di strafogarti di cioccolato finisce che t'abbiocchi prima della gara e addio
coreografia ca(ra)mm(i)ellosa...
uff, che fatica: non è che c'è un generale in pensione che mi da una mano?
...ohhhhMegDue, e smettila di tirare a canestro!!! Vieni qui a raddrizzare un po' ste scioperate
piuttosto! ;o)
(ci sono ancora posti liberi nelle file dietro, se qualche maschietto vuol unirsi... ho gonnellini a
plissè a carriolate e ancora qualche maglietta sciancrata, finite le canotte...)
vi ricordo di ripassare la canzone per l'intervallo "alla disfidaDellaPorchetta/chi è senza piatto avrà
la forchetta": la prossima che becco a fare playback come i calciatori resta di corvèe bagno per un
mese!
V
da GadjoDilo: ...
"Quello che non capiscono è che lei, tasca, in caso di sconfitta, non dovrà più essere asino neanche
nella vita.
Infinitamente peggio che non essere più tasca in questo forum. (ovvio, vale anche per me.)"
...
E te che cazzo ci metti a rinunciare al tuo porcozio? Asino è un personaggio, con una storia, con uno
stile, come ratto e loyola. Te sei uno che posta qualche frecciatina, un copia incolla e due raccontini
l'anno. A te rinunciare a porcozio non costerebbe proprio nulla.
E' una sfida senza senso perchè porcozio ha solo da guadagnare ed asino non può vincerla, può solo
perderla o al massimo pattarla.
E poi che vergogna 'sto "vado non vado massì però solo se...".
Eccheccazzo !
da azur: sarà che oggi ho subìto un aggiornamento su come funzionano le aziende asl
io schiacciata tra due poltrone con i piedi formicolanti e il cappio al collo
incerta se esplodere nell'urlo liberatorio-licenziabile del Siamo Su Una Sfera Che Ruota In Uno
Spazio Apparentemente Infinito Moriremo Tutti Ondepercui E' Fin Troppo Facile Mandarvi Affanculo
In Un Singulto Universale
ma poi subito dopo catapultata nel sapore impastato di una sonnolenza invincibile con le palpebre
tenute su con le dita mentre visioni estremamente sciocche e ballerine avrebbero voluto attirami
nella giostrina pazza antecedente il rem
in cui si è soliti scalciare e fare i rumori con la bocca come i neonati che ciucciano
eccomi qui
in questa realtà terribilmente fittizia
a temere davvero la scomparsa di un nick.
da asino: Ultimo messaggio sulla faccenda (ormai veramente straziapalle).
Cronistoria.
Lei mi sfida per una risposta che le ho dato da qualche parte.
(Vero motivo - dico io - mettermi fuori gioco)
Io le dico di accettare la sfida ma nel modo che ho di accettarla lei trova che io sia poco stimabile e
quindi ritira la sfida e mi concede la "vittoria"
(sto cercando di non ridere nel riportare in questi termini la faccenda che è, invece, una farsa ben
più seria).
Poi, convinto da Panna che le obietta essere poco "cortese" ritirarsi da una sfida per la poca
stimabilità dello sfidato e che avrebbe potuto, caso mai, sparare in aria "durante" la sfida, si decide
a risfidarmi.
Io le faccio presente che lei era già "morto" nel momento in cui mi aveva concesso la vittoria e che
ora avrei fatto quel cazzo che mi pareva.
Lei, ormai incastrato nel suo stesso gioco, cerca di buttarla in "codardia" visto che non accetto,
subito, di corsa, la sua nuova sfida: bambino capriccioso e anche un po' illogico: sa che so leggere
per bene le cose e quindi posso capire che lei non volesse più sporcarsi le mani in un duello con uno
che non stima ma, allora, perchè aspettarsi da uno così poco stimabile che le offra
cavallerescamente la sua "vita" una seconda volta?
Quindi non ha alternative.
O si presenta il 10 mattina qui, con un suo racconto, ed io vedrò se avrò voglia di esserci.
O può pure "morire" - la cosa mi è assolutamente indifferente quasi quanto se a "morire" fossi io.
Aspetto incuriosito il 10 mattina (ma non poteva fare il 21? E' il mio compleanno e sarebbe stato
molto carino farlo coincidere con la mia ...)
p.s. - come mai nessuno ha fatto caso alla strana composizione della "mia" giuria?
Cosa c’entra coi blogger tutto questo. Cosa c’entra coi giochi che si fanno, che si son fatti in rete
(dico in questa dei blog), questo gioco violento e primitivo, ma pure cosa c’entra col concetto di
gioco, di cui si ragionava nei commenti al precedente post, con Giocatore e Mauro Wreck. E cosa
c’entra con noi, comunque ci chiamiamo. Cosa c’entra. Sono io che me lo chiedo, ancora oggi –
eppure sono sicura, che qualcun altro se lo chiede, o se lo chiese – se quelli erano giochi davvero, o
non invece, corpulente, prove di trasmissione di esseri umani.
