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Marius von Mayenburg
LA BAMBINA FREDDA
DAS KALTE KIND
Italienisch von Umberto Gandini,
Rom 2004
Alle Rechte vorbehalten, insbesondere das der Aufführung durch Berufs- und Laienbühnen, des öffentlichen
Vortrags, der Verfilmung und Übertragung durch Rundfunk und Fernsehen. Das Recht der Aufführung ist
rechtmäßig zu erwerben vom:
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Die Rechte an der Übersetzung liegen bei:
Die Rechte an der Übersetzung liegen bei Umberto Gandini, Vicolo della Sabbia 22, 39100 Bolzano
Förderung der Übersetzung durch: / This Translation was sponsored by:
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Marius von Mayenburg
La bambina fredda
(Das kalte Kind)
***
Traduzione di Umberto Gandini
henschel SCHAUSPIEL
Theaterverlag Berlin GmbH
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www.henschel-schauspiel.de
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Personaggi
Johann
Silke
Werner
Henning
Papi
Mami
Lena
Tine
I
JOHANN – Sarebbe potuto succedere anche altrove, però io l’ho
conosciuta al gabinetto.
SILKE – C’eravamo anche noi.
WERNER – Io no.
SILKE – Ma certo che c’eri anche tu.
WERNER – Mai stato in vita mia in un gabinetto per le donne.
SILKE – E infatti loro erano soli, e cioè in due.
WERNER – Non hai appena detto che c’eri anche tu?
SILKE – Abbiamo passato insieme la serata, ecco com’è andata.
Poi, dentro il gabinetto, c’erano soltanto loro due, è ovvio.
JOHANN – Di solito non sono un violento, ma ci sono situazioni
in cui mi scappa la pazienza.
WERNER – Del resto, se ci tieni proprio a saperlo, non erano
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affatto in due. Quella dice un sacco di balle.
HENNING – La manovra di avvicinamento è cominciata molto lontano
dal centro. Dall’estrema periferia. Le prime birrerie, quei locali
all’aperto in cui ci si ferma durante le gite, appena fuori
dall’autostrada. Col tempo non c’è stato più gusto però, e così,
pian piano, un tratto per volta, mi sono mosso in direzione del
centro. Ci ho impiegato un po’, perché io vado a caccia solo nei
weekend. Diciamo che per arrivare in piazza Nolde mi ci son voluti
due anni. Almeno.
SILKE – Ci siamo dati appuntamento in un ristorante nuovo, in
piazza Nolde, di quelli coi tavoli anche all’aperto.
WERNER – Aspettiamo Johann e Melanie in un bar di piazza Nolde.
Il Pentagono, o qualcosa di simile.
PAPI – Sarebbe questa la taverna?
MAMI – Club: adesso si chiamano Club.
LENA – Siamo al Polygam, uno di quei caffè di piazza Nolde in
cui, di solito, non metto mai piede. I miei sono venuti da
Schönewald, con mia sorella, per vedere i luoghi che frequento
nella grande città. Ma nei posti che frequento io non posso
portare loro, è ovvio.
PAPI – Qui dunque te la spassi giorno e notte.
HENNING – Mi piazzo accanto al bancone e soppeso la carne in
esposizione.
MAMI – Lena. Quel tizio vicino al bancone ti sta fissando.
PAPI – Quello ha sicuramente messo gli occhi sulla Tine.
TINE – Ma papi!
PAPI – Di Lena, comunque, non gliene frega niente. Io certe cose
le afferro al volo.
MAMI – Papi, non essere screanzato.
PAPI – Screanzato io? Non intendevo mica offenderti, Lena. L’ho
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detto senza ironia.
MAMI – Papi!
PAPI – E va bene: può darsi che ce l’abbia con te.
HENNING – Non c’è ancora la solita animazione. A ogni buon
conto, tengo sotto osservazione il tavolo accanto alla finestra.
LENA – Quello in effetti continua a sbirciare con uno sguardo
annacquato, però finora siamo nei limiti e non è il caso di andare
a pensare chissà che cosa. Per quel che mi riguarda, non so come
riuscirò a sorbirmi tutta questa serata, e quindi mi metto subito
a bere.
HENNING – Non è che ne abbia proprio voglia stasera. D’altra
parte è sabato, e se non ne scovo una oggi, poi per una
settimana... ti saluto!
SILKE – È un pomeriggio tiepido, con il sole che riscalda la
terrazza quando loro due si incontrano.
WERNER – Mi sa che fra poco si metterà a piovere. Andiamo a
sederci dentro.
SILKE – Non hai nemmeno guardato il cielo.
WERNER – Io certe cose le sento.
SILKE - È la prima giornata dell’estate.
WERNER – La bambina ha freddo. E intanto lei beve Campari
all’arancia, giusto per rompere il ghiaccio. Lo ha chiesto senza
neppur consultare la carta.
SILKE – Mai. Non mi è mai capitato di entrare in un locale e di
trovare Johann e Melanie già seduti al tavolo che ci fanno ciao
ciao con la manina. Mai.
WERNER – Hai qualcosa per coprirla? Ha tutte le labbra blu.
SILKE – Probabilmente lei si è dipinta le labbra di rosso acceso
e ha sbottonato la camicetta per far intravvedere un po’ le
bianche tettine.
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WERNER – Cazzo dici?
SILKE – E così Johann non è riuscito a controllarsi, l’ha
schiaffata contro l’armadio a muro, nel corridoio, e l’ha scopata
in piedi.
WERNER – Ma di che cosa stai parlando?
SILKE – In piedi. La cerniera abbassata lui, lei la gonna tirata
su, col culo bianco che sbarluccica nell’oscurità.
WERNER – Silke. Ha le manine fredde. Senti, toccala.
SILKE – Ovviamente, dopo, Melanie deve rivestirsi, e ha bisogno
di uno specchio perché le labbra le si son sbavate di traverso,
mentre Johann ha bisogno di un paio di calzoni puliti. Gli succede
tutte le volte che escono, quando lei si trucca un po’ e sbottona
la camicetta. Ecco perché, quando è l’ora dell’appuntamento, non
ci sono mai.
WERNER – Silke?
SILKE – Eh?
WERNER – La carrozzina. Guarda. Nina ha le labbra blu e trema.
Nostra figlia ha freddo.
HENNING – Quando so che c’è da aspettare, ordino una mistura
vagamente alcolica e affondo la faccia di pietra nel bicchiere.
Allora il barista conclude che sono uno che ha la sbronza triste e
problemi in famiglia, e così mi lascia in pace.
PAPI – È un amico tuo, quel tizio al bar?
LENA – Non sento nemmeno quello che mi dicono, e tengo gli occhi
fissi sull’albero fuori dalla finestra. Sembra ritagliato sullo
sfondo delle nuvole temporalesche, il sole fa guizzare gli ultimi
raggi sulle foglie e uccelli neri...
PAPI – Ti ho chiesto se quel tizio al bar è un amico tuo.
LENA – Mai visto.
PAPI – Ho sentito dire che oggi va di moda il sesso anonimo.
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MAMI – Non dargli retta. Non sa quel che dice.
PAPI – Appunto. Scusa. Cosa volevo dire... Dunque, che cosa fai
di bello, cara Lena?
LENA – Studio, papi.
PAPI – Ah, giusto. E che cosa?
MAMI – Egittologia, papi. Ho detto bene, Lena?
LENA – Appunto, egittologia.
PAPI – E che cosa ci guadagni? Impari l’egiziano? No?
LENA – No.
PAPI – Se non impari l’egiziano, mi sai dire come farai a
circuire un arabo, magari uno sceicco egiziano? Dico castronerie,
lo so. Scusa. Dimmi tu.
LENA – Per intanto studio solo come gli piace scopare, agli
egiziani. Per ora so solo che gli piace scopare moltissimo,
appunto perché sono arabi e hanno l’harem.
PAPI – Immaginarsi. Sconcezze. Lo sapevo che non ci sarebbe
stato verso di parlare seriamente con lei.
TINE – Lena, non parlare in questo modo con il papi.
MAMI – Ti sta dando una possibilità.
SILKE – È una serata speciale. Lo sento, è nell’aria. Speciale.
So già adesso che stasera succederà qualcosa.
HENNIG – Non saprei dire se il mio è un cazzo grande o meno. Non
ne conosco altri. So solo che quando ce l’ho in mano mi sembra
grande.
SILKE – Werner.
WERNER – Eh?
SILKE – Non fai altro che guardare nella carrozzina.
WERNER – Sul serio?
SILKE – In continuazione. Come se ci fosse un televisore acceso.
WERNER – Se non lo faccio io... Tutti se ne fregano. La piccola
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potrebbe anche morirci di freddo.
SILKE – Bevi la tua birra e taci.
WERNER – E tu non fai altro che guardare la porta per vedere se
arrivano Johann e Melanie.
SILKE – Perché è un’indecenza. Per quel mi riguarda, a questo
punto possono anche fare a meno di venire. Non si fa aspettare la
gente per un’ora. Mi è passata la voglia di vederli.
WERNER – E allora smettila di fissare la porta.
SILKE – Di nuovo.
WERNER – Che cosa?
SILKE – Non la smetti di guardare nella carrozzina nemmeno
quando mi rivolgi la parola. Sei fissato.
WERNER – Mi stupisce che la bambina sia ancora viva con la madre
che ha.
(Silke rovescia il bicchiere di birra di Werner nella
carrozzina)
SILKE – Oddio.
WERNER – Sei impazzita?
(Werner preleva la bambina dalla carrozzina. Silke vorrebbe
toglierglierla)
WERNER – Giù le mani.
SILKE – Non volevo.
WERNER – Eccome. Me ne sono accorto.
SILKE – Volevo solo che tu mi guardassi.
WERNER – Ce l’hai fatta. Bello spettacolo.
SILKE – Altre madri avrebbero gettato nella carrozzina anche il
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boccale in aggiunta alla birra. Altre madri cacciano i figli in
lavatrice quando hanno i pannolini pieni.
WERNER – A te evidentemente manca ben più di una sola rotella.
(Werner si alza e esce con la bambina in braccio)
HENNIG – L’ultima volta che ne ho visto uno avrò avuto nove e
dieci anni. Alla piscina comunale, dove ci sono gli armadietti. È
lì che ho visto l’ultima volta l’affare di un uomo. Sono rimasto
come inchiodato sulla pedana, sconvolto per quant’era grande e per
come spuntava fuori dai ciuffi di peli. Dopo d’allora non sono più
andato a nuotare. In acqua non facevo che affondare, del resto.
(Rientra Werner)
WERNER – Dove hai lasciato la macchina?
