la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 31 MAGGIO 2015 NUMERO 534
Cult
DISEGNO DI GIPI PER “LA REPUBBLICA”
La copertina. Perché dobbiamo uccidere gli eroi
Straparlando. Alvise Zorzi, “Vivo a Jurassic Park”
Mondovisioni. Sopra lo stadio di Berlino
Scene
da un
matrimonio
Alessia e Chiara si sono sposate
Anzi no, registrate
C’era anche il loro bebé
Siamo andati a trovarle a casa
per tentare di capire
che diavolo di famiglia è questa
FRANCESCO MERLO
ROMA
D’
da uomo perché due
mamme, diciamo la verità, confonderebbero chiunque. Lo
dico sorridendo a Chiara e ad Alessia che, come risposta, si
mettono a giocare a mamma e papà. «Io», dice Chiara, «faccio il bucato». «Ma solo perché ti piace la lavatrice» le risponde Alessia. E «io invece cucino» incalza Alessia. «Ma solo perché sai che
mangeresti malissimo» replica Chiara. Da lì il gioco arriva al carattere «più
posato» di Chiara e a quello «più agitato» di Alessia, e poi si disputano la grazia femminile e la forza maschile, la malinconia e il coraggio, l’ironia e l’intelligenza. «Due mamme in casa suonano una musica speciale» concludono con allegria mentre il bimbo che sta in braccio all’una si allunga per andare in braccio all’altra.
Siamo nel soggiorno della loro casa, ottanta metri quadri, ai margini del
quartiere San Giovanni, e io che mi aspettavo la militanza e ne temevo la
retorica trovo invece, insieme alla normale fatica quotidiana di mandare
avanti la famiglia, persino l’ironia sulle canzoni e sui proverbi da rifare, da
“mamme, mormora la bambina” a “di mamme ce n’è due sole”.
ISTINTO CERCO IN LORO QUALCHE VIRTÙ
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI GIOVANNA VITALE
Il reportage. Nel Kurdistan iracheno, l’ultimo rifugio La storia. L’uomo che cinquecento anni fa inventò il corsivo Spettacoli. “Meglio
vecchio che morto”, il dopo Cannes di Michael Caine L’incontro. Dee Dee Bridgewater: “Odio il macho business razzista americano”
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LA DOMENICA
DOMENICA 31 MAGGIO 2015
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La copertina. Oggi (quasi) sposi
L’album di una giornata particolare,
il racconto di una storia d’amore
e una legge che non c’è.“Ma all’anagrafe
l’impiegata ci ha detto: che bella famiglia”
<SEGUE DALLA COPERTINA
FRANCESCO MERLO
E
QUANDO DI NOTTE
avrà paura, quando starà male, chi
chiamerà Levon
gridando «mamma»? E dunque
parliamo dell’amore per un figlio
che «è spontaneo
come il respiro» e
dei ruoli che invece non sono “naturali”: «sicuramente non dipendono dal sesso». E come la mettiamo con Enea? Invece
del vecchio Anchise farebbe accomodare
sulle spalle entrambe le sue mamme? «Le
nuove famiglie», mi dice Chiara, «piacerebbero moltissimo a Freud, e non solo
quella omosessuale. Pensa a cosa gli verrebbe in mente dinanzi a una foto di famiglia dove due sono figli di lei, altri
due sono figli di lui, il quinto è il figlio
di entrambi, il sesto è figlio dell’ex
compagno di lei e il settimo è il figlio
dell’ex compagna di lui. Altro che
ruoli fissati dalla natura. Non solo
paternità e maternità sono fatte
di esperienze e non di seme, ma
anche per diventare fratello e
sorella non basta l’acido desossiribonucleico, ma bisogna
cercarsi e costruirsi. Sono sicura che Freud si metterebbe a riscrivere tutto». E allora proviamo noi a riscrivere la history che, a poco a
poco, diventa herstory:
Edipo uccide la madre,
Elettra la adora e Gesù
sulla croce la rimprovera, “Madre, perché
mi hai abbandonato?”. E infine c’è l’omosessuale Aldo Busi
con il suo Manuale del perfetto
papà riassunto così nella quarta di copertina: “Io non rimpiango di avere avuto il
padre che ho avuto: io rimpiango di averne
avuto uno”. Voi rimpiangete di avere avuto
un padre? «No». Non è vero che sono tutti bestioni furibondi e perennemente estenuati?
«Non è vero. Come canta John Lennon: “Close your eyes / Have no fear / The monster’s
gone/ He’s on the run /and your daddy’s here. Chiudi i tuoi occhi, non aver paura, il mostro se n’è andato / sta scappando via / e il tuo
papà è qui”».
Chiara è la mamma biologica. «Alessia è risultata meno fertile. Ma il figlio è tanto suo
Di
mamme
ce n’è
due sole
quanto mio, lei è al tempo stesso Geppetto e
la Fatina di Pinocchio, è la maternità cercata e costruita con la volontà dei propri atti».
Il bimbo porta il nome del nonno armeno di
Alessia, Levon, «un nomade per necessità e
per destino, un nomade alla Attali, che per
proteggere la sua civiltà esausta e marginale chiese all’orfanotrofio di Stupinigi, provincia di Torino, una ragazza armena da sposare e gli diedero Eranig, mia nonna. Eranig
e Levon finirono a Roma dove la loro figlia,
mia madre, sposò un trasteverino: mio padre». In italiano Levon sarebbe Leone. Solo
per un felice caso Levon è il titolo di una canzone di Elton John ed è il nome del suo bimbo, figlio di due padri.
Il padre di Alessia, che è venuto in Campidoglio, faceva il «portalettere nel quartiere
Trieste a Roma». Quello di Chiara, che vive a
Palermo, è un ingegnere in pensione che insegnava all’istituto tecnico. Alessia fa la
copywriter e scrive sceneggiature per la tv.
Chiara fa l’aiuto regista che «non è l’aspirante regista o la quasi regista, ma è un lavoro in sé». C’è un libretto, raro e prezioso,
scritto da Aldo Buzzi e illustrato da Bruno
Munari (Ponte delle Grazie, 2007) che racconta i tantissimi compiti dell’aiuto regista:
i colori, gli oggetti di scena, la biancheria,
una lampada che non è accesa, una bandiera che si è mossa, il profilo di una montagna…
«sino alla luce lunare che è il buio come lo vedono i gatti, un buio cioè dove l’azione non
sparisce, non si interrompe».
Alessia e Chiara, che sono due quarantenni, si sono conosciute a Roma, nella terrazza dell’hotel Diana, sei anni fa. Stanno insieme da cinque, «e insieme abbiamo concepito il bimbo». Ma un primo tentativo a Copenaghen — clinica Vitanuova — è andato
male. L’inseminazione intrauterina costò
settecento euro e la fecondazione in vitro
tremila. Dopo cinque mesi ci hanno riprovato a Siviglia: cinquemilacinquecento euro
con lo sconto per gli italiani. E la gravidanza,
malgrado un inizio traballante, «è stata bellissima, per nove mesi mi sono sentita un
animale felice». Il parto all’ospedale Cristo
Re è stato un cesareo d’emergenza. «Poi ho
provato ad allattarlo, ma purtroppo non ne
avevo abbastanza».
Ogni volta che poteva, Alessia pagava con
bonifici a suo nome «per lasciare tracce». E
ha firmato tanti documenti: «Ho pure riempito di carte private gli avvocati e i notai». Ma
«per la legge italiana Levon ha un solo genitore: Chiara». Dice Chiara: «I diritti di tutti e
tre sono dimezzati. E per noi mamme sono
dimezzati anche i doveri». Alessia a Chiara:
«Se io ti tradissi e me ne andassi via, nessuno potrebbe costringermi a prendermi cura
di Levon». Chiara ad Alessia: «E se a me dovesse capitare qualcosa, il nostro Levon sarebbe considerato un orfano adottabile». Di
nuovo Alessia: «Se Chiara non volesse più vedermi, potrebbe impedirmi qualsiasi contatto con mio figlio».
Quando le due mamme sono andate all’anagrafe per ottenere la carta di identità del
bimbo, che compirà un anno il 27 agosto, la
signora ha chiesto: «Valida per l’espatrio?».
«Certo» hanno risposo in coro. «Allora qui ci
vuole il papà». «Ma non c’è». «E fatelo venire» le ha replicato la signora con un tono definitivo. «Non c’è perché questo è un bimbo
con due mamme» le ha detto Alessia fissandola con i suoi occhi celesti. E allora, è successo quello che non ti aspetti: «La signora
dell’anagrafe ci ha guardate con un’espressione smarrita, ha preso un po’ di tempo per
capire, poi ha esclamato: “che bello!”. Ed è diventata come una sorella, ci ha aiutato, ha
solidarizzato, alla fine sembrava un’attivista dei diritti dei gay». Forse, insinuo, quell’eccesso di solidarietà nasconde il turbamento? «Può darsi. Ma è successa la stessa
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cosa con la commessa del negozio di scarpe,
che ci ha chiesto delle leggi e si è pure indignata perché non ci permettono di sposarci,
proprio come nei Promessi Sposi». E al consultorio di via Denina, «al corso di preparazione del parto, dove io e Alessia siamo andate insieme, nessuna delle donne in gravidanza ha mostrato il minimo turbamento.
Insomma, gli italiani sono molto più avanti
delle leggi dello Stato. E lasciamo stare la
Chiesa che evidentemente non è in sintonia
con la sua Roma».
Chiara e Alessia erano le più semplici tra
le diciassette coppie, non solo omosessuali,
che il 21 maggio sono state registrate nella
sala della Protomoteca carica di secoli dove
Roma, direbbe Trilussa, fa er defilé/ taratuzun teté. Si capisce che gli omosessuali si sentano affamati di tradizioni, e «certo il Campidoglio è per noi un territorio mentale». Ma
Chiara e Alessia non hanno esibito né cappellini né abiti barocchi: «I fiori d’arancio, i
confetti e il riso avrebbero reso grottesca
una cerimonia che è stata politicamente importante ma non è stata un matrimonio.
Quello ci è vietato» . Dice Alessia: «Mi dispiace che persone come Aldo Busi, Paolo Poli e Franco Zeffirelli siano così sprezzanti.
Delle idee di Dolce e Gabbana invece non mi
importa nulla. Ma non mi sembra giusto che
si usino orribili espressioni dispregiative come “figli sintetici”. E com’è possibile che Aldo Busi, che è un genio della parola, usi, per
insultarci, l’espressione “utero in affitto”?
Non gli piace “gestazione per altri”? E sono
rimasta di sasso quando ho letto Pietro Citati che, sotto una foto di Oscar Wilde, ci invitava a restare “diversi”, per sempre accucciati tra i versi “dannati” di Baudelaire. Dice
di non capire come mai gli omosessuali vogliano “diventare normali, comuni e banali,
come tutti gli altri”. Nessuno è come tutti gli
altri, non esiste il signor “tout le monde”, ma
come si può non capire la voglia e il bisogno
di essere trattati come tutti gli altri? Voglio
decidere io se sposarmi oppure no».