Non chiedo che fine han fatto quegli umani – per quello: stanno tutti da qualche parte annidati qui
nei blog, me compresa. Io (che invitavo allora, un duellante a sparare in aria), e tutti gli altri pure
(salvo Toto le Héros, le cui ceneri sparpagliate per gli orizzonti, ridono). No la domanda che mi faccio
è più questa: posto che siamo ancora in qualche maglia di quella rete, che si è soltanto più estesa, è
la rete cambiata, o siamo cambiati noi? Intanto credo che eravamo allora, tutti salvi al di fuori del
cappello della Letteratura, eppure tutti annidati in modo strano nel suo mantello. Eravamo – cosa
eravamo? – sì eravamo: bambini. E se eravamo i bambini di una specie di nuova letteratura, di sicuro
eravamo figli illeggittimi (e un po’ tanto impresentabili). E ritrovare in questo antico duello (proprio
un antico duello) lo sprezzo inconsapevole e la grandissima ironia, di minacciarsi l’un l’altro con la
punta di un racconto misterioso a venire – arma della sfida della quale, evidentemente, non
interessava già una cippa a nessuno - a me non mi fa sorridere, ma solo domandare: dov’è finito,
retaioli, il vostro sorriso nascosto?
E mi ricordo il passaggio, da una rete veramente gratuita, a una rete che gratuita non era più. E il
lento rassegnarsi a questo fatto, per stare ancora dentro, per non lasciarsi – proprio – derubare, di
quello che ciascuno si era pur guadagnato, in mesi di fatica di paura, di dura esposizione: quel sorriso
nascosto. Come il sorriso del bambino, che annegato nella faccia da adulto, ogni tanto rispunta, non
visto – o addirittura il sorriso incomprensibile, di un’intera società bambina.
Come tutte le persone che si aprirono un blog nel 2003 (molto dopo il duello di cui sopra), anch’io
sono stata battezzata dall’apostrofe di Scarpa: blogger, siete peggio di Liala. Liala chi? Liala noi? ci
chiedemmo, duellanti e ponpon girls – perfino ci spaventammo.
Ci ho pensato e ripensato come tutti: un mese gli si dava ragione, un altro torto. Credo veramente
che sia stato, l’articolo più letto della storia blogosferica, e non ci sono contatori a dimostrarlo: sta
salvato, che io sappia, in tutti quanti i pc – e se non ve lo trovate, cercatevelo su google.
Liala chi? Liala noi? ci chiedemmo. La domanda non era peregrina per niente: di Liala non c’era
traccia, o non ancora almeno: da noi non si vedeva neppure l’ombra, di Liala. Eppure lui di Liala
parlava, parlando di tutto il web. Ma chi era allora Scarpa, un veggente?
No: Scarpa veniva a braccia tese nel web, con un cappello in mano: il cappello della Letteratura – un
cappello dalla falda neppure troppo ampia, un cappello ben disegnato e un po’ scomodo da infilare.
Molti se lo provarono, come la scarpa (oh accidenti!) di cenerentola, e indovinate: non andava bene
mai.
Ci adattammo le teste. O altrimenti: preferimmo nasconderci. Francamente non so io stessa cosa
scegliessi di tempo in tempo di fare: un po’ in un modo un po’ in un altro, mi pare, a seconda se era
il mese in cui scarpa aveva ragione, o il mese in cui aveva torto,. A mia memoria, è esattamente dal
maggio 2003, che va avanti così.
Ma adesso: leggetevelo di nuovo (o per la prima volta, nel raro caso in cui). Leggetevelo dopo Asino:
condizioni, giudici, padrini, ovvero dopo la scena del duello che (molto sforbiciata, e mi dispiace) ho
riportato più sopra. E chiedetevi oggi, 2006: che cazzo voleva dire, Scarpa, sfidando questa gente
con un cappello in mano. Mentre io continuo a chiedere a tutti: dov’è finito il vostro sorriso nascosto?
Quello che vi faceva entrare in una zona alla quale gli altri, privi di quel sorriso, non potevano
neppure avvicinarsi? zona della quale nessuno che fosse privo di quel sorriso poteva immaginarsi la
risonanza: dove calcavi il pavimento, e sentivi i tuoi passi risuonare; dove le voci stridule, nasali,
roboanti, si allenavano a uscire con tutto il corpo addosso. Allora: Liala che? e Liala a chi?