SILKE – Giù di lì e poi a destra.
(Werner esce di nuovo)
PAPI – Lena, non credere che non abbia pensato a te.
LENA – E allora? È stato doloroso?
PAPI – Mi sono messo nei tuoi panni.
LENA – Aha.
PAPI – Vuoi sapere a che conclusione sono arrivato?
LENA – No.
PAPI – E io te la dico lo stesso. Hai fatto male i tuoi calcoli.
LENA – E io intanto mi chiedo quanto cognac dovrò ancora bere
per riuscire poi a vomitargli sulla cravatta superando il tavolo
con il getto.
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PAPI – Tu pensi: per ora mi tengo occupata con l’Egitto, ma
prima o poi verrà il giorno in cui i vecchi schiatteranno e la
grana me la piglierò io.
LENA – Avete davvero tanta grana? Pensi che ne valga la pena?
PAPI – Sono soldi miei. Miei e di mami. E farò di tutto perché,
il giorno in cui sarò morto, non avanzi niente.
MAMI – Papi ha deciso che dobbiamo viaggiare. Che dobbiamo
goderci quel po’ di vita che... Senza negarci niente, vero, papi?
PAPI – Nessuno, il giorno in cui getterà una manciata di terra
sulla mia bara, dovrà fregarsi le mani all’idea dei miei soldi.
HENNIG – A me piace mostrare il cazzo. Ho anche letto da qualche
parte che è moderno, ma non lo faccio per questo. A parte il fatto
che a me non lo ha ancora mostrato nessuno.
(Rientra Werner con la bambina)
SILKE – Beh, ti sei divertito?
WERNER – Ho dimenticato le chiavi.
SILKE – Vuoi un’altra birra?
WERNER – Dammi le chiavi della macchina.
SILKE – Purtroppo adesso il boccale è vuoto.
WERNER – Smettila con le sciocchezze e dammi le chiavi.
SILKE – Non ero sicura che ne volessi dell’altra, altrimenti...
WERNER – Dammi quella stupida borsetta.
(Silke gli allunga la borsetta)
SILKE – L’altra sera mia figlia mi ha voluta con sé alla
consegna del premio. Nina ha i tacchi altissimi e si ferma sul
tappeto rosso. I capelli di seta brillano biondi sotto la luce dei
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riflettori, l’abito d’argento che la fascia stretta stretta
scintilla e tutti i fans e tutti i giornalisti si domandano: ma,
sotto, le avrà o no le mutandine?
WERNER – Qui le chiavi non ci sono.
SILKE – Certo che ci sono. Io mi tengo discretamente in
disparte, poi però mi rivedo in televisione mentre sto immergendo
una tortilla nel sugo, e mi stupisco molto perché ho proprio un
bell’aspetto, anche la faccia è carina, non sapevo nemmeno di
avere una faccia così bella, molto più bella di quella di Nina. A
proposito, e lei dov’è? Comincio a rendermi conto che non posso
essere io, perché io non sono mica così carina.
WERNER – Non le trovo. Qui non ci si vede.
SILKE – Io non ho un nasino così affilato, ma poi mi viene in
mente che mi sono fatto fare il lifting ed evidentemente sono
stati soldi spesi bene. Guardo meglio, mi piglia un colpo e mi
sfugge di mano il piatto con le tortillas. Metà faccia non c’è e
l’altra metà mi fissa in preda al panico un occhio senza palpebra.
(Werner estrae dalla borsetta un rossetto senza cappuccio)
WERNER – E questo che cos’è?
SILKE – Un rossetto senza cappuccio.
WERNER – È pieno di briciole e di capelli. Non puoi usare una
roba simile.
SILKE – L’hai detto.
WERNER – I rossetti si buttano fra i rifiuti differenziati?
(Silke gli strappa la borsetta, ci infila una mano alla cieca,
ne estrane le chiavi e le porge a Werner)
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Silke – Eccole.
(Werner esita)
SILKE – Volevi piantarmi qui?
WERNER – Sarei anche andato a piedi, ma là fuori, dietro
l’angolo, è improvvisamente spuntato fuori un grosso cane.
SILKE – Siediti. Sembri uno scemo lì in piedi.
(Werner si siede)
WERNER – Un giorno o l’altro telefonerò all’ospedale
psichiatrico, e così verranno a prenderti con la camicia di forza
e ti daranno una bella rata di elettroshok.
SILKE – È ancora bagnata?
WERNER – Solo la coperta. E il pannolino, suppongo.
SILKE – Intanto io mi faccio un altro Campari all’arancia.
HENNING – La prima volta è successo per sbaglio. Ho sbagliato
porta, volevo soltanto pisciare, una donna si è messa a ridere e
io sono rimasto di stucco dallo spavento. Mi sono addossato al
lavandino, lei non si è accorta di niente, però io ho sentito
qualcosa che mi scivolava caldo giù lungo i calzoni. E stato come
scoprire un mondo nuovo.
PAPI – Voi non sapete usarli, i soldi. Vi manca l’erotismo. O
l’esotismo. Insomma, tutto quello che sapete fare è gettarli dalla
finestra. Piuttosto li investo in una piscina al mare.
TINE – Io sì. Io conosco l’importanza dei soldi. Io ho un
libretto, e non lo tocco dal giorno della comunione. E intanto si
accumulano gli interessi.
PAPI – Brava Tine, fai bene. Tu invece, Lena, non capisci
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niente. Egittologia!
MANI – Anch’io non ci capisco niente. Ma nel caso mio non è
importante, perché io ho papi e lui se ne intende.
PAPI – Sono veramente preoccupato.
LENA – Mi commuovi!
PAPI – Il nome Detlev ti dice più niente?
LENA – Non è quel tizio con la faccia rossa sulle cui ginocchia
mi hai fatto sedere?
PAPI – Non so se nella tua egittologia ti è mai capitato di
inciampare su un qualcosa che si chiama contabilità.
LENA – Ma certo. Non è una tecnica particolare di
mummificazione?
PAPI – Detlev ha una ditta che produce articolari sanitari, e
dal momento che io sono io, tu puoi considerarti fortunata. Farà
un’eccezione per te: un posto in amministrazione. Somme e
sottrazioni. Per una come te, senza una preparazione specifica, è
come una vincita al lotto. E fammi il favore di non farmi fare
brutta figura: telefonagli domani.
TINE – Lena! Ma pensa! È grandioso!
PAPI – Ci siamo capiti, Lena? Ti assicuro io che sarà la
soluzione migliore. Saprai pure usare una calcolatrice, no?
MAMI – Lena. Di’ grazie a papi. Ha esposto il suo buon nome per
te.
PAPI – Ecco il numero.
(Lena prende il biglietto)
PAPI – E anche questa è fatta.
LENA – Grazie. Articoli sanitari. Non ho parole. Somme e
sottrazioni. Da non credere. Mi sento come se mi passassero il
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cervello al setaccio. Cerco di distinguere il disegno sulla
cravatta di papi ma mi tremano gli occhi. Io... credo che mi
scappi da vomitare.
(Si alza e si avvia in direzione della toilette)
HENNING – Eccola! Stavolta toccherà a lei. Però le concedo
ancora qualche momento. Spesso, nei gabinetti delle donne, ci sono
dei pisciatoi lungo le pareti. In passato mi chiedevo che ci
stavano a fare, visto che, più che vomitarci quando sono sbronze,
alle donne non possono servire. Oggi lo so. I pisciatoi ce li
hanno montati per me, e quando arrivo io si mettono sull’attenti,
davanti all’unico uomo che ha il coraggio di entrare nel gabinetto
delle donne. Sono anni che mi aspettano.
SILKE – Johann!
(Johann, frettoloso e distratto, urta il tavolo di Silke e
Werner, rovesciando un bicchiere)
JOHANN – Pardon. Pago io. Anche la pulitura dei vestiti se per
caso...
WERNER – Johann!
JOHANN – Ma...
SILKE – Perché non guardi mai dove metti i piedi?
JOHANN – Voi!
WERNER – Non ti aspettavamo più.
JOHANN – Mi dispiace per il beveraggio. Ve ne ordino uno nuovo.
SILKE – Pensavamo che non saresti più venuto.
WERNER – Io invece ho continuato a dirlo: vedrai che verrà.
JOHANN – Io?
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WERNER e SILKE – Sì.
JOHANN – Avevamo appuntamento? Qui? E dire che ci sono venuto
solo per sbronzarmi.
SILKE – È un’ora che ti stiamo aspettando.
JOHANN – Era un Campari, quello?
SILKE – All’arancia, sì.
JOHANN – Lo hai scelto sulla carta per i bambini?
SILKE – Per i bambini? Ma è un Campari!
JOHANN – Appunto.
WERNER – Dài, siediti.
JOHANN – Sì.
HENNING – Il più delle volte l’uccello mi si rizza già mentre
sto andando verso la toilette. Per questo, durante i weekend, non
mi metto mai le mutande. Mi fermo davanti alla porta fino a quando
sono sicuro che lei è dentro nel cesso vero e proprio, e poi entro
senza nemmeno guardarmi in giro. Mi piazzò con le spalle alla
porta davanti al lavandino, apro la bottega e sento lei che sta
facendo scorrere l’acqua. All’inizio, certe volte, mi capitava di
sgocciolare sul pavimento prima ancora che quella uscisse dal
bugigattolo. Oggi però non mi succederà perché, come ho già detto,
non è che ne abbia tanta voglia.
SILKE – Come va?
JOHANN – Ad alcol.
WERNER – Buona idea. Ci penso io. Ora ordiniamo.
JOHANN – E io?
WERNER – Come prego?
JOHANN – Che se sarà di me?
WERNER – Beh...
SILKE – ... e Melanie dov’è?
JOHANN – Chi?
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WERNER – Appunto. Melanie. Dove l’hai nascosta?
JOHANN – Sono un po’ scombussolato. Stiamo per sposarci.
WERNER – Sposarvi? Voi?
SILKE – Tu sposi lei?
JOHANN – Per l’appunto. Ecco l’anello.
(Esibisce un astuccio per gioielli)
JOHANN – Ecco la prova.
(Silke ammira l’anello)
SILKE – Bell’anello.
JOHANN – Ventiquattro carati e un grasso rubino rosso.
WERNER – E quando vi sposerete?
JOHANN – I testimoni siete voi. In chiesa. Lei in bianco.
Peccato che mia madre non possa più vederci. Eh già.
SILKE – Ma...
JOHANN – Che cosa?
SILKE – Johann, mi sto chiedendo...
JOHANN – Anch’io. È questo appunto il problema.
