la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 31 MAGGIO 2015 NUMERO 534 Cult DISEGNO DI GIPI PER “LA REPUBBLICA” La copertina. Perché dobbiamo uccidere gli eroi Straparlando. Alvise Zorzi, “Vivo a Jurassic Park” Mondovisioni. Sopra lo stadio di Berlino Scene da un matrimonio Alessia e Chiara si sono sposate Anzi no, registrate C’era anche il loro bebé Siamo andati a trovarle a casa per tentare di capire che diavolo di famiglia è questa FRANCESCO MERLO ROMA D’ da uomo perché due mamme, diciamo la verità, confonderebbero chiunque. Lo dico sorridendo a Chiara e ad Alessia che, come risposta, si mettono a giocare a mamma e papà. «Io», dice Chiara, «faccio il bucato». «Ma solo perché ti piace la lavatrice» le risponde Alessia. E «io invece cucino» incalza Alessia. «Ma solo perché sai che mangeresti malissimo» replica Chiara. Da lì il gioco arriva al carattere «più posato» di Chiara e a quello «più agitato» di Alessia, e poi si disputano la grazia femminile e la forza maschile, la malinconia e il coraggio, l’ironia e l’intelligenza. «Due mamme in casa suonano una musica speciale» concludono con allegria mentre il bimbo che sta in braccio all’una si allunga per andare in braccio all’altra. Siamo nel soggiorno della loro casa, ottanta metri quadri, ai margini del quartiere San Giovanni, e io che mi aspettavo la militanza e ne temevo la retorica trovo invece, insieme alla normale fatica quotidiana di mandare avanti la famiglia, persino l’ironia sulle canzoni e sui proverbi da rifare, da “mamme, mormora la bambina” a “di mamme ce n’è due sole”. ISTINTO CERCO IN LORO QUALCHE VIRTÙ >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI GIOVANNA VITALE Il reportage. Nel Kurdistan iracheno, l’ultimo rifugio La storia. L’uomo che cinquecento anni fa inventò il corsivo Spettacoli. “Meglio vecchio che morto”, il dopo Cannes di Michael Caine L’incontro. Dee Dee Bridgewater: “Odio il macho business razzista americano” Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 MAGGIO 2015 28 La copertina. Oggi (quasi) sposi L’album di una giornata particolare, il racconto di una storia d’amore e una legge che non c’è.“Ma all’anagrafe l’impiegata ci ha detto: che bella famiglia” <SEGUE DALLA COPERTINA FRANCESCO MERLO E QUANDO DI NOTTE avrà paura, quando starà male, chi chiamerà Levon gridando «mamma»? E dunque parliamo dell’amore per un figlio che «è spontaneo come il respiro» e dei ruoli che invece non sono “naturali”: «sicuramente non dipendono dal sesso». E come la mettiamo con Enea? Invece del vecchio Anchise farebbe accomodare sulle spalle entrambe le sue mamme? «Le nuove famiglie», mi dice Chiara, «piacerebbero moltissimo a Freud, e non solo quella omosessuale. Pensa a cosa gli verrebbe in mente dinanzi a una foto di famiglia dove due sono figli di lei, altri due sono figli di lui, il quinto è il figlio di entrambi, il sesto è figlio dell’ex compagno di lei e il settimo è il figlio dell’ex compagna di lui. Altro che ruoli fissati dalla natura. Non solo paternità e maternità sono fatte di esperienze e non di seme, ma anche per diventare fratello e sorella non basta l’acido desossiribonucleico, ma bisogna cercarsi e costruirsi. Sono sicura che Freud si metterebbe a riscrivere tutto». E allora proviamo noi a riscrivere la history che, a poco a poco, diventa herstory: Edipo uccide la madre, Elettra la adora e Gesù sulla croce la rimprovera, “Madre, perché mi hai abbandonato?”. E infine c’è l’omosessuale Aldo Busi con il suo Manuale del perfetto papà riassunto così nella quarta di copertina: “Io non rimpiango di avere avuto il padre che ho avuto: io rimpiango di averne avuto uno”. Voi rimpiangete di avere avuto un padre? «No». Non è vero che sono tutti bestioni furibondi e perennemente estenuati? «Non è vero. Come canta John Lennon: “Close your eyes / Have no fear / The monster’s gone/ He’s on the run /and your daddy’s here. Chiudi i tuoi occhi, non aver paura, il mostro se n’è andato / sta scappando via / e il tuo papà è qui”». Chiara è la mamma biologica. «Alessia è risultata meno fertile. Ma il figlio è tanto suo Di mamme ce n’è due sole quanto mio, lei è al tempo stesso Geppetto e la Fatina di Pinocchio, è la maternità cercata e costruita con la volontà dei propri atti». Il bimbo porta il nome del nonno armeno di Alessia, Levon, «un nomade per necessità e per destino, un nomade alla Attali, che per proteggere la sua civiltà esausta e marginale chiese all’orfanotrofio di Stupinigi, provincia di Torino, una ragazza armena da sposare e gli diedero Eranig, mia nonna. Eranig e Levon finirono a Roma dove la loro figlia, mia madre, sposò un trasteverino: mio padre». In italiano Levon sarebbe Leone. Solo per un felice caso Levon è il titolo di una canzone di Elton John ed è il nome del suo bimbo, figlio di due padri. Il padre di Alessia, che è venuto in Campidoglio, faceva il «portalettere nel quartiere Trieste a Roma». Quello di Chiara, che vive a Palermo, è un ingegnere in pensione che insegnava all’istituto tecnico. Alessia fa la copywriter e scrive sceneggiature per la tv. Chiara fa l’aiuto regista che «non è l’aspirante regista o la quasi regista, ma è un lavoro in sé». C’è un libretto, raro e prezioso, scritto da Aldo Buzzi e illustrato da Bruno Munari (Ponte delle Grazie, 2007) che racconta i tantissimi compiti dell’aiuto regista: i colori, gli oggetti di scena, la biancheria, una lampada che non è accesa, una bandiera che si è mossa, il profilo di una montagna… «sino alla luce lunare che è il buio come lo vedono i gatti, un buio cioè dove l’azione non sparisce, non si interrompe». Alessia e Chiara, che sono due quarantenni, si sono conosciute a Roma, nella terrazza dell’hotel Diana, sei anni fa. Stanno insieme da cinque, «e insieme abbiamo concepito il bimbo». Ma un primo tentativo a Copenaghen — clinica Vitanuova — è andato male. L’inseminazione intrauterina costò settecento euro e la fecondazione in vitro tremila. Dopo cinque mesi ci hanno riprovato a Siviglia: cinquemilacinquecento euro con lo sconto per gli italiani. E la gravidanza, malgrado un inizio traballante, «è stata bellissima, per nove mesi mi sono sentita un animale felice». Il parto all’ospedale Cristo Re è stato un cesareo d’emergenza. «Poi ho provato ad allattarlo, ma purtroppo non ne avevo abbastanza». Ogni volta che poteva, Alessia pagava con bonifici a suo nome «per lasciare tracce». E ha firmato tanti documenti: «Ho pure riempito di carte private gli avvocati e i notai». Ma «per la legge italiana Levon ha un solo genitore: Chiara». Dice Chiara: «I diritti di tutti e tre sono dimezzati. E per noi mamme sono dimezzati anche i doveri». Alessia a Chiara: «Se io ti tradissi e me ne andassi via, nessuno potrebbe costringermi a prendermi cura di Levon». Chiara ad Alessia: «E se a me dovesse capitare qualcosa, il nostro Levon sarebbe considerato un orfano adottabile». Di nuovo Alessia: «Se Chiara non volesse più vedermi, potrebbe impedirmi qualsiasi contatto con mio figlio». Quando le due mamme sono andate all’anagrafe per ottenere la carta di identità del bimbo, che compirà un anno il 27 agosto, la signora ha chiesto: «Valida per l’espatrio?». «Certo» hanno risposo in coro. «Allora qui ci vuole il papà». «Ma non c’è». «E fatelo venire» le ha replicato la signora con un tono definitivo. «Non c’è perché questo è un bimbo con due mamme» le ha detto Alessia fissandola con i suoi occhi celesti. E allora, è successo quello che non ti aspetti: «La signora dell’anagrafe ci ha guardate con un’espressione smarrita, ha preso un po’ di tempo per capire, poi ha esclamato: “che bello!”. Ed è diventata come una sorella, ci ha aiutato, ha solidarizzato, alla fine sembrava un’attivista dei diritti dei gay». Forse, insinuo, quell’eccesso di solidarietà nasconde il turbamento? «Può darsi. Ma è successa la stessa Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica DOMENICA 31 MAGGIO 2015 cosa con la commessa del negozio di scarpe, che ci ha chiesto delle leggi e si è pure indignata perché non ci permettono di sposarci, proprio come nei Promessi Sposi». E al consultorio di via Denina, «al corso di preparazione del parto, dove io e Alessia siamo andate insieme, nessuna delle donne in gravidanza ha mostrato il minimo turbamento. Insomma, gli italiani sono molto più avanti delle leggi dello Stato. E lasciamo stare la Chiesa che evidentemente non è in sintonia con la sua Roma». Chiara e Alessia erano le più semplici tra le diciassette coppie, non solo omosessuali, che il 21 maggio sono state registrate nella sala della Protomoteca carica di secoli dove Roma, direbbe Trilussa, fa er defilé/ taratuzun teté. Si capisce che gli omosessuali si sentano affamati di tradizioni, e «certo il Campidoglio è per noi un territorio mentale». Ma Chiara e Alessia non hanno esibito né cappellini né abiti barocchi: «I fiori d’arancio, i confetti e il riso avrebbero reso grottesca una cerimonia che è stata politicamente importante ma non è stata un matrimonio. Quello ci è vietato» . Dice Alessia: «Mi dispiace che persone come Aldo Busi, Paolo Poli e Franco Zeffirelli siano così sprezzanti. Delle idee di Dolce e Gabbana invece non mi importa nulla. Ma non mi sembra giusto che si usino orribili espressioni dispregiative come “figli sintetici”. E com’è possibile che Aldo Busi, che è un genio della parola, usi, per insultarci, l’espressione “utero in affitto”? Non gli piace “gestazione per altri”? E sono rimasta di sasso quando ho letto Pietro Citati che, sotto una foto di Oscar Wilde, ci invitava a restare “diversi”, per sempre accucciati tra i versi “dannati” di Baudelaire. Dice di non capire come mai gli omosessuali