Anni dopo. Sono stata invitata, in quanto Untitl.Ed del sud, a un convegno sui blog che si terrà a
Foggia il primo dicembre. Il titolo del convegno, sarà Le tribù dei blog. Mi telefona una signora assai
gentile, mi chiede se mi va di intervenire, mi dice che il mio numero gliel’ha dato la signora Rigobon
– ah, Massaia? le faccio io. È stata la signora Rigobon di Fernandel, mi precisa, a parlarci di questa
casa editrice, di blogger. Va bene, le rispondo, ci verrò volentieri. Lei mi elenca le altre persone
invitate a partecipare: Mozzi di Vibrisselibri, Scarpa di Primo Amore, Genna dei Miserabili e di
Carmilla, Lipperini di Lipperatura, Raimo di Nazione Indiana, Astremo di Musicaos, Rigobon di
Fernandel.
Accetto. Guardo poi, l’abbozzo di programma che mi mandano.
Io e la Rigobon di Fernandel, le due uniche blogger, alle 18 parleranno sul tema: La pratica
editoriale. Poi coffee break. Alle 18,45, ripresa dei lavori col gran dibattito conclusivo Le tribù dei
blog (il titolo del convegno), laddove parleranno tutti gli altri nominati, tranne io e la Rigobon.
Non è un programma curioso?
Certo che avrei potuto richiamare, dire scusi, perché le blogger stanno a parte? non potete metterci
in mezzo, al dibattito conclusivo? Ma non è questo il punto: la signora che mi ha chiamato mi sta
simpatica, e certamente gli organizzatori del convegno ci hanno riservato un posto d’onore,
affidandoci una sezione apposita - la pratica editoriale, nientemeno. Sto pensando, solamente, a
come il web viene visto oggi dall’esterno. Noi qui, ad affannarci su voce e corpi, su gioco e su cosa
seria, su nevrosi e grands nevrosés, su acquari e spazi abitabili, su letteratura e società bambine, su
talento e balanze: chi vi credete che ci ascolti? a chi credete che interessi?
Ora, una vera e buona pratica editoriale consisterebbe nel fatto di fare una cortese ed economica
telefonata (diciamo da Ufficio Stampa), e di cercare esprimere cautamente l’opinione, che le due
blogger dovrebbero sì far parte, di un dibattito sui blog, ma stando in mezzo. Però invece preferisco
fermarmi sul dato di sostanza: ormai ci vedono così. E in fondo è giusto, in un convegno, stare dove ti
mettono.
E a proposito del ci vedono così, vi segnalo due cose, da leggere affiancate.
Una è un post di Loredana Lipperini, recente, si chiama Un gonzo e meditabondo reportage, nel
quale assai interessante è lo snodarsi dei commenti.
L’altro è un articolo di Tonino Pintacuda in Bombacarta di giugno, si chiama Piccola storia del web
letterario, del quale interessante è notare come, di questa piccola storia, noi non facciamo parte pur essendo la nostra casa editrice citata in fondo, come una specie di stranissimo approdo (perché
insomma, Tonino, mi vuoi dire, che quella sorta di nave – nave talmente grossa, è il traduttore
automatico dal pugliese all’italiano che vi parla - voleva approdare a Untitl.Ed? ma davvero ci credi?)
Se ancora vi domandate perché non metto link, invitandovi a cercarveli da voi, gli articoli citati,
rispondo semplicemente non voglio farmi pubblicità – e questo non vuole essere, per niente, spazio
di interazione con tutto il mondo ma solo un luogo di ritrovo, dove prima di parlare si respira
profondamente, e poi si parla per guadagnarsi da esserci, più che per confutare, dibattere o
confliggere.
Strano modo di sentirsi in democrazia, me lo dico da me – ma ha a che fare con lo scapparsene dal
giro delle opinioni, di cui parlavo prima (molto prima).
Io non commento, io non dico niente. So solo che non volevamo entrarci in questa storia. Non
volevamo entrarci in questo modo. Dunque poiché è da tempo, che ho deciso di non fare la
lamentosa, vengo al punto e vi chiedo: come mi debbo comportare, il primo di dicembre, alla
biblioteca provinciale di Foggia? E naturalmente vi chiedo: come ci dovremmo comportare tutti
quanti da adesso in poi, a proposito di questo nuovo modo in cui ci vedono? E più silenziosamente,
prendendola con cautela, mi domando e domando: noi tutti quanti chi?