WERNER – Quale?
JOHANN – Che cosa?
SILKE – Come mai l’anello è qui sul velluto blu e non al dito di
Melanie?
JOHANN – Esattamente. E anche mio padre, probabilmente, non
afferrerà più molto della cerimonia, il vecchio citrullo.
SILKE – Tu non le hai neanche dato l’anello!
JOHANN – Con gli anni è diventato sempre più scemo.
SILKE – Non gliene hai neppure parlato.
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JOHANN – Che cosa?
SILKE – Con Melanie!
JOHANN – Certo che gliel’ho detto. Le ho consegnato i fiori,
l’astuccio, e poi sono salito in taxi perché ero già in ritardo.
SILKE – E lei cos’ha detto?
JOHANN – Chi?
WERNER – Melanie!
JOHANN – Melanie. Già. Ora ve lo riassumo. Primo: non mi sposa.
Secondo: non è mai riuscita a dimenticare Christian. Terzo: stava
con me solo perchè glielo ricordavo. Quarto: però la somiglianza
non è poi così grande, tanto è vero che – quinto – era venuto il
momento di darci un taglio definitivo tanto più che – sesto –
l’anello non le piaceva nemmeno un po’.
WERNER – Ma se è così bello!
SILKE – Christian?
JOHANN – Sì. Peccato.
SILKE – E poi?
JOHANN – Piglio il taxi e arrivo in ritardo. Il cielo è scuro,
cadono le prime gocce, il sole è scomparso dietro le nuvole e ne
colora di bianco i margini. È come se avessi la testa vuota.
(Tossisce.) Il vento soffia e il suono è cavernoso.
WERNER – Stento a capire.
JOHANN – Anch’io. Credo... mi pare... anzi sono certo che sto
male. Scusate, ma...
(Si alza e si avvia in direzione della toilette)
HENNING – Non gridare. Non ti farò niente.
JOHANN – Sarebbe anche potuto succedere altrove, però io l’ho
conosciuta al gabinetto. Con il petto macchiato di vomito e i
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capelli disfatti, era accovacciata in un angolo, sul pavimento, e
non posso dire che fosse uno spettacolo appetitoso. E sopra di lei
c’era quel tizio con la patta dei calzoni aperta.
(Abbatte Henning con un pugno in faccia)
HENNING – Ehi, ma questo è il gabinetto della donne! Lei non
può... (Sviene)
JOHANN – Di solito non sono violento, ma ci sono situazioni in
cui mi scappa la pazienza.
LENA - È notte. Sto correndo fuori dal bosco nel tentativo di
salvarmi. Arrivo a ridosso dell’autostrada. Sono nuda. Il mio
vestito, a brandelli, è rimasto da qualche parte nella foresta,
non lontano dalle mutandine, a brandelli anche loro, in mezzo agli
alberi, fra gli aghi degli abeti. L’uomo che mi vuole violentare
mi sta rincorrendo, i fari delle macchine mi abbagliano, corro
sull’asfalto, tento di fermare un’automobile, il tizio dietro di
me mi grida di fermarmi, mi afferra per i capelli, io mi divincolo
e con uno stridulo rumore i capelli si distaccano dalla cute.
Continuo a correre, le macchine mi sfrecciano accanto. Sono un
semaforo verde, penso. Vedo facce vuote, uomini che hanno paura
del mio corpo nudo mentre sono io quella che deve aver paura. La
luna occhieggia dietro il bosco. «È una falce», ansima quello
dietro di me, e si strozza quasi dal ridere. Io cado, le mie
ginocchia strusciano sull’asfalto, le macchine mi scansano, ormai
lo sento alle mie spalle e so che non ce la farò. Uno stormo di
uccelli neri piomba dal cielo con acute strida, ed è come se lo
tagliasse di netto. Una carrozzeria di nobile metallo scintilla e
la pesante autovettura si blocca. Fra i sedili di pelle di
cinghiale colgo lo sguardo di un uomo. Deve avere i capelli
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pettinati col phon, penso, mentre si ferma dietro di me sulla
corsia di emergenza.
JOHANN – Ormai non gridava quasi più, ma c’è stata una pausa fra
due canzoni e così l’ho sentita mentre stavo per entrare nel
gabinetto degli uomini.
LENA – Con un colpo tremendo spacca la faccia al mio inseguitore
e lo scaglia oltre il guard-rail, dove rimane a terra, svenuto. Io
mi avvinghio col corpo insanguinato al suo vestito di morbido
gabardine mentre le sue dita mi sfiorano lievemente le spalle e i
capelli. I fari passano e ci illuminano, e ora le sue dita tremano
leggermente. È stata la nostra notte di nozze. Non ho avuto
scelta. Sono crollata e gli ceduto sul sedile posteriore. Poi l’ho
visto, fra le ciglia, guidare la macchina, una mano sul volante,
l’altra sulla coscia nuda, la camicia che gli pendeva sulle
mutande e un pezzo di faccia nello specchietto retrovisore,
illuminato a lampi dai fari delle automobili. Io sono distesa
dietro, fra morbidi cuscini, nuda, col suo vestito addosso, nel
naso il profumo della pelle di cinghiale e di un prezioso
dopobarba. Le dita dei piedi giocano con la manovella del
finestrino.
JOHANN – Sei sveglia?
LENA – Non ne sono sicura.
JOHANN – Stai bene? Vuoi alzarti?
LENA – Non lo so. Ora ti appartengo. Sono tua.
JOHANN – Meno male. Oggi ho perduto tutto.
LENA – Lo hai ucciso?
(Johann risponde con un’alzata di spalle)
JOHANN (a Henning) - Ehi.
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(Lo schiaffeggia leggermente. Henning si alza di scatto)
HENNING – Cosa succede?
JOHANN – Non ti sembra di avere l’età in cui ci si comporta come
una persona adulta?
HENNING – Scusi, non stavo ascoltando.
JOHANN – E chiuditi i calzoni.
HENNING – Oh. Pardon.
(Johann fa per andarsene)
LENA – Te ne vai?
JOHANN – Mi sento a disagio qui.
LENA – Mi accompagni? Fuori ci sono... ti prego.
(Johann reagisce con un’alzata di spalle e poi annuisce)
LENA – Dove andiamo?
JOHANN – Ho perso la bussola.
LENA – E allora andiamo a casa.
JOHANN – Sì, a casa.
MAMI – Lena!
TINE – Eravamo preoccupati.
JOHANN – Lena!
MAMI – Stavamo per venire a cercarti.
TINE (alludendo a Johann) – Chi è quest’uomo?
LENA – Mio marito. Stammi alla larga, vipera.
TINE – Io?
JOHANN – Se non le dispiace. Dov’è l’uscita? State attente. Nel
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locale di servizio riservato alle signore c’è un povero infelice.
Suggerisco di stargli alla larga.
TINE – Io non sono una vipera.
MAMI – Hai del vomito sul petto.
LENA – Ma no: è una spilla.
TINE – Chi c’è di là?
JOHANN – Un mostro sessualmente pervertito che si torce sul
pavimento.
LENA – Senza volto, solo un rettile fra le gambe.
MAMI – Io non avrei il coraggio di entrare.
TINE – Dopo tutto è il gabinetto delle donne.
WERNER – Johann! Te ne vai?
LENA – Ti chiami Johann?
SILKE – Chi è quella donna?
JOHANN – Mia moglie. Dobbiamo andare. Ci sono troppe facce qui
in giro.
LENA – È sua questa bambina?
WERNER – Mia, sì.
LENA – Non le dia troppo alcol da bere. Puzza di birra.
SILKE – Giù le mani dalla carrozzina.
JOHANN – Non ve la sta mica rompendo. (A Lena) Vieni.
Andiamocene di qui.
TINE – Perché piange?
(Henning si spaventa nel vedere Tine, e caccia un breve grido.
Tine si spaventa, e lancia un breve grido anche lei)
TINE – Ehi dico! Questa è la toilette delle donne.
HENNING – Appunto.
TINE – E lei, un uomo, sta qui seduto sotto i lavandini delle
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donne e piange... Come se lo spiega?
HENNING – Risparmi le parole. Sono un caso triste. Forse
disperato. Fra un poco sparirò.
TINE – Che strana faccia.
HENNING – Lo so. Dipende dal fatto che sono turbato.
TINE – Che cosa sta guardando?
HENNING – Mi scusi.
TINE – Perché non mi guarda in faccia?
HENNING – Se si sposta di un passo, potrei alzarmi. Quella è la
porta e...
TINE – Su la testa.
(Henning solleva la testa ma tiene chiusi gli occhi)
TINE – Apra gli occhi.
HENNING – Ecco. Li ha visti? E adesso?
TINE – Lei mi stava guardando la gambe. Apra gli occhi! Ho le
gambe diritte, sa? Perfette. Bianche. E cosce morbide.
MAMI (da fuori) – Tine! Com’è la situazione là dentro?
TINE – Vengo, mamma. Mi sto lavando le mani. (A Henning) Le
piacciono le mie gambe?
HENNING – Io non so niente di gambe. Io sto solo guardando le
piastrelle.
TINE – Dunque non le piacciono?
HENNING – Sì, no. Non sono in grado di giudicare. Non me ne
intendo.
TINE – Le guardi.
HENNING – Non lo so. Oggi mi va tutto storto.
MAMI – Tine! Papi vuole che ce ne andiamo.
TINE – È un perverso, lei? (Henning annuisce, sconsolato) Spia
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le donne mentre fanno la pipì.
HENNING – No.
TINE – Lei è qui perché voleva vedermi fare la pipì.
HENNING – No, glielo assicuro. Sono un normalissimo
esibizionista. La prego, mi faccia uscire.
TINE – Lei è che cosa?
HENNING – Mostro il mio sesso alle donne.
TINE – E le sembra normale?
HENNING – Sì. No.
TINE – Dài.
HENNING – Come prego?
MAMI – Tine! È tutto a posto? Con chi stai parlando? C’è
qualcuno?
TINE – Sto asciugandomi le mani con la macchinetta. Ci mette un
po’. (A Henning) Avanti. Sbottoni i calzoni.
HENNING – Non dirà sul serio. Lei è ancora una bambina.
TINE – Per lei sono una donna sconosciuta, una qualsiasi. Si
spicci.
HENNING – Adesso non ce la faccio.
TINE – E allora che ci sta a fare qui? Io non ne ho mai visto
uno. Ha i bottoni o una lampo?
MAMI – Tine! Papi trova strano il tuo comportamento. Vieni fuori
di lì.
TINE – Se vuole le do una mano.