Chiara e Alessia sono figlie di genitori separati: «sappiamo bene che il matrimonio è
un’istituzione in crisi e che bisogna sempre
riconquistarsi per salvarsi, e a volte è necessario separarsi per liberarsi. Ho letto che Vittorio Feltri è favorevole al matrimonio tra
gay ma ci rimprovera perché vogliamo commettere, dice, “i nostri stessi errori, visto che
la famiglia è un nido di vipere”. Immagino
che abbia figli, che si siano sposati e l’abbiano reso nonno. Che fa? Rimprovera pure loro o regala viperette ai nipotini?».
Nel blog, che Alessia da qualche tempo
non aggiorna più e che si chiama “Identity
crash”, c’è un pensiero intitolato “One Day”
dove anche il matrimonio gay diventa un’opera buffa, proprio quel matrimonio per il
quale Alessia manifesta in piazza, si batte,
spera e si dispera con una passione doppia rispetto a Cenerentola e a Lucia Mondella che
avevano contro solo le sorellastre cattive la
prima, e la seconda don Rodrigo e gli impedimenti dirimenti, ma non un divieto d’accesso, la violenza dell’esclusione per legge.
Dunque, in quel pensiero da blog, Alessia indossa l’abito di cerimonia e «mano nella mano avanzeremo emozionate nella sala del
Campidoglio / sotto gli sguardi umidi delle
nostre famiglie / correremo trafelate verso
il gate del nostro volo alle Maldive / la mattina ci spalmeremo la crema protettiva con
amore / la sera ci controlleremo a vicenda l’eritema / una mattina lascerò il tubetto aperto sul lavandino / una sera lei mi guarderà
con un sguardo diverso / i giorni tristi saranno più di quelli felici / capiremo che qualcosa
si è spezzato / e sarà allora che mi ricorderò
di quel professionista rassicurante/ che mi
guardava dalla colonna di destra della mia
pagina Facebook: Studio Caradonna, assi-
stenza legale nella separazione e nel divorzio…».
Alessia mi racconta i suoi primi desideri e
«il primo grande amore a vent’anni… Non ho
spiegato nulla neppure a mia madre che è
molto religiosa, nessun coming out. Hanno
capito, e non c’è stato niente da dire. Perché
in Italia non ci sono grandi intellettuali che,
come mio padre postino, dicano che l’omosessualità non è una diavoleria ma una variante naturale, una delle possibili maniere
di vivere il sesso? E perché tutti gli omosessuali famosi di questo paese sono legati all’idea dell’amore rubato nei cortili e della sofferenza placata di nascosto, nel vizio? Forse
è una questione anagrafica, forse è la vita
che li ha resi così tortuosi…».
Dunque non è stato matrimonio. Lo chiamano “registrimonio”: «È una brutta parola
efficace» dice Chiara. Sicuramente è cacofonica, ma esprime pure, con una dolcezza ironica, «la tensione verso un valore negato, la
nostra fatica di essere italiane». In Campidoglio Chiara e Alessia erano le più guardate, «ma solo perché avevamo in braccio Levon. Con lui sappiamo di essere sempre sotto la lente di ingrandimento». Hanno festeggiato, sette giorni dopo «perché Levon
ha avuto la febbre», nel piccolo bar-ristorante vicino casa. Si chiama “Quei bravi ragazzi” ed è il loro “scendo giù a prendermi un
caffè”, insomma un piccolo Mocambo per
cinquanta invitati, «ma senza il cartoncino
delle partecipazioni»: spritz e vino bianco.
«Vale poco quel registrimonio e quel poco vale solo dentro il raccordo anulare. L’ho detta
a Chiara: vado a Viterbo e mi rifaccio una vita senza di te».
E però, anche se non c’è stato lo scambio
degli anelli, il tocco delle mani, l’amabilità e
l’allegria naturale erano sicuramente matrimoniali ed è vero che in casa di Alessia,
Chiara e Levon la semplicità quasi anonima
delle pareti e delle porte bianche, la libreria,
il divano, i gatti Sid e Nancy «che abbiamo
preso al “gattile” dello Spallanzani», e ancora la stanza di Levon «dove dorme la nonna,
quando viene», e le pappe e l’albero su cui affaccia la finestra del soggiorno… insomma,
ci sono tutti i presupposti della grazia benedetta da Dio. È una casa, canta John Lennon,
“to grow old with me”. Esco da quella casa e
penso che se avessi da affidare un bambino
lo darei a loro.
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DALL’ALBUM
DA SINISTRA
IN SENSO ORARIO:
CHIARA
(CON OMBRELLO
E INCINTA) E ALESSIA
A UN GAY PRIDE;
BACIO IL GIORNO
DELLE “NOZZE”
E A MONDELLO;
E POI ROMA,
AMSTERDAM
E AL MARE
CON IN BRACCIO
IL FIGLIO LEVON.
LA FOTO DI GRUPPO
È STATA SCATTATA
SULLA SCALINATA
DEL CAMPIDOGLIO
IL 21 MAGGIO,
GIORNO DEL
“REGISTRIMONIO”:
AL CENTRO
LE DUE MAMME
CON FIGLIO,
A SINISTRA
LA MAMMA
DI CHIARA
E A DESTRA
IL PAPÀ DI ALESSIA,
TUTT’INTORNO
AMICI E PARENTI.
IL BIGLIETTO
DI INVITO
ALLA CERIMONIA
È UNA NOSTRA
ELABORAZIONE
GRAFICA
GIOVANNA VITALE
ULTIMA, TRE GIORNI FA, È STATA ISCHIA. Empoli la prima, era il
’93, antesignana di un movimento civico che per rompere
l’ignavia del parlamento nazionale ha impiegato più di
vent’anni. Nel frattempo, alla spicciolata, fra ricorsi al Tar e
scomuniche dei vescovi, centosessanta città italiane hanno
istituito presso le rispettive anagrafi il registro delle unioni civili. Uno
strumento che, in assenza di una legge specifica promessa comunque dal
premier Renzi entro l’anno, riconosce alle coppie iscritte, gay ma anche
etero, gli stessi diritti delle coppie sposate nella fruizione dei servizi
comunali e delle relative agevolazioni: dalle case popolari alle graduatorie
per gli asili nido. A patto però di dimostrare l’esistenza di una convivenza
risalente nel tempo: almeno un anno, è stato per esempio stabilito a Roma,
che è riuscita a coronare l’impresa inseguita fin dal 2007 soltanto quattro
mesi fa. Festeggiata nella solennità della Protomoteca in Campidoglio con
un Celebration Day per diciassette coppie: undici omosessuali, sei etero.
Che poi è questa la vera novità: un uomo e una donna che anziché scegliere
le nozze con rito civile o in chiesa hanno voluto suggellare il loro legame
con un atto amministrativo per lo più simbolico.
Ma altamente politico. Lo dice chiaro Imma
Battaglia, consigliera di Sel e “madre” del registro
romano: «Il fatto che la capitale d’Italia si sia
finalmente decisa a compiere questo enorme
passo in avanti è utile a fare pressione sul governo,
rimasto drammaticamente indietro sul tema dei
diritti. Noi non siamo scemi, siamo consapevoli
che si tratta di un palliativo, che c’è bisogno di una
norma nazionale», incalza l’attivista del
movimento Lgbt, «ma proprio per questo il
registro è importante. Per dire a Renzi: se ci sei
batti un colpo... gay» scherza l’esponente vendoliana che si è anche
battuta perché la cerimonia d’iscrizione fosse quanto di più simile al
matrimonio civile, tant’è che per chi si registra nel nuovo albo sono stati
messi a disposizione gli stessi luoghi: dalla Sala Rossa in Campidoglio
all’ex chiesa sconsacrata di Caracalla, passando — previa prenotazione e
canone di affitto — per alcuni degli scorci più suggestivi della città eterna.
E pure la formula da recitare è stata studiata come una specie di calco.
Facili infine le regole di accesso. La domanda di iscrizione si può compilare
e presentare online: una volta ricevuta, l’anagrafe verifica in quindicitrenta giorni i requisiti della coppia, i cui nomi verranno poi pubblicati
nell’Albo pretorio capitolino per otto giorni. Quindi, si fissa la data per
l’iscrizione. Semplice anche “divorziare”: basta la richiesta di uno dei due.
L’
È soltanto
una nota
sul registro
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Il reportage. Sul confine
Nel Kurdistan iracheno. Che dopo esodi
infiniti oggi è diventato l’ultimo rifugio
per chi deve abbandonare la Siria e l’Iraq
Fugadall’Is
MONIKA BULAJ
ARBAT (KURDISTAN IRACHENO)
Q
ELLA SERA A ISTANBUL penso di aver sbagliato imbarco. L’aereo
su cui mi trovo non può essere diretto in Iraq. A bordo ci sono donne di bellezza ed eleganza principesca, bambine in divise variopinte, regali lussuosamente infiocchettati, un’aria
da festa contagiosa e leggera. E invece no, sono sul volo giusto. È la vigilia della festa di Novruz, il capodanno persiano,
e sto assistendo al surreale rientro in patria dei migranti curdi dalla città del Bosforo. Di notte, il respiro dei neonati culla
il nostro aereo in rotta verso la guerra.
Come vent’anni fa nei Balcani, tutto, oggi in Medio Oriente, celebra l’intima vicinanza tra normalità e orrore. Per
esempio. Laddove i monti Zagros sembrano ancora incerti
se diventare o meno pianura, sospesi sulla smisurata distesa alluvionale del Tigri segnata
da fosse comuni, violenze, popoli in fuga, orrori firmati Is e bombardamenti del governo
di Baghdad sui suoi stessi civili intrappolati, eccoti la sorpresa di Sulaymaniyya, città dalle mille e una luce, Dubai dal volto umano, un’oasi di pace a un centinaio di chilometri dalla guerra. Sulaymaniyya dai marciapiedi ben fatti, dai parchi di raffinata bellezza, con i
poeti in marmo su piedistalli — e i tassisti di un’onestà disarmante. In questa città a maggioranza curda nessuno chiude a chiave la porta di casa, nemmeno la notte. Non la chiudono neanche i medici e infermieri italiani di Emergency distaccati in questa regione dell’Iraq. È come se li sentissi tirare il fiato proprio qui, nel cuore di uno dei Paesi più infelici
della Terra.
È con loro che seguo i popoli in cerca di aiuto nella tempesta dell’estremismo islamista
e la fuga degli arabi sunniti dalla loro stessa identità. Campi profughi per masse che nessuno riesce più a contare. Un milione? «Appaiono di qua e di là… sbucano dal nulla come
portati dal vento, respinti da tutti». Per celebrare il Novruz, Faris il curdo, direttore del re-
parto riabilitazione, suona il liuto con infinita dolcezza e dice: «Sì, noi curdi riceviamo
i profughi arabi. Impensabile il contrario».