vogliano “diventare normali, comuni e banali, come tutti gli altri”. Nessuno è come tutti gli altri, non esiste il signor “tout le monde”, ma come si può non capire la voglia e il bisogno di essere trattati come tutti gli altri? Voglio decidere io se sposarmi oppure no». Chiara e Alessia sono figlie di genitori separati: «sappiamo bene che il matrimonio è un’istituzione in crisi e che bisogna sempre riconquistarsi per salvarsi, e a volte è necessario separarsi per liberarsi. Ho letto che Vittorio Feltri è favorevole al matrimonio tra gay ma ci rimprovera perché vogliamo commettere, dice, “i nostri stessi errori, visto che la famiglia è un nido di vipere”. Immagino che abbia figli, che si siano sposati e l’abbiano reso nonno. Che fa? Rimprovera pure loro o regala viperette ai nipotini?». Nel blog, che Alessia da qualche tempo non aggiorna più e che si chiama “Identity crash”, c’è un pensiero intitolato “One Day” dove anche il matrimonio gay diventa un’opera buffa, proprio quel matrimonio per il quale Alessia manifesta in piazza, si batte, spera e si dispera con una passione doppia rispetto a Cenerentola e a Lucia Mondella che avevano contro solo le sorellastre cattive la prima, e la seconda don Rodrigo e gli impedimenti dirimenti, ma non un divieto d’accesso, la violenza dell’esclusione per legge. Dunque, in quel pensiero da blog, Alessia indossa l’abito di cerimonia e «mano nella mano avanzeremo emozionate nella sala del Campidoglio / sotto gli sguardi umidi delle nostre famiglie / correremo trafelate verso il gate del nostro volo alle Maldive / la mattina ci spalmeremo la crema protettiva con amore / la sera ci controlleremo a vicenda l’eritema / una mattina lascerò il tubetto aperto sul lavandino / una sera lei mi guarderà con un sguardo diverso / i giorni tristi saranno più di quelli felici / capiremo che qualcosa si è spezzato / e sarà allora che mi ricorderò di quel professionista rassicurante/ che mi guardava dalla colonna di destra della mia pagina Facebook: Studio Caradonna, assi- stenza legale nella separazione e nel divorzio…». Alessia mi racconta i suoi primi desideri e «il primo grande amore a vent’anni… Non ho spiegato nulla neppure a mia madre che è molto religiosa, nessun coming out. Hanno capito, e non c’è stato niente da dire. Perché in Italia non ci sono grandi intellettuali che, come mio padre postino, dicano che l’omosessualità non è una diavoleria ma una variante naturale, una delle possibili maniere di vivere il sesso? E perché tutti gli omosessuali famosi di questo paese sono legati all’idea dell’amore rubato nei cortili e della sofferenza placata di nascosto, nel vizio? Forse è una questione anagrafica, forse è la vita che li ha resi così tortuosi…». Dunque non è stato matrimonio. Lo chiamano “registrimonio”: «È una brutta parola efficace» dice Chiara. Sicuramente è cacofonica, ma esprime pure, con una dolcezza ironica, «la tensione verso un valore negato, la nostra fatica di essere italiane». In Campidoglio Chiara e Alessia erano le più guardate, «ma solo perché avevamo in braccio Levon. Con lui sappiamo di essere sempre sotto la lente di ingrandimento». Hanno festeggiato, sette giorni dopo «perché Levon ha avuto la febbre», nel piccolo bar-ristorante vicino casa. Si chiama “Quei bravi ragazzi” ed è il loro “scendo giù a prendermi un caffè”, insomma un piccolo Mocambo per cinquanta invitati, «ma senza il cartoncino delle partecipazioni»: spritz e vino bianco. «Vale poco quel registrimonio e quel poco vale solo dentro il raccordo anulare. L’ho detta a Chiara: vado a Viterbo e mi rifaccio una vita senza di te». E però, anche se non c’è stato lo scambio degli anelli, il tocco delle mani, l’amabilità e l’allegria naturale erano sicuramente matrimoniali ed è vero che in casa di Alessia, Chiara e Levon la semplicità quasi anonima delle pareti e delle porte bianche, la libreria, il divano, i gatti Sid e Nancy «che abbiamo preso al “gattile” dello Spallanzani», e ancora la stanza di Levon «dove dorme la nonna, quando viene», e le pappe e l’albero su cui affaccia la finestra del soggiorno… insomma, ci sono tutti i presupposti della grazia benedetta da Dio. È una casa, canta John Lennon, “to grow old with me”. Esco da quella casa e penso che se avessi da affidare un bambino lo darei a loro. © RIPRODUZIONE RISERVATA 29 DALL’ALBUM DA SINISTRA IN SENSO ORARIO: CHIARA (CON OMBRELLO E INCINTA) E ALESSIA A UN GAY PRIDE; BACIO IL GIORNO DELLE “NOZZE” E A MONDELLO; E POI ROMA, AMSTERDAM E AL MARE CON IN BRACCIO IL FIGLIO LEVON. LA FOTO DI GRUPPO È STATA SCATTATA SULLA SCALINATA DEL CAMPIDOGLIO IL 21 MAGGIO, GIORNO DEL “REGISTRIMONIO”: AL CENTRO LE DUE MAMME CON FIGLIO, A SINISTRA LA MAMMA DI CHIARA E A DESTRA IL PAPÀ DI ALESSIA, TUTT’INTORNO AMICI E PARENTI. IL BIGLIETTO DI INVITO ALLA CERIMONIA È UNA NOSTRA ELABORAZIONE GRAFICA GIOVANNA VITALE ULTIMA, TRE GIORNI FA, È STATA ISCHIA. Empoli la prima, era il ’93, antesignana di un movimento civico che per rompere l’ignavia del parlamento nazionale ha impiegato più di vent’anni. Nel frattempo, alla spicciolata, fra ricorsi al Tar e scomuniche dei vescovi, centosessanta città italiane hanno istituito presso le rispettive anagrafi il registro delle unioni civili. Uno strumento che, in assenza di una legge specifica promessa comunque dal premier Renzi entro l’anno, riconosce alle coppie iscritte, gay ma anche etero, gli stessi diritti delle coppie sposate nella fruizione dei servizi comunali e delle relative agevolazioni: dalle case popolari alle graduatorie per gli asili nido. A patto però di dimostrare l’esistenza di una convivenza risalente nel tempo: almeno un anno, è stato per esempio stabilito a Roma, che è riuscita a coronare l’impresa inseguita fin dal 2007 soltanto quattro mesi fa. Festeggiata nella solennità della Protomoteca in Campidoglio con un Celebration Day per diciassette coppie: undici omosessuali, sei etero. Che poi è questa la vera novità: un uomo e una donna che anziché scegliere le nozze con rito civile o in chiesa hanno voluto suggellare il loro legame con un atto amministrativo per lo più simbolico. Ma altamente politico. Lo dice chiaro Imma Battaglia, consigliera di Sel e “madre” del registro romano: «Il fatto che la capitale d’Italia si sia finalmente decisa a compiere questo enorme passo in avanti è utile a fare pressione sul governo, rimasto drammaticamente indietro sul tema dei diritti. Noi non siamo scemi, siamo consapevoli che si tratta di un palliativo, che c’è bisogno di una norma nazionale», incalza l’attivista del movimento Lgbt, «ma proprio per questo il registro è importante. Per dire a Renzi: se ci sei batti un colpo... gay» scherza l’esponente vendoliana che si è anche battuta perché la cerimonia d’iscrizione fosse quanto di più simile al matrimonio civile, tant’è che per chi si registra nel nuovo albo sono stati messi a disposizione gli stessi luoghi: dalla Sala Rossa in Campidoglio all’ex chiesa sconsacrata di Caracalla, passando — previa prenotazione e canone di affitto — per alcuni degli scorci più suggestivi della città eterna. E pure la formula da recitare è stata studiata come una specie di calco. Facili infine le regole di accesso. La domanda di iscrizione si può compilare e presentare online: una volta ricevuta, l’anagrafe verifica in quindicitrenta giorni i requisiti della coppia, i cui nomi verranno poi pubblicati nell’Albo pretorio capitolino per otto giorni. Quindi, si fissa la data per l’iscrizione. Semplice anche “divorziare”: basta la richiesta di uno dei due. L’ È soltanto una nota sul registro © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 MAGGIO 2015 30 Il reportage. Sul confine Nel Kurdistan iracheno. Che dopo esodi infiniti oggi è diventato l’ultimo rifugio per chi deve abbandonare la Siria e l’Iraq Fugadall’Is MONIKA BULAJ ARBAT (KURDISTAN IRACHENO) Q ELLA SERA A ISTANBUL penso di aver sbagliato imbarco. L’aereo su cui mi trovo non può essere diretto in Iraq. A bordo ci sono donne di bellezza ed eleganza principesca, bambine in divise variopinte, regali lussuosamente infiocchettati, un’aria da festa contagiosa e leggera. E invece no, sono sul volo giusto. È la vigilia della festa di Novruz, il capodanno persiano, e sto assistendo al surreale rientro in patria dei migranti curdi dalla città del Bosforo. Di notte, il respiro dei neonati culla il nostro aereo in rotta verso la guerra. Come vent’anni fa nei Balcani, tutto, oggi in Medio Oriente, celebra l’intima vicinanza tra normalità e orrore. Per esempio. Laddove i monti Zagros sembrano ancora incerti se diventare o meno pianura, sospesi sulla smisurata distesa alluvionale del Tigri segnata da fosse comuni, violenze, popoli in fuga, orrori firmati Is e bombardamenti del governo di Baghdad sui suoi stessi civili intrappolati, eccoti la sorpresa di Sulaymaniyya, città dalle mille e una luce, Dubai dal volto umano, un’oasi di pace a un centinaio di chilometri dalla guerra. Sulaymaniyya dai marciapiedi ben fatti, dai parchi di raffinata bellezza, con i poeti in marmo su piedistalli — e i tassisti di un’onestà disarmante. In questa città a maggioranza curda nessuno chiude a chiave la porta di casa, nemmeno la notte. Non la chiudono neanche i medici e infermieri italiani di Emergency distaccati in questa regione dell’Iraq. È come se li sentissi tirare il fiato proprio qui, nel cuore di uno dei Paesi più infelici della Terra. È con loro che seguo i popoli in cerca di aiuto nella tempesta dell’estremismo islamista e la fuga degli arabi sunniti dalla loro stessa identità. Campi profughi per masse che nessuno riesce più a contare. Un milione? «Appaiono di qua e di là… sbucano