10/7/2015
Il tempo si è fermato all’Aquila - La Stampa
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Il tempo si è fermato all’Aquila
Due anni fa il sisma distrusse la città, decine di paesi e sconvolse migliaia di vite.
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MATTIA FELTRI
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04/04/2011
INVIATO ALL'AQUILA
Rincasano di notte profittando del buio», dice. Decine di aquilani scivolano nelle loro vecchie case
sbrecciate e pericolanti («Se non sono cadute fin qui...») e dormono nella città fantasma. Quindi non era
stata un’impressione: la sera prima, lungo il corso Vittorio Emanuele - l’antica passeggiata, lo struscio
desertificato - si era sentita la musica dei Radiohead venire dall’alto: «Mephistopheles is just beneath,
and he’s reaching up to grab me». Mefistofele sarà al di sotto, e cercherà di afferrarmi. Ma era giovedì
sera.
l giovedì sera, all’Aquila, gli universitari si prendono la città per tradizione, affollano i pub aperti in
mezzo al nulla, bevono come ai tempi della vita, si appartano dietro l’angolo.
In corso Vittorio Emanuele hanno aperto quattro bar, un ristorante, un Tezenis che però adesso è
chiuso per inventario. Sabato mattina ha aperto l’Olimpia Store, jeans e felpe. Residenti zero,
ufficialmente. Quando si arriva in piazza Duomo - sconnessa, un parcheggio di gru, lo stridulo
altoparlante del bar Florida, l’unico locale aperto della piazza - la tentazione è quella di scendere verso
la zona rossa. La città è presidiata da militari, giovani alpini beneducati. I controlli sono però labili. In
due passi si finisce in piazza Santa Margherita, in via Sallustio, in piazza del Palazzo, in piazza Rivera.
Questa è L’Aquila Due. L’Aquila Uno è quella dove si alzano le saracinesche, circolano le macchine, le
donne scuotono i tappeti alle finestre. L’Aquila Due è la città rivestita di ponteggi, puntellata, messa in
sicurezza, polverosa, vuota. Immaginate la vostra città, il vostro centro storico così com’è, soltanto con
le facciate dei palazzi crepate, liberato dalle automobili e dagli uomini, le vetrine dei negozi velate dal
tempo; dentro scatoloni strappati, sedie di formica. Come in un film di serie B, sentite soltanto i vostri
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tacchi, il cinguettare dei passeri. Girato un angolo, un smartellare lontano.
La casa fantasma
L’Aquila Uno è soprattutto periferia. L’Aquila Due è il centro spettrale. In fondo a corso Vittorio
Emanuele, in via Castello, c’è un angolo rinato. Una cantina, un negozio d’argenteria, un calzolaio, un
salumaio, un barbiere. Sono una ventina, su oltre mille, gli esercizi ripartiti. Qui c’è la prima casa (di due)
che ha riavuto l’agibilità. Ci abita Nunzio Centi con madre, moglie e figlio. La sua normalità è
prendersela con gli studenti che hanno fatto notte bevendo e sentendo musica al Boss, la birreria.
«Tum! Tum! Tum! Ma che musica è?». Dice di aver scritto al prefetto, al sindaco, all’assessore eccetera.
Uno degli abitanti di questo sottinsieme di comunità è di quelli che se ne fregano dell’agibilità. «Diciamo
che mi chiamo Carlo». E’ lui che spiega che tanti fanno così. Elenca i nomi. Quando è stanco, la sera si
ferma. Ce l’ha col mondo. Dice che l’Aquila non ripartirà mai, che è tutto fermo. Promesse su promesse.
Eppure la zona rossa, per quanto raggelante, ha l’aria di un posto di duro lavoro almeno parzialmente
concluso. «Dove siete stati?». Sotto il Duomo. Ride. «Vi porto io a vedere L’Aquila». Risaliamo una via, poi
un vicolo, destra e sinistra, scostiamo le barriere che indicano l’area proibita. Entriamo dentro L’Aquila
Tre.
All’Aquila Tre ci sono scorci dove il tempo s’è fermato. Case sbriciolate, macerie mai sgombrate. Fra le
rovine, materassi anneriti, indumenti marci, cocci di stoviglie, comodini frantumati, bottiglie di plastica,
ciabatte, resti di specchi, carcasse di gatti. Dentro le finestre si vedono a mezzo metro da terra i
pavimenti che erano del secondo o del terzo piano. Scavalchiamo travi di legno, cumuli di pietre, pezzi
di plastica dall’origine misteriosa. E’ la zona di San Pietro e di San Domenico. La temperatura è più bassa.
Due anni dopo il terremoto (6 aprile 2009), quello che non ha fatto la scossa lo sta facendo l’umidità.
Muri gonfi. Muffa. Poche squadre di operai. Non riusciamo a raggiungere il posto dove Carlo dice che ci
sono le auto sotto i detriti: stanno lavorandoci. Spunta una Smart sfondata. «Quella era casa mia», dice
Carlo indicando il niente. Ripete la strada che percorse la notte del disastro. «Qui è morto il padre del
mio amico». Qui è morto questo, qui è morto quello. Ci sono cortili con armadi, sedie, sgabelli, i soliti
materassi, sacchi neri. «Questa è l’Aquila che riparte?». E sghignazza.