Proprio la terra che ha sofferto più migrazioni — talmente tante da avere ben sette
nomi per definire ciò che in Europa ne ha
uno solo, “esodo” — è diventato l’ultimo rifugio del Medio Oriente per i civili iracheni
e siriani in fuga.
A Sulaymaniyya, nell’antica chiesa caldea dedicata alla Vergine Maria, in un vecchio quartiere di artigiani del sapone, trovo
Miryam, sette anni, grandi occhi neri pieni
ancora di meraviglia. I suoi vi hanno trovato rifugio dalla furia dell’Is. Sono i cristiani
di Qaraqosh, simbolo stesso della complessità del Medio Oriente: curdi iracheni che
non parlano curdo, ma pregano in arabo e
parlano in aramaico. Qui sono un centinaio,
insegnanti e medici, commercianti, artigiani, un veterinario. La donna che mi porta il tè con le mandorle tostate ha un fratello rapito dalle milizie dell’Is. In questa stessa chiesa è stata trasferita a suo tempo la comunità monastica siriana fondata nel 1984
a Deir Mar Musa da padre Paolo Dall’Oglio,
rapito due anni fa e del quale non si hanno
più notizie. Oggi è rimasto un solo monaco,
padre Jens, tedesco dalla vita romanzesca,
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L’AUTRICE
LE IMMAGINI DEL CAMPO PROFUGHI
DI ARBAT SONO UNO DEGLI ULTIMI LAVORI
DI MONIKA BULAJ, FOTOGRAFA
E REPORTER POLACCA.
NELLA FOTO GRANDE, UNA DONNA
IN CERCA DI RADICI COMMESTIBILI
IN UNA PIETRAIA ATTORNO AL CAMPO.
A DESTRA DALL’ALTO, PROFUGHI ARABI
E YAZIDI IN ATTESA AL CENTRO MEDICO
DI EMERGENCY; RAGAZZI CHE GIOCANO
A PALLA; BAMBINI A SCUOLA.
IN BASSO A SINISTRA, ANCORA ARABI
E YAZIDI FIANCO A FIANCO
figlio di un militare della Wehrmacht rimasto a Creta dopo la sconfitta nazista. L’anno
scorso ha accolto a Sulaymaniyya un centinaio di profughi cristiani. Mi esorta: «Vai a
trovare padre Jacques Mourad, priore del
monastero di San Elia di Qaryatayn, in Siria. Jacques è convinto che padre Paolo sia
ancora vivo». Jens non sa che di lì a poche
settimane anche padre Mourad sarebbe
stato rapito, subito dopo aver dato rifugio
ad altri profughi cristiani, quelli in fuga dai
combattimenti attorno a Palmira. Solo un
tessuto verde separa la navata dalle stanze
dei profughi. Padre Jens sposta il bucato dai
banchi, mette al centro il Vangelo e siede
scalzo con i bambini in cerchio, e tutti insieme pregano, per quelli che mancano, per coloro che hanno scelto la via della violenza,
per gli stessi carnefici nel loro inferno.
Quindici emigrati curdi sono arrivati al
campo di Arbat, da Svezia, Inghilterra, Germania, tutti rientrati in patria per la festa
del capodanno persiano, e per tre giorni si
sono offerti di tagliare i capelli a centinaia
di bambini, yazidi, arabi, curdi. Aiuto Maruyam, una bambina yazida, a portare l’acqua. Mi dice di non andare in una parte del
campo: «Ci sono gli arabi. Sono senza Dio».
E intanto tra gli arabi è giorno di lutto per la
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FOTO DI MONIKA BULAJ
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morte di Saba Nijiris, centoduenne capostipite della tribù Albuhishmah, grande madre dell’Iraq. Vedo cento uomini seduti in silenzio, figli di una cultura antica. A. mi prega di non scrivere il suo nome. È uno specialista delle fibre ottiche per conto di una ditta cinese, ha quattro figli e la vita ridotta a
una tenda nel fango. Viene come quasi tutti gli arabi qui dalla provincia di Salah al din.
«Non possiamo scappare nel sud, ci ucciderebbero, sia l’Is, sia il governo sciita. I curdi
sono la nostra unica chance. Sono più tolleranti di noi arabi. Per loro conta la legge, non
la religione o l’etnia, e se sono io a sbagliare
è me che puniscono, non la mia famiglia. Il
governo iracheno, invece, ucciderebbe tutta la mia tribù se una sola persona della mia
famiglia avesse seguito l’Is».
Piove a dirotto sulla terra dei Sumeri, il
campo si trasforma in un fiume di fango, diventa Babele ma anche Diluvio. «Guarda —
mi dice un uomo sotto una tenda — è la staffetta del destino, il cerchio che non si chiude, il tempo che non finisce». E mi racconta
di settemila anni di lacrime di pentimento,
le lacrime di un angelo infedele, quello degli yazidi. Lacrime che avrebbero potuto
estinguere il fuoco dell’inferno. Qui le lacrime sono un oceano, l’inferno continua.
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La storia. Bei caratteri
Il suo nome è sconosciuto ai più, oscurato
per cinque secoli da quello di Manuzio
Ora è arrivato il momento di ricordare
al mondo chi fu Francesco Griffo
MICHELE SMARGIASSI
BOLOGNA
E
RA UN UOMO DI CARATTERE, questo è certo. Nel bene e nel male. Di-
segnò i caratteri tipografici più belli del mondo. Ci deliziano gli
occhi ancora oggi, quattro secoli dopo, e in tutto il pianeta si chiamano ancora come noi: italici. Ma il suo personale, di carattere,
il suo temperamento umano, lo condusse al patibolo. E lo condannò a un lungo oblio: che sta per terminare. Francesco Griffo,
designer del Rinascimento d’inchiostro, avrà in dono per il suo
cinquecentesimo anniversario di morte, nel 2018, quel che gli è
dovuto: un posto di prima fila nella storia dell’arte della stampa,
al fianco di coloro che ne sfruttarono il lavoro, oscurandolo con
la loro fama. A cominciare dal grandissimo Aldo Manuzio veneziano, padre dell’editoria mondiale, al cui identico anniversario
New York ha appena dedicato una grande mostra. Lo avrà, un po’ per orgoglio civico un
po’ per doveroso risarcimento, dalla città che gli diede sia la vita che la morte (e gli rubò il
nome per secoli): Bologna, dove un mediologo innamorato di lui, Roberto Grandi, gli sta
cucendo addosso un’intera “Grande festa delle lettere”, affidata a un comitato scientifico
presieduto da Umberto Eco. Per il quale
geniale che però, mezzo secolo dopo l’inGriffo fu molto di più che un eccellente sculvenzione di Gutenberg, ancora non esistetore di minuscole letterine di piombo, fu il
va: il corsivo a stampa. Come dire: la calliprecursore dell’editoria di massa, l’uomo
grafia degli umanisti nell’epoca della sua
che rese tecnicamente possibili «quelle
riproducibilità tecnica. Quelle letterine
che per l’epoca erano le edizioni economideliziose, dolcemente inclinate verso deche, permettendo l’accesso ai classici anstra, sinuose e aggraziate (proprio come
che a chi non poteva permettersi costosi
queste che state scorrendo), oltre all’elevolumi in-folio».
ganza sopraffina avevano infatti un preLo fece inventando una cosa semplice e
L’uomo
che creò
il corsivo
LA & COMMERCIALE
TRA LE ALTRE COSE,
INVENTANDO IL CORSIVO
GRIFFO INVENTA ANCHE
LA PRIMA “E” OGGI
COSIDDETTA COMMERCIALE
gio colossale: più compatte, facevano risparmiare tanta costosissima carta. I volumi rimpicciolivano: nacque così il tascabile, il libro che scende dagli scaffali e viaggia assieme al lettore nella sua bisaccia. Lo
imitarono tutti, il geniale corsivo di Griffo.
In tutta Europa, quel font rivoluzionario
ebbe nome italique, italic, italico, in onore
dell’italico genio tipografo — che però intanto perse il suo, di nome.
Era orafo, figlio di Cesare orafo bolognese. Nel 1470 circa lo troviamo ventenne a
Padova, già convertito all’industria emergente del secolo: la stamperia. Non si sa se
sia stato Aldo Manuzio stesso ad avvistarlo: certo il grande imprenditore veneziano
era straordinario nell’assoldare per la sua
bottega, frequentata da un giovane Erasmo da Rotterdam, le migliori competenze in circolazione. E Venezia era la capitale mondiale del libro: in quegli anni, tra calli e canali si stampava un terzo dei libri
pubblicati in Europa.
Per le “Aldine”, Griffo cominciò a incidere
dei “tondi” meravigliosi, nitidi e proporzionati, i migliori in circolazione. Era in corso
una grande battaglia fra la tipografia nordi-
ca e quella mediterranea, fra i caratteri gotici e quelli romani, che era poi una sfida fra
Medioevo e Rinascimento. «Erano tutti convinti che la tipografia non potesse eguagliare la bellezza del libro manoscritto umanista», spiega lo storico della stampa Giorgio
Montecchi, «ma Griffo vinse la sfida». Nel
1495 il De Aetna del Bembo stampato con le
sue nitide letterine romane fece sensazione.
Quattro anni dopo diede forma a quello che
i bibliofili considerano l’incunabolo più bello mai stampato: l’eccentrico Hypnerotomachia Poliphili, adorato da Joyce. Manuzio
era entusiasta del suo disegnatore, e ringraziò per iscritto, cosa rarissima, quel Franciscus Bononiensis nella prefazione alle Bucoliche di Virgilio, del 1501, che fu il primo libro al mondo stampato interamente in corsivo.
E qui bisogna spiegare il modernissimo
colpo di genio del nostro. Prendere una cosa
antica e farne una novità assoluta. Reinventare tecnologicamente una tradizione. Colpire al cuore, con un prodotto “emozionale”
ma avanzatissimo, una clientela in espansione. In questo caso, il target erano i nuovi
lettori umanisti, laici, aristocratici e protoborghesi, un po’ annoiati dai codici bigotti,
dalle Bibbie imponenti, dall’asfissiante letteratura liturgica, i conoscenti e dilettanti
voraci di classici antichi e moderni che tante
volte avevano manualmente trascritto nei
loro quaderni... in corsivo. Ed ecco, questi librini più agili, meno pomposi, stampati sì,
ma in un carattere, che quel corsivo imitava,
L’INCUNABOLO
NEL 1500, FRANCESCO GRIFFO
DIEDE FORMA A QUELLO
CHE I BIBLIOFILI CONSIDERANO
L’INCUNABOLO PIÙ BELLO
MAI STAMPATO: SI TRATTA
DELL’ECCENTRICO
“HYPNEROTOMACHIA
POLIPHILI”, ADORATO
DA JOYCE
Repubblica Nazionale 2015-05-31
la Repubblica
DOMENICA 31 MAGGIO 2015
33
La silenziosa
voce
delle font
STEFANO BARTEZZAGHI
CRIVERE, SI FA PRESTO A DIRE “SCRIVERE”. Ma
scrivere come? Si può farlo a mano o con
una macchina. Quando lo si fa a mano si
può scegliere di far finta di scrivere a
macchina, così come quando si usa una
macchina si può oramai far quasi finta di scrivere a
mano. Lo stampatello manuale imita la regolarità
modulare della macchina. I caratteri sono diritti e
ben staccati fra loro, come soldati impettiti in riga.