dal nulla come portati dal vento, respinti da tutti». Per celebrare il Novruz, Faris il curdo, direttore del re- parto riabilitazione, suona il liuto con infinita dolcezza e dice: «Sì, noi curdi riceviamo i profughi arabi. Impensabile il contrario». Proprio la terra che ha sofferto più migrazioni — talmente tante da avere ben sette nomi per definire ciò che in Europa ne ha uno solo, “esodo” — è diventato l’ultimo rifugio del Medio Oriente per i civili iracheni e siriani in fuga. A Sulaymaniyya, nell’antica chiesa caldea dedicata alla Vergine Maria, in un vecchio quartiere di artigiani del sapone, trovo Miryam, sette anni, grandi occhi neri pieni ancora di meraviglia. I suoi vi hanno trovato rifugio dalla furia dell’Is. Sono i cristiani di Qaraqosh, simbolo stesso della complessità del Medio Oriente: curdi iracheni che non parlano curdo, ma pregano in arabo e parlano in aramaico. Qui sono un centinaio, insegnanti e medici, commercianti, artigiani, un veterinario. La donna che mi porta il tè con le mandorle tostate ha un fratello rapito dalle milizie dell’Is. In questa stessa chiesa è stata trasferita a suo tempo la comunità monastica siriana fondata nel 1984 a Deir Mar Musa da padre Paolo Dall’Oglio, rapito due anni fa e del quale non si hanno più notizie. Oggi è rimasto un solo monaco, padre Jens, tedesco dalla vita romanzesca, Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica L’AUTRICE LE IMMAGINI DEL CAMPO PROFUGHI DI ARBAT SONO UNO DEGLI ULTIMI LAVORI DI MONIKA BULAJ, FOTOGRAFA E REPORTER POLACCA. NELLA FOTO GRANDE, UNA DONNA IN CERCA DI RADICI COMMESTIBILI IN UNA PIETRAIA ATTORNO AL CAMPO. A DESTRA DALL’ALTO, PROFUGHI ARABI E YAZIDI IN ATTESA AL CENTRO MEDICO DI EMERGENCY; RAGAZZI CHE GIOCANO A PALLA; BAMBINI A SCUOLA. IN BASSO A SINISTRA, ANCORA ARABI E YAZIDI FIANCO A FIANCO figlio di un militare della Wehrmacht rimasto a Creta dopo la sconfitta nazista. L’anno scorso ha accolto a Sulaymaniyya un centinaio di profughi cristiani. Mi esorta: «Vai a trovare padre Jacques Mourad, priore del monastero di San Elia di Qaryatayn, in Siria. Jacques è convinto che padre Paolo sia ancora vivo». Jens non sa che di lì a poche settimane anche padre Mourad sarebbe stato rapito, subito dopo aver dato rifugio ad altri profughi cristiani, quelli in fuga dai combattimenti attorno a Palmira. Solo un tessuto verde separa la navata dalle stanze dei profughi. Padre Jens sposta il bucato dai banchi, mette al centro il Vangelo e siede scalzo con i bambini in cerchio, e tutti insieme pregano, per quelli che mancano, per coloro che hanno scelto la via della violenza, per gli stessi carnefici nel loro inferno. Quindici emigrati curdi sono arrivati al campo di Arbat, da Svezia, Inghilterra, Germania, tutti rientrati in patria per la festa del capodanno persiano, e per tre giorni si sono offerti di tagliare i capelli a centinaia di bambini, yazidi, arabi, curdi. Aiuto Maruyam, una bambina yazida, a portare l’acqua. Mi dice di non andare in una parte del campo: «Ci sono gli arabi. Sono senza Dio». E intanto tra gli arabi è giorno di lutto per la 31 FOTO DI MONIKA BULAJ DOMENICA 31 MAGGIO 2015 morte di Saba Nijiris, centoduenne capostipite della tribù Albuhishmah, grande madre dell’Iraq. Vedo cento uomini seduti in silenzio, figli di una cultura antica. A. mi prega di non scrivere il suo nome. È uno specialista delle fibre ottiche per conto di una ditta cinese, ha quattro figli e la vita ridotta a una tenda nel fango. Viene come quasi tutti gli arabi qui dalla provincia di Salah al din. «Non possiamo scappare nel sud, ci ucciderebbero, sia l’Is, sia il governo sciita. I curdi sono la nostra unica chance. Sono più tolleranti di noi arabi. Per loro conta la legge, non la religione o l’etnia, e se sono io a sbagliare è me che puniscono, non la mia famiglia. Il governo iracheno, invece, ucciderebbe tutta la mia tribù se una sola persona della mia famiglia avesse seguito l’Is». Piove a dirotto sulla terra dei Sumeri, il campo si trasforma in un fiume di fango, diventa Babele ma anche Diluvio. «Guarda — mi dice un uomo sotto una tenda — è la staffetta del destino, il cerchio che non si chiude, il tempo che non finisce». E mi racconta di settemila anni di lacrime di pentimento, le lacrime di un angelo infedele, quello degli yazidi. Lacrime che avrebbero potuto estinguere il fuoco dell’inferno. Qui le lacrime sono un oceano, l’inferno continua. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 MAGGIO 2015 32 La storia. Bei caratteri Il suo nome è sconosciuto ai più, oscurato per cinque secoli da quello di Manuzio Ora è arrivato il momento di ricordare al mondo chi fu Francesco Griffo MICHELE SMARGIASSI BOLOGNA E RA UN UOMO DI CARATTERE, questo è certo. Nel bene e nel male. Di- segnò i caratteri tipografici più belli del mondo. Ci deliziano gli occhi ancora oggi, quattro secoli dopo, e in tutto il pianeta si chiamano ancora come noi: italici. Ma il suo personale, di carattere, il suo temperamento umano, lo condusse al patibolo. E lo condannò a un lungo oblio: che sta per terminare. Francesco Griffo, designer del Rinascimento d’inchiostro, avrà in dono per il suo cinquecentesimo anniversario di morte, nel 2018, quel che gli è dovuto: un posto di prima fila nella storia dell’arte della stampa, al fianco di coloro che ne sfruttarono il lavoro, oscurandolo con la loro fama. A cominciare dal grandissimo Aldo Manuzio veneziano, padre dell’editoria mondiale, al cui identico anniversario New York ha appena dedicato una grande mostra. Lo avrà, un po’ per orgoglio civico un po’ per doveroso risarcimento, dalla città che gli diede sia la vita che la morte (e gli rubò il nome per secoli): Bologna, dove un mediologo innamorato di lui, Roberto Grandi, gli sta cucendo addosso un’intera “Grande festa delle lettere”, affidata a un comitato scientifico presieduto da Umberto Eco. Per il quale geniale che però, mezzo secolo dopo l’inGriffo fu molto di più che un eccellente sculvenzione di Gutenberg, ancora non esistetore di minuscole letterine di piombo, fu il va: il corsivo a stampa. Come dire: la calliprecursore dell’editoria di massa, l’uomo grafia degli umanisti nell’epoca della sua che rese tecnicamente possibili «quelle riproducibilità tecnica. Quelle letterine che per l’epoca erano le edizioni economideliziose, dolcemente inclinate verso deche, permettendo l’accesso ai classici anstra, sinuose e aggraziate (proprio come che a chi non poteva permettersi costosi queste che state scorrendo), oltre all’elevolumi in-folio». ganza sopraffina avevano infatti un preLo fece inventando una cosa semplice e L’uomo che creò il corsivo LA & COMMERCIALE TRA LE ALTRE COSE, INVENTANDO IL CORSIVO GRIFFO INVENTA ANCHE LA PRIMA “E” OGGI COSIDDETTA COMMERCIALE gio colossale: più compatte, facevano risparmiare tanta costosissima carta. I volumi rimpicciolivano: nacque così il tascabile, il libro che scende dagli scaffali e viaggia assieme al lettore nella sua bisaccia. Lo imitarono tutti, il geniale corsivo di Griffo. In tutta Europa, quel font rivoluzionario ebbe nome italique, italic, italico, in onore dell’italico genio tipografo — che però intanto perse il suo, di nome. Era orafo, figlio di Cesare orafo bolognese. Nel 1470 circa lo troviamo ventenne a Padova, già convertito all’industria emergente del secolo: la stamperia. Non si sa se sia stato Aldo Manuzio stesso ad avvistarlo: certo il grande imprenditore veneziano era straordinario nell’assoldare per la sua bottega, frequentata da un giovane Erasmo da Rotterdam, le migliori competenze in circolazione. E Venezia era la capitale mondiale del libro: in quegli anni, tra calli e canali si stampava un terzo dei libri pubblicati in Europa. Per le “Aldine”, Griffo cominciò a incidere dei “tondi” meravigliosi, nitidi e proporzionati, i migliori in circolazione. Era in corso una grande battaglia fra la tipografia nordi- ca e quella mediterranea, fra i caratteri gotici e quelli romani, che era poi una sfida fra Medioevo e Rinascimento. «Erano tutti convinti che la tipografia non potesse eguagliare la bellezza del libro manoscritto umanista», spiega lo storico della stampa Giorgio Montecchi, «ma Griffo vinse la sfida». Nel 1495 il De Aetna del Bembo stampato con le sue nitide letterine romane fece sensazione. Quattro anni dopo diede forma a quello che i bibliofili considerano l’incunabolo più bello mai stampato: l’eccentrico Hypnerotomachia Poliphili, adorato da Joyce. Manuzio era entusiasta del suo disegnatore, e ringraziò per iscritto, cosa rarissima, quel Franciscus Bononiensis nella prefazione alle Bucoliche di Virgilio, del 1501, che fu il primo libro al mondo stampato interamente in corsivo. E qui bisogna spiegare il modernissimo colpo di genio del nostro. Prendere una cosa antica e farne una novità assoluta. Reinventare tecnologicamente una tradizione. Colpire al cuore, con un prodotto “emozionale” ma avanzatissimo, una clientela in espansione. In questo caso, il target erano i nuovi lettori umanisti, laici, aristocratici e protoborghesi, un po’ annoiati dai codici bigotti, dalle Bibbie imponenti, dall’asfissiante letteratura liturgica, i conoscenti e dilettanti voraci di classici antichi e moderni che tante volte avevano manualmente trascritto nei loro quaderni... in corsivo. Ed ecco, questi librini più agili, meno pomposi, stampati sì, ma in un carattere, che quel corsivo imitava, L’INCUNABOLO NEL 1500, FRANCESCO GRIFFO DIEDE FORMA A QUELLO CHE I BIBLIOFILI CONSIDERANO L’INCUNABOLO PIÙ BELLO MAI STAMPATO: SI TRATTA DELL’ECCENTRICO “HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI”, ADORATO DA JOYCE Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica DOMENICA 31 MAGGIO 2015 33 La silenziosa voce delle font STEFANO BARTEZZAGHI CRIVERE, SI FA PRESTO A DIRE “SCRIVERE”. Ma scrivere come? Si può farlo a mano o con una macchina. Quando lo si fa a mano si può scegliere di far finta di scrivere a macchina, così come quando si usa una macchina si può oramai far quasi finta di scrivere a mano. Lo stampatello manuale imita la regolarità modulare della macchina. I caratteri sono diritti e ben staccati fra loro, come soldati impettiti in riga. Quando le macchine scrivono in corsivo, invece, è la macchina che imita la mano: caratteri inclinati, come staffettisti che partono di scatto per andare a offrire il testimone di un trattino a quello che lo segue. Del resto “corsivo” rimanda proprio alla corsa, allo scorrere e al discorrere della scrittura, che insegue da vicino il pensiero, non fa staccare mai la mano dal foglio, non cerca una classica stabilità ma insegue ghirigori casomai barocchi. Le macchine di scrittura odierne ci consentono una scelta un tempo impensabile di caratteri e di loro varianti, chiamate “font”. Nomi come “carattere” e “tipo” facilitano le analogie che la speculazione grafologica trova fra le inclinazioni del carattere scrittorio e quelle del carattere psicologico dello scrivente. Umberto Eco, che non ha mai dimenticato il suo passato di funzionario editoriale (e quello più remoto di discendente da una famiglia di tipografi), aggiunge anche l’accezione anglofona di «character» come personaggio di una narrazione, dando nomi di caratteri a personaggi e entità dei suoi romanzi: dal Baskerville de Il nome della rosa (che allude anche a Sherlock Holmes) alla Garamond de Il pendolo di Foucault fino a Braggadocio, cupo personaggio del recente Numero Zero. Il nome è quello di un bizzarro carattere, che risale all’Art Déco. Anche il cognome del narratore, Colonna, ha a che fare con la tipografia e non soltanto perché la colonna è un’unità dell’impaginazione. A un controverso Francesco Colonna è attribuito quel capolavoro letterario e anche tipografico che è l’Hypnerotomachia Poliphili, stampato da Aldo Manuzio nel 1490, con i caratteri disegnati proprio da Francesco Griffo. Il recente Sei proprio il mio typo. La vita segreta delle font (Ponte alle Grazie, 2012) del divulgatore inglese Simon Garfield è un’eccellente (e spassosa) guida turistica per viaggiatori di pagine. La sostanza espressiva dei bianchi e dei neri, dei tratti rettilinei, delle curve e degli svolazzi è perlopiù inavvertita, almeno consapevolmente, dal lettore. Il suo occhio non si sofferma su questi più di quanto il cervello di un automobilista pensi ai pistoni: salta subito alla dimensione della parola, e del suo significato. Come per i pistoni, si notano solo i malfunzionamenti: una cattiva stampa, o anche una cattiva scelta di font, salta all’occhio e allora ci si accorge che una relazione fra testo e font esiste. Ci sono font “maschili” e font “femminili”, font autorevoli e font ironiche, ed è solo la sapienza di un grafico professionale che può assegnare a un testo il set di caratteri che meglio si adatta al carattere del testo medesimo. Che non faccia (se proprio non lo si desidera) l’effetto dell’Infinito di Giacomo Leopardi recitato dalla voce di Fantozzi, o della Vispa Teresa scandita da quella del presidente emerito Giorgio Napolitano. Non a caso proprio offrendo una varietà di font ai suoi clienti la Apple delle origini prese dei vantaggi su Microsoft. La font è infatti la voce, il timbro e l’inflessione del testo scritto, così come, sempre senza accorgercene, possiamo parlare in corsivo, in stampatello, in neretto e a volte facciamo sentire che pronunciamo certe parole con l’iniziale in maiuscolo. Ferdinand de Saussure pensava che la lettera e il suono siano presenti nella nostra mente in una forma indistinta e sinestetica, tra figura e suono. Quando si ascolta la voce delle font viene proprio da dargli postuma ragione. S LA PRIMA VOLTA NEL 1500 FRANCESCO GRIFFO SPERIMENTA PER LA PRIMA VOLTA IL CORSIVO IN UNA ILLUSTRAZIONE ALLE “EPISTOLE” DI SANTA CATERINA: “JESU DOLCE AMORE” che alludeva ancora al gesto della mano, che ammiccava a una relazione ancora intima, corporea tra il lettore e il “suo” testo... Griffo fece prima qualche esperimento. Prendendo a modello la scrittura cancelleresca della corte pontificia, aveva fuso nel 1500 un primo corsivetto ancora timido per collaudarlo discretamente nel cartiglio di un’illustrazione alle Epistole di santa Caterina: Jesu dolce amore... I primi italici stampati nel mondo recitano una preghierina soave. Sì, però Manuzio era anche una vecchia volpe, e in quegli anni la concorrenza era ferocissima, il mercato già inflazionato e infestato di falsari. Corse dunque subito negli appositi uffici della Serenissima a farsi assegnare, a suo nome, un privilegio, oggi diremmo un brevetto, sul nuovo carattere, monopolio aziendale. Diciamola tutta: ne aveva un po’ il merito, forse era stato lui stesso a suggerire l’idea al suo eccelso grafico. Ma se ha ragione Riccardo Olocco, il ricercatore che da qualche anno come un segugio è sulle tracce dei suoi caratteri, «Griffo forse era un libero professionista che lavorava per diversi editori, aveva uno studio di design, diremmo oggi», e dunque il buon Aldo si appropriò di qualcosa che non era tutto suo. E Griffo alla fine non la mandò giù, che il suo editore fosse, a suo discapito, «in grandissime ricchezze pervenuto e a nome immortale». Dopo dodici anni, ruppe con Manuzio. Fuggì lontano dalla Repubblica, per aggirare il copyright imposto sulla sua stessa creatura. Si rifugiò a Fano, assunto dallo stampatore ebreo Gershom Soncino che, felice di aver strappato una tal perla dalle mani del concorrente veneziano, gli riconobbe per iscritto la paternità del corsivo, accusando il Manuzio di essersi «astutamente dell’altrui penne adornato». Ma anche quella di cambiar padrone non era la vera ambizione del «discreto huomo maestro» Griffo. Voleva mettersi in proprio. Nel 1516 tornò nella sua Bologna. Si fece editore. Aveva un suo progetto commerciale: sfornare classici italiani e latini in edizioni popolari. Ne produsse una mezza dozzina (conservati alla biblioteca dell’Archiginnasio), piccolissimi, economici, compatti, grazie al suo ergonomico corsivo che intanto aveva raffinato. Purtroppo, esagerò. Scelse il minuscolo formato in trentaduesimo, piccolo e stretto, e per giunta si mise a stampare in corpo sei (quello che state leggendo è corpo 8.7). Ci volevano eccellenti diottrie. Non funzionò tanto. Chissà, forse l’amarezza per l’impresa zoppicante pesò sulla rabbia con cui nel 1518 affrontò, per ignoti dissidi familiari, il marito della figlia Caterina, tale Cristoforo, e lo ammazzò rompendogli la testa con un oggetto acuminato che qualche storico in vena romanzesca immagina fosse, cosa altrimenti?, un punzone tipografico. Tutto materiale narrativo eccellente, comunque, per gli allievi della Bottega Finzioni, il laboratorio di scrittura collettiva di Carlo Lucarelli e Michele Cogo che ha intenzione di produrre un ampio storytelling su Griffo (romanzo, graphic novel e sceneggiato televisivo): «Lo immaginiamo come un uomo istintivo, scottato, in cerca di rivalsa, ma anche un geniale artista che volle essere imprenditore di se stesso», scherza Cogo, «un po’ come noi...». Be’, per l’omicidio la condanna alla forca era inevitabile. Non abbiamo la prova che sia stata eseguita, ma sappiamo per certo che un documento notarile dell’anno successivo lo qualifica come già defunto. Requiescat dunque, genio collerico: la pena supplementare fu la damnatio nominis. Sì, perché tutti i suoi datori di lavoro o clienti che fossero, lo chiamavano solo “Francesco da Bologna”, il cognome si perse, e con quello la biografia. A lungo, chi provò a ricostruirla prese delle cantonate, come il bibliotecario Antonio Panizzi che identificò il bolognese in un pittore, Francesco Raibolini. Solo un secolo fa, finalmente, dalle carte di un archivio di Perugia, lo storico Adamo Rossi riesumò un contratto che nominava un “Griffo”, che forse era magari un Grifi o Griffi, come da sua firma autografa, chi lo sa, i cognomi allora erano ancora accessori volubili dell’identità. Ma certo, se il bolognese si perse, l’italico sua creatura (che gli spagnoli chiamano ancora letra grifa...) invece trionfò, dilagò. Oddio, qualcuno ora sostiene che invece fu un fallimento: perché di libri interamente stampati in corsivo non se ne fecero più. Eleganti quanto volete, ecologici magari, salvaspazio e salvacarta: ma suvvia, un po’ faticosi da leggere, alla lunga. Da assortimento autonomo di caratteri qual era, il corsivo diventò una semplice variante (il “colore”, dicono i vecchi tipografi) del carattere tondo. Da padrone del testo, il corsivo diventò l’accento particolare calcato su una certa parola della frase, una sottolineatura, un’enfasi del discorso. Ma in questa forma intertestuale, tuttavia, è arrivato fino a noi praticamente nella stessa forma in cui Francesco la intagliò. Sulla scia di un’affermazione del grande Firmin Didot, ammiratore di Griffo, gli storici sono ormai concordi nel riconoscere che il più fortunato set di caratteri della storia della tipografia, che porta il nome di Claude Garamond, non è che una ripresa delle font del nostro. E ancor oggi, dai campionari delle tipografie, dai menù a tendina dei nostri word processor, a volte perfino dagli schermi touch dei nostri smartphone, l’iracondo Francesco ci saluta con la sua italica mano felice, un po’ inclinata verso destra. © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-31 