(Si inginocchia per aprire i pantaloni di Henning. Entra Mami)
MAMI – Tine! Ma che cosa fai?
(Henning schizza su e va a dare una testata contro il lavandino)
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TINE – Il signore ha sbattuto la testa. Gli sto passando un po’
d’acqua fredda sulla fronte.
(Versa dell’acqua sulla testa di Henning)
MAMI – Tine! Finiscila. Vieni.
(Mami trascina fuori Tine tenendola per un braccio)
TINE – Klippschlieferstrasse nove.
MAMI – Ma è il nostro indirizzo!
A un perfetto sconosciuto!
TINE (a Henning) – Klippschiefer nove. (A Mami) Non tanto
perfetto. (Escono)
HENNING – Non tanto perfetto. Klippschiefer nove. Mi verrà un
bozzo. Povera la mia bella testa.
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II
JOHANN – Lena, sono pazzo di te.
PAPI (canta) – Ama il biondo marinaio...
LENA – Piantala, papi, non mi piace quella canzone.
PAPI – ... la ragazza senza un danè.
LENA – Sai benissimo che...
PAPI – Finché capita...
LENA – Per favore!
MAMI – Quando si comincia una cosa la si deve anche finire.
JOHANN – Mi manchi, mi manchi terribilmente. Sento la tua
mancanza anche quando sono qui disteso accanto a te.
PAPI – Finché capita un bel guaio...
LENA – Non sopporto questa canzone.
MAMI – A me piace. Continua, papi.
PAPI – ... lui l’annega nel bidè.
LENA – Stai meglio adesso?
JOHANN – Oggi pomeriggio in ufficio mi sono precipitato al
gabinetto con la fronte imperlata di sudore, ho estratto tremando
la tua fotografia dal portafogli e mi sono masturbato fino a
quando hanno cominciato a scorrermi grosse lacrime sulle guance.
Non riesco a concentrarmi, fisso il pomo d’Adamo dei clienti,
fingo di prendere appunti, ma non faccio che scarabocchi. Devo far
forza su me stesso per non riportare sulla carta la linea dei tuoi
seni, ma quando guardo meglio constato ogni volta con spavento di
aver disegnato le tue gambe. Sono perduto.
LENA – Suona orribile. Johann, pensi che dovremmo lasciarci?
JOHANN – Melanie.
LENA – Mi chiamo Lena.
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JOHANN – Appunto. Voglio sposarti.
LENA – Perché non scopiamo e basta?
JOHANN – Parlo sul serio.
LENA – Anch’io.
SILKE – Non è possibile, non può averlo detto.
WERNER – L’immaginavo che non ti sarebbe andata giù.
SILKE – Perché non scopiamo e basta?
WERNER – Scopare e basta. Appunto.
SILKE – Non è possibile. La conosco bene. Non è ingrata fino a
questo punto.
WERNER – Guarda che hai capito male. Si tratta di una
controproposta rispetto al matrimonio, l’offerta di una relazione
tutta limitata al rapporto sessuale. Ma sono cose che tu non
riesci a concepire.
SILKE – E le tue sono le solite sudice fantasie e nient’altro.
PAPI – Non hai nemmeno salutato Detlev.
LENA – Detlev?
PAPI – Ti dice qualcosa il nome Detlev?
LENA – Salve, Detlev.
PAPI – Per te è ancora il signor Detlev.
LENA – ‘Giorno signor Detlev.
PAPI – Signor presidente Detlev. Dagli la mano.
LENA – Quale mano?
PAPI – La tua.
LENA – Ma è mia!
PAPI – Dagliela lo stesso.
(Le prede la mano e l’esamina)
PAPI – Questa mano è sudicia. Non puoi dargliela in questo
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stato. Mami, hai un detersivo? Detlev ci tiene moltissimo
all’igiene.
(Mami porta spazzola e detersivo. Papi comincia a spazzolare
energicamente la mano)
PAPI – Dove l’hai ficcata per sporcartela in questo modo?
LENA – In bocca a un cane, nelle viscere di un cavallo
sventrato, in un armadio pieno di medicinali vietati, a occhi
chiusi, nel cassetto del tavolo in cui c’è una pistola, in un buco
del muro fino ai peli dell’ascella, in un buco per terra, sul
palmo della mano mi si accoppiano i pesci, galline mi leccano le
dita e fra l’uno e l’altro cresce la lattuga, su su, dalla mano
fino alla bocca.
PAPI – Se non sei disposta a concedergli la tua mano, vuol dire
che te la staccheremo. Mami, un coltello.
LENA – La mano è mia e vorrei tenermela.
PAPI – Non mi farai fare questa figuraccia. Darai la mano a
Detlev e basta. Mami, il coltello.
LENA – Mami, stammi vicina.
MAMI – Non riesco a trovarlo.
PAPI – Vuoi proprio che venga a aiutarti a cercare?
MAMI – No, papi, ti prego.
LENA – Perché sono così sola?
PAPI – Ognuno ha i genitori che si merita.
MAMI – Non vedo coltelli.
PAPI – Ma che casa è questa?
MAMI – Solo uno sbucciapatate.
LENA – Perché nessuno mi aiuta?
PAPI – Vuol dire che lo faremo con una bomba a mano. Ti è
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piaciuta? Mano... bomba a mano. Buona, eh? (Si torce dalle risate)
Ecco, reggimela per un momento.
(Lena ha in mano l’astuccio con l’anello. Tiene gli occhi
chiusi)
LENA – Che cos’è?
JOHANN – Adesso puoi aprire gli occhi.
LENA – Voglio sapere che cos’è.
JOHANN – Apri gli occhi. Una sorpresa.
LENA – Non voglio sorprese.
JOHANN – Dopo ti leccherai le dita.
(Lena butta via l’astuccio)
LENA – Io non lecco le dita a nessuno.
JOHANN – Ma...!
(Lena apre gli occhi)
LENA – Che cos’era?
JOHANN – Ah!
LENA – Che cos’era?
JOHANN – Adesso non importa più. (Fa per andarsene)
LENA – Dove vai?
JOHANN – Non vedo perché te lo dovrei dire.
LENA – Ma cosa succede? Perché tutto accade contemporaneamente?
JOHANN – Me ne strabatto. Fai conto che non ci sia.
LENA – Fermati. Ho sbagliato qualcosa.
JOHANN – L’hai detto.
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LENA – Perché mi guardi in quel modo?
JOHANN – Mi dispiace. Non lo so. Mica mi vedo, io.
LENA – Non posso parlarti se mi guardi in quel modo.
JOHANN – E allora non farlo. Ho una sola domanda ancora da
rivolgerti.
LENA – E sarebbe?
JOHANN – Sei stata allevata fra le scimmie?
LENA – Fra le scimmie?
JOHANN – Lo sai che cos’era?
LENA – Dove?
JOHANN – Nell’astuccio.
LENA – Non hai voluto dirmelo.
JOHANN – Un anello, oro ventiquattro carati e un grosso rubino
rosso. L’ho comperato io. Per te. E tu? Lo scaraventi in un
angolo.
LENA – Tu mi hai comperato un anello?
JOHANN – Eccolo lì per terra. Guarda.
LENA – Ma perché?
JOHANN – Perché voglio sposarti, femmina vomitevole e scema,
perché io idiota ho pensato che fosse possibile, perché avevo
dimenticato che tutte le donne sono vomitevoli, che vi siete messe
d’accordo per distruggermi.
LENA – E allora sposami, se ci tieni tanto. Io non sono
vomitevole.
JOHANN – Stamattina sono uscito dall’ufficio in anticipo, sono
stato da venti gioillieri, e tu poi l’anello neanche lo guardi e
lo butti via.
LENA – Perché ho avuto paura.
JOHANN – Sei pazza?
LENA – Sì. No. Non lo so.
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JOHANN – Hai paura di me?
LENA – Non lo so. Sì.
JOHANN – Sei una mentecatta o qualcosa del genere?
LENA – Ho avuto paura e basta.
JOHANN – Dopo tutto quello che ho fatto per te.
LENA – Sì.
JOHANN – E me lo dici così, in faccia?
LENA – Ho pensato di poterlo fare. Pensavo di poterti dire
tutto.
JOHANN – Quest’anno me ne sono capitate troppe. Non ce la faccio
a sopportare un’altra batosta.
LENA – Io non sono una batosta. Sposarci? Non è una cattiva
idea. Ti faccio una proposta di matrimonio.
JOHANN – Me l’ero figurato diverso questo momento.
LENA – Mi dispiace. Anch’io vorrei essere diversa.
SILKE – Non so se a quel punto lei fosse già incinta, però lui
ha voluto che fosse una cosa romantica, con i fiori e l’anello,
alla vecchia maniera.
WERNER – Non vieni più a letto con me perché puzzo di pannolini
pieni di cacca. Negalo se hai il coraggio.
SILKE – E dire che lui è come se l’avesse raccattata dalla
strada. Mancava solo il cavallo bianco. Però me lo figuro scendere
dal cavallo con un’agile piroetta, estrarre il piede dalla staffa,
inginocchiarsi, baciarle la mano, infilarle l’anello al dito, e
intanto lei è radiosa e piange a più non posso, i sette nani
assistono giubilando alla scena e lanciano in aria i loro
berrettini rossi.
WERNER – Sì, e uno dei sette nani sei tu.
(Un acuto grido d’uccello)
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WERNER – Hai sentito? Nina ha il raffreddore.
(Altro grido d’uccello)
WERNER – Sternuta.
LENA – Le sue dita tremano e mi sfiorano lievemente le spalle e
i capelli, i riflettori ci inquadrano e ci illuminano. Ecco come
sono state le nostre nozze.
JOHANN – Tu dormivi. Il sole aveva invaso la stanza, ti brillava
fra i capelli sulle tempie, avevi una mano stretta sotto una
guancia, le labbra umide e leggermente aperte, il respiro faceva
tremare alcuni capelli e gli occhi si muovevano lievemente sotto
le palpebre. È così che ho visto stamattina la tua mano. Guarda.
(Le infila l’anello) Volevo che fosse un anello color del sangue,
LENA – Che anello grosso! Sei sicuro che sia per me?
JOHANN - È un bell’anello, niente da dire. Anche Silke e Werner
lo hanno detto.
LENA – Silke e Werner?
JOHANN – Silke e Werner, sì.
LENA – Che c’entrano Silke e Werner?
JOHANN – Li ho incontrati, a mezzogiorno, anzi no, nel
pomeriggio, là, come si chiama, non importa. Lasciamo perdere
Silke e Werner. Non c’entrano.
LENA – Non c’è bisogno che mi comperi dei gioielli se mi vuoi
sposare.