Quando le macchine scrivono in corsivo, invece, è la
macchina che imita la mano: caratteri inclinati,
come staffettisti che partono di scatto per andare a
offrire il testimone di un trattino a quello che lo
segue. Del resto “corsivo” rimanda proprio alla
corsa, allo scorrere e al discorrere della scrittura,
che insegue da vicino il pensiero, non fa staccare
mai la mano dal foglio, non cerca una classica
stabilità ma insegue ghirigori casomai barocchi.
Le macchine di scrittura odierne ci consentono una
scelta un tempo impensabile di caratteri e di loro
varianti, chiamate “font”. Nomi come “carattere” e
“tipo” facilitano le analogie che la speculazione
grafologica trova fra le inclinazioni del carattere
scrittorio e quelle del carattere psicologico dello
scrivente. Umberto Eco, che non ha mai
dimenticato il suo passato di funzionario editoriale
(e quello più remoto di discendente da una famiglia
di tipografi), aggiunge anche l’accezione anglofona
di «character» come personaggio di una narrazione,
dando nomi di caratteri a personaggi e entità dei
suoi romanzi: dal Baskerville de Il nome della rosa
(che allude anche a Sherlock Holmes) alla
Garamond de Il pendolo di Foucault fino a
Braggadocio, cupo personaggio del recente Numero
Zero. Il nome è quello di un bizzarro carattere, che
risale all’Art Déco. Anche il cognome del narratore,
Colonna, ha a che fare con la tipografia e non
soltanto perché la colonna è un’unità
dell’impaginazione. A un controverso Francesco
Colonna è attribuito quel capolavoro letterario e
anche tipografico che è l’Hypnerotomachia
Poliphili, stampato da Aldo Manuzio nel 1490, con i
caratteri disegnati proprio da Francesco Griffo.
Il recente Sei proprio il mio typo. La vita segreta
delle font (Ponte alle Grazie, 2012) del divulgatore
inglese Simon Garfield è un’eccellente (e spassosa)
guida turistica per viaggiatori di pagine. La sostanza
espressiva dei bianchi e dei neri, dei tratti rettilinei,
delle curve e degli svolazzi è perlopiù inavvertita,
almeno consapevolmente, dal lettore. Il suo occhio
non si sofferma su questi più di quanto il cervello di
un automobilista pensi ai pistoni: salta subito alla
dimensione della parola, e del suo significato. Come
per i pistoni, si notano solo i malfunzionamenti: una
cattiva stampa, o anche una cattiva scelta di font,
salta all’occhio e allora ci si accorge che una
relazione fra testo e font esiste. Ci sono font
“maschili” e font “femminili”, font autorevoli e font
ironiche, ed è solo la sapienza di un grafico
professionale che può assegnare a un testo il set di
caratteri che meglio si adatta al carattere del testo
medesimo. Che non faccia (se proprio non lo si
desidera) l’effetto dell’Infinito di Giacomo Leopardi
recitato dalla voce di Fantozzi, o della Vispa Teresa
scandita da quella del presidente emerito Giorgio
Napolitano.
Non a caso proprio offrendo una varietà di font ai
suoi clienti la Apple delle origini prese dei vantaggi
su Microsoft. La font è infatti la voce, il timbro e
l’inflessione del testo scritto, così come, sempre
senza accorgercene, possiamo parlare in corsivo, in
stampatello, in neretto e a volte facciamo sentire
che pronunciamo certe parole con l’iniziale in
maiuscolo. Ferdinand de Saussure pensava che la
lettera e il suono siano presenti nella nostra mente
in una forma indistinta e sinestetica, tra figura e
suono. Quando si ascolta la voce delle font viene
proprio da dargli postuma ragione.
S
LA PRIMA VOLTA
NEL 1500 FRANCESCO GRIFFO
SPERIMENTA PER LA PRIMA VOLTA
IL CORSIVO IN UNA ILLUSTRAZIONE
ALLE “EPISTOLE” DI SANTA CATERINA:
“JESU DOLCE AMORE”
che alludeva ancora al gesto della mano, che
ammiccava a una relazione ancora intima,
corporea tra il lettore e il “suo” testo... Griffo
fece prima qualche esperimento. Prendendo a modello la scrittura cancelleresca della
corte pontificia, aveva fuso nel 1500 un primo corsivetto ancora timido per collaudarlo
discretamente nel cartiglio di un’illustrazione alle Epistole di santa Caterina: Jesu
dolce amore... I primi italici stampati nel
mondo recitano una preghierina soave.
Sì, però Manuzio era anche una vecchia
volpe, e in quegli anni la concorrenza era ferocissima, il mercato già inflazionato e infestato di falsari. Corse dunque subito negli appositi uffici della Serenissima a farsi assegnare, a suo nome, un privilegio, oggi diremmo un brevetto, sul nuovo carattere,
monopolio aziendale. Diciamola tutta: ne
aveva un po’ il merito, forse era stato lui stesso a suggerire l’idea al suo eccelso grafico.
Ma se ha ragione Riccardo Olocco, il ricercatore che da qualche anno come un segugio è
sulle tracce dei suoi caratteri, «Griffo forse
era un libero professionista che lavorava per
diversi editori, aveva uno studio di design,
diremmo oggi», e dunque il buon Aldo si appropriò di qualcosa che non era tutto suo.
E Griffo alla fine non la mandò giù, che il
suo editore fosse, a suo discapito, «in grandissime ricchezze pervenuto e a nome immortale». Dopo dodici anni, ruppe con Manuzio. Fuggì lontano dalla Repubblica, per
aggirare il copyright imposto sulla sua stessa creatura. Si rifugiò a Fano, assunto dallo
stampatore ebreo Gershom Soncino che, felice di aver strappato una tal perla dalle mani del concorrente veneziano, gli riconobbe
per iscritto la paternità del corsivo, accusando il Manuzio di essersi «astutamente
dell’altrui penne adornato».
Ma anche quella di cambiar padrone non
era la vera ambizione del «discreto huomo
maestro» Griffo. Voleva mettersi in proprio.
Nel 1516 tornò nella sua Bologna. Si fece editore. Aveva un suo progetto commerciale:
sfornare classici italiani e latini in edizioni
popolari. Ne produsse una mezza dozzina
(conservati alla biblioteca dell’Archiginnasio), piccolissimi, economici, compatti, grazie al suo ergonomico corsivo che intanto
aveva raffinato. Purtroppo, esagerò. Scelse
il minuscolo formato in trentaduesimo, piccolo e stretto, e per giunta si mise a stampare in corpo sei (quello che state leggendo è
corpo 8.7). Ci volevano eccellenti diottrie.
Non funzionò tanto. Chissà, forse l’amarezza per l’impresa zoppicante pesò sulla rabbia con cui nel 1518 affrontò, per ignoti dissidi familiari, il marito della figlia Caterina,
tale Cristoforo, e lo ammazzò rompendogli
la testa con un oggetto acuminato che qualche storico in vena romanzesca immagina
fosse, cosa altrimenti?, un punzone tipografico. Tutto materiale narrativo eccellente,
comunque, per gli allievi della Bottega Finzioni, il laboratorio di scrittura collettiva di
Carlo Lucarelli e Michele Cogo che ha intenzione di produrre un ampio storytelling su
Griffo (romanzo, graphic novel e sceneggiato televisivo): «Lo immaginiamo come un
uomo istintivo, scottato, in cerca di rivalsa,
ma anche un geniale artista che volle essere
imprenditore di se stesso», scherza Cogo,
«un po’ come noi...».
Be’, per l’omicidio la condanna alla forca
era inevitabile. Non abbiamo la prova che sia
stata eseguita, ma sappiamo per certo che
un documento notarile dell’anno successivo
lo qualifica come già defunto. Requiescat
dunque, genio collerico: la pena supplementare fu la damnatio nominis. Sì, perché tutti
i suoi datori di lavoro o clienti che fossero, lo
chiamavano solo “Francesco da Bologna”, il
cognome si perse, e con quello la biografia. A
lungo, chi provò a ricostruirla prese delle
cantonate, come il bibliotecario Antonio Panizzi che identificò il bolognese in un pittore, Francesco Raibolini. Solo un secolo fa, finalmente, dalle carte di un archivio di Perugia, lo storico Adamo Rossi riesumò un contratto che nominava un “Griffo”, che forse
era magari un Grifi o Griffi, come da sua firma autografa, chi lo sa, i cognomi allora erano ancora accessori volubili dell’identità.
Ma certo, se il bolognese si perse, l’italico
sua creatura (che gli spagnoli chiamano ancora letra grifa...) invece trionfò, dilagò. Oddio, qualcuno ora sostiene che invece fu un
fallimento: perché di libri interamente
stampati in corsivo non se ne fecero più. Eleganti quanto volete, ecologici magari, salvaspazio e salvacarta: ma suvvia, un po’ faticosi da leggere, alla lunga. Da assortimento autonomo di caratteri qual era, il
corsivo diventò una semplice variante (il
“colore”, dicono i vecchi tipografi) del carattere tondo. Da padrone del testo, il corsivo diventò l’accento particolare calcato
su una certa parola della frase, una sottolineatura, un’enfasi del discorso. Ma in questa forma intertestuale, tuttavia, è arrivato fino a noi praticamente nella stessa forma in cui Francesco la intagliò. Sulla scia di
un’affermazione del grande Firmin Didot,
ammiratore di Griffo, gli storici sono ormai
concordi nel riconoscere che il più fortunato set di caratteri della storia della tipografia, che porta il nome di Claude Garamond,
non è che una ripresa delle font del nostro.
E ancor oggi, dai campionari delle tipografie, dai menù a tendina dei nostri word processor, a volte perfino dagli schermi touch
dei nostri smartphone, l’iracondo Francesco ci saluta con la sua italica mano felice,
un po’ inclinata verso destra.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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LA DOMENICA
la Repubblica
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Spettacoli. Dopo Cannes
IL RITRATTO
FOTO ANDY GOTTS/CAMERA PRESS/CONTRASTO
MICHAEL CAINE,
82 ANNI, NELL’ULTIMO
FILM DI PAOLO
SORRENTINO
INTERPRETA
IL RUOLO
DI UN DIRETTORE
D’ORCHESTRA
IN PENSIONE.