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 31 MAGGIO 2015 34 Spettacoli. Dopo Cannes IL RITRATTO FOTO ANDY GOTTS/CAMERA PRESS/CONTRASTO MICHAEL CAINE, 82 ANNI, NELL’ULTIMO FILM DI PAOLO SORRENTINO INTERPRETA IL RUOLO DI UN DIRETTORE D’ORCHESTRA IN PENSIONE. SCRITTA DALLO STESSO SORRENTINO È ORA IN LIBRERIA LA SCENEGGIATURA DEL FILM: “LA GIOVINEZZA” (RIZZOLI, 196 PAGINE, 17 EURO) Michael Caine La mia grande vecchiezza Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica DOMENICA 31 MAGGIO 2015 35 “È raro che a un attore della mia età si offra un ruolo da protagonista Sorrentino ha fatto di più. Mi ha detto: senza di lei Youthio non lo faccio” Intervista su premi mancati, anni che passano, film e grandi amori NATALIA ASPESI MILANO S E SEI NATO NEL 1933, L’ETÀ NON LA PUOI NASCONDERE; soprattutto se fai l’at- tore non puoi pensare di interpretare il giovanotto che fa perdere la testa alle giovani signore. Anche se poi nella realtà li conosciamo tutti i ricchi ottantenni con fidanzate e pupattole a pagamento men che trentenni. Comunque, dice Michael Caine, «meglio vecchio che morto, sia nella vita che nei film. E per quel che riguarda le donne, io ho da quarantatré anni una moglie bellissima, nessuna attrice giovane può eguagliarla. Il segreto del nostro matrimonio è che lei non ha il ruolo della donna all’ombra del divo, noi siamo una cosa sola e non ci lasciamo mai: lei viene sempre con me, dovunque mi porti il lavoro, così da decenni evito le eventuali tentazioni. Quando torno da lei ogni sera, mi sento molto fortunato». Chi ha visto Youth - La giovinezza, il film di Paolo Sorrentino, era sicuro che al Festival di Cannes lei avrebbe vinto il premio per il miglior attore. Credo che ci pensasse anche lei, e per questo poi si è eclissato in silenzio. «Era già successo, sempre a Cannes nel 1966, con Alfie: avevo trentatré anni, ero il protagonista nel ruolo di un proletario dalle facili conquiste, mi dicevano che ero il più bravo: invece niente, anche se almeno allora il film vinse la Palma d’oro. Però ci rimasi male e sono passati quarantanove anni prima di accettare di tornare al festival». Purtroppo anche questa volta inutilmente. Lei però di premi ne ha vinti tanti, compresi due Oscar per il miglior attore non protagonista, nel 1987 e nel 2000, per Anna e le sue sorelle di Woody Allen e per Le regole della casa del sidro di Lasse Hallström. «Ma nel film di Sorrentino sono tornato dopo tanti anni a un ruolo di protagonista, il che è molto raro per un uomo della mia età. È da tempo che mi assegnano personaggi secondari, per fortuna divertenti e anche in film di grandioso successo, come la trilogia di Batman diretta da quel geniale regista che è Christopher Nolan. Un giorno di dieci anni fa me lo trovai davanti alla porta della mia casa di campagna, non lo conoscevo, mi mise in mano uno script, ed era il suo primo Batman: mi disse, la parte del maggiordomo è tua. Devo dire «Il signore è servito?», gli risposi un po’ seccato. Invece è un ruolo molto bello, quello di una specie di padre protettivo nella vita dell’orfano Bruce Wayne. Da anni mi offrono ovviamente solo parti secondarie, e mai di amante, perciò non ho attorno ragazze: capita da quando ma anche in Sudafrica come nel 1964, con Zulu. «È stato il film che mi ha lanciato: ero giovane, mi arrivò una sceneggiatura e obiettai che la parte dell’innamorato mi pareva troppo breve. La ri- biondo e slanciato, molto british, e mi offrirono la sposta fu, “ma tu sei il padre!”. Mi sono abituato al- parte di un ufficiale britannico aristocratico: io la comodità di non essere il protagonista, il lavoro però parlavo cockney, la lingua del proletariato, e si sbriga in fretta, non devo alzarmi all’alba né gli inglesi avrebbero capito la differenza, ma il regista no, perché era americano, non poteva conostancarmi». Però ha accettato di essere la star del film di Sor- scere il nostro incancellabile classismo che si esprime soprattutto nel modo di parlare. Solo col rentino. «Io non sono una star, sono un attore, e conti- tempo ho imparato anche a fingere la pronuncia nuerò a esserlo fino a quando sentirò di dare il mio posh, che si adatta di più alla mania di usarmi comeglio. Dopo anni di interessanti, comodi piccoli me personaggio di alta classe; persino in un film ruoli, quando Sorrentino mi ha offerto una ma- come Vestito per uccidere, in cui Brian De Palma gnifica parte da protagonista, mi è sembrato di mi trasformò in uno psichiatra psicopatico, un kilringiovanire, anche se il personaggio è, come me, ler che per uccidere le donne si vestiva da donna. uno che ha superato gli ottant’anni. Mi ha detto: Pochi anni dopo ho lavorato anche con un regista “Questo film l’ho scritto per lei, se mi dice di no non italiano, Vittorio De Sica, un uomo molto simpatilo faccio”. Potevo impedirgli di girare quello che co, gentilissimo, con quella sua allegra napoletaper me, e mi pare anche per il pubblico, è un otti- nità, e andammo subito d’accordo». mo film? In inglese poi, e in un bel posto, dove mia Il film era Sette volte donna, sette storie intermoglie si è trovata benissimo e abbiamo avuto tutpretate da Shirley MacLaine allora all’apice to il tempo di stare insieme». della carriera, e lei aveva il ruolo di un investiLei conosceva il cinema di Sorrentino? gatore privato pasticcione. Quarantotto anni «Io faccio parte dell’Academy che assegna gli dopo lei è tornato a fidarsi di un regista italiaOscar: La grande bellezza l’ho visto e l’ho votato. no, Paolo Sorrentino. Sorrentino è un giovane geniale dalle immagini «Ho accettato anche perché non dovevo essere indimenticabili e soprattutto, come Nolan, scrive me stesso, in nessun film lo sono stato mai. Però lui la sua sceneggiatura, cioè è un autore, non so- potevo usare la mia età come un privilegio, addilo un regista. Dieci minuti dopo averla letta, ho su- rittura invecchiandomi un po’ ed esorcizzando bito detto di sì. Gli sono molto grato per il modo in quella malinconia, quel senso di inutilità che temo cui mi ha lasciato libero, e per la gentilezza dolcis- gli anni possano portare». sima con cui mi dava suggerimenti». Conosceva già Jane Fonda? Michael Caine è un uomo di ottantadue anni «Più di trent’anni fa siamo capitati nello stesso portati con ironica serenità, una figura alta e drit- film, California Suite, ma non abbiamo girato una ta, pochi capelli rimediati nel film da un parruc- sola scena insieme. La vedevo solo la sera a cena, chino biondo, sul viso quelle rughe che aveva an- con tutti gli altri. Era una donna molto bella e molche in passato, e che gli consentono di esprimere to simpatica. Lo è ancora oggi, ed è anche coragpensieri, emozioni, segreti, senza muovere un giosa. Per il film di Sorrentino, nelle scene con Harmuscolo: voce magnifica che noi non conosciamo vey Keitel, si è lasciata invecchiare, piena di rughe a causa del doppiaggio. Non è mai stato bello ma che non ha, lei che è famosa per l’impegno con cui sempre fascinoso, ovvio sognarsi la sua elegante riesce a non mostrare i suoi anni». perfidia dopo aver visto le due versioni di Sleuth. La giovinezza è girato in un bell’albergo svizNella prima versione, col titolo italiano Gli inzero trasformato in spa: lei frequenta questi sospettabili, quella del 1972, i due diabolici perluoghi, cerca di rallentare il tempo? sonaggi sono Laurence Olivier, il vecchio, e Mi«Relativamente sì, cammino molto, non bevo chael Caine, il giovane. In quella del 2007, lei è più mentre in passato bevevo anche troppo. Ma il vecchio e Jude Law il giovane. non vado nelle spa, non credo ai miracoli, lascio «Delle due versioni io preferisco la prima, ma che il tempo scorra naturalmente, anche perché non perché in quella ero ancora giovane, ma per- penso che nulla possa davvero rallentarlo: viveché la sceneggiatura era dell’autore della com- re alla giornata, con la fortuna di aver vicino dei media, Anthony Schaffer, e mi è sembrata più cat- grandi affetti e poter ancora lavorare, mi pare il tiva, da togliere il fiato. La seconda, che pure era miglior modo di vivere gli anni che restano. Nastata adattata da Harold Pinter, è forse troppo tec- turalmente con la fortuna di una buona salute: nologica e io non credo che le macchine possano nel 2008 in Is Anybody There? ho accettato il raggiungere la perfidia sofisticata degli umani». ruolo di un vecchio che si spegne nell’AlzheiDal 1950 a oggi, lei è scivolato impeccabile e mer, ispirandomi alla tragica fine di un mio amispesso indimenticabile in più di cento film o se- co. Il film impressionò talmente mia moglie rial televisivi, girati in Inghilterra o negli Usa Shakira da impedire a nostra figlia Natasha, che ANCHE SE IL PERSONAGGIO È UNO COME ME, UNO CHE HA SUPERATO GLI OTTANTA, MI SONO SENTITO RINGIOVANITO PERCHÉ DA ANNI ORMAI MI OFFRIVANO SOLO COMODE PARTI SECONDARIE E COMUNQUE: MEGLIO VECCHIO CHE MORTO, NO? MI ERA GIÀ SUCCESSO, SEMPRE A CANNES, CON “ALFIE”: RECITAVO NEI PANNI DI UN PROLETARIO DALLE FACILI CONQUISTE, MI DICEVANO CHE ERO IL PIÙ BRAVO: INVECE NIENTE CI RIMASI MALE E SONO PASSATI QUARANTANOVE ANNI PRIMA DI ACCETTARE DI TORNARE AL FESTIVAL HO UNA MOGLIE BELLISSIMA, NESSUNA ATTRICE PUÒ EGUAGLIARLA NOI SIAMO UNA COSA SOLA E NON CI LASCIAMO MAI LEI VIENE SEMPRE CON ME, DOVUNQUE MI PORTI IL LAVORO. È COSÌ CHE EVITO EVENTUALI TENTAZIONI era incinta, di andarlo a vedere». Lei ha fatto a tempo da bambino a vivere nella Seconda guerra mondiale: che ricordi ne ha? «La nostra era una famiglia proletaria ma molto unita, mio padre lavorava in una pescheria, mia madre era domestica a ore, c’era anche il mio fratellino Stanley. Con i bombardamenti, noi