Provo a allineare: io, le mie socie, i nostri collaboratori. I nostri autori, gli amici dei nostri autori,
non tutti. Gli autori invitati che hanno accettato di scrivere per Untitl.Ed, che stanno lavorando, e
quelli che hanno declinato la proposta, e quelli che sono ancora indecisi sul da farsi. Poi i sostenitori
della prim’ora, quelli di quando ancora eravamo blogger, e basta. Poi i sostenitori della seconda ora,
quelli che prima di tutto eravamo una casa editrice, poi persone perbene, e infine (incidentalmente)
blogger. Poi l’insieme sparuto dei lettori dei nostri libri, che ci hanno trovato dentro qualche cosa
che non riescono a nominare (e che va bene così - sarà il sorriso nascosto?). E infine tutti quelli che
hanno avuto esperienza di, che hanno avuto passione per, una rete diversa.
Uso “hanno avuto”, e non “hanno”, perché è difficile credo provar passione per, e riconoscersi in,
questa rete. E tuttavia: si sta. Si sta nel territorio naturale, dal quale mi sai dire per che motivo, si
dovrebbe andar via: per respirare? per inventarsi qualcos’altro, di più urticante ancora? io in rete ci
voglio stare, per esempio, in tutta naturalezza e non ho voglia di urticare: volevo ragionare
solamente, di un sorriso nascosto che si è fatto, col tempo, più nascosto di prima (e al solito: chi non
trovi, in questa specie di cupezza, il mio sorriso nascosto, può andare da un'altra parte - dove potrà
trovare sorrisi assai più panoramici, dentali)
….Mi piacerebbe parlare di tutto questo ma non posso, e forse non sarebbe neanche utile. E' che
cercavo, in fondo, una ragione forte per continuare con questi libri, e...
e senti: ho paura di averla trovata.
Proprio così. L'ho rivisto chiaro, quello che andavamo cercando: prima era come una visione di sogno,
ora è una cosa nitida.
Io non so se nella rete ci siano molte persone che hanno una visione altrettanto nitida. Molti hanno
solo un senso, confuso, di che cosa può essere stare in rete, continuare a starci.
C'è una quota di silenzio, grossa, nei discorsi o nei tentativi di discorso che si stanno facendo nel mio
blog. E' importantissimo che ci sia. Il silenzio, nel web, è il vero elemento conduttore delle energie
che si producono, questo l'ho sempre saputo, anche se ogni volta mi spavento o mi deprimo.
Devo solo aspettare, mi dico. Aspettare che si compia una specie di rigenerazione dell'aria, che è già
cominciata. Se ci fosse stato un certo tipo di chiacchiericcio, se qualcuno si fosse rassegnato
all'interruzione dei discorsi (quell'interruzione che arriva sempre, prima o poi, per molti "grazie a
dio"), allora mi sarei rassegnata anch'io. Ma stanno tutti dritti in piedi. E io di fronte alle persone
dritte in piedi, che si dondolano sui piedi, in attesa di qualche cosa, so che qualche cosa deve venire
fatta. Non so cosa, bene. Ma vedrai che verrà fatta - o si farà da sola, il che sarebbe molto meglio.
Spero ti senta meglio. Smetto per un po’ di parlare - io non parlo, per ora, voglio dire, non me la
sento: come potrei NON parlare di questo? Ho di questi pudori, certe volte. Pudori rabbiosissimi,
oppure: ho pudore della mia rabbia, di questa parte oscena.
Forse, volevo dire, ho ammonticchiato sulla griglia solo pretesti strani, e il procedere si è fatto
troppo ansiogeno e tortuoso, o forse adesso il fumo è talmente tanto che abbiamo tutti bisogno di
digerire, o di un po’ d’aria fresca. Non so quindi in che modo, questa specie di caldeirade potranno
ancora continuare, né ho un’idea di dove andare a parare. Il fatto è che (lo so), non voglio andare a
parare mai. Forse volevo pararmi - o mettere al riparo, non so io stessa se persone, o una sostanza
preziosa da preservare, o infine quel che resta della sostanza preziosa, che sia fatta di carne o di
cose dette.
Comunque basta per oggi. Maria pulisci la griglia. Come vedi anche sta carne l’abbiamo cotta, non
l’abbiamo cucita. Forse era meglio cucirla, come dicevi tu – ma la fiamma, vuoi mettere la fiamma?
Quindi adesso: c’è della carne cotta, e da mangiare per un po’. Mi sento congestionata. Per alleviare
questo stato di congestione, altro non ci sarà che enumerare, in un prossimo post, le questioni in
sospeso. Intanto l’ultimo boccone di oggi, chi lo vuole?
Se io, invece, penso ad un luogo che condensi ad un tempo "urgenza" e "senso" mi viene in mente il
Pronto Soccorso. Il che è in parte una battuta (vale a dire l'ennesima delle mie uscite di sicurezza da
giocatore che "biasimate") e in parte no.