SCRITTA DALLO STESSO
SORRENTINO
È ORA IN LIBRERIA
LA SCENEGGIATURA
DEL FILM:
“LA GIOVINEZZA”
(RIZZOLI, 196 PAGINE,
17 EURO)
Michael Caine
La mia grande
vecchiezza
Repubblica Nazionale 2015-05-31
la Repubblica
DOMENICA 31 MAGGIO 2015
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“È raro che a un attore della mia età si offra un ruolo da protagonista
Sorrentino ha fatto di più. Mi ha detto: senza di lei Youthio non lo faccio”
Intervista su premi mancati, anni che passano, film e grandi amori
NATALIA ASPESI
MILANO
S
E SEI NATO NEL 1933, L’ETÀ NON LA PUOI NASCONDERE; soprattutto se fai l’at-
tore non puoi pensare di interpretare il giovanotto che fa perdere la testa alle giovani signore. Anche se poi nella realtà li conosciamo tutti i ricchi ottantenni con fidanzate e pupattole a pagamento men che trentenni. Comunque, dice Michael Caine, «meglio vecchio che morto, sia
nella vita che nei film. E per quel che riguarda le donne, io ho da quarantatré anni una moglie bellissima, nessuna attrice giovane può eguagliarla. Il segreto del nostro matrimonio è che lei non ha il ruolo della
donna all’ombra del divo, noi siamo una cosa sola e non ci lasciamo mai:
lei viene sempre con me, dovunque mi porti il lavoro, così da decenni evito le eventuali tentazioni. Quando torno da lei ogni sera, mi sento molto fortunato».
Chi ha visto Youth - La giovinezza, il film di Paolo Sorrentino, era sicuro che al Festival di Cannes lei
avrebbe vinto il premio per il miglior attore. Credo che ci pensasse anche lei, e per questo poi si è eclissato in silenzio.
«Era già successo, sempre a Cannes nel 1966, con Alfie: avevo trentatré anni, ero il protagonista nel
ruolo di un proletario dalle facili conquiste, mi dicevano che ero il più bravo: invece niente, anche se almeno allora il film vinse la Palma d’oro. Però ci rimasi male e sono passati quarantanove anni prima di
accettare di tornare al festival».
Purtroppo anche questa volta inutilmente. Lei però di premi ne ha vinti tanti, compresi due Oscar
per il miglior attore non protagonista, nel 1987 e nel 2000, per Anna e le sue sorelle di Woody Allen
e per Le regole della casa del sidro di Lasse Hallström.
«Ma nel film di Sorrentino sono tornato dopo tanti anni a un ruolo di protagonista, il che è molto raro
per un uomo della mia età. È da tempo che mi assegnano personaggi secondari, per fortuna divertenti
e anche in film di grandioso successo, come la trilogia di Batman diretta da quel geniale regista che è
Christopher Nolan. Un giorno di dieci anni fa me lo trovai davanti alla porta della mia casa di campagna, non lo conoscevo, mi mise in mano uno script, ed era il suo primo Batman: mi disse, la parte del
maggiordomo è tua. Devo dire «Il signore è servito?», gli risposi un po’ seccato. Invece è un ruolo molto
bello, quello di una specie di padre protettivo nella vita dell’orfano Bruce Wayne. Da anni mi offrono ovviamente solo parti secondarie, e mai di amante,
perciò non ho attorno ragazze: capita da quando
ma anche in Sudafrica come nel 1964, con Zulu.
«È stato il film che mi ha lanciato: ero giovane,
mi arrivò una sceneggiatura e obiettai che la parte dell’innamorato mi pareva troppo breve. La ri- biondo e slanciato, molto british, e mi offrirono la
sposta fu, “ma tu sei il padre!”. Mi sono abituato al- parte di un ufficiale britannico aristocratico: io
la comodità di non essere il protagonista, il lavoro però parlavo cockney, la lingua del proletariato, e
si sbriga in fretta, non devo alzarmi all’alba né gli inglesi avrebbero capito la differenza, ma il regista no, perché era americano, non poteva conostancarmi».
Però ha accettato di essere la star del film di Sor- scere il nostro incancellabile classismo che si
esprime soprattutto nel modo di parlare. Solo col
rentino.
«Io non sono una star, sono un attore, e conti- tempo ho imparato anche a fingere la pronuncia
nuerò a esserlo fino a quando sentirò di dare il mio posh, che si adatta di più alla mania di usarmi comeglio. Dopo anni di interessanti, comodi piccoli me personaggio di alta classe; persino in un film
ruoli, quando Sorrentino mi ha offerto una ma- come Vestito per uccidere, in cui Brian De Palma
gnifica parte da protagonista, mi è sembrato di mi trasformò in uno psichiatra psicopatico, un kilringiovanire, anche se il personaggio è, come me, ler che per uccidere le donne si vestiva da donna.
uno che ha superato gli ottant’anni. Mi ha detto: Pochi anni dopo ho lavorato anche con un regista
“Questo film l’ho scritto per lei, se mi dice di no non italiano, Vittorio De Sica, un uomo molto simpatilo faccio”. Potevo impedirgli di girare quello che co, gentilissimo, con quella sua allegra napoletaper me, e mi pare anche per il pubblico, è un otti- nità, e andammo subito d’accordo».
mo film? In inglese poi, e in un bel posto, dove mia
Il film era Sette volte donna, sette storie intermoglie si è trovata benissimo e abbiamo avuto tutpretate da Shirley MacLaine allora all’apice
to il tempo di stare insieme».
della carriera, e lei aveva il ruolo di un investiLei conosceva il cinema di Sorrentino?
gatore privato pasticcione. Quarantotto anni
«Io faccio parte dell’Academy che assegna gli
dopo lei è tornato a fidarsi di un regista italiaOscar: La grande bellezza l’ho visto e l’ho votato.
no, Paolo Sorrentino.
Sorrentino è un giovane geniale dalle immagini
«Ho accettato anche perché non dovevo essere
indimenticabili e soprattutto, come Nolan, scrive me stesso, in nessun film lo sono stato mai. Però
lui la sua sceneggiatura, cioè è un autore, non so- potevo usare la mia età come un privilegio, addilo un regista. Dieci minuti dopo averla letta, ho su- rittura invecchiandomi un po’ ed esorcizzando
bito detto di sì. Gli sono molto grato per il modo in quella malinconia, quel senso di inutilità che temo
cui mi ha lasciato libero, e per la gentilezza dolcis- gli anni possano portare».
sima con cui mi dava suggerimenti».
Conosceva già Jane Fonda?
Michael Caine è un uomo di ottantadue anni
«Più di trent’anni fa siamo capitati nello stesso
portati con ironica serenità, una figura alta e drit- film, California Suite, ma non abbiamo girato una
ta, pochi capelli rimediati nel film da un parruc- sola scena insieme. La vedevo solo la sera a cena,
chino biondo, sul viso quelle rughe che aveva an- con tutti gli altri. Era una donna molto bella e molche in passato, e che gli consentono di esprimere to simpatica. Lo è ancora oggi, ed è anche coragpensieri, emozioni, segreti, senza muovere un giosa. Per il film di Sorrentino, nelle scene con Harmuscolo: voce magnifica che noi non conosciamo vey Keitel, si è lasciata invecchiare, piena di rughe
a causa del doppiaggio. Non è mai stato bello ma che non ha, lei che è famosa per l’impegno con cui
sempre fascinoso, ovvio sognarsi la sua elegante riesce a non mostrare i suoi anni».
perfidia dopo aver visto le due versioni di Sleuth.
La giovinezza è girato in un bell’albergo svizNella prima versione, col titolo italiano Gli inzero trasformato in spa: lei frequenta questi
sospettabili, quella del 1972, i due diabolici perluoghi, cerca di rallentare il tempo?
sonaggi sono Laurence Olivier, il vecchio, e Mi«Relativamente sì, cammino molto, non bevo
chael Caine, il giovane. In quella del 2007, lei è più mentre in passato bevevo anche troppo. Ma
il vecchio e Jude Law il giovane.
non vado nelle spa, non credo ai miracoli, lascio
«Delle due versioni io preferisco la prima, ma che il tempo scorra naturalmente, anche perché
non perché in quella ero ancora giovane, ma per- penso che nulla possa davvero rallentarlo: viveché la sceneggiatura era dell’autore della com- re alla giornata, con la fortuna di aver vicino dei
media, Anthony Schaffer, e mi è sembrata più cat- grandi affetti e poter ancora lavorare, mi pare il
tiva, da togliere il fiato. La seconda, che pure era miglior modo di vivere gli anni che restano. Nastata adattata da Harold Pinter, è forse troppo tec- turalmente con la fortuna di una buona salute:
nologica e io non credo che le macchine possano nel 2008 in Is Anybody There? ho accettato il
raggiungere la perfidia sofisticata degli umani».
ruolo di un vecchio che si spegne nell’AlzheiDal 1950 a oggi, lei è scivolato impeccabile e mer, ispirandomi alla tragica fine di un mio amispesso indimenticabile in più di cento film o se- co. Il film impressionò talmente mia moglie
rial televisivi, girati in Inghilterra o negli Usa Shakira da impedire a nostra figlia Natasha, che
ANCHE SE
IL PERSONAGGIO
È UNO COME ME,
UNO CHE HA SUPERATO
GLI OTTANTA, MI SONO
SENTITO RINGIOVANITO
PERCHÉ DA ANNI ORMAI
MI OFFRIVANO SOLO COMODE
PARTI SECONDARIE
E COMUNQUE: MEGLIO
VECCHIO CHE MORTO, NO?
MI ERA GIÀ SUCCESSO,
SEMPRE A CANNES,
CON “ALFIE”: RECITAVO
NEI PANNI DI UN PROLETARIO
DALLE FACILI CONQUISTE,
MI DICEVANO CHE ERO
IL PIÙ BRAVO: INVECE NIENTE
CI RIMASI MALE E SONO
PASSATI QUARANTANOVE ANNI
PRIMA DI ACCETTARE
DI TORNARE AL FESTIVAL
HO UNA MOGLIE
BELLISSIMA,
NESSUNA ATTRICE
PUÒ EGUAGLIARLA
NOI SIAMO UNA COSA SOLA
E NON CI LASCIAMO MAI
LEI VIENE SEMPRE CON ME,
DOVUNQUE MI PORTI
IL LAVORO.
È COSÌ CHE EVITO
EVENTUALI TENTAZIONI
era incinta, di andarlo a vedere».
Lei ha fatto a tempo da bambino a vivere nella
Seconda guerra mondiale: che ricordi ne ha?
«La nostra era una famiglia proletaria ma molto unita, mio padre lavorava in una pescheria,
mia madre era domestica a ore, c’era anche il
mio fratellino Stanley. Con i bombardamenti,
noi bambini fummo evacuati lontano dalla periferia londinese, e il ricordo più doloroso è quello
del distacco dai genitori. Molto mi ha segnato invece la guerra in Corea: avevo diciannove anni e
ogni giorno affrontavo la morte. Non l’ho mai dimenticato, credo che quell’esperienza mi abbia
anche reso più forte».
C’è una foto di lei ventenne con un gran ciuffone di capelli e vestito con giacca e cravatta, come un uomo in età. Del resto lei si sposò a ventuno anni, con una giovane donna conosciuta
nei suoi primi tentativi di fare teatro. Due anni
dopo nacque la sua prima figlia, Dominique.