bambini fummo evacuati lontano dalla periferia londinese, e il ricordo più doloroso è quello del distacco dai genitori. Molto mi ha segnato invece la guerra in Corea: avevo diciannove anni e ogni giorno affrontavo la morte. Non l’ho mai dimenticato, credo che quell’esperienza mi abbia anche reso più forte». C’è una foto di lei ventenne con un gran ciuffone di capelli e vestito con giacca e cravatta, come un uomo in età. Del resto lei si sposò a ventuno anni, con una giovane donna conosciuta nei suoi primi tentativi di fare teatro. Due anni dopo nacque la sua prima figlia, Dominique. «Allora non era il tempo dei ragazzi, eravamo subito uomini e come tali dovevamo comportarci. Nel teatro amatoriale non facevo carriera, al massimo ero il poliziotto che nell’ultima scena arresta il cattivo. Dovevo lavorare, ero spesso disoccupato, mantenere la famiglia era quasi impossibile. Patricia tornò con la bambina dai suoi, io dai miei». Il successo lo ha raggiunto a trentatré anni con Alfie, che le ha fatto avere la prima nomination all’Oscar, e con il primo dei tre film tratti dai romanzi di Len Deighton in cui è l’agente Harry Palmer. «Lavoravo senza sosta, bevevo due bottiglie di vodka e fumavo ottanta sigarette al giorno. Guadagnavo come non avrei immaginato, comprai un appartamento per mia madre e per me un antico mulino nei pressi di Windsor, da restaurare e con un giardino che mi avrebbe aiutato a sentirmi meno confuso». Poi arrivò nel 1971 Shakira, modella angloguianese, aveva allora ventiquattro anni. «Stavo guardando con un mio amico la televisione, quando in una pubblicità di caffè ci fu questa apparizione: non avevo mai visto una donna così bella, piena di luce, con un sorriso stordente e me ne innamorai all’istante. Manovrai per conoscerla e finalmente il suo agente mi fece avere il suo telefono. Non avevo una gran buona fama, lei gentile ma fredda mi disse di chiamarla dieci giorni dopo. Così feci e lei accettò una cena e venne a prendermi per sicurezza con la sua automobile. Non riuscivo a parlare, ero totalmente stordito da tanto splendore. Il lavoro ci separò per qualche settimana, ci ritrovammo a Londra e da quel momento non ci siamo mai, mai lasciati. Ci sposammo a Las Vegas nel 1973, poi nacque la nostra Natasha. Facevo un film dietro l’altro, anche bruttissimi, ma così potei comprare la casa dei nostri sogni, nell’Oxfordshire». Non avete mai lavorato insieme? «Una volta. John Houston mi voleva in L’uomo che volle farsi re, ma una attrice si era volatilizzata e non si riusciva a trovare la sostituta. Shakira era a tavola con noi e si offrì. Così abbiamo anche lavorato insieme, ma poi alla fine, nel film, sposa Sean Connery!». Nel film di Sorrentino alla fine lei incontra sul palcoscenico la regina Elisabetta e il principe Filippo. Nel 2000 è stata la regina a farla Sir, quindi vi siete incontrati davvero. «Più volte: la sera dell’onorificenza, mi chiese sussurrando se sapevo qualche bella barzelletta. Certo le risposi, ma forse non adatte a una regina. Lei fu la prima a raccontarmene una, e così non potei esimermi». Pensa di rallentare il suo lavoro? «Non ci ho ancora pensato. Nell’ultimo anno ho girato cinque film, compreso La giovinezza e Interstellar di Christopher Nolan. Ma sono molto impegnato come nonno. Potrei essere bisnonno ma mia figlia grande, Dominique, non ha avuto figli. Natasha invece ne ha tre, un maschietto di sei anni e due gemelli, maschio e femmina, di cinque: uno è scuretto come la magnifica nonna, due sono biondini come il nonno». E come tutti i nonni di questo mondo, estrae dalla tasca un vecchio portafoglio tutto sdrucito, e mostra trionfante la foto di tre carinissimi piccini. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica DOMENICA 31 MAGGIO 2015 37 GLOSSARIO START UP CROWDFUNDING COWORKING OPEN SOURCE COMMUNITY FASE INIZIALE PER L’AVVIO DI UNA NUOVA IMPRESA: NON DEVONO MANCARE CREATIVITÀ, SPIRITO DI INIZIATIVA E VOLONTÀ DI METTERSI IN GIOCO LETTERALMENTE FINANZIAMENTO COLLETTIVO, MOBILITA PIÙ PERSONE E RISORSE PER SOSTENERE PROGETTI, DI SOLITO GRAZIE AL WEB SI RIFERISCE A PERSONE CHE LAVORANO CONDIVIDENDO LO STESSO AMBIENTE DI LAVORO, SENZA FAR PARTE PERÒ DELLA STESSA AZIENDA UN SOFTWARE I CUI AUTORI RENDONO PUBBLICO IL CODICE SORGENTE, FAVORENDONE IL LIBERO STUDIO, E PERMETTONO DI FARE MODIFICHE UN INSIEME DI PERSONE INTERESSATE A UN DETERMINATO ARGOMENTO CHE COMUNICANO TRA LORO ATTRAVERSO INTERNET ? ? Nome Francesco Giberti Nome Nicola Greco Nome Bruna Marini Nome Saverio Murgia Nome Francesco Nazari Fusetti Nome Brian Pallas Età 28 anni Età 22 anni Età 28 anni Età 24 anni Età 28 anni Età 28 anni Città Milano Città Roma Città Bolzano Città Genova Città Padova Città New York (nato e cresciuto a Milano) Progetto A scuola vince vari premi per una app che analizza i social network. Studia computer science a Londra, ha lanciato Kevin, amico virtuale che ti ricorda cosa fare. Da settembre sarà nel team del padre del web Tim Berners Lee Progetto Ricercatrice del Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologie di Trieste, uno studio rivoluzionario del suo team sul virus Hiv nel 2015 è finito su Nature (e lei è diventata mamma) Progetto Ricercatore di robotica avanzata e amministratore delegato di Horus Technology, una startup che ha creato un dispositivo indossabile che punta a cambiare la vita di milioni di persone cieche e ipovedenti Progetto Ancora studente fonda ScuolaZoo, una delle più grandi community di studenti (e una azienda che fattura bene). Da due anni a capo della startup Charity Stars per finanziare onlus con aste di memorabilia dei vip Progetto Fondatore di MyFoody, la startup che contro lo spreco alimentare mette in rete le eccedenze dei supermercati a prezzi vantaggiosi. Appena lanciato a Milano Progetto Dal febbraio 2014 a capo di Oppurtunity Network, piattaforma che mette in contatto in forma anonima le imprese (per ora 2.700 da settantacinque paesi) RICCARDO LUNA UESTA LISTA È DEDICATA A VOI, che li avete chiamati “bamboccioni”. E a quelli che per definirli “schizzinosi” hanno scelto una parola inglese piuttosto antipatica, “choosy”. Ma questa lista è anche per tutti quelli che non hanno fatto molto per cambiare questa immagine fuorviante di se stessi e sono andati a ingrossare le fila dei rassegnati, quelli che non studiano, non lavorano e non si ingegnano. I “Neet”. Questa lista è per tutti noi che a volte ci dimentichiamo la meraviglia di avere vent’anni. Quando quel momento della vita in cui il talento, che magari sui banchi di scuola non avevi avuto occasione di mostrare, viene finalmente fuori e si mette in azione con una forza a volte anche distruttiva. Nel senso che cambia tutto, tutto il mondo come lo conosciamo. Q Quasi tutte le più grandi invenzioni, scoperte e imprese della storia dell’uomo sono avvenuta in questa “zona magica” che è la nostra vita: inizia quando usciamo dall’adolescenza e termina dieci anni dopo. Dalla teoria della relatività di Einstein fino a Google, il filo rosso è sempre lo stesso: l’età degli innovatori. Dov’è la notizia, allora? È che anche adesso, anche in questa Italia che fatica a uscire dalla crisi economica, sono i ventenni a guidare il cambiamento, creando applicazioni, servizi e aziende innovative, conducendo ricerche scientifiche con un approccio mai visto prima. Dandosi da fare con coraggio e spesso con pochi aiuti. Questa lista ovviamente non è completa, non può esserlo. È una selezione di alcuni dei migliori ventenni di questo Paese. Ce ne sono molti altri, tutti ugualmente meritevoli, ma intanto è importante fermarsi su queste piccole storie, leggerle una per una: perché ai loro coetanei danno la speranza che non è vero che tutto è perduto, che solo chi si rassegna ha già perso. E al tempo stesso danno la certezza ai più grandi che il futuro è in buone mani. © RIPRODUZIONE RISERVATA Ovveroventi inventori italiani che hanno vent’anni (o poco di più) Nome Christian Sarcuni Nome Andrea Stroppa Nome Fabia Timaco Nome Edouard Wawra Nome Andrea Zanni Età 29 anni Età 21 anni Età 22 anni Età 29 anni Età 26 anni Città Matera Città Frascati (Roma) Città Lendinara (Rovigo) Città Cassino Città Modena Progetto Cinque anni fa ha inventato un servizio online per la pizza a domicilio, Pizzabo, che a gennaio ha venduto per 55 milioni di euro a un gruppo tedesco (che lo ha ribattezzato Hello Food) Progetto Hacker etico di notevoli capacità, si è ritagliato un ruolo di blogger internazionale sulla tecnologia: le sue inchieste sono uscite sui principali quotidiani del mondo Progetto Diplomata alla Scuola Holden è la protagonista di Fables, un progetto fra storytelling e tecnologia con la community OpenBiomedical per la realizzazione con una stampante 3D della sua mano robotica Progetto Fondatore e amministratore di GamePix, piattaforma per sviluppare e monetizzare giochi online diffusa in duecento paesi. Un suo discorso nel 2014 strappò gli applausi del capo di Microsoft Steve Ballmer Progetto Bibliotecario a Bologna, è il presidente di Wikimedia Italia, la community che gestisce la più grande enciclopedia del mondo, ed è in prima linea su molti progetti del mondo “open” L’APPUNTAMENTO I MAGNIFICI 20 È IL TEMA DELLA EDIZIONE STRAORDINARIA DI NEXT IN SCENA ALLA “REPUBBLICA DELLE IDEE” DI GENOVA IL 5 GIUGNO. NELLA SALA DEL MINOR CONSIGLIO DALLE 9.30 UNA SFILATA DI GIOVANI TALENTI, TUTTI UNDER TRENTA Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 MAGGIO 2015 38 Sapori. Sani FRUTTA E VERDURA RICCHE DI ANTOCIANINE DALLE STRAORDINARIE CAPACITÀ ANTIOSSIDANTI POSSONO TINGERE DI PORPORA PASTE E INSALATE MA ANCHE TORTE E BUDINI Il colore