JOHANN – Eppure si usa. O no?
LENA – Non lo so. Non ho esperienza in materia.
JOHANN – Se non vuoi, lasciamo perdere.
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LENA – Dobbiamo proprio invitare i miei genitori, o possiamo
farne a meno?
PAPI – Cari sposi, cari parenti, cari amici, degne signore e
stimati signori. Qualcuno ha un fazzoletto? Mami piange sempre
quando io tengo un discorso e vogliamo evitare che si soffi il
naso nella tovaglia. Grazie. Altri padri piangono quando perdono
la moglie... la figlia, volevo dire, la figlia, naturalmente. Io
invece non piango, perché io non ci rimetto una figlia ma ci
guadagno un marito, e come padre di due figlie so apprezzare certe
cose.
MAMI – Ci guadagni un figlio.
PAPI – Cosa?
MAMI – Non un marito.
PAPI (nell’orecchio alla moglie) – Mami, mi stanno ascoltando
tutti e tu mi interrompi.
MANI – Non guadagni un marito ma un figlio.
PAPI – Mia moglie vorrebbe evidentemente farmi notare che sono
incorso in un errore, ma non importa, io continuo lo stesso. Mia
figlia ha fatto una buona scelta, Johann. Finanziariamente sei a
posto. Hai una buona posizione e quindi potrai permetterti di
soddisfare ogni desiderio della tua mogliettina. Il che ti
risparmierà un sacco di dispiaceri. E a questo proposito debbo
chiedere scusa. A Lena, noi, non abbiamo mai fatto mancare nulla.
Le abbiamo dato anche troppo. In ogni caso i soldi costituiscono
la base indispensabile di ogni unione, se si vuole che sia a prova
di strappi. Ecco, vedete, ora mami piange. Prima di levare i
calici all’indirizzo degli sposi, prima di cadere sotto il tavolo
ubriachi, prima di saltare addosso alle nostre mogli e
metterglielo dentro da dietro, sento il bisogno di aggiungere
ancora una considerazione personale, di rivolgere una parolina a
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Tine, l’altra mia figliola. Tine, guardati attorno in tempo, alla
ricerca di un uomo che abbia basi finanziariamente solide quanto
quelle di Johann. Perché se qualcuno della compagnia coltivasse
per caso la speranziella di poter un giorno ereditare i miei
soldi, se li scordi. Sono soldi miei. Soltanto miei. Fino alla
morte. Prosit.
WERNER – Peccato che non ti abbia incontrata prima.
LENA – Che fai, il romantico?
WERNER – Tu sei carina, e avrei dovuto avvisarti.
LENA – Avvisarmi?
WERNER – Non avrei detto che Johann sarebbe un giorno riuscito a
mettere le mani su una ragazza tanto carina.
LENA – Avvisarmi perché?
WERNER – Guardati da Johann, avrei dovuto dirti. Ormai è troppo
tardi.
LENA – E allora perché me lo dici se è troppo tardi?
WERNER – Perché sei carina.
TINE – Si accomodi.
HENNING – Mi si piegano le gambe dalla vergogna.
Tine – Che intenzioni ha? Di mettere radici sulla porta?
HENNING – Di girare i tacchi, uscire in strada di corsa, saltare
sul tram, raggiungere casa mia e, una volta lì, affondare la testa
nel cuscino e singhiozzare.
TINE – Andiamo a sederci a tavola invece. Le prenderò le dita
sotto la tovaglia e me le stringerò fra le cosce.
HENNING – La prego, non dica certe cose.
TINE – Allora? Entra o non entra?
HENNING – Sento ancora in testa il colpo dello sposo. Mi duole
la mascella.
TINE – Con quella faccia dozzinale che si ritrova. Chi vuole che
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la riconosca? Se lo desidera, posso lasciare le mutandine in
bagno. Viene?
HENNING – Che dio mi assista.
SILKE – Mi siedo accanto a te, se me lo permetti.
JOHANN – A dire il vero sarebbe il posto di Melanie. Lo sa il
cielo dove si è cacciata.
SILKE – Vuoi dire Lena.
JOHANN – Cosa?
SILKE – Hai detto Melanie, ma volevi dire Lena.
JOHANN – Appunto.
SILKE – Colpa tua se ti lascia solo.
JOHANN – Sì, ed è strano.
SILKE - È da tanto che non ci parliamo, noi due.
JOHANN – Devo andare a vedere dov’è finita.
SILKE – Parlare con te era bellissimo. Un qualcosa di tutto
speciale.
JOHANN – E chi se ne ricorda.
SILKE – Quella volta nel parco, per esempio, quando siamo stati
sorpresi dalla pioggia.
JOHANN – Ah sì, giusto, la pioggia. Meno male che è piovuto.
Avevo voglia di stenderti fra gli alberi e di farti fare un
figlio.
SILKE – Non ci sarei opposta.
JOHANN – Chissà dov’è Lena.
PAPI – Werner, lei è un brav’uomo.
WERNER – Eh.
PAPI – Werner. Ha mai dato un’occhiata a un mappamondo?
WERNER – A un mappamondo?
PAPI – La terra è rotonda.
WERNER – Trova?
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PAPI – Scusi, sa, ma al giorno d’oggi non si può più dar per
scontato niente.
WERNER – Assolutamente.
PAPI – Non è mica il caso di offendersi.
WERNER – Guardi che io ho fatto la maturità.
PAPI – Non mi interessano le malattie che ha avuto da bambino.
Cerchi di capire, piuttosto: io osservo il mappamondo da un punto
di vista biografico privato.
WERNER – Capisco.
PAPI – Non mi domanda il perché?
WERNER – Temo che mia figlia abbia di nuovo il pannolino
pieno...
PAPI – Io guardo alla cartografia in rapporto al tempo di vita
che ancora mi rimane, e constato: la terra è infestata dagli
uomini come un frutto dalla muffa.
(Nel frattempo Werner ha tirato fuori Nina dalla carrozzina e ha
affondato il naso nel pannolino)
WERNER – Come dovevasi dimostrare.
PAPI – Non c’è ruga della terra in cui non sia annidato un uomo.
O una donna. E adesso veniamo al tempo che mi rimane da vivere.
Sarebbe un incubo lasciare questo pianeta senza averlo visto
tutto.
WERNER - È mai stato sulla luna?
PAPI – Una vita buttata.
WERNER – Mi scusi, ma nella carrozzina siamo all’emergenza
merda.
PAPI – Suoni allora e faccia venire sua moglie, accidenti. Kuala
Lampur, Okayama, Ulan Bator, Hyderabad, Bahrein, Damasco,
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Azerbaigian, Novosibirsk, Saragozza, Burkina Faso, Antananarivo,
Ottawa, Alamogordo, Sacramento, Guatemala, Porto Alegre...ecco per
che cosa pianto tutto e chi s’è visto s’è visto. Sa che cosa farò?
WERNER – No, però so che a questo punto distenderò la bambina
sul tavolo e la scacazzerò sotto il suo naso.
PAPI – Mi dimetto, la ditta piange, cambio tutti i soldi che ho
in banca in traveller’s cheques, vendo la casa, la macchina, ogni
cosa, annego il gatto nel torrente qui vicino e vado a vivere come
un nomade, scialando finché morte non mi separi da me stesso.
(Incuriosito) Una femminuccia?
WERNER – Ne dubita?
PAPI – Beh...
WERNER – La smetta di guardarle il sesso. Dopo tre secondi
comincia a fare una strana impressione.
PAPI – Scusi, ma su certe cose io sono un fissato. Copra quelle
nudità.
LENA – Non riesco più a sorridere. Penso che chiunque se ne
debba accorgere quanto tento spasmodicamente di tenermi la faccia
sotto controllo. I muscoli mi strattonano la bocca e le mascelle,
da farmi male. Penso che chiunque debba leggermi addosso la paura
folle. Per vederci tengo gli occhi socchiusi, anche se preferirei
essere cieca. O come quelle volte che mi mettevo sul naso gli
occhiali di mia sorella e tutto mi si dissolveva e non ero più
costretta a vedere le facce da lupi della gente. A ogni bacio
sulla guancia temo che possano strapparmi a morsi un pezzo di
faccia. Dal fondo della tazza del cesso mi fissa un animale
terrorizzato, abbasso il coperchio, mi siedo sulla cassetta
dell’acqua perché nessuno, spiando sotto la porta, mi veda i pizzi
bianchi del vestito.
JOHANN – Dov’è Lena?
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PAPI - È andata via?
MAMI – Rapita. Forse qualcuno l’ha presa su ed è fuggito con
lei.
PAPI – Ma chi vuoi che la rapisca, quella lì!
Werner?
WERNER – Sì?
PAPI – Ha rapito lei mia figlia? No?
(Werner scuote la testa)
PAPI – Visto? Non la vuole nessuno.
SILKE – Forse ha ragione, forse è seduta fuori davanti
all’aquarium e guarda i pesci che fanno le bollicine.
JOHANN – Ormai è un’ora che manca.
PAPI – Non è una questione di tempo, ma di intelligenza.
MAMI – Rapita. Rapita nel corso di un regolare matrimonio. Manca
qualcuno?
JOHANN – Sì. Lena.
MAMI – Intendo il rapitore. Manca un rapitore?
PAPI – Manca Tine.
MAMI – Tine non rapirebbe sua sorella.
JOHANN – Che scemenze.
MAMI – Un gioco.
JOHANN – Un gioco di merda.
MAMI – Cercala. Sarebbe così romantico.
JOHANN – Ma se l’ho appena sposata!
SILKE – Ti aiuto io.
PAPI – Vedrai che è in cucina, il dito immerso nella panna
mentre si fa scopare dal cuoco fra i vol-au-vent. Perciò non ti
preoccupare, Johann.
HENNING – Questo è il gabinetto delle donne.
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TINE – Pensavo che fosse un posto di suo gradimento.
HENNING – Se sua sorella...
TINE – Me ne strabatto di mia sorella. Si è appena venduta a
quell’asino cacazecchini e così non dovrà più preoccuparsi di
niente finché morrà. Potrà passare le giornate a letto a piangere
su se stessa. È sistemata. È a me che manca qualcosa. Cominci
pure.
HENNING – Che cosa?
TINE – Cominci. Sono già molto nervosa.
HENNING – Vuole che io? Qui? Davanti a lei?
TINE – Questa è una toilette per le signore.
HENNING – Appunto.
TINE – Pensavo che l’ambiente agisse sessualmente sulla sua
psiche.
HENNING – Ma se entra qualcuno...
TINE – L’esperto è lei. Mi fido.