«Allora non era il tempo dei ragazzi, eravamo
subito uomini e come tali dovevamo comportarci. Nel teatro amatoriale non facevo carriera, al
massimo ero il poliziotto che nell’ultima scena
arresta il cattivo. Dovevo lavorare, ero spesso disoccupato, mantenere la famiglia era quasi impossibile. Patricia tornò con la bambina dai suoi,
io dai miei».
Il successo lo ha raggiunto a trentatré anni con
Alfie, che le ha fatto avere la prima nomination
all’Oscar, e con il primo dei tre film tratti dai romanzi di Len Deighton in cui è l’agente Harry
Palmer.
«Lavoravo senza sosta, bevevo due bottiglie
di vodka e fumavo ottanta sigarette al giorno.
Guadagnavo come non avrei immaginato, comprai un appartamento per mia madre e per me
un antico mulino nei pressi di Windsor, da restaurare e con un giardino che mi avrebbe aiutato a sentirmi meno confuso».
Poi arrivò nel 1971 Shakira, modella angloguianese, aveva allora ventiquattro anni.
«Stavo guardando con un mio amico la televisione, quando in una pubblicità di caffè ci fu questa apparizione: non avevo mai visto una donna così bella, piena di luce, con un sorriso stordente e
me ne innamorai all’istante. Manovrai per conoscerla e finalmente il suo agente mi fece avere il
suo telefono. Non avevo una gran buona fama, lei
gentile ma fredda mi disse di chiamarla dieci giorni dopo. Così feci e lei accettò una cena e venne a
prendermi per sicurezza con la sua automobile.
Non riuscivo a parlare, ero totalmente stordito da
tanto splendore. Il lavoro ci separò per qualche settimana, ci ritrovammo a Londra e da quel momento non ci siamo mai, mai lasciati. Ci sposammo a Las Vegas nel 1973, poi nacque la nostra Natasha. Facevo un film dietro l’altro, anche bruttissimi, ma così potei comprare la casa dei nostri sogni, nell’Oxfordshire».
Non avete mai lavorato insieme?
«Una volta. John Houston mi voleva in L’uomo
che volle farsi re, ma una attrice si era volatilizzata e non si riusciva a trovare la sostituta. Shakira
era a tavola con noi e si offrì. Così abbiamo anche
lavorato insieme, ma poi alla fine, nel film, sposa
Sean Connery!».
Nel film di Sorrentino alla fine lei incontra sul
palcoscenico la regina Elisabetta e il principe Filippo. Nel 2000 è stata la regina a farla Sir, quindi vi siete incontrati davvero.
«Più volte: la sera dell’onorificenza, mi chiese
sussurrando se sapevo qualche bella barzelletta.
Certo le risposi, ma forse non adatte a una regina.
Lei fu la prima a raccontarmene una, e così non potei esimermi».
Pensa di rallentare il suo lavoro?
«Non ci ho ancora pensato. Nell’ultimo anno ho
girato cinque film, compreso La giovinezza e Interstellar di Christopher Nolan. Ma sono molto impegnato come nonno. Potrei essere bisnonno ma
mia figlia grande, Dominique, non ha avuto figli.
Natasha invece ne ha tre, un maschietto di sei anni e due gemelli, maschio e femmina, di cinque:
uno è scuretto come la magnifica nonna, due sono
biondini come il nonno».
E come tutti i nonni di questo mondo, estrae
dalla tasca un vecchio portafoglio tutto sdrucito, e mostra trionfante la foto di tre carinissimi
piccini.
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Repubblica Nazionale 2015-05-31
la Repubblica
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37
GLOSSARIO
START UP
CROWDFUNDING
COWORKING
OPEN SOURCE
COMMUNITY
FASE INIZIALE PER L’AVVIO
DI UNA NUOVA IMPRESA:
NON DEVONO MANCARE
CREATIVITÀ, SPIRITO
DI INIZIATIVA E VOLONTÀ
DI METTERSI IN GIOCO
LETTERALMENTE
FINANZIAMENTO
COLLETTIVO, MOBILITA
PIÙ PERSONE E RISORSE
PER SOSTENERE PROGETTI,
DI SOLITO GRAZIE AL WEB
SI RIFERISCE A PERSONE
CHE LAVORANO
CONDIVIDENDO LO STESSO
AMBIENTE DI LAVORO,
SENZA FAR PARTE PERÒ
DELLA STESSA AZIENDA
UN SOFTWARE I CUI AUTORI
RENDONO PUBBLICO
IL CODICE SORGENTE,
FAVORENDONE IL LIBERO
STUDIO, E PERMETTONO
DI FARE MODIFICHE
UN INSIEME DI PERSONE
INTERESSATE
A UN DETERMINATO
ARGOMENTO CHE
COMUNICANO TRA LORO
ATTRAVERSO INTERNET
?
?
Nome
Francesco Giberti
Nome
Nicola Greco
Nome
Bruna Marini
Nome
Saverio Murgia
Nome
Francesco Nazari Fusetti
Nome
Brian Pallas
Età
28 anni
Età
22 anni
Età
28 anni
Età
24 anni
Età
28 anni
Età
28 anni
Città
Milano
Città
Roma
Città
Bolzano
Città
Genova
Città
Padova
Città
New York (nato
e cresciuto a Milano)
Progetto
A scuola vince vari premi
per una app che analizza
i social network. Studia
computer science
a Londra, ha lanciato
Kevin, amico virtuale
che ti ricorda cosa fare.
Da settembre sarà
nel team del padre del web
Tim Berners Lee
Progetto
Ricercatrice del Centro
Internazionale
di Ingegneria Genetica
e Biotecnologie di Trieste,
uno studio rivoluzionario
del suo team
sul virus Hiv nel 2015
è finito su Nature
(e lei è diventata mamma)
Progetto
Ricercatore di robotica
avanzata
e amministratore
delegato di Horus
Technology, una startup
che ha creato
un dispositivo indossabile
che punta a cambiare
la vita di milioni di persone
cieche e ipovedenti
Progetto
Ancora studente fonda
ScuolaZoo, una delle più
grandi community
di studenti (e una azienda
che fattura bene).
Da due anni a capo
della startup Charity Stars
per finanziare onlus
con aste di memorabilia
dei vip
Progetto
Fondatore di MyFoody,
la startup che contro
lo spreco alimentare
mette in rete
le eccedenze
dei supermercati a prezzi
vantaggiosi. Appena
lanciato a Milano
Progetto
Dal febbraio 2014 a capo
di Oppurtunity Network,
piattaforma che mette
in contatto in forma
anonima le imprese
(per ora 2.700
da settantacinque paesi)
RICCARDO LUNA
UESTA LISTA È DEDICATA A VOI, che li avete
chiamati “bamboccioni”. E a quelli che per
definirli “schizzinosi” hanno scelto una parola
inglese piuttosto antipatica, “choosy”. Ma
questa lista è anche per tutti quelli che non
hanno fatto molto per cambiare questa
immagine fuorviante di se stessi e sono andati
a ingrossare le fila dei rassegnati, quelli che
non studiano, non lavorano e non si ingegnano.
I “Neet”. Questa lista è per tutti noi che a volte
ci dimentichiamo la meraviglia di avere
vent’anni. Quando quel momento della vita in cui il talento, che magari sui
banchi di scuola non avevi avuto occasione di mostrare, viene finalmente
fuori e si mette in azione con una forza a volte anche distruttiva. Nel senso
che cambia tutto, tutto il mondo come lo conosciamo.
Q
Quasi tutte le più grandi invenzioni, scoperte e imprese della storia
dell’uomo sono avvenuta in questa “zona magica” che è la nostra vita: inizia
quando usciamo dall’adolescenza e termina dieci anni dopo. Dalla teoria
della relatività di Einstein fino a Google, il filo rosso è sempre lo stesso: l’età
degli innovatori. Dov’è la notizia, allora? È che anche adesso, anche in
questa Italia che fatica a uscire dalla crisi economica, sono i ventenni a
guidare il cambiamento, creando applicazioni, servizi e aziende innovative,
conducendo ricerche scientifiche con un approccio mai visto prima. Dandosi
da fare con coraggio e spesso con pochi aiuti.
Questa lista ovviamente non è completa, non può esserlo. È una selezione
di alcuni dei migliori ventenni di questo Paese. Ce ne sono molti altri, tutti
ugualmente meritevoli, ma intanto è importante fermarsi su queste piccole
storie, leggerle una per una: perché ai loro coetanei danno la speranza che
non è vero che tutto è perduto, che solo chi si rassegna ha già perso. E al
tempo stesso danno la certezza ai più grandi che il futuro è in buone mani.
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Ovveroventi inventori italiani
che hanno vent’anni (o poco di più)
Nome
Christian Sarcuni
Nome
Andrea Stroppa
Nome
Fabia Timaco
Nome
Edouard Wawra
Nome
Andrea Zanni
Età
29 anni
Età
21 anni
Età
22 anni
Età
29 anni
Età
26 anni
Città
Matera
Città
Frascati (Roma)
Città
Lendinara (Rovigo)
Città
Cassino
Città
Modena
Progetto
Cinque anni fa
ha inventato un servizio
online per la pizza
a domicilio, Pizzabo,
che a gennaio ha venduto
per 55 milioni di euro
a un gruppo tedesco
(che lo ha ribattezzato
Hello Food)
Progetto
Hacker etico di notevoli
capacità, si è ritagliato
un ruolo di blogger
internazionale
sulla tecnologia:
le sue inchieste
sono uscite sui principali
quotidiani del mondo
Progetto
Diplomata alla Scuola
Holden è la protagonista
di Fables, un progetto
fra storytelling
e tecnologia
con la community
OpenBiomedical
per la realizzazione
con una stampante 3D
della sua mano robotica
Progetto
Fondatore
e amministratore
di GamePix, piattaforma
per sviluppare
e monetizzare giochi
online diffusa in duecento
paesi. Un suo discorso
nel 2014 strappò
gli applausi del capo
di Microsoft Steve Ballmer
Progetto
Bibliotecario a Bologna,
è il presidente
di Wikimedia Italia,
la community
che gestisce la più grande
enciclopedia del mondo,
ed è in prima linea
su molti progetti
del mondo “open”
L’APPUNTAMENTO
I MAGNIFICI 20 È IL TEMA
DELLA EDIZIONE
STRAORDINARIA DI NEXT
IN SCENA ALLA “REPUBBLICA
DELLE IDEE” DI GENOVA
IL 5 GIUGNO.