(Matteo/giocatore, nei commenti alla terza caldeirada)
Mi sfugge se a soccorrere prontamente ero io, oppure eravate voi, che dovevate soccorrere
prontamente.
Update on venerdì, novembre 17, 2006 at 06:22 AM by untitled io:
Riguardo al convegno di Foggia, c'è un aggiornamento.
La sezione del convegno dove parleremo io e Massaia non si chiamerà più "la pratica editoriale" ma
"esperienze tra rete e carta" (e qui le cose cambiano nettamente).
Inoltre: i partecipanti alla tavola rotonda finale saranno Giulio Mozzi per Vibrisse, Christian Raimo
per Nazione Indiana, Ivano Bariani per Fam, e Manila Benedetto alias Proserpina per Booksblog (e qui
le cose cambiano un po' meno, ma insomma...).
Inoltre la mattina, alle 11,30, c'è “Dal diario al blog: linguaggi a confronto: una riconizione ad ampio
raggio di Giulio Mozzi" (e vabbè). Però a seguire, alle 12,00 c'è “Raccontarsi a chi non si conosce:
esperienze di scritture on line". E' interessante come questa prima parte del convegno sia definita
come di carattere più didattico - e infatti si terrà all'Istituto tecnico Blaise Pascal.
Commenti (22)
ecco, vedi, quando dici queste cose mi fai venire voglia di arrampicarmi di nuovo su di un albero. E
non sai che fatica faccio, adesso.
mannaggia.
:)
(sorrido nascostamente, sia chiaro)
novembre 6, 2006 at 10:28AM | bri
al convegno andrei gentilmente armato... beh, insomma, se non ti fanno parlare, stai almeno tra il
pubblico e fai domande affilate ai non-blogger che discettano di tribù dei blogger (quasi quasi pianto
un totem al centro del salone).
novembre 6, 2006 at 12:59PM | mauro wreck
secondo me dovresti andare con l'aria canzonatoria e serissima che si legge nelle pagine di quel
duello 'webbico'.se vai così allora secondo me sì....
d.
novembre 6, 2006 at 05:29PM | demetrio
"insomma: mi manca lo storico, e forse è un bene."
a.
novembre 6, 2006 at 05:33PM | solotu
no, insomma.
è che oggi tra storico pubblico-pubblico e storico privato-privato sono veramente alle corde, mi
hanno sollecitato fino a farmi diventare una pentola a pressione (pure di PUTT al Circolo Italia adesso
si mettono a parlare, dopo 5 anni!!!!!!_e parlano come vergini _stolte_ di primi adempimenti_!!!??!!,
che pur io mi ricordo ogni cosa e l'esatta sequenza anche quando mi piacerebbe il reset_e il lasso
temporale è più o meno il medesimo della tua, di storia, o della vostra del duello!).
quindi sono contenta di non avere una memoria storica almeno sul versante intimo-pubblico che
possa essere sfrucugliata. e sono pure ben contenta di essere (solo) una sostenitrice della second'ora,
quindi indietro nella fila, una di quelle a cui non verrebbero a chiedere mai niente. almeno per oggi.
:)
novembre 6, 2006 at 05:55PM | solotu
Io queste quasi 5000 parole me le analizzo ben bene, incarto un po' di carne nella stagnola e me la
porto a casa. Poi ripasso, senza urgenza (si sa, no?)
novembre 6, 2006 at 06:00PM |Matteo
secondo te è possibile 'storicizzare' un evento che ha forse neppure 10 anni?
cioé qui in italia abbiamo problemi a fare i conti con gli anni '70 e 80, e ci possiamo permettere di
storicizzare un evento così?
io sono fortemente dubbioso
d.
novembre 7, 2006 at 10:47AM | demetrio
No infatti, io non lo sto storicizzando. Almeno nel senso che non considero, nella rete, "concluso"
niente. Chiedere dov'è finto il vostro (il nostro) sorriso nascosto, significa dare per scontato che quel
sorriso ancora esista, ben vivo, benché sempre più dissimulato. Io credo che nella rete sia sempre
esistita, una parte chiara e una parte oscura. Credo solo che quella oscura si sia fatta sempre più
oscura, e quella chiara sia diventata propro uguale, identica, al mondo com'era prima della rete.
novembre 7, 2006 at 11:02AM | untitled io
Per farti un esempio. Proprio nel commentario del post di fantuzzi su universopoesia.splinder, citato
anche da mozzi (cercatevelo l'url, qua sta succedendo un casino e come ho detto non è possibile
metere url nei commenti), ci sono persone (poeti) che scrivono su riviste online di poesia, che si
chiedono che futuro avranno i blog, o i blog/rivista, di poesia e di argomento poetico. Mi sono
inchiodata su un commento, non mi ricordo di chi, che parla di istituire, sul modello dei Distretti
Culturali, una sorta di Distretto dei Blog. Insomma sono i poeti che stanno parlando, i poeti rifugiati
in rete per parlare liberamente di poesia, e per fare poesia, e come parlano? sembra di stare
nell'ufficio dirigenti del settore cultura del comune - o no? Ecco io non mi arrendo all'importazione di
quel linguaggio lì. E non mi vale l'obiezione: se no non ci capiscono. Se non vi capiscono perché non
andate al comune, a parlare?