viola. Rape, cavolo, prugne. Perché l’orto non è sempreverde LICIA GRANELLO CARL WARNER “Q L’appuntamento Viola di gran moda nei piatti proposti durante Ortinfestival, festa degli orti contemporanei fino a martedì alla Reggia di Venaria, Torino. Quest’anno, gemellaggio green con “The Vegetarian Chance”, il concorso di alta cucina ideato dall’eco-chef Pietro Leemann, il 7 giugno a Milano ELLI DAL GAMBO GROSSO, di colore pallido e dai germogli tra il rosa e il viola, sono i più afrodisiaci. Sembrano falli anemici. L’asparago verde è più comune, ma ha un aspetto meno erotico. Nel Giardino profumato sono raccolte diverse ricette per resuscitare l’amante spossato”. Il color viola non è un dettaglio da poco, nelle pagine di Afrodita. Se un’esperta di letteratura gastroerotica come Isabel Allende identifica le sfumature purpuree con una ritrovata vitalità erotica, un fondamento ci dovrà pur essere. I medici evitano di sbilanciarsi sul tema, preferendo di gran lunga attenersi alle virtù più genericamente anti-aging di cui i cibi viola si fregiano. Tutto merito delle antocianine — dal greco: fiore, anthos, blu, kyáneos, — molecole idrosolubili in grado di pigmentare fiori, frutti, verdure, e non solo. Chiunque abbia avuto a che fare con una macchia di mirtillo sa quanto siano resistenti... Ma il colore non è un abbellimento fine a se stesso. Intanto perché le tinte accese dei petali li tramutano in irresistibile attrazione per gli insetti. Oltre a sedurre gli agenti impollinatori, il rosso e il blu costituiscono una barriera contro l’eccessiva insolazione a carico delle piante (un po’ come i nostri solari). A stupire gli scienziati, la configurazione chimica, che firma una straordinaria formula anti-ossidante. Le antocianine, infatti, hanno la capacità di impedire la diffusione dei radicali liberi (ossidanti) prodotti dal metabolismo cellulare. Il tutto, si traduce in attività anti-tu- che le melanzane siano bio, basta ridurre la bucmorale e protettiva degli organi, primo fra tut- cia in striscioline da friggere o da mescolare a ti l’apparato vascolare, a cui aggiungere la pre- capperi, olive e cipolle per un’originale caponavenzione della fragilità capillare e perfino la ri- ta anti-spreco. Al contrario, la patata vitelotte duzione dell’accumulo di acidi grassi saturi nel- sfoggia un bellissimo colore viola dentro e fuole zone a rischio. Più ribes e ciliegie, meno pan- ri, che si traduce in chips e puré dai toni dark. cetta e rotolini sui fianchi. Il viola abbraccia l’intero ventaglio dei frutti Con queste premesse, impossibile ignorare di bosco, bacche comprese, dalle more al samgli spruzzi di viola che colorano gli orti di pri- buco, passando per fragole e mirtilli. Sono loro mavera, in una lunghissima scia cominciata col a tingere di porpora macedonie e succhi di frutcavolo cappuccio, figlio del tardo inverno, e ta, yogurt e crostate, torte e budini. Il fascino del pronta ad allungarsi fino all’autunno, grazie a colore, il gusto dolcemente acidulo e la millenafichi e uva (rossa di nome, viola di fatto). Certo, ria fama di salubrità li rendono irresistibili. Un non è tutto viola quel che riluce di bluastro. La mix virtuoso che il settore agricolo declina in melanzana, per esempio, una volta svestita del coltivazioni seriali (spesso in serra). Per ovviasuo abito da sera esibisce una polpa pallida re alla perdita di naturalità, regalatevi una giorquanto la carnagione lunare di certe modelle nata tra boschi e giardini botanici. Vietato puorientali. In questo caso, per evitare che le be- lirsi le mani sulla maglietta. nefiche antocianine vadano perdute, e a patto © RIPRODUZIONE RISERVATA FICHI RIPIENI CON FORMAGGIO DI CAPRA E BARBABIETOLA L’iniziativa Una tavolozza di colori — viola in primis, grazie alle migliaia di bottiglie di vino rosso in passerella — nel weekend di Cantine Aperte, con oltre settecento aziende coinvolte. In Puglia, la tre giorni del vino è collegata al progetto di salvaguardia degli ulivi secolari minacciati dalla xylella La ricetta Linguine all’estratto di cavolo rosso cotte con caviale di aringa INGREDIENTI: 320 G. DI LINGUINE ARTIGIANALI 800 G. DI CAVOLO ROSSO CENTRIFUGATO 160 G. DI CREMA DI BURRATA 120 G. DI ARINGA AFFUMICATA TAGLIATA A FETTINE SOTTILI 30 G. DI PINOLI 40 G. DI CRESCIONE (FOGLIE PICCOLE) CAVIALE QB Il libro Prima edizione italiana per “Where chefs eat”, la guida pubblicata da Phaidon Ippocampo che raccoglie le indicazioni gastronomiche di seicento tra i migliori cuochi del mondo. Da Ferran Adrià a Massimo Bottura, un giro del mondo tra caffè e ristoranti, pasticcerie e street food F rullare delicatamente la burrata, in modo da ottenere una crema densa e profumata. Quindi, tostare i pinoli in forno a una temperature di 180° per dieci minuti circa. Nel frattempo cuocere la pasta in acqua salata e a metà cottura scolarla. Finire la cottura nell’estratto di cavolo, quindi mantecare con olio extravergine di oliva e infine aggiungere l’aringa affumicata tagliata a fettine sottili. A questo punto disporre sul piatto la crema di burrata a appoggiarvi sopra la pasta. Per guarnire il tutto, decorare con i pinoli, il caviale e le fogliette di crescione. LO CHEF IL NAPOLETANO ANDREA APREA GUIDA LA CUCINA STELLATA DEL “VUN”, IL RISTORANTE DELL’HOTEL PARK HYATT DI MILANO, OFFRENDO PIATTI SEMPLICI E PIENI DI GUSTO, COME IN QUESTA RICETTA IDEATA PER REPUBBLICA INVOLTINI DI CAVOLO CON CASTAGNE E LENTICCHIE Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica DOMENICA 31 MAGGIO 2015 8 39 La gamma dei paonazzi dal Medioevo a mia figlia piatti MASSIMO MONTANARI V Prugna Asparago Cavolo Carciofo Melanzana Patata Fresca o secca, la regina delle antocianine vanta una messe di qualità nutrizionali a cui si aggiungono le fibre amiche dell’intestino. Ideale per crostate e clafoutis INSALATA DI ZUCCA E CAVOLO VIOLA Foglie lucide e carnose, vitamine, minerali (ferro e fosforo in primis), ma anche decine di sostanze antiossidanti. Tagliato sottile, crudo, in insalata, con mele e noci Potassio e fibre in quantità nella solanum melogena, condannata alla cottura come la patata per dimezzare il contenuto di solanina. Tra le tante ricette sfiziose, spicca la caponata Campione della biodiversità, il Violetto coltivato nella piana d’Albenga ha consistenza morbida e setosa. Si cuoce al vapore, per poi intingerlo nell’extravergine di oliva Taggiasca Dai germogli (le castraùre di Sant’Erasmo, Venezia) alle mammarelle di Castellammare, Napoli, i carciofi dalle proprietà diuretiche si esaltano sia sott’olio che alla brace Originaria del Perù — dove sono catalogati migliaia di fenotipi diversi di tuberi — la Vitelotte e le sue sorelle trovano terreno d’elezione nell’alta valle Belbo. Squisita in purè IOLA È MIA FIGLIA, e quando le diedi questo nome non pensavo a un fiore né a uno strumento, ma a un colore. Non so perché. Non era neppure uno dei miei colori preferiti. Da allora, però, lo è diventato. Vedi la forza degli affetti… Da medievista che si occupa di cibo, il colore viola l’ho incontrato spesso. Viola è il colore delle melanzane, che arrivarono da noi proprio nel Medioevo, portate dagli arabi. Viola sono le rape, grande risorsa del contadino medievale, degna di figurare fra i prodotti-simbolo che appaiono nelle serie dei Mesi, i calendari miniati, scolpiti, affrescati che in molte chiese romaniche rappresentano i momenti clou dell’annata agricola: un contadino barbuto ha appena estratto dal terreno una rapa di dimensioni gigantesche, nel Novembre di Benedetto Antelami che si può ammirare all’interno del Battistero di Parma. Viola sono molti frutti di bosco, di cui si cibano gli eremiti propugnando diete di grande sobrietà (Colombano, una volta, diede prova di santità convincendo un orso a dividere equamente i mirtilli con lui). Le stesse carote nel Medioevo virano preferibilmente al viola (o al rosso, o al giallo) distanziandosi dall’arancio che fu una tardiva invenzione degli orticoltori olandesi per compiacere la famiglia regnante degli Orange. In cucina e a tavola, sono soprattutto le salse a richiamare i colori. La cultura gastronomica medievale ha un vero culto dei colori, che servono al cuoco sia come artificio pittorico (colorare di giallo, di bianco, di verde, di azzurro o di nero una vivanda è un modo per fare spettacolo, per gratificare gli occhi prima del palato) sia come strategia dietetica: le salse accompagnano carni e pesci anche per “correggere” le qualità nutrizionali dei prodotti, armonizzandole ed equilibrandole con sostanze che abbiano proprietà diverse e complementari. La gamma dei viola e dei “paonazzi” è anch’essa assiduamente frequentata. Prendiamo il ricettario di Maestro Martino, il più celebre cuoco italiano del quindicesimo secolo: vi troveremo salse (o “sapori”, secondo la terminologia del tempo) a base di carote, di ciliegie, di corniole, di prugne, di more, di uva nera, di visciole. I colori viola, violacei, violetti evidentemente piacevano ai principi e ai signori del Medioevo almeno quanto a me. © RIPRODUZIONE RISERVATA Carota FRULLATO DI LAMPONI E MIRTILLI In arrivo da Afghanistan ed Egitto, ha perso il colore viola per diventare arancione nel Settecento, grazie agli agronomi olandesi. La torta è perfetta per colazioni e merende Mirtillo Le bacche di Vaccinium myrtillus — selvatiche o coltivate — assommano gusto acidulo e virtù protettrici di capillari e vie urinarie. Se ne fanno magnifiche confetture Repubblica Nazionale 2015-05-31 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 31 MAGGIO 2015 40 L’incontro. Lottatrici NEGLI ANNI SETTANTA A NEW YORK IL VILLAGE VANGUARD DIVENTÒ LA MIA CHIESA. IL