NELLA SALA DEL MINOR
CONSIGLIO DALLE 9.30
UNA SFILATA DI GIOVANI
TALENTI, TUTTI UNDER TRENTA
Repubblica Nazionale 2015-05-31
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 31 MAGGIO 2015
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Sapori. Sani
FRUTTA E VERDURA
RICCHE
DI ANTOCIANINE
DALLE
STRAORDINARIE
CAPACITÀ
ANTIOSSIDANTI
POSSONO TINGERE
DI PORPORA
PASTE E INSALATE
MA ANCHE
TORTE E BUDINI
Il colore viola. Rape,
cavolo, prugne. Perché
l’orto non è sempreverde
LICIA GRANELLO
CARL WARNER
“Q
L’appuntamento
Viola di gran moda nei piatti
proposti durante Ortinfestival,
festa degli orti contemporanei
fino a martedì alla Reggia
di Venaria, Torino. Quest’anno,
gemellaggio green
con “The Vegetarian Chance”,
il concorso di alta cucina ideato
dall’eco-chef Pietro Leemann,
il 7 giugno a Milano
ELLI DAL GAMBO GROSSO, di colore pallido e dai germogli
tra il rosa e il viola, sono i più afrodisiaci. Sembrano falli anemici. L’asparago verde è più comune, ma ha un
aspetto meno erotico. Nel Giardino profumato sono
raccolte diverse ricette per resuscitare l’amante spossato”. Il color viola non è un dettaglio da poco, nelle pagine di Afrodita. Se un’esperta di letteratura gastroerotica come Isabel Allende identifica le sfumature
purpuree con una ritrovata vitalità erotica, un fondamento ci dovrà pur essere. I medici evitano di sbilanciarsi sul tema, preferendo di gran lunga attenersi alle
virtù più genericamente anti-aging di cui i cibi viola si
fregiano. Tutto merito delle antocianine — dal greco: fiore, anthos, blu, kyáneos, — molecole idrosolubili in grado di pigmentare fiori, frutti, verdure, e non solo. Chiunque abbia avuto a che fare
con una macchia di mirtillo sa quanto siano resistenti...
Ma il colore non è un abbellimento fine a se stesso. Intanto perché le tinte accese dei petali li tramutano in irresistibile attrazione per gli insetti. Oltre a sedurre gli agenti impollinatori, il rosso e
il blu costituiscono una barriera contro l’eccessiva insolazione a carico delle piante (un po’ come i
nostri solari). A stupire gli scienziati, la configurazione chimica, che firma una straordinaria formula anti-ossidante. Le antocianine, infatti, hanno la capacità di impedire la diffusione dei radicali liberi (ossidanti) prodotti dal metabolismo
cellulare. Il tutto, si traduce in attività anti-tu- che le melanzane siano bio, basta ridurre la bucmorale e protettiva degli organi, primo fra tut- cia in striscioline da friggere o da mescolare a
ti l’apparato vascolare, a cui aggiungere la pre- capperi, olive e cipolle per un’originale caponavenzione della fragilità capillare e perfino la ri- ta anti-spreco. Al contrario, la patata vitelotte
duzione dell’accumulo di acidi grassi saturi nel- sfoggia un bellissimo colore viola dentro e fuole zone a rischio. Più ribes e ciliegie, meno pan- ri, che si traduce in chips e puré dai toni dark.
cetta e rotolini sui fianchi.
Il viola abbraccia l’intero ventaglio dei frutti
Con queste premesse, impossibile ignorare di bosco, bacche comprese, dalle more al samgli spruzzi di viola che colorano gli orti di pri- buco, passando per fragole e mirtilli. Sono loro
mavera, in una lunghissima scia cominciata col a tingere di porpora macedonie e succhi di frutcavolo cappuccio, figlio del tardo inverno, e ta, yogurt e crostate, torte e budini. Il fascino del
pronta ad allungarsi fino all’autunno, grazie a colore, il gusto dolcemente acidulo e la millenafichi e uva (rossa di nome, viola di fatto). Certo, ria fama di salubrità li rendono irresistibili. Un
non è tutto viola quel che riluce di bluastro. La mix virtuoso che il settore agricolo declina in
melanzana, per esempio, una volta svestita del coltivazioni seriali (spesso in serra). Per ovviasuo abito da sera esibisce una polpa pallida re alla perdita di naturalità, regalatevi una giorquanto la carnagione lunare di certe modelle nata tra boschi e giardini botanici. Vietato puorientali. In questo caso, per evitare che le be- lirsi le mani sulla maglietta.
nefiche antocianine vadano perdute, e a patto
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FICHI RIPIENI CON FORMAGGIO DI CAPRA E BARBABIETOLA
L’iniziativa
Una tavolozza di colori — viola
in primis, grazie alle migliaia
di bottiglie di vino rosso
in passerella — nel weekend
di Cantine Aperte, con oltre
settecento aziende coinvolte.
In Puglia, la tre giorni del vino
è collegata al progetto
di salvaguardia degli ulivi
secolari minacciati dalla xylella
La ricetta
Linguine all’estratto di cavolo rosso
cotte con caviale di aringa
INGREDIENTI:
320 G. DI LINGUINE ARTIGIANALI
800 G. DI CAVOLO ROSSO CENTRIFUGATO
160 G. DI CREMA DI BURRATA
120 G. DI ARINGA AFFUMICATA TAGLIATA A FETTINE SOTTILI
30 G. DI PINOLI
40 G. DI CRESCIONE (FOGLIE PICCOLE)
CAVIALE QB
Il libro
Prima edizione italiana
per “Where chefs eat”,
la guida pubblicata da Phaidon
Ippocampo che raccoglie
le indicazioni gastronomiche
di seicento tra i migliori cuochi
del mondo. Da Ferran Adrià
a Massimo Bottura, un giro
del mondo tra caffè e ristoranti,
pasticcerie e street food
F
rullare delicatamente la burrata, in modo da ottenere una crema densa e profumata.
Quindi, tostare i pinoli in forno a una temperature di 180° per dieci minuti circa.
Nel frattempo cuocere la pasta in acqua salata e a metà
cottura scolarla. Finire la cottura nell’estratto di cavolo,
quindi mantecare con olio extravergine di oliva e
infine aggiungere l’aringa affumicata tagliata a
fettine sottili.
A questo punto disporre sul piatto la crema di burrata a appoggiarvi sopra la pasta. Per guarnire il
tutto, decorare con i pinoli, il caviale e le fogliette di crescione.
LO CHEF
IL NAPOLETANO
ANDREA APREA
GUIDA LA CUCINA
STELLATA
DEL “VUN”,
IL RISTORANTE
DELL’HOTEL PARK
HYATT DI MILANO,
OFFRENDO PIATTI
SEMPLICI E PIENI
DI GUSTO, COME
IN QUESTA
RICETTA IDEATA
PER REPUBBLICA
INVOLTINI DI CAVOLO CON CASTAGNE E LENTICCHIE
Repubblica Nazionale 2015-05-31
la Repubblica
DOMENICA 31 MAGGIO 2015
8
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La gamma
dei paonazzi
dal Medioevo
a mia figlia
piatti
MASSIMO MONTANARI
V
Prugna
Asparago
Cavolo
Carciofo
Melanzana
Patata
Fresca o secca, la regina
delle antocianine vanta
una messe di qualità
nutrizionali a cui
si aggiungono le fibre
amiche dell’intestino.
Ideale per crostate
e clafoutis
INSALATA DI ZUCCA E CAVOLO VIOLA
Foglie lucide e carnose,
vitamine, minerali
(ferro e fosforo in primis),
ma anche decine di sostanze
antiossidanti. Tagliato
sottile, crudo,
in insalata,
con mele e noci
Potassio e fibre in quantità
nella solanum melogena,
condannata alla cottura
come la patata per dimezzare
il contenuto di solanina.
Tra le tante ricette
sfiziose, spicca
la caponata
Campione della biodiversità,
il Violetto coltivato
nella piana d’Albenga
ha consistenza morbida
e setosa. Si cuoce al vapore,
per poi intingerlo
nell’extravergine
di oliva Taggiasca
Dai germogli (le castraùre
di Sant’Erasmo, Venezia)
alle mammarelle
di Castellammare, Napoli,
i carciofi dalle proprietà
diuretiche si esaltano
sia sott’olio
che alla brace
Originaria del Perù
— dove sono catalogati
migliaia di fenotipi diversi
di tuberi — la Vitelotte
e le sue sorelle trovano
terreno d’elezione
nell’alta valle Belbo.
Squisita in purè
IOLA È MIA FIGLIA, e
quando le diedi questo
nome non pensavo a un
fiore né a uno
strumento, ma a un
colore. Non so perché. Non era neppure
uno dei miei colori preferiti. Da allora,
però, lo è diventato. Vedi la forza degli
affetti… Da medievista che si occupa di
cibo, il colore viola l’ho incontrato
spesso. Viola è il colore delle
melanzane, che arrivarono da noi
proprio nel Medioevo, portate dagli
arabi. Viola sono le rape, grande risorsa
del contadino medievale, degna di
figurare fra i prodotti-simbolo che
appaiono nelle serie dei Mesi, i
calendari miniati, scolpiti, affrescati
che in molte chiese romaniche
rappresentano i momenti clou
dell’annata agricola: un contadino
barbuto ha appena estratto dal terreno
una rapa di dimensioni gigantesche,
nel Novembre di Benedetto Antelami
che si può ammirare all’interno del
Battistero di Parma. Viola sono molti
frutti di bosco, di cui si cibano gli
eremiti propugnando diete di grande
sobrietà (Colombano, una volta, diede
prova di santità convincendo un orso a
dividere equamente i mirtilli con lui).
Le stesse carote nel Medioevo virano
preferibilmente al viola (o al rosso, o al
giallo) distanziandosi dall’arancio che
fu una tardiva invenzione degli
orticoltori olandesi per compiacere la
famiglia regnante degli Orange.
In cucina e a tavola, sono soprattutto le
salse a richiamare i colori. La cultura
gastronomica medievale ha un vero
culto dei colori, che servono al cuoco sia
come artificio pittorico (colorare di
giallo, di bianco, di verde, di azzurro o
di nero una vivanda è un modo per fare
spettacolo, per gratificare gli occhi
prima del palato) sia come strategia
dietetica: le salse accompagnano carni
e pesci anche per “correggere” le
qualità nutrizionali dei prodotti,
armonizzandole ed equilibrandole con
sostanze che abbiano proprietà diverse
e complementari. La gamma dei viola e
dei “paonazzi” è anch’essa
assiduamente frequentata. Prendiamo
il ricettario di Maestro Martino, il più
celebre cuoco italiano del
quindicesimo secolo: vi troveremo
salse (o “sapori”, secondo la
terminologia del tempo) a base di
carote, di ciliegie, di corniole, di
prugne, di more, di uva nera, di
visciole. I colori viola, violacei, violetti
evidentemente piacevano ai principi
e ai signori del Medioevo almeno
quanto a me.
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Carota
FRULLATO DI LAMPONI E MIRTILLI
In arrivo da Afghanistan
ed Egitto, ha perso il colore
viola per diventare arancione
nel Settecento, grazie
agli agronomi olandesi.
La torta è perfetta
per colazioni
e merende
Mirtillo
Le bacche di Vaccinium
myrtillus — selvatiche
o coltivate — assommano
gusto acidulo e virtù
protettrici di capillari e vie
urinarie. Se ne fanno
magnifiche
confetture
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la Repubblica
LA DOMENICA
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L’incontro. Lottatrici
NEGLI ANNI
SETTANTA A NEW
YORK IL VILLAGE
VANGUARD
DIVENTÒ
LA MIA CHIESA.