HENNING – Sì però...
TINE – Qualcosa che non va?
HENNING – Le dispiacerebbe voltarsi?
TINE – Ma allora non vedrò niente.
HENNING – Appunto.
TINE – Possiamo anche andare di là e chiavare direttamente sulla
tavola.
HENNING – Per amor del cielo no.
TINE – E allora si spicci.
HENNING – Che dio mi assista.
(Cala i calzoni e rimane fermo con le braccia incrociate)
HENNING – Ecco.
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TINE – Ah.
HENNING – Mi è estremamente penoso.
TINE – Tutto lì?
HENNING – Beh insomma.
TINE – Posso toccarlo?
HENNING – Preferirei ritirarmi su i calzoni.
TINE – Venga.
HENNING – Non c’è niente da... Giù le mani!
(Parapiglia. Henning accenna a un tentativo di fuga. Incespisca
sui calzoni e cade)
LENA – Credo che a questo punto abbandonerò precipitosamente
questo posto di tumultuose attività sessuali.
HENNING – Aspetti, mi porti via con sé.
(Si aggrappa a una delle gembe di Lena)
LENA – E che poi vengano a dirmi che la mia paura degli uomini è
immotivata.
TINE – Lena, quello che ho appena detto, che ti sei venduta, che
me ne sbatto di te...
LENA – Piantala con queste tue stronzate da sorella.
TINE – Ma...
LENA – Di’ piuttosto al tuo gigolò di allentare la presa sul mio
polpaccio, altrimenti mi smaglierà la calza.
HENNING – La supplico.
LENA – Conosco questa faccia. Lei è quel porco che lo tira fuori
nei gabinetti delle donne.
TINE – Sono costernata. È il mio amico.
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LENA – Esca dalla mia vita.
TINE – Tutto sommato è colpa mia.
LENA – Lasci la mia gamba.
TINE – Henning. Faccia ciò che dice mia sorella.
HENNING – Terra, spalancati e inghiottisci il mio corpo
peccaminoso.
LENA – D’accordo, ma senza la mia gamba.
TINE – Henning, tira su le braghe e molla la gamba.
HENNING – Fulmine, colpiscimi e cancella la mia vita
peccaminosa.
LENA – Tine. Fa qualcosa altrimenti urlo.
TINE – Henning! Ti vuoi spicciare?!
(Tine si avventa su Henning e ingaggia una lotta per liberare la
gamba della sorella. Lena cade e si forma una compromettente
ammucchiata)
TINE - Henning, l’avverto. Sto per ingelosirmi. Prenda una gamba
mia se proprio le serve una gamba, ma la smetta di importunare mia
sorella.
(Henning si ritrova disteso su Lene. Tina lo costringe ad
alzarsi. Entra Johann e gli rifila un pugno)
JOHANN – Di nuovo quest’individuo. Melanie, sono di stucco.
TINE - È tutto diverso da come pensa.
JOHANN – Lo so che non è ciò che penso. Ma il fatto è che io non
penso a niente, però vedo un uomo disteso su mia moglie. Melanie,
esigo una spiegazione.
LENA – Non mi chiamo Melanie.
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JOHANN – Ripeti.
LENA – Io mi chiamo Lena.
JOHANN – Di solito non sono un violento, ma ci sono situazioni
in cui mi scappa la pazienza.
SILKE – Un matrimonio da favola. Pareva di essere al cinema.
WERNER – Cazzate. Al cinema, davanti all’altare, la sposa non
dice di sì ma di no e fugge su un’auto veloce incontro alla vera
vita.
SILKE – Non parlo di film come quelli. Tanto più che il
sacerdote ha trovato le parole adatte:
WERNER – Cari sposi, cari figlioli. Adesso state bene, vi amate
e siete felici insieme, non vi manca nulla, nemmeno il buon dio.
Però verranno giorni in cui non vi sopporterete più, in cui la
sola vista dell’altro vi farà venire i crampi, in cui non
troverete una parola da dirvi, in cui ammutolirete, gonfi di
livore l’uno per l’altro. Parlo dei giorni in cui in cucina
voleranno i bicchieri, in cui gli anelli con i rubini, un tempo
pegni d’amore, apriranno solchi profondi sulle facce. Parlo dei
tempi foschi e cupi che verranno anche se adesso sembrano tanto
lontani. Quando quei tempi si avvicineranno, allora avrete bisogno
di dio, null’altro potrà salvarvi, l’invocherete gridando e sarà
l’ora del suo trionfo. Johann. Lena. In suo nome vi dichiaro
marito e moglie. Andate in pace. Amen.
(Lena ha la faccia gonfia di botte e i vestiti in disordine)
LENA – Sono scivolata in gabinetto. Colpa dei tacchi troppo
alti.
JOHANN – Delle piastrelle lucide.
PAPI – E allora può anche capitare che scappi una mano. Mi pare
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ovvio.
MAMI – O un piede. No?
PAPI – Non fa niente. La notte delle nozze spazzerà via tutto.
Dico bene, Johann? Non la risparmiare. Ricordatelo bene: ogni
lasciata è persa.
MAMI – Parole d’oro. È stato così anche per noi, vero papi?
PAPI – Chiudi il becco.
JOHANN – Non vediamo l’ora.
LENA – Possiamo andare? Non sto bene, devo mettermi a letto.
PAPI – Sentito? Lo dice anche lei.
HENNING – E poi va avanti sempre così?
TINE – Sono molto poveri. La passione richiede sacrifici. Anche
lei avrà presto la sua ricompensa.
HENNING – Non so che dire, Tine. Forse è il caso che noi si
ricominci da capo da qualche altra parte. In un bosco, per
esempio...
TINE – O sul balcone.
HENNING – Non precipitiamo. Forse un parco...
TINE – Venga.
HENNING – Dove?
TINE – Conosco un buon parcheggio.
HENNING – Sia fatta la sua volontà. (La segue)
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III
PAPI – La prima volta che mi sono sentito male eravamo in volo
diretti a Singapore.
MAMI - È il tuo sangue non che circola abbastanza. Bevi un succo
di pomodoro.
PAPI – Non voglio succhi di pomodoro. Voglio uscire di qui.
MAMI – Ormai abbiamo raggiunto un’ottimale altitudine di
crociera.
PAPI – Io esco di qui. Apri la porta.
MAMI – Ma se è tutto nuvolo! Guarda fuori dal finestrino.
PAPI – Quanti anni dovrò ancora aspettare perché mi si dia
retta?
MAMI – Papi, siamo a ottomila metri sul livello del mare,
immense masse d’aria ci avvolgono, e già pochi centimetri sotto i
tuoi piedi non c’è altro che un’atmosfera gelida e rarefatta. Se
tu lasciassi questa cabina pressurizzata, ti schizzerebbe il
sangue dal naso, dalle orecchie e dagli occhi, e i tuoi polmoni si
lacererebbero con uno schiocco. Inoltre c’è il pericolo che tu
vada a sbattere con mille altri oggetti contro una delle superfici
portanti. Non sono sicura che tu lo voglia davvero.
PAPI – Sto per svenire.
MAMI – Hostess, hostess, porti un altro succo di pomodoro a mio
marito... Tomato-juice, please, for my man.
JOHANN – Lena, alzati. Abbiamo ospiti.
LENA – Io non ho ospiti.
SILKE – Non è necessario che si alzi per me.
WERNER - È ancora a letto?
JOHANN – Dal giorno del parto.
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WERNER – Dài, Lena, è meglio che ti alzi, se no ti verranno le
vesciche sul culo.
JOHANN – Ti illudi forse che noi si venga a sederci coll’arrosto
attorno al tuo letto?
LENA – Io non mi illudo di niente. Non voglio vedervi.
JOHANN – Credi forse che io mi metta un grembiule e mi dia da
fare in cucina?
LENA – Te lo consiglio, altrimenti riempiresti di patacche il
tuo prezioso vestito.
SILKE (a Johann) – Ti aiuto io.
JOHANN – Non renderti ridicola.
SILKE – Chi? Io?
WERNER – Lascia perdere, l’atmosfera è avvelenata.
JOHANN – Vuoi proprio che i nostri ospiti assistano allo
spettacolo mentre ti trascino fuori dal letto tirandoti per i
capelli?
LENA – Mi dispiace, sono ancora in vestaglia. Datemi un minuto e
poi avrò i capelli in ordine, le unghie limate e laccate, le
ascelle prufumate e mi sarò anche cambiato l’assorbente. Johann,
nel frattempo fai vedere il bambino agli ospiti.
PAPI – Odio quest’albergo.
MAMI – Vuoi che veda che cosa c’è nel minibar?
PAPI – Macchè minibar, quello è un frigorifero.
MAMI – C’è anche della birra tedesca.
PAPI – Non sto bene, non sto affatto bene. Hai ancora quel
cartoccio che ti hanno dato in aereo?
MAMI – Forse è meglio che ti stappi una birra.
PAPI – Guarda che io non ho mica annegato la gatta nel torrente
vicino a casa perché tu possa saccheggiare i frigoriferi a
Singapore, sai? Che tempo fa?
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MAMI – Afoso. Caldo e umido.
PAPI – Che sete. Perché tutto congiura contro di me?
MAMI – Che ne diresti di toglierti la giacca e la camicia?
PAPI – Sbatto le mascelle dal freddo, i denti rischiano di
schizzarmi fuori dal cranio uno per uno, e tu... O insomma. Sto
male.
MAMI – La birra è buona però.
PAPI – Cos’è stato? Un terremoto? A che piano siamo?
MAMI – Bevi un sorso.
PAPI – Tu finirai coll’ammazzarmi. Soffro. Qui. (Si punta un
indice sul petto, all’altezza del cuore) Qui.
MAMI – Distenditi un po’.
PAPI – Naftalina. Palline di naftalina. Ma che tarme mostruose
ci sono da queste parti per giustificare tutto questo puzzo?
MAMI – Caucciù.
PAPI – Eh?
MAMI – Sto giusto leggendo che esportano caucciù.
PAPI – Mami. Credo che morirò in questa puzzolente penisola.
MAMI – Isola. È un’isola. Un’isola principale circondata da
cinquant’otto isole minori. Caucciù.
PAPI – Non dire caucciù. Pensa alla mia tragedia.
MAMI – Caucciù naturale e caucciù grezzo.
PAPI – Che squallore, morire lontano dalla patria. Con Detlev
non sarebbe successo. Kuala Lampur, Okayama, Ulan Bator,
Hyderabad, Bahrein, Damasco, Azerbaigian, Novosibirsk, Saragozza,
Burkina Faso, Antananarivo, Ottawa, Alamogordo, Sacramento,
Guatemala, Porto Alegre: tutto colpa tua.