(prima che me lo dici: so che sto sollevando un problema enorme, di incidenza sullo stato delle cose)
novembre 7, 2006 at 11:15AM | untitled io
Ho fatto parte anch'io di quel forum, di quel gruppo - se era un gruppo.
C'ero quando sono state scritte le parole che riporti.
Che tu le abbia scelte, accostandole al tema del sorriso nascosto, mi sorprende abbastanza, anzi mi
respinge.
E' stato un forum che ha prodotto molta violenza verbale, che ha esasperato la competizione, che
alla fine è esploso. Lasciando in giro gruppuscoli e qualche individualità, ma niente di organico. Non
dico uno stile oppure dei contenuti, ma neanche un canovaccio minimo condiviso.
Tutto si è sfaldato, forse per questo è leggittimo pensare che non sia stato mai costruito niente.
Ricordo, per esempio, che il mio nick originario è stato di fatto espulso, nel senso che gli è stato
impedito con metodi prepotenti di prendere la parola. Io sono rimasto fino alla fine del forum, ma
costretto a cambiare nick ogni volta che venivo riconosciuto, altrimenti NON mi era possibile
intervenire.
Le ho prese, le ho date. So che qualcuno crede che ci siano state persone che si sono sentite
insultate dai miei insulti, al punto da non sentirsi più di partecipare.
Oggi non riesco più a spiegarmi quel mio comportamento, mi pare infantile e assurdo, ma so che
rispondeva a una necessità del momento. Era la risposta alla violenza che tu qui vuoi fare apparire
giocosa, che invece poteva fare discretamente male, almeno alle persone sensibili.
Le parole del resto sono qui, dove le hai riportate. Ognuno le può valutare per sé. Ho sentito però
che fosse necessario aggiungere che hanno prodotto conseguenze, anche sgradevoli - un effetto che
nella tua esposizione non appare, che invece mi sembra rilevante sottolineare contestualmente.
A me non pare che la violenza in holden fosse giocosa. Mi spiace esserne stato espulso, nel senso che
ancora oggi pensarci mi procura dolore, mi spiace averle date, se davvero le ho date, come alcuni
dicono che abbia fatto.
Le ragioni di quei comportamenti, per quanto non li approvi, oggi mi sembrano abbastanza chiare:
c'era grande scarsezza di spazio, si soffocava, da cui la violenza per conquistare attenzione.
Tipicamente molti si comportavano come se non ci fosse abbastanza attenzione per tutti, ed io credo
che in effetti non ce ne fosse. Per quanto sembri assurdo in un ambiente potenzialmente vasto come
la rete, credo che molti di quelli che hanno fatto quelle esperienze - dei primi forum - sappiano che
c'è sempre stato un difetto d'attenzione, con conseguente lotta per affermarsi.
Come in ogni regime di scarsezza.
Del resto tra le righe è stato il tuo tema qui, forse non in questo post, ma in uno degli altri, la
capacità o incapacità di lettura.
L'attenzione è il presupposto per leggere. Non si leggeva bene perché non ce n'era abbastanza.
Chiaro che qui non si parla in termini individuali, ma di gruppo.
Il forum, di cui riporti un frammento significativo, non soltanto non ha prodotto capacità di lettura,
ma nemmeno una civiltà della lettura reciproca, una cultura della lettura.
Figuriamoci sorrisi. Nascosti, poi.
ciao, palmasco
novembre 7, 2006 at 06:54PM | palmasco
Delle quasi 5000 parole, per ora, ho incartato solo il "sorriso nascosto"; e ne ho scritto. Sorridendo.
novembre 7, 2006 at 07:13PM | Matteo
Per me un duello così, sia chiaro, non aveva nulla ma proprio nulla di "giocoso", tant'è che l'ho
opposta all'idea di "gioco" più corrente, oggi nell'ambiente dei blog. Forse ho usato la parola sorriso in
modo molto ambiguo, anzi: sicuramente è questa, l'origine dell'equivoco. Ho forse sbagliato
nettamente invece, me ne sono accorta quasi subito, a usare poco dopo il termine "ironia"
(grandissima per giunta), che può aggravare non poco ogni forma di equivoco.