IL MIO MOTTO ERA:
NON VADO A MESSA
LA DOMENICA, VADO
AL VANGUARD
IL LUNEDÌ
CANTAI “BYE BYE
BLACKBIRD”.
MI PRESERO SUBITO
”Quando avevo sette anni riunii la mia famiglia e dissi solennemente: voglio fare la cantante jazz, voglio andarmene a Parigi e voglio
diventare una star”. Oggi che ne ha compiuti sessantacinque e che
ha duettato con i più grandi (Sonny Rollins, Dexter Gordon, Ray
Charles...), ha vinto tre Grammy, ha avuto tre mariti e ha un nuovo
(bellissimo) disco in uscita, può dirsi soddisfatta: “Sì, sono una donna serena e realizzata, ma sono
compagnò anche Dinah Washington in più di una occasione. Ho dei ricordi fandi me e mia madre che gli correvamo dietro per tener sotto controllo le
sue scappatelle». A Parigi ci sarebbe finita davvero, molti anni dopo, da star. Prianche molto arrabbiata: bisogna tastici
ma ci sarebbero stati l’università, la fuga dal Michigan e il precoce matrimonio
con Cecil Bridgewater, trombettista, come quel padre casanova che lasciava
sole le donne di casa. «Nei primi anni Settanta ero già una pasionaria del
fare una enorme fatica per farsi troppo
jazz», ricorda. «Mi trasferii con Cecil a New York. Il Village Vanguard diventò la
mia chiesa, il mio motto era: non vado a messa la domenica, vado al Vanguard il
Presi il coraggio a quattro mani e dissi a Mel Lewis: senti, io sono molto
strada in un ambiente così ma- lunedì.
meglio della cantante che avete. Il lunedì successivo mi convocarono per un’audizione al Village Vanguard, cantai Bye Bye Blackbird e Everyday I Have the
. Fui scritturata all’istante dalla band di Thad Jones e Mel Lewis». A quel
cho business e razzista. Quanto Blues
punto persino il rifiuto subìto dalla Motown a sedici anni le sembrò una storia remota e irrilevante paragonata al percorso entusiasmante che stava intraprendendo con artisti come Sonny Rollins, Dexter Gordon, Max Roach, Nat Adderagli uomini, giuro mai più”
ley Jr., Horace Silver e Stanley Clarke mentre si preparava a incidere il suo pri-
Dee Dee
Bridgewater
GIUSEPPE VIDETTI
ISTANBUL
I
L TEATRO È VUOTO, I MUSICISTI RIUNITI SUL PALCO. È l’ora delle prove, pomeriggio
prima del concerto. «Non perdete il controllo. MAI! Se lo fate siete fottuti,
lo spettacolo è fottuto, la serata è fottuta». È il boss che parla, una lady di
ferro. Testa rasata a zero, sessantacinque anni appena compiuti, ancora
molto sexy, Dee Dee Bridgewater ha attraversato quasi mezzo secolo di
jazz; sa che tra poco la Volkswagen Arena di Istanbul si riempirà di tremila persone che penderanno dalle sue labbra. Niente errori alla sua età e con la sua reputazione. Si avvicina, strizza l’occhio: «Ho imparato la lezione a vent’anni da
Betty Carter, il mio idolo», mi bisbiglia all’orecchio. «Al Village Vanguard di New
York ero la sua ombra. Non mi permetteva di assistere alle prove, ma io sbirciavo. Ero affascinata da come gestiva i suoi affari, un’artista indie ante litteram:
produceva i suoi dischi, aveva la sua etichetta. Ho sempre voluto essere come lei,
libera e rispettata». Torna tra i suoi musicisti, e a quel punto sono solo abbracci
e strette di mano e occhiate d’intesa. La tensione si scioglie come miele nel latte
caldo quando Dee Dee prova per intero una sola canzone, The Music Is the Magic di Abbey Lincoln («La Billie Holiday della nostra generazione»). Non ancora
concerto ma già sublime: «La musica è la magia di un mondo sacro/ un mondo
che è sempre dentro di noi» ripete con un impareggiabile, elegante, sensuoso
fraseggio. È una delle canzoni in programma, insieme alle perle del nuovo
Dee Dee’s Feathers (Ed. Okeh/Sony), l’album dedicato a New Orleans e realizzato con l’orchestra del giovane Irvin Mayfield, band
leader con due Grammy alle spalle che ha perso il padre durante Katrina. «È stata un’esperienza molto toccante», racconta Dee Dee, «abbiamo inciso all’Esplanade, una vecchia
chiesa distrutta dall’uragano riadattato a studio di registrazione, un posto magico». Dee Dee’s Feathers, al quale hanno
collaborato Dr. John e Harry Connick Jr., è il disco che la riconcilia con gli Usa dopo tanti anni trascorsi in Francia. Ora
ALL’EPOCA ERA MOLTO IN VOGA IL COUCH CASTING.
IL VICEPRESIDENTE DI UNA MULTINAZIONALE MI INVITÒ
NEL SUO UFFICIO, C’ERANO LE FOTO DI MOGLIE E FIGLI
MI CHIESE: “VUOI DIVENTARE LA MIA AMANTE?” IO:
MA LEI È SPOSATO. E LUI: “INFATTI, HO DETTO AMANTE!”
vive a Los Angeles, ha due nipotini dalla figlia maggiore Tulani e collabora con China Moses, avuta dal secondo marito (Gabriel Durand,
nato dal matrimonio parigino, l’accompagna spesso alla chitarra).
«Mia madre mi ha confidato che a sette anni riunii la famiglia e dissi solennemente: “Voglio fare la cantante jazz, voglio trasferirmi a Parigi e voglio diventare una star internazionale”. Pare che il sogno si
sia avverato», racconta rilassandosi nel camerino dove già incominciano ad arrivare mazzi di fiori (Istanbul è un tripudio di colori per l’annuale Festival dei tulipani). I suoi non si stupirono più di tanto, il jazz
era di casa. «Mio padre, un uomo bellissimo, suonava la tromba, ac-
mo album, Afro Blue (1974), oggi un cult per i jazzofili.
Nonostante i tentativi di affermarsi con canzoni più commerciali, il destino di
Dee Dee era scritto nel grande libro del jazz. A vent’anni aveva chiaro in mente
quello che avrebbe voluto essere: intensa come Nina Simone, accattivante come Johnny Mathis, militante come Harry Belafonte, esplosiva come Nancy Wilson, indipendente come Betty Carter, sensuale come Diahann Carroll e Lena
Horne. Troppe virtù in una sola cantante. Il mondo della musica era un macho
business, e lei non era ancora la lady di ferro, nonostante il Tony Award avuto
nel 1975 per il suo exploit in The Wiz a Broadway (i tre Grammy sarebbero arrivati a partire dagli anni Novanta con i tributi a Ella Fitzgerald e Billie Holiday).
«All’epoca era molto in voga il couch casting; vale a dire che qualsiasi produttore provava a stenderti sul divano prima di darti la parte. Mi ero appena trasferita a Los Angeles quando ebbi un incontro con il vicepresidente di una multinazionale. Mi invitò nel suo ufficio — Dio, non lo dimenticherò mai! — le foto della
moglie e dei figli sparse ovunque, sulla scrivania e sulle pareti. A brutto muso mi
chiese: vuoi diventare la mia amante? Io imbarazzata: ma lei è sposato. E lui: infatti, ho detto amante! Rifiutai e l’album fu archiviato. A casa l’atmosfera non
era migliore. Gilbert Moses, mio marito, un regista famoso e psicologicamente
violento nei miei confronti, mi teneva lontana dalle scene in maniera umiliante.
Fu per togliermi quel giogo dal collo che rifugiai in Europa». L’occasione fu l’ingaggio nel musical Sophisticated Ladies e, successivamente, in Lady Day, spettacolo dedicato a Billie Holiday che le riaprì le porte della discografia. «Avevo un
debito nei confronti di Billie. La prima volta che l’ascoltai dissi, non sa cantare,
non ha l’estensione di Ella, di Sarah Vaughan o di Carmen McRae. Poi lessi l’autobiografia: fu la sua vita a parlarmi. Cominciai in maniera maniacale a scovare
similitudini: lei violentata, io violentata; lei abusata dalle suore in una scuola cattolica, io anche; lei sfruttata dagli uomini, io irrimediabilmente attratta da…
gangster e papponi», confessa con una smorfia di disgusto. «Quale altra donna
avrebbe insistito a cantare una protesta violenta come Strange Fruit in un periodo così terribile per gli afroamericani, quando il razzismo era così spietato da
vietarci l’ingresso dalla porta principale? Dopo Strange Fruit cominciò a essere
QUANDO PENSI ALLLA VITA DI BILLIE
HOLIDAY NON TI MERAVIGLI DEI FATTI
DI CLEVELAND. ORA CON UN PRESIDENTE
AFROAMERICANO IL PARTITO
REPUBBLICANO HA GETTATO LA MASCHERA
perseguitata dalla polizia, fu bandita dai night club di New York. Non fu solo l’eroina a distruggerla, ammesso che sia stata morte naturale e non un complotto
come molti musicisti che lavorarono con lei mi hanno fatto intendere». Scoppia a piangere, singhiozza come una bambina. «Sono arrabbiata, molto arrabbiata. Quando pensi alla sua vita, a quella di tanti altri afroamericani
non ti meravigli di quel che è successo a Cleveland. Il razzismo non è mai
finito. Ora che abbiamo un presidente afroamericano il partito repubblicano ha buttato giù la maschera e si è rivelato per
quello che è, spudoratamente razzista».
Restò in Europa perché in America non c’erano parti in teatro per attrici e cantanti di colore. «E per amore», confessa. «A Parigi incontrai l’uomo che sarebbe diventato il mio terzo
e ultimo marito, il produttore Jean-Marie Durand. Lasciai Parigi dopo vent’anni, nel 2007,
quando cominciai a sentire anche lì puzza di razzismo. I critici fecero a pezzi J’ai deux amours, il mio disco francese, salvo poi portare alle stelle Diana Krall. Solo dopo l’uscita di Red Earth — l’album realizzato in Mali alla ricerca delle mie radici — ho avuto la rivincita. Ma a quel punto l’amore
non c’era più e io ero pronta a tornare in patria». Neanche Parigi è
riuscita a tenerla al riparo dal machismo del music business. Truffata da «un manager che si rivelò un aspide», non ebbe una lira dalle vendite milionarie di Till the Next Somewhere, il duetto inciso
con Ray Charles nel 1989. «La vicenda finì in tribunale. Negli anni del processo solo Ray cercò di confortarmi. “Ricorda, ci saranno centinaia di manager, ma c’è una sola Dee Dee Bridgewater”, mi disse. “Appartieni al pubblico, è per lui che devi restare la numero uno, e avrai una carriera per tutta la vita. Ed eccomi qui, a un punto dove non avrei mai creduto di arrivare.
Serena, realizzata e senza marito. Uomini? Giuro, mai più».
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