MIO MOTTO ERA: NON VADO A MESSA LA DOMENICA, VADO AL VANGUARD IL LUNEDÌ CANTAI “BYE BYE BLACKBIRD”. MI PRESERO SUBITO ”Quando avevo sette anni riunii la mia famiglia e dissi solennemente: voglio fare la cantante jazz, voglio andarmene a Parigi e voglio diventare una star”. Oggi che ne ha compiuti sessantacinque e che ha duettato con i più grandi (Sonny Rollins, Dexter Gordon, Ray Charles...), ha vinto tre Grammy, ha avuto tre mariti e ha un nuovo (bellissimo) disco in uscita, può dirsi soddisfatta: “Sì, sono una donna serena e realizzata, ma sono compagnò anche Dinah Washington in più di una occasione. Ho dei ricordi fandi me e mia madre che gli correvamo dietro per tener sotto controllo le sue scappatelle». A Parigi ci sarebbe finita davvero, molti anni dopo, da star. Prianche molto arrabbiata: bisogna tastici ma ci sarebbero stati l’università, la fuga dal Michigan e il precoce matrimonio con Cecil Bridgewater, trombettista, come quel padre casanova che lasciava sole le donne di casa. «Nei primi anni Settanta ero già una pasionaria del fare una enorme fatica per farsi troppo jazz», ricorda. «Mi trasferii con Cecil a New York. Il Village Vanguard diventò la mia chiesa, il mio motto era: non vado a messa la domenica, vado al Vanguard il Presi il coraggio a quattro mani e dissi a Mel Lewis: senti, io sono molto strada in un ambiente così ma- lunedì. meglio della cantante che avete. Il lunedì successivo mi convocarono per un’audizione al Village Vanguard, cantai Bye Bye Blackbird e Everyday I Have the . Fui scritturata all’istante dalla band di Thad Jones e Mel Lewis». A quel cho business e razzista. Quanto Blues punto persino il rifiuto subìto dalla Motown a sedici anni le sembrò una storia remota e irrilevante paragonata al percorso entusiasmante che stava intraprendendo con artisti come Sonny Rollins, Dexter Gordon, Max Roach, Nat Adderagli uomini, giuro mai più” ley Jr., Horace Silver e Stanley Clarke mentre si preparava a incidere il suo pri- Dee Dee Bridgewater GIUSEPPE VIDETTI ISTANBUL I L TEATRO È VUOTO, I MUSICISTI RIUNITI SUL PALCO. È l’ora delle prove, pomeriggio prima del concerto. «Non perdete il controllo. MAI! Se lo fate siete fottuti, lo spettacolo è fottuto, la serata è fottuta». È il boss che parla, una lady di ferro. Testa rasata a zero, sessantacinque anni appena compiuti, ancora molto sexy, Dee Dee Bridgewater ha attraversato quasi mezzo secolo di jazz; sa che tra poco la Volkswagen Arena di Istanbul si riempirà di tremila persone che penderanno dalle sue labbra. Niente errori alla sua età e con la sua reputazione. Si avvicina, strizza l’occhio: «Ho imparato la lezione a vent’anni da Betty Carter, il mio idolo», mi bisbiglia all’orecchio. «Al Village Vanguard di New York ero la sua ombra. Non mi permetteva di assistere alle prove, ma io sbirciavo. Ero affascinata da come gestiva i suoi affari, un’artista indie ante litteram: produceva i suoi dischi, aveva la sua etichetta. Ho sempre voluto essere come lei, libera e rispettata». Torna tra i suoi musicisti, e a quel punto sono solo abbracci e strette di mano e occhiate d’intesa. La tensione si scioglie come miele nel latte caldo quando Dee Dee prova per intero una sola canzone, The Music Is the Magic di Abbey Lincoln («La Billie Holiday della nostra generazione»). Non ancora concerto ma già sublime: «La musica è la magia di un mondo sacro/ un mondo che è sempre dentro di noi» ripete con un impareggiabile, elegante, sensuoso fraseggio. È una delle canzoni in programma, insieme alle perle del nuovo Dee Dee’s Feathers (Ed. Okeh/Sony), l’album dedicato a New Orleans e realizzato con l’orchestra del giovane Irvin Mayfield, band leader con due Grammy alle spalle che ha perso il padre durante Katrina. «È stata un’esperienza molto toccante», racconta Dee Dee, «abbiamo inciso all’Esplanade, una vecchia chiesa distrutta dall’uragano riadattato a studio di registrazione, un posto magico». Dee Dee’s Feathers, al quale hanno collaborato Dr. John e Harry Connick Jr., è il disco che la riconcilia con gli Usa dopo tanti anni trascorsi in Francia. Ora ALL’EPOCA ERA MOLTO IN VOGA IL COUCH CASTING. IL VICEPRESIDENTE DI UNA MULTINAZIONALE MI INVITÒ NEL SUO UFFICIO, C’ERANO LE FOTO DI MOGLIE E FIGLI MI CHIESE: “VUOI DIVENTARE LA MIA AMANTE?” IO: MA LEI È SPOSATO. E LUI: “INFATTI, HO DETTO AMANTE!” vive a Los Angeles, ha due nipotini dalla figlia maggiore Tulani e collabora con China Moses, avuta dal secondo marito (Gabriel Durand, nato dal matrimonio parigino, l’accompagna spesso alla chitarra). «Mia madre mi ha confidato che a sette anni riunii la famiglia e dissi solennemente: “Voglio fare la cantante jazz, voglio trasferirmi a Parigi e voglio diventare una star internazionale”. Pare che il sogno si sia avverato», racconta rilassandosi nel camerino dove già incominciano ad arrivare mazzi di fiori (Istanbul è un tripudio di colori per l’annuale Festival dei tulipani). I suoi non si stupirono più di tanto, il jazz era di casa. «Mio padre, un uomo bellissimo, suonava la tromba, ac- mo album, Afro Blue (1974), oggi un cult per i jazzofili. Nonostante i tentativi di affermarsi con canzoni più commerciali, il destino di Dee Dee era scritto nel grande libro del jazz. A vent’anni aveva chiaro in mente quello che avrebbe voluto essere: intensa come Nina Simone, accattivante come Johnny Mathis, militante come Harry Belafonte, esplosiva come Nancy Wilson, indipendente come Betty Carter, sensuale come Diahann Carroll e Lena Horne. Troppe virtù in una sola cantante. Il mondo della musica era un macho business, e lei non era ancora la lady di ferro, nonostante il Tony Award avuto nel 1975 per il suo exploit in The Wiz a Broadway (i tre Grammy sarebbero arrivati a partire dagli anni Novanta con i tributi a Ella Fitzgerald e Billie Holiday). «All’epoca era molto in voga il couch casting; vale a dire che qualsiasi produttore provava a stenderti sul divano prima di darti la parte. Mi ero appena trasferita a Los Angeles quando ebbi un incontro con il vicepresidente di una multinazionale. Mi invitò nel suo ufficio — Dio, non lo dimenticherò mai! — le foto della moglie e dei figli sparse ovunque, sulla scrivania e sulle pareti. A brutto muso mi chiese: vuoi diventare la mia amante? Io imbarazzata: ma lei è sposato. E lui: infatti, ho detto amante! Rifiutai e l’album fu archiviato. A casa l’atmosfera non era migliore. Gilbert Moses, mio marito, un regista famoso e psicologicamente violento nei miei confronti, mi teneva lontana dalle scene in maniera umiliante. Fu per togliermi quel giogo dal collo che rifugiai in Europa». L’occasione fu l’ingaggio nel musical Sophisticated Ladies e, successivamente, in Lady Day, spettacolo dedicato a Billie Holiday che le riaprì le porte della discografia. «Avevo un debito nei confronti di Billie. La prima volta che l’ascoltai dissi, non sa cantare, non ha l’estensione di Ella, di Sarah Vaughan o di Carmen McRae. Poi lessi l’autobiografia: fu la sua vita a parlarmi. Cominciai in maniera maniacale a scovare similitudini: lei violentata, io violentata; lei abusata dalle suore in una scuola cattolica, io anche; lei sfruttata dagli uomini, io irrimediabilmente attratta da… gangster e papponi», confessa con una smorfia di disgusto. «Quale altra donna avrebbe insistito a cantare una protesta violenta come Strange Fruit in un periodo così terribile per gli afroamericani, quando il razzismo era così spietato da vietarci l’ingresso dalla porta principale? Dopo Strange Fruit cominciò a essere QUANDO PENSI ALLLA VITA DI BILLIE HOLIDAY NON TI MERAVIGLI DEI FATTI DI CLEVELAND. ORA CON UN PRESIDENTE AFROAMERICANO IL PARTITO REPUBBLICANO HA GETTATO LA MASCHERA perseguitata dalla polizia, fu bandita dai night club di New York. Non fu solo l’eroina a distruggerla, ammesso che sia stata morte naturale e non un complotto come molti musicisti che lavorarono con lei mi hanno fatto intendere». Scoppia a piangere, singhiozza come una bambina. «Sono arrabbiata, molto arrabbiata. Quando pensi alla sua vita, a quella di tanti altri afroamericani non ti meravigli di quel che è successo a Cleveland. Il razzismo non è mai finito. Ora che abbiamo un presidente afroamericano il partito repubblicano ha buttato giù la maschera e si è rivelato per quello che è, spudoratamente razzista». Restò in Europa perché in America non c’erano parti in teatro per attrici e cantanti di colore. «E per amore», confessa. «A Parigi incontrai l’uomo che sarebbe diventato il mio terzo e ultimo marito, il produttore Jean-Marie Durand. Lasciai Parigi dopo vent’anni, nel 2007, quando cominciai a sentire anche lì puzza di razzismo. I critici fecero a pezzi J’ai deux amours, il mio disco francese, salvo poi portare alle stelle Diana Krall. Solo dopo l’uscita di Red Earth — l’album realizzato in Mali alla ricerca delle mie radici — ho avuto la rivincita. Ma a quel punto l’amore non c’era più e io ero pronta a tornare in patria». Neanche Parigi è riuscita a tenerla al riparo dal machismo del music business. Truffata da «un manager che si rivelò un aspide», non ebbe una lira dalle vendite milionarie di Till the Next Somewhere, il duetto inciso con Ray Charles nel 1989. «La vicenda finì in tribunale. Negli anni del processo solo Ray cercò di confortarmi. “Ricorda, ci saranno centinaia di manager, ma c’è una sola Dee Dee Bridgewater”, mi disse. “Appartieni al pubblico, è per lui che devi restare la numero uno, e avrai una carriera per tutta la vita. Ed eccomi qui, a un punto dove non avrei mai creduto di arrivare. Serena, realizzata e senza marito. Uomini? Giuro, mai più». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-31