Era un mondo violentissimo quello. Non era gioco affatto, come tu giustamente dici. Ma dimmi se non
si tentava di trasmettere lì dentro, di pancia, tutta la propria persona - in luogo di semplici "testi". E'
questo il valore che oggi assegno a quelle cose lì.
Poi, sul fatto che tutto questo agitarsi di corpi non abbia prodotto quel che poteva pur produrre, e
cioè una più diffusa e allenata capacità di lettura VERA, non so. D'istinto, sarei abbastanza pessimista
anch'io. La mia idea (che cercavo di esprimere non so più in quale fase della grigliata) è che nessuno
abbia mai avuto interesse a spingere sul serio in questa direzione - piuttosto il contrario. Mi sono
fatta l'idea che, per molti, meno si sa leggere in giro e meglio è, nonostante tutte le iniziative di
"promozione della lettura" che si susseguono festosamente, su e giù per questa nazione di letterati. .
novembre 7, 2006 at 07:20PM | untitled io
accidenti matteo, avevo appena finito di dire a palmasco che ho usato la parola sorriso in modo
molto ambiguo...
novembre 7, 2006 at 07:23PM | untitled io
"E allora penso a "ghelào", al ridere, al sorridere. E lo penso, mentre mi ripeto in testa "ghelào",
come qualcosa che sta in superficie, che emerge, che risplende, che affiora, che traspare. Io qui
inizio a rispondere a te, al sorriso nascosto, perché spesso, qui, pur sine link, mi è capitato di parlare
con te o di riferirmi a quel che scrivi. Ecco, io non riesco a non sentire la natura ossimorica del
"sorriso nascosto" (quasi fosse "sorgente tramonto"). Dove è il mio "sorriso nascosto" se non in una
concentrica relativizzazione/approssimazione dei giochi nei giochi linguistici? Eppure capisco che nel
sorriso (nel "sub" che contiene...) si possa sentire il "sottotraccia". Quindi, all'opposto dell'ossimoro, il
pleonasmo del subriso, di necessità nascosto. Ma io sento che il mio sorriso nascosto è palese ed
rimasto tale e intatto proprio dentro (attraverso e grazie a) il mio giocare. Tu dici "Come il sorriso del
bambino, che annegato nella faccia da adulto, ogni tanto rispunta, non visto - o addirittura il sorriso
incomprensibile, di un’intera società bambina." E' una bellissima frase. Mi fa tornare in mente un
verso, altrettanto bello, di una canzone di Conte "Sparito sembra poi da qualche viso/lo stesso
proprietario - dov’è andato?/Ma poi di colpo, complice un sorriso,/ indietro torna dal paradiso".:"
così non serve leggerlo da me...
novembre 7, 2006 at 07:25PM | Matteo
...per quanto: un sorriso nascosto E' ambiguo. Per forza.
(mi sto accorgendo di fidarmi sempre meno del valore delle parole, è preoccupante)
novembre 7, 2006 at 07:27PM | untitled io
accidenti, mi ti sei sovrapposto di nuovo! (mi-ti?)
novembre 7, 2006 at 07:31PM | untitled io
nemmeno io ricordo gli "scazzi" di holden, con piacere. C'era ironia, a volte, c'era una grande abilità
a sottrarsi, a punzecchiare, a ferire senza essere feriti, ma c'era anche molta violenza, forse il
desiderio di "farsi largo" con tutti i mezzi, come si dice più sopra.
Ogni tanto me ne vado, anche, dai blog perchè temo che si ripeta il tutto, in forme diverse, più
"nascoste" appunto, in forma di "gioco" , magari crudele.
Sono precipitosa e impulsiva, si sa.
Ma, in quello che scrivi, noto una preoccupazione, quella di farsi delle domande, quella di
interrogarsi. Siamo cambiati, è passato del tempo. A volte temo di non avere imparato niente dalle
esperienze della rete, come ti ho detto, a volte, mi sembra che mi abbia dato molto.
E' cmq un'esperienza importante, da non sottovalutare.
E non ho ancora risposte da dare, se mai sia possibile farlo.
novembre 7, 2006 at 09:24PM | bri
(chiarisco, a beneficio di chi non sapesse niente dei trascorsi di cui si parla, cioè a beneficio credo
della maggior parte delle persone qui, che per "holden" si intende il primissimo forum del sito holden,
ormai irrintracciabile, e non la scuola holden, con la quale nessuno dei partecipanti aveva niente a
che fare)
novembre 7, 2006 at 10:09PM | untitled io
Oggi una cosa buffa. Volevo parlare del Fondo Paolin a Roma al PiùBlog. Preparo pure un bell'abstract
(che sta da me in pdf) e forse questa cosa del Fondo (che è gioco) tu (voi. voi chi?) la catalogheresti
come il solito "buttare in vacca" (o forse l'hai già catalogata...boh).