I temi di Maria Paola
Il paese simbolo del terremoto è Onna. Qui, il 25 aprile del 2009, ricordando i diciassette onnesi uccisi
dai nazisti l’11 giugno 1944 e i quaranta morti nel terremoto, il presidente Silvio Berlusconi toccò il
punto più alto di questa disgraziata legislatura. Gli onnesi oggi vivono a Onna Due nei Map, moduli
abitativi provvisori. Quarantasette strutture, novantaquattro alloggi, duecentoventi residenti. Sono
casette con il solo pianterreno. Cinquanta, sessanta metri quadrati l’una. Sono collegate da vialetti di
ghiaia e separate da un prato ben tenuto in autogestione. Una suora, venuta a trovare la sorella che nei
crolli ha perso i figli di tre e cinque anni, sta spingendo un tosaerba. Queste casette sono sacrari. In
quella di Luigi Marzolo, che fu segretario della Dc di Onna, c’è la foto scattata dall’alto di tutti gli onnesi
riuniti in piazza. E’ Santo Stefano del 1999. Ci sono i morti e i vivi.
Giustino Parisse, cinquantadue anni, caporedattore del Centro, vive a Onna Due. In casa ha appeso i
ritratti dei figli, Maria Paola e Domenico. Un mese fa, nei sacchi neri riempiti dai vigili del fuoco con la
roba estratta dalle macerie, ha trovato i raccoglitori con i temi di Maria Paola. Ci sono i raccoglitori della
quinta elementare, della prima media, della seconda media... Giustino li ha puliti, ha messo i temi
dentro buste di plastica. Mostra le correzioni dei professori: «Poche, vero?». Ne ricaverà un libretto in
onore dei diciotto anni che Maria Paola avrebbe compiuto a maggio. «Dopo la prima scossa, sono andato
a rassicurarla», ricorda Giustino. Maria Paola si girò su un fianco: «Tanto moriremo tutti», disse. Quando
arrivò la seconda scossa, lunga ventitré secondi, l’ultima parola che Giustino sentì pronunciare da suo
figlio Domenico fu «papà». Ripetuta qualche volta, in tono sempre più flebile. Poi più niente. Giustino e
la moglie raggiunsero il tetto, e lì videro Onna al buio e sotto una nube di polvere. Superstiti impazziti e
dal volto irriconoscibile formicolavano nel cadavere di un piccolo mondo.
L’orto della speranza
Non c’è casa di Onna Uno che sia abitabile. In realtà sono poche quelle che non sono crollate. Il paese
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vecchio, come l’Aquila Due, è sgombro e messo in sicurezza. Gli onnesi ci vengono tutti i giorni.
Giustino ha sistemato il giardino, in una stanza superstite a pian terreno ha ammucchiato le Treccani,
gli abiti dei figli, i Topolino, qualche mobile. Il vicino di casa, Paolo, ha un pezzo di terra che ha liberato
e dissodato. «Ci voglio fare l’orto». Insalata, pomodori, fagioli. Fra pochi giorni si può già seminare.
«Bisogna pur guardare avanti», dice. Anche se rovistando fra le macerie e i sacchi capita che spunti una
foto, e si rimane muti. Lui ha perduto madre e sorella. Ha con sé due cani perché era cacciatore. Ora
non lo è più: «Per tenere in mano il fucile bisogna essere sereni». Stefania ha appena finito di lustrare
la tavernetta che lustra quotidianamente, e dove si salvò col marito e il figlio di sei mesi perché quella
notte, impauriti, dormirono lì. «E’ un angolo santo», dice. Il resto della casa è in rovina. «Ci possiamo
venire per qualche cenetta», dice, visto che i Map d’estate sono roventi.
Qua non fanno altro che raccontarti come si sono salvati e chi sono i loro morti, in un devastante
tiramolla fra memoria e futuro. Nelle demolizioni delle case pericolanti hanno avuto cura di conservare
gli angoli esterni perché quando ricostruiranno vogliono ricostruire magari non com’era ma di certo
dov’era. Non possono fallire l’esatto posto in cui via Oppieti incrociava via Lodovici. Certi punti sono
segnati da una madonnina, da un crocifisso. Con un filo di ferro hanno fatto un grosso cuore, ci sono i
fiori e un peluche perché uno dei nomi incisi sulla lapide precaria - Vittorio, Silvana, Lisetta... apparteneva a un bambino. Onna Uno oggi è così, case sbriciolate con giardini impeccabili dietro
cancelli chiusi col lucchetto.
Quaranta per cento
Di sera o nei giorni di festa gli abitanti dell’Aquila, quelli trasferiti nei Map di Coppito o di Bazzano,
vanno nei centri commerciali che perlomeno non sono il ritratto della morte. Qualcuno non si rassegna
e sale all’Aquila. Fa due passi. Va al ristorante dove le cucine funzionano con la bombola perché il gas
non è stato riallacciato. Qualcuno appende una poesia ai ponteggi. Nel bianco di un tricolore c’è scritto
«macerie di tutta Italia unitevi!!!». I baristi dicono che guadagnano un quarto di quello che
guadagnavano prima del terremoto e la caparbietà che li ha spinti a riaprire è quasi sfumata. Umberto
Trasatti, della Cgil, spiega che il pil di Chieti nel 2010 è cresciuto dell’1,2 per cento, quello di Pescara e
Teramo dello 0,6, quello dell’Aquila sullo zero che già era lo zero del 2009. Giusi Pitari, pro rettore
dell’università, è contenta perché ci sono 24 mila iscritti contro i 27 mila del 2009, e ben settemila sono
matricole. Venerdì, all’Aquila, nel corso di una conferenza dei servizi di salute mentale, è stato spiegato
che sono in aumento, in percentuali che vanno dal trenta al quaranta per cento, l’uso di psicofarmaci,
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