(Muore)
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MAMI – Caucciù.
LENA – Eccotelo.
(Lena porta in scena un’intera porchetta. Cotta ma non tagliata.
In sostanza: un maiale su un grande vassoio)
WERNER – Ma questo è maiale.
LENA – Sì.
SILKE – E che maiale.
JOHANN – Lena. Che storia è questa?
LENA – L’hai detto tu. Volevi l’arrosto di maiale. Eccoti il
maiale. Arrosto.
JOHANN – Lena. Vieni un momento di là.
LENA – No.
JOHANN – Vuoi che te ne dica quattro davanti a tutti?
LENA – Se non importa a te...
SILKE – Se volete noi...
WERNER – Calmati, Johann.
JOHANN – Come credi che noi si possa mangiare questa roba?
LENA – Aprendo la bocca, affondandando i denti nel porco,
mordendolo un po’ qui e un po’ là. Masticandolo. Eccetera. Che ne
so.
JOHANN – Dovevi tranciarlo, affettarlo e versarci il sugo sopra.
Non puoi mettere un intero porco sul piatto degli ospiti.
LENA – Non ci sono coltelli.
JOHANN – Cosa?
LENA – Per tranciarlo, affettarlo. Solo sbucciapatate.
JOHANN – E neanche un coltello?
LENA – E nemmeno i soldi per comprarne. Lui non me ne dà.
JOHANN – Dovete proprio scusare. Dal giorno del parto,
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Melanie... (Urla) Melanie! Che ti passa per la mente?
LENA – Non mi viene in mente il nome di mio figlio. Non è una
femmina, mi pare. Detlev, Adolf, Nabucodonosor, non so. Il giorno
in cui, dopo, me lo hanno tagliato fuori dalla pancia, ho visto
Melanie. Era appena uscita da un negozio, i capelli fissati con la
lacca e un paio di pacchetti sotto il braccio. Johann la
riconosce, impallidisce, le chiavi della macchina gli cadono di
mano e tintinnano sull’asfalto. Lei si gira di scatto, lui solleva
una mano, vorrebbe salutarla, ma gli tremano le ginocchia. Lei lo
guarda, lo fissa, la faccia pallida stravolta dal panico furioso,
caccia un urlo, le cadono i pacchetti, fa due passi, incespica,
tocca con una mano per terra e poi comincia a correre, gridando. È
l’urlo di un animale ferito, terrorizzato. Si gira due volte,
lancia appena un’occhiata alle spalle e poi sparisce. Da quel
momento non ho più voluto il bambino che avevo in pancia. Osiride,
Thot, Anubi, Ho Chi Minh.
(Johann consegna a Lena un lungo coltello)
JOHANN – Cara Lena, ho comperato per te questo coltello. È un
regalo. L’impugnatura è solida, la lama leggermente flessibile e
taglientissima. Quello del negozio mi ha detto: con questo
coltello potrà non solo tagliare l’arrosto ma anche scannare un
porco.
(Mami con un’urna)
MAMI – Vostro papà è in questo vaso. Lo hanno cremato a
Singapore. Ho pensato che fosse meglio. Era più facile da portare.
In aereo l’ho tenuto con me, come bagaglio a mano, in un
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sacchetto. Ci stava giusto nel vano sopra il sedile. Ora scaveremo
un buco nel patrio suolo e lo metteremo lì.
JOHANN – Papi, per me, era più del padre di mia moglie. Era più
di un papà... Era un amico.
SILKE – Come lo ha detto bene!
MAMI – Era una merda.
TINE – Mami.
MAMI – Una peste.
SILKE – Ma non può dire una cosa simile.
WERNER – Silke, ti prego.
SILKE – Cosa: «Silke, ti prego»? Che cazzo vuoi? Ho avuto poco
tatto? Sei dovuto intervenire di nuovo, poverino?
WERNER – Voglio dire che... Insomma, la vedova è lei, mica tu.
SILKE – Ti ho fatto fare brutta figura? Sono una terribile
pasticciona? C’è di che vergognarsi con me, per le strade?
WERNER – Ma no, certo che no.
SILKE – No che cosa?
WERNER – Sì, volevo dire sì.
SILKE – Che cosa, che cosa!? Non sei capace di dire una frase di
senso compiuto.
WERNER – Okay, Silke, è tutto a posto.
SILKE – E allora tieni il becco chiuso quando parlo. E non darmi
calci sotto il tavolo. Ho gli stinchi blu.
WERNER – Silke...
SILKE – Esattamente, lo so, mi chiamo proprio così, non c’è
bisogno che me lo ricordi. Eppure guarda: la gente parla con me,
senza far tante storie.
WERNER – Io volevo solo...
SILKE – Taci, taci, taci, taci! Mami, lei non può dire che suo
marito era una peste, visto che l’ha mantenuta per tanti anni.
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MAMI – Lena, chi è questa donna?
(Lena si sta fasciando una mano insanguinata)
LENA – Taglia molto questo coltello. Mi sono tagliata una mano.
MAMI – Sono uscita in strada da sola, attraverso la porta
girevole dell’albergo, ho mangiato in un ristorante, da sola,
anatra condita con un sugo a base di noccioline americane e
funghi, ho bevuto birra tedesca, ho visitato da sola il porto
commerciale di Singapore, ho comperato perle in un vicolo pieno di
teste di pesce e dalla finestra di un grattacielo ho scattato foto
panoramiche che ora può vedere chiunque me le chieda. Solo quando
sono rientrata sono passata dalla reception e ho detto loro che
mio marito era morto. Vorrei avere ancora un marito per poter
rifare ancora una volta quest’esperienza meravigliosa.
TINE – Ma come puoi dire una cosa simile? Ora che è appena
morto.
MAMI – Appunto.
TINE – Papi, perdonala, il dolore le ha dato alla testa.
MAMI – Lena, con chi sta parlando quella lì?
TINE – Con papi. Parlo con papi.
LENA – Evidentemente parla con papi.
MAMI – Papi è morto. Povera bambina, sarà un po’ confusa.
(Johann affila il coltello e canta nella culla)
JOHANN – Ama il biondo marinaio...
LENA – Smettila, Johann, quella canzone non mi piace.
JOHANN – La ragazza...
LENA – Lo sai benissimo...
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JOHANN - ... la ragazza senza un danè.
LENA – Ti prego, non la sopporto!
JOHANN – Finché capita un bel guaio...
LENA – Non te l’ho raccontato perché tu ora canti quella canzone
al bambino.
JOHANN – Lui l’annega nel bidè.
LENA – Stai meglio ora?
TINE – Henning, finalmente! Portami via di qui.
HENNING – Non mi dispiacerebbe parlare prima con i tuoi
parenti...
TINE – Guardatene bene. Via, via di qui. Sei venuto in macchina?
MAMI – Lena, chi è quest’individuo?
HENNING – Vengo per esprimerle le mie condoglianze.
MAMI – Che cosa vuole quest’uomo?
LENA – Te l’ha appena detto.
TINE – Vuole andarsene, quest’uomo vuole andarsene via di qui, e
mi porterà via con sé.
SILKE – Non è quel tizio che fa vedere il membro?
HENNING – Mi è indicibilmente penoso, però mi chiamo Henning.
WERNER – Ci mancava solo lui.
JOHANN – Di solito non sono violento, ma ci sono situazioni in
cui mi scappa la pazienza.
(Johann stende Henning con un pugno)
HENNING – Ma se non ho neppure...
TINE – Lui lo fa solo per gioco!
JOHANN – Non con me. Non al cospetto di un cadavere.
LENA – Tine, digli che può rimanere.
TINE – Sono io che me ne voglio andare.
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LENA – Non mi sembra importante. Fa male, eh, una botta così,
diritta nell’occhio?
HENNING – Ci si abitua.
LENA – Appunto.
TINE – Non parlare con quella.
LENA – Se vuole accomodarsi.
HENNING – Molto volentieri.
TINE – Henning!
JOHANN – Faccia al muro. Non voglio vederlo sbavare sulla mia
tavola.
LENA – Dobbiamo a lui la nostra felicità coniugale.
JOHANN – Appunto.
HENNING – Sto volentieri seduto con la faccia al muro.
TINE – Ti vogliono far fuori: non te ne accorgi?
HENNING – Simpatica, tua sorella.
TINE – Questa ti frigge in padella, oggi ancora, e poi ti
mangia.
WERNER – Silke, a questo punto ce ne andiamo.
SILKE – Va’ pure tu, se vuoi. Ci rivedremo stanotte in
territorio di guerra.
WERNER – Bisogna mettere a letto Nina.
SILKE – Nina? Non conosco nessuna Nina.
WERNER – Nostra figlia. Nina è stanca.
SILKE – Questa roba qui? E tu chiami Nina questa roba?
WERNER – Silke, che cos’hai? È nostra figlia.
SILKE – Questo misero affarino? Sono mesi che non cresce e che
non fa altro che star distesa in carrozzella. Johann e Lena, loro
sì che hanno un figlio come si deve, uno cui crescono le unghie, i
capelli, e che diventa più grande. Ha nettamente superato la
nostra Nina.
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WERNER – Probabilmente gli daranno anche ordinatamente da
mangiare, contrariamente a quanto accade a nostra figlia.
SILKE – Nostra figlia. Che cosa vuoi che mangi? Quest’oggetto.
Non è affatto una bambina. Guarda.
(Estrae Nina dalla carrozzina prendendola per una gamba)
SILKE – Questo è un pupazzo.
WERNER – Silke.
SILKE – Silke. Non voglio più sentir pronunciare questo nome.
Silke sarai tu.
(Sbatte Nina nella carrozzina)
WERNER – Ma che cosa fai?
SILKE – Per tutto questo tempo non hai fatto altro che spingere
in giro la carrozzella di una bambola. Non ti preoccupa questo
fatto?
WERNER – Non è una bambola. È nostra figlia.
SILKE – Una bambola. Guarda. (Strappa una gamba alla bambola)
Una gamba di bambola. (Strappa alla bambola un braccio) Un braccio
di bambola. (Strappa la testa alla bambola) Questa non è una
bambina, questo è un giochino scemo per bambini scemi. E io ci
cago sopra. (Getta via le parti di bambola)
MAMI – Sempre questo buttare in giro la roba. E poi a chi tocca
rimetterla a posto? A mami naturalmente.
WERNER – Io... io credo... Senti, Silke, credo che la bambina
non stia bene. Silke? Silke, ti prego, non possiamo andare a casa
a questo punto? Non voglio rimanere più a lungo qui. Silke, credo
che la bambina abbia freddo, credo che abbia molto, ma molto
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freddo.