Insomma, pare che non si potrà (cioé non potrò esporre il Fondo) perché nello stesso dibattito c'è già
la Untitled, e si rischia di sovraesporre il mio autore preferito (il dedicatario del Fondo) e la Untitled
stessa, di riflesso. Sia chiaro: a me va benissimo così. Per me anche la negazione del gioco fa parte
del gioco. M'interessa, qui, proprio il concetto di sovraesposizione. In senso fotografico. Scritture
sovraesposte in senso fotografico. Facce sovraesposte. Quindi, in qualche modo, sbiadite. Siamo
destinati a sbiadire? Sì. Spero.
((A margine: il commento di Palmasco mi ha fatto venire in mente una battuta del film "Caro Diario".
Proprio quando Moretti dice di sé di essere uno splendido quarantenne, subito dopo aver preso le
distanze dalle violenze verbali della sua generazione.))
novembre 8, 2006 at 07:17PM | Matteo
sai cosa: più sopra parlavo del venir fuori coi corpi, farsi strada con la propria persona, in rete anche sgomitando, dandole o prendendole come dice palmasco. Per persona intendevo: con le
proprie parole, e il proprio corpaccione velato, coi propri umori detti, fatti parola. Esporsi non vuol
dire venire esposti (al culto o al pubblico dileggio che sia). Per questo il fondopaolin mi fa ridere (se
non fossi l'editore di paolin mi farebbe ridere di più, ovviamente), ma parla di una questione che non
mi interessa tanto rispetto al discorso che facevo qui sopra: assai più grezzo, più muscolare, più
impresentabile se vuoi (appunto).
novembre 9, 2006 at 07:39AM | untitled io
io trovai quella foto che ho messo nel mio blog, Tomelloso, 1959, Ciudad Real, una riga come un
lutto. È anche come dire qua iniziavo io, lì Tu
novembre 13, 2006 at 12:25AM | llu
Interventi in altri blog
postato da caracaterina nel suo blog 'il mio stupido blog', lunedì 4 novembre 2006 alle 10,03:
Tomografia Computerizzata
Cos’è che di uno che scrive sul weblog non si riesce a capire, a meno che esplicitamente non lo
dichiari?
Il numero di scarpe, per esempio. Il colore degli occhi e dei capelli. Se porta o meno gli occhiali,
(non sempre), quanto pesa adesso e quando pesava due anni fa. La statura fisica, forse. La forma
esteriore del corpo e dei suoi vestiti, insomma. Delle immagini mentali che ciascuno di noi si
costruisce da questa parte dello schermo riguardo le fattezze altrui è bene diffidare alquanto,
essendo costruite col nostro proprio materiale e non con le parole dell’altro. E’ l’effetto che queste
parole producono in noi che ci fa pensare a un corpo che è un puzzle di quelli che abbiamo
immagazzinato in memoria.
Ma, seguendo le virgole e gli a capo di qualsiasi discorso, persino del più futile e contraffatto, lo
scheletro si vede intero, e in movimento, con la forma del bacino intorno al sesso e l’età delle ossa,
coi difetti di postura e di deambulazione che suscitano ipotesi sensate e ristrette sullo stile di vita e
sul tipo di lavoro. Intoccate dal trucco e dalla moda del mondo, sul videoscopio palpitano le immagini
scorrevoli degli organi interni, gli studi fatti e le persone incontrate, gli ambienti e i luoghi d’origine
e di frequentazione, passioni e idiosincrasie, bisogni profondi e inclinazioni relazionali. La storia di
una persona, insomma, che è quel che conta, quel che ha valore. Valore di vita. Il lettore del web è
un radiologo sempre davanti a una TAC integrale più ancora che un paleontologo che ricostruisce al
computer le preistoriche fattezze di Lucy. Poco c’è di meno opaco di una scrittura nel web, molto
assai di più ingannevole persino nell’incontro fisico. E sì che mi impongo cautela, nello scrivere
questo, perché mai dire mai e perché so che mi dichiaro di un partito che ha troppi avversari.
postato da llu nel suo blog nel suo blog 'Sicila L', lunedì 6 novembre 2006:
Facendo una riga nel blog
Ramon Masats, Tomelloso, Ciudad Real. 1959
dal 13/10/06 al 13/11/2006 hanno messo carne a cuocere:
(in ordine di apparizione)
untitled io
solotu/gio
omniaficta
llu/calais
bri
caracaterina
effe
demetrio
mics
tez/maurowreck
stravedere
palmasco
zwie/dikanka
l.ireni
matteo
n.
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CARNE A CUOCERE (1)