JOHANN - Silke, non potrebbe darsi il caso che il rapporto con
Werner non ti soddisfi pienamente?
LENA – Smettila.
JOHANN – Non t’immischiare, Melanie.
LENA – Io non sono Melanie.
JOHANN – Non fa niente, Melanie.
LENA – Mi chiamo Lena.
JOHANN – Non ti agitare, c’è di peggio. Guarda che cosa faccio.
(Mette una mano sul petto di Silke)
SILKE - È molto carino da parte tua, Johann, però...
JOHANN – C’è qualcosa che non va?
SILKE – Sì, no, sì. Solo questa mano, qui...
JOHANN – Questa? Pensavo che lo desiderassi. Non sei il tipo da
squallide relazioni clandestine? Da sveltine negli alberghetti? O
no?
WERNER – Non credo di essere dell’umore giusto, oggi.
JOHANN – Mi sarei per caso sbagliato, Silke?
WERNER – Lena, dobbiamo proprio sorbire tutto senza reagire?
LENA – In tutte le piramidi c’è una camera che non è stata
ancora scoperta. Una lampaga illumina un corridoio cieco, non più
largo di un braccio, in fondo al quale c’è una massiccia lastra di
pietra, del peso di parecchie tonnellate, che sbarra il passaggio.
Non si può aprire la camera senza distruggere l’intera piramide.
JOHANN – Silke... stai dormendo? Di’ qualcosa.
SILKE – Pensavo solo che sei carino.
WERNER – Giù la mano dalla tetta.
JOHANN – Werner, come collega non sei antipatico, da tienti
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fuori dalle mie storie di donne. Silke?
SILKE – Cosa?
JOHANN – Silke, mi senti?
SILKE – Ma certo.
JOHANN – Ti piace giocare con le bambole?
SILKE – No.
JOHANN – Le femminucce giocano volentieri con le bambole. Non
sei una femminuccia?
SILKE – Perché non parlano. Tu le picchi, e quelle continuano a
fare la stessa stupida faccia di prima. Ottuse e testarde. Gli
strappi i capelli dal cranio, e loro sorridono. Ignoranti.
JOHANN – La mia bambola è diversa. La mia bambola parla, la puoi
vestire e svestire, e quando la picchio le vengono perfino i segni
blu. Vuoi vedere?
SILKE – Volentieri, però...
JOHANN - Di sopra. In stanza da letto.
SILKE – Non posso andare nelle stanze da letto degli uomini che
non conosco.
JOHANN - È una casa di bambola. Piena di vestitini colorati e
c’è anche una carrozza.
SILKE – Coi cavalli?
JOHANN – Sei cavalli bianchi. Vieni o vuoi che ti offra prima
della cioccolata?
SILKE – Devo solo avvisare la mia mamma.
JOHANN – Non c’è bisogno. Cinque minuti e sarai di nuovo qui.
SILKE – Va bene. Cinque minuti.
JOHANN – Che hai da guardare, Melanie? Telefona a Christian.
WERNER – E va be’. Vuol dire che mi stapperò un’altra birra.
MAMI – Non sapevo mica che Johann avesse una casa di bambola.
LENA – Mami, sto male. Andiamocene.
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MAMI – Questo è il tuo ricevimento. Non puoi andartene.
TINE – Questo non è un ricevimento. Papi muore una volta sola.
PAPI – Miei cari che vi siete stretti attorno a me nell’ora
della mia morte: vi perdono. Voi tutti, quando ero in vita, mi
avete avvelenato l’esistenza. Non uno di voi è senza peccato. Mi
avete mangiato i capelli di testa e succhiato il sangue dalle
vene. E mai una parola di ringraziamento. Mi sono mai lamentato?
Del resto non avreste mai potuto adeguatamente contraccambiare
tutti gli immensi doni che vi ho fatto. Mi sono dannato per voi,
senza risparmiarmi. Però, nella mia sconfinata bontà, vi perdono.
Perdono a tutti. Perfino a te, Lena, figlia mia cara: benché tutta
la tua esistenza non sia altro che un’irrisione e un insulto per
me, il tuo genitore, ti perdono. Però se adesso vi dico: andate in
pace... so anche che tu, proprio tu, questa pace non l’avrai mai
perché la tua colpa è troppo grave. E in certi momenti di
solitudine, quando ripenserai a tuo padre e a come lo hai
vergognosamente trattato, sarai scossa da singhiozzi squassanti,
l’indicibile vergogna ti soffocherà e ti schiaccerà per terra e
non riuscirai più a sollevarti sotto tutto quel peso. Per quanto
io ti voglia bene, Lena, tu dovrai vivere con questo peso sulle
spalle. Alla fin fine non posso alleviarti di tutto.
TINE – Eccoci qui.
HENNING – Sì.
TINE – Di’ qualcosa. Intrattienimi.
HENNING – Non mi viene in mente niente quando stringi la bocca
in quel modo.
TINE – In macchina avrei se non altro potuto guardar fuori dal
finestrino e contare gli incidenti. Credo di non amarti più.
HENNING – Lo so. Non fa niente.
TINE – Non è il caso che tu ti faccia prendere subito dal
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panico. Non ti lascerò.
HENNING – Lo so.
TINE – Posso anche continuare a venire a letto con te. Però il
mio cuore, in quei momenti, sarà freddo.
HENNING – Sul momento non ho voglia, Tine, mi spiace.
TINE – Dài, stai al gioco. È così noioso.
HENNING - Non potremmo fare un altro gioco?
TINE – Se vuoi, svengo.
HENNING – Oh sì, è stato bello l’ultima volta. Fallo.
TINE – Oppure tu.
HENNING – Io non sono così bravo. Tu, l’ultima volta, hai
trascinato con te tutto il tavolo. Io sono troppo impacciato.
TINE – Dio quanto mi annoio.
(Prende il primo piatto pieno che le capita sotto mano e lo
sbatte in faccia a Henning)
TINE – Henning?
HENNING – Sì?
TINE – Ti è rimasto attaccato qualcosa sulla guancia.
(Henning le rovescia addosso una caraffa)
HENNING – Scusa.
TINE – Ora ho il vestito zuppo.
HENNING – Ripeto: scusa.
TINE – Sei bellisimo.
HENNING – Anche tu.
TINE – L’ho detto prima io.
HENNING – Non fa niente.
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TINE – Ti amo.
HENNING – E io amo te.
(Si baciano)
TINE – Potreste darci un’altra caraffa?
LENA – Sono scesi in mare assieme. La tempesta rovescia loro
addosso enormi quantità di acqua schiumeggiante, bianca, in cielo
corrono brandelli di nuvole nere, una corrente ha afferrato il
corpo di Johann, Silke lo vorrebbe trattenere ma è trascinata al
largo anche lei. Le loro teste, ora l’una ora l’altra, scompaiono
sotto le ondate, li vedo agitare le braccia, però la riva è
lontana e la corrente è forte. Io grido, corro su e giù lungo la
spiaggia, ma in spiaggia non c’è nessuno e io non so nuotare. Poi
non vedo più niente e comincia a piovere.
(Silke ha le vesti in disordine)
SILKE – Werner, andiamo? Johann dice che per ora ha finito con
me.
TINE – Ce ne andiamo anche noi.
HENNING – Arrivederci.
WERNER - È tardi.
LENA – Vi ringrazio. È stato un magnifico funerale. Senza di voi
sarebbe stato insopportabile. Grazie.
HENNING – Non fa niente.
TINE – Andiamo.
MAMI – Se ne sono già andati tutti?
LENA – Sì. Su, in stanza, grava ancora pesantemente l’odore del
profumo e del sudore di Silke, e la maniglia è umida. Il petto di
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Johann luccica lievemente, si alza e si abbassa. Se ne sono andati
tutti. Com’è bello quando dorme. Le labbra poggiano teneramente
l’uno sull’altro e i palmi delle mani sono morbidi e indifesi.
Come deve sentirsi sicuro uno per dormire in questo modo. Tutta la
stanza s’imbeve della sua grassa serenità. Se solo dormisse sempre
così.
(Tine e Henning si accoppiano. È molto bello)
SILKE – La luce della luna scintilla fra i peli del petto di
Johann quando Lena entra nella stanza da letto col coltello e lo
trafigge.
WERNER – Lui dorme, lei solleva la coperta e, con un taglio
netto, gli stacca il sesso.
SILKE – Lo uccide con ripetute coltellate nel ventre e nel
collo.
WERNER – Poco dopo lui muore dissanguato. Probabilmente così
ubriaco che non si è accorto di niente.
SILKE – E invece urla di dolore e lei deve continuare a colpire.
Il sangue gli gorgoglia sul collo e fa le bollicine.
WERNER – Lei getta il membro tagliato nella piscina ed esce
passando per il giardino. Più tardi la polizia lo vedrà
galleggiare sull’acqua come una rana affogata e lo ripescherà con
una reticella.
SILKE – Ci dev’essere stata una lotta prolungata. La polizia
trova il suo corpo attorcigliato nel lenzuolo accanto al letto,
sul pavimento.
HENNING – Qualcosa da bere?
TINE (assonnata) – Hm.
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(Lena con il contello e le mani insanguinate)
LENA – Come taglia questo coltello.
MAMI – Ti sei tagliata?
LENA – Con questo coltello potrà non solo tagliare l’arrosto, ma
anche scannare un porco.
MAMI – Fermati, Lena, stai sporcando dappertuto.
LENA – Com’è caldo il sangue quando scorre fuori dalla carne. Mi
sento così leggera.
MAMI – Povero bel tappeto! Johann sarà inconsolabile.
LENA – Credo che non gliene freghi più niente.
MAMI – Tieni le mani sulla tazza del gabinetto, così che possa
scorrere giù bene.
LENA – Non c’è bisogno che mi rinchiudi. Non lo farò più. Ora è
lì e non dovrò ucciderlo un’altra volta. Acqua passata. Affare
sbrigato. Fuori spunta già il sole e brilla sulle foglie bagnate.
Non mi stringere così, non sono pericolosa. Vi ho reso un
servizio. Il mondo è migliore senza di lui. Lo senti l’odore? Un
vento fresco soffia sulla piscina, gli uccelli si sono levati in
volo dai rami e volteggiano bassi nell’aria.
MAMI – Ti ci vorrà un cerotto.
JOHANN – Dài, Lena, spicciati. Gli ospiti se ne sono andati.
Andiamo a dormire.
F i n e
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13_Das kalte - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo