UN BUDDHA INSOLITO E LA PERCEZIONE DELLA SUA FIGURA NELLA CULTURA ITALIANA TRA LA FINE DELL’OTTOCENTO E L’INIZIO DEL NOVECENTO GABRIELLA OLIVERO Lo scopo di questo breve intervento è innanzitutto quello di presentare un testo drammatico, inedito, che ha come oggetto la figura del Buddha, e di cercare di inquadrarlo, per quanto possibile, dal punto di vista cronologico e culturale. Si tratta dell’abbozzo manoscritto di un’opera di Luigi Illica,1 divisa in due atti dialogati ma non ancora versificati e intitolata Il Budda2. I personaggi sono Gotama, Malanda e Thirima; il primo atto si svolge “sulle rive del Gange”, il secondo invece è ambientato “sotto le mura della città di Râjagaha”3, definita da Gotama “la perfida città, la sentina di tante sozzure che le onde tutte del sacro Gange non sarebbero bastanti a purificare”. L’asceta Gotama predica la dottrina “del vero nume”, e infatti, riecheggiando il “sermone di Benares” dice che: “[né] agli 1 Luigi Illica (Castell’Arquato 1857 – Colombarone 1919), librettista e autore di testi teatrali, fu attivo nella cerchia degli Scapigliati e si legò poi di viva amicizia con Giosuè Carducci. Scrisse per i maggiori operisti italiani della fine del XIX secolo: in particolare lavorò per Giacomo Puccini, spesso in collaborazione con Giuseppe Giacosa; per Alberto Franchetti, per Umberto Giordano, per Pietro Mascagni. Il testo di cui qui si parla si trova presso la biblioteca Passerini-Landi di Piacenza (Fondo Antico, Manoscritti di Luigi Illica, mazzo 6): si tratta di sei pagine, non numerate, scritte a penna. I nomi e le parti dei personaggi e del Coro sono evidenziate da doppia sottolineatura; le descrizioni e le didascalie invece sono segnalate da una riga sola. 2 Si utilizza, qui e in tutte le citazioni successive, la grafia dei testi cui si fa riferimento. 3 La presenza del segno diacritico sulla prima vocale del nome della città non è costante, così che talvolta compare anche la forma Rajagaha. Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 uomini né agli dei è dato sottrarsi all’infinita vanità delle cose, perché uomini e dei sono soggetti al desiderio e all’amore, che è la fonte di tanti mali e di tante vanità. Esso è colui che costituisce il corpo, ricettacolo di desiderio; che trasmette la vita alle generazioni; che continua in perpetuo la serie degli esseri migranti, dolenti, lacrimanti. Esso è l’eterno inganno: il Tentatore, l’autore d’ogni male, la causa del pianto e della morte”. L’esposizione della dottrina, che doveva essere completata anche da un “inno buddista” cantato dal Coro, nel primo atto è rivolta ai discepoli ed è ascoltata con particolare attenzione da Malanda, che “pende dalle di lui [di Gotama] parole come rapito in contemplazione soprannaturale”; nel secondo atto è indirizzato invece agli abitanti dell’“immensa metropoli”, uomini e donne d’ogni ceto che all’alba si riversano all’aperto, non appena si aprono le porte di Râjagaha. L’interesse degli spettatori doveva però essere catturato, oltre che dalle dottrine del Buddha, peraltro esposte correttamente, anche dall’elemento romanzesco, affidato alle vicende di Malanda: bello, di circa 18 anni, era stato allevato come un figlio e istruito da un brahmano, che lo aveva trovato, abbandonato “in una lurida contrada”, quando il piccolo poteva avere circa tre anni. Dopo la morte del pietoso brahmano, rimasto solo, il giovane che non sa che fare della sua vita, ma non ha mai provato gioie né dolori, vorrebbe sapere e salvarsi e perciò si affida al Budda. Ovviamente non può mancare la componente amorosa, affidata alla presenza di Thirima: quando discepoli e cittadini sono radunati sotto le mura della città 38 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 ella, fattasi portare in lettiga presso Gotama, fa la sua apparizione “raggiante in tutta la sua grande beltà”, deride l’oratore e “canta le voluttà dell’amore”. Malanda ne è stregato ma viene messo in guardia dal maestro, che gli narra come anch’egli avesse conosciuto l’amore e le sue gioie ma, rincasando inatteso, avesse scoperto il tradimento della sua sposa e, sconvolto, fosse fuggito abbandonando lei e il figlioletto. A questo punto il testo si interrompe, ma ci sono le premesse per uno sviluppo romanzesco in cui possono trovare spazio tutti gli ingredienti adatti a un dramma: Thirima (che sente per Malanda uno “strano” affetto) potrebbe essere madre del giovane, con tutte le complicazioni di una possibile passione incestuosa, ma potrebbe essere contemporaneamente la sposa fedifraga di Gotama, situazione che si presterebbe a altri interessanti sviluppi. Ma ciò che in questo caso interessa non è tanto lo scioglimento della vicenda, quanto la presenza di un testo che prevede di mettere in musica la dottrina buddhista, dando ad essa uno spazio piuttosto rilevante, dato che nei primi due atti dovevano esserci un inno buddhista e ben due momenti in cui Gotama predica i “dogmi trionfatori del divino Budda”, il che, per quanto intercalato dalle esclamazioni del coro, doveva richiedere un notevole pezzo di bravura. A questo punto occorre porsi due questioni: 1) chi poteva essere il musicista per il quale Illica si era accinto a scrivere, documentandosi sul Buddhismo? 2) Quali erano state le sue fonti? 39 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 La risposta alla prima domanda sembra trovarsi in una lettera di Giacomo Puccini4, indirizzata al fratello Michele e datata Milano, 5 Gennaio [1890], in cui il Maestro scrive “Io lavoro alla Manon e dopo farò il Budda”. In questo caso, evidentemente, non ci si trova di fronte al consueto affettuoso appellativo con cui veniva designato Giuseppe Giacosa, ma al titolo di un’opera cui Puccini pensava di dedicarsi, anche se prevedeva: “Ma ci vorranno degli anni prima che riesca a concretarlo. Intanto me ne occupo”5. L’indicazione fornita da questa lettera è molto importante in quanto lo scritto di Illica non è datato; nel 1890 tuttavia il librettista, che già dall’anno precedente doveva essere in cordiali rapporti con Giulio Ricordi e con Puccini, non aveva ancora mai lavorato per quest’ultimo, che era impegnato con Ferdinando Fontana6. Ciò spiega perché Puccini, che evidentemente era stato affascinato dal soggetto, prevedesse un così lungo periodo di tempo prima di giungere a una realizzazione del progetto; nell’epistolario tuttavia non è rimasta altra traccia di questa 4 G. ADAMI (a cura di), G PUCCINI, Epistolario, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1928, 1982 (2° ed), lettera n. 24, p. 35; E. GARA (a cura di), Carteggi pucciniani, Milano, Ricordi, 1958, lettera n. 34, p. 35. 5 Ibidem. 6 Cfr. M. Morini in E. GARA (a cura di), Carteggi Pucciniani, cit., p. 57. 40 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 intenzione o di suoi possibili sviluppi7, tanto che Illica sembra avere riutilizzato parte del suo materiale nell’opera intitolata Anton8. Per quanto invece concerne il problema delle fonti di Illica che non era né un indologo né uno studioso del mondo orientale, ma possedeva una cultura vasta e sicuramente aggiornata – si possono indagare tre filoni, diversi e complementari, cioè le letture relative alla vita del Buddha, le opere per musica che portavano sulla scena 7 Neanche i biografi di Puccini si sono occupati di questo progetto, che infatti non è menzionato né nel capitolo dell’epistolario sui libretti non musicati (G. ADAMI (a cura di), G. PUCCINI, Epistolario, cit. pp. 143-158), né nell’articolo apparso su La lettura (G. ADAMI, “Le opere che Puccini non scrisse”, in La lettura, XX, n. 8 (1920), pp. 541-546) e neppure da Michele Girardi (M. GIRARDI, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, Venezia, Marsilio, 1995). 8 Anton, opera in un prologo, due atti e un epilogo. Libretto di Luigi Illica, musica di Cesare Galeotti; la prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro alla Scala di Milano, il 17 febbraio 1900. Il libretto scritto per Galeotti (Pietrasanta, 5 aprile 1872 – Parigi, 19 febbraio 1929) prende infatti le mosse da una analoga situazione: il giovane Anton non sa cosa sia la vita (“Nulla vidi del mondo”), ha interrogato la Sfinge per conoscere “il perché delle cose”, ma non si appaga del Nulla e, quando il mercante Gibellius gli mostra e fa danzare davanti a lui una bellissima fanciulla (Ellade) rimane, secondo la didascalia, “come rapito, muto a contemplarla, le mani protese verso di lei, tremante”. La vicenda vede poi Anton ad Alessandria, dedito ai piaceri e soggiogato dal fascino di Ellade, finché non prova pietà di fronte alla scena del dolore della cristiana Meryem che invano intercede per un vecchio suo correligionario, che è condotto al supplizio. Seguendo la fanciulla, che ama, Anton si accosta ai cristiani ma, quando si stanno celebrando le nozze con lei, sopraggiunge Ellade. Costei, dopo aver tentato invano di riconquistare Anton, uccide Meryem sull’altare. Nell’epilogo Anton, ormai vecchio e dedito all’ascesi nel deserto della Tebaide, è tentato dall’apparizione della larva di Ellade, che però respinge (anche grazie all’apparire dell’immagine di Meryem). Così “il Santo” che finalmente raggiunge la “pura estasi” muore. Il passaggio dalla figura di Buddha a quella di Anton non è strano dal momento che Flaubert, nella sua Tentation de Saint Antoine (Paris, Charpentier 1874) fa apparire al Santo anche il Buddha, che gli narra tutta la sua vicenda terrena, accennando anche alle sue vite anteriori. Quando poi Henri Rivière mette in scena La tentation de Saint Antoine per il teatro d’ombre del Chat Noir (28 dicembre 1887), il Buddha compare ancora (pp. 80-81) accompagnato dalla musica di Albert Tinchant. (Cfr. H. L. RIVIERE, La tentation de Saint Antoine, féerie à grand spectacle en 2 actes et 40 tableaux, Paris, Plon, 1887). 41 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 soggetti legati al Buddhismo e infine i testi letterari ispirati ad argomenti buddhisti. All’inizio degli anni Novanta del XIX secolo in Italia non si era ancora verificata quella grande fioritura di studi sul Buddhismo che caratterizzerà l’inizio del Novecento9, dunque Illica dovette guardare al di là delle Alpi e in special modo – poiché, come tutti, parlava e scriveva correntemente in francese ma non aveva particolare dimestichezza con l’inglese10, mentre forse è non impossibile che già avesse avuto notizia dei lavori tedeschi – alla Francia. Qui, come dice Sylvain Lévi nella sua prefazione alla seconda edizione francese della traduzione del manuale di Hermann Oldenberg11, “le Bouddhisme est à la mode”; Lévy però osserva anche che questo libro - che era stato pubblicato nel 1881 e di cui Foucher aveva tradotto la seconda edizione nel 1894 - è sicuramente benvenuto perché, dopo l’ammirevole Introduction à l’histoire du Buddhisme indien di Eugène Burnouf12, l’unica opera scientificamente valida è l’Essai sur la légende du Bouddha di 9 Su questo tema cfr. O. BOTTO, “Appunti per una storia degli studi buddhisti in Italia”, in Orientalia Iosephi Tucci dicata, a cura di R. Gnoli e L. Lanciotti, Serie Orientale Roma LVI, Roma, IsMEO, 1985, vol. I, pp. 175-189. 10 Si avvalse infatti dell’aiuto di traduttori quando si trattò di affrontare soggetti tratti da testi in lingua inglese, come nel caso della Madama Butterfly. 11 H. OLDENBERG, Le Bouddha. Sa vie, sa doctrine, sa communauté, traduit de l’allemand par A. Foucher, Paris, Félix Alcan éditeur, 1903, p. 3. Nelle citazioni seguenti l’indicazione delle pagine si riferirà al testo del 1903. 12 E. BURNOUF, Introduction à l’Histoire du Buddhisme indien, Paris, Maisonneuve, 1844-1852; il trattato fu ripubblicato nel 1876, preceduto da una notizia di Barthélemy Saint-Hilaire sulle opere del Burnouf. 42 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 Émanuel Sénart13. Quest’ultimo, cui Angelo De Gubernatis dedicherà il suo dramma in versi Buddha14, aveva impostato il suo studio sulla tesi che il Buddha fosse un eroe solare e che la sua «leggenda» avesse molti punti di contatto con il mito di Kçïãa; aveva inoltre privilegiato come fonte il Lalitavistara rispetto ai testi cingalesi, giungendo a conclusioni assai lontane da quelle di Oldenberg. Le poche pagine di Illica sembrano suggerire che il librettista avesse come punto di riferimento Le Bouddha di Oldenberg tradotto da Foucher (peraltro di più agevole consultazione rispetto all’Éssai di Sénart). La scena iniziale dell’atto primo sembra prendere le mosse dal capitolo sulla diffusione della dottrina per opera del Buddha e dei discepoli che ha convertito dopo la “predica di Benares” ed è infatti ambientata “sulle rive del Gange”; Gotama dà poi ai suoi seguaci appuntamento sotto le mura di Râjagaha e la didascalia all’inizio del secondo atto recita: “Sotto le mura della città di Râjagaha. Le porte della città di fronte. È notte ancora. Silenzio profondo. Vengono in scena dalla selva Gotama e Malanda […]”. Dopo un dialogo tra gli uomini e le donne del coro, che si erano riversati all’aperto uscendo dalle porte della città, l’azione prevedeva: “Coro dei Buddhisti in lontananza che man mano viene 13 É. SENART, Essai sur la légende du Bouddha son caractère et ses origines, Paris, Ernest Leroux, 1875; la seconda edizione è del 1882. 14 A. DE GUBERNATIS, Buddha, Roma, Tipografia Cooperativa Sociale, 1902. Nel dramma l’autore mostra chiaramente di seguire le tesi dello studioso e amico francese: infatti la scelta dei nomi (“Gopa” in luogo di Yaðodharâ, l’appellativo di “Papians” riferito a Mâra) e degli episodi, reperibili nel Lalitavistara e tutti commentati da Sénart, distinguono la narrazione del De Gubernatis da quelle di altri letterati attratti dalla figura del Buddha. 43 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 ingrossando, finché la scena rimane quasi piena dei seguaci di Gotama. Nello stesso tempo sulle mura della città si addensano cittadini d’ogni classe e sesso, e molti signori e signore in lettighe portate dai negri d’Africa. Le masse si dispongono in guisa da lasciare nel mezzo un vuoto che viene rapidamente occupato da Gotama seguito da Malanda”. A questo punto Gotama iniziava la sua predicazione. Nelle pagine di Oldenberg i momenti successivi alla conversione dei fratelli di Kassapa sono così descritti: “Par la conversion des Kassapas, le nombre des croyants est porté d’un coup à plus d’un millier. D’Ourouvêlâ le pieux cortège se dirige maintenant vers la capitale du royaume de Magadha, Râjagaha, qui est toute voisine. On fait halte aux portes de la ville, dans un bois de bambous. Le jeune roi Bimbisâra entend parler de la venue du Bouddha ; il sort aussitôt de la ville avec une immense suite de bourgeois et de Brahmanes ; il est curieux de connaître le Maître dont la renommée s’est déjà répandue au loin. Lorsqu’on aperçoit le Bouddha et Kassapa assis l’un près de l’autre, un doute s’élève : lequel est le maître et lequel est le disciple ? Alors Kassapa se lève de son siège, se prosterne aux pieds du Bouddha e dit : «Mon Maître, Seigneur, est le Bienheureux ; je suis son disciple.» Et le Bouddha prêche devant le roi et sa suite […]”15. Come si vede nelle descrizioni fornite da Illica tutti i particolari (il gran numero di fedeli; la selva; le porte della città; l’accorrere dei 15 H. OLDENBERG, Le Bouddha, cit., pp. 132-133. 44 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 cittadini d’ogni ceto, che corrispondono ai “bourgeois” e “Brahmanes”; la presenza di due personaggi – Buddha e un discepolo – al centro della scena; l’ammaestramento) del testo indologico sono presenti e appaiono per di più organizzati secondo lo stesso schema. Un’altra coincidenza interessante si ha a proposito delle donne: gli uomini del coro anticipano quello che sarà uno dei temi del discorso del Buddha, ricordando che “dicono anche che quando [Budda] parla di voi donne sia più acre del fiele” e infatti poi Gotama “inveisce” contro coloro che sono evidentemente delle tentatrici capaci di esercitare un “terribile incanto” ma, come l’asceta ha avuto modo di provare, sono false e ingannatrici. Da loro perciò egli è fuggito. Oldenberg aveva così impostato la questione: dopo essersi domandato se “dans son âpre ardeur de sacrifice, le Bouddha s’était détaché violemment de tout ce qu’il y a au monde d’aimable et de charmant: or un esprit comme le sien avait-il le don de comprendre et d’apprécier l’éternel féminin ? ”16, affermava : “Les femmes sont, pour les Bouddhistes, de tous les pièges que le Tentateur a tendus à l’homme, le plus dangereux : dans les femmes s’incarnent toutes les puissances de séduction, qui rivent l’âme à ce monde.”17 Citando poi dalla Therīgāthā 60 aggiunge : “Impénétrable et cachée comme dans l’eau le chemin du poisson […] est la nature des femmes, des brigandes pleines de malice, en qui il est difficile de trouver la vérité, pour qui le mensonge est comme la vérité et la 16 17 H. OLDENBERG, Le Bouddha, cit., p. 162. Ibidem, p. 162. 45 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 vérité comme le mensonge. - «Maître (dit Ananda au Bouddha), comment faut-il nous conduire à l’égard d’une femme ? – Il vous faut éviter sa vue […]»”18. In questa prospettiva la figura di Thirima, ammaliatrice e in grado di far provare le fiamme di una passione che l’infelice Malanda non sa se venga dal cielo o dall’inferno, risulta non solo coerente con la dottrina buddhista ma anche perfettamente adatta al ruolo di femme fatale, tipico di innumerevoli eroine della letteratura decadente. Per passare all’esame del secondo tipo di fonti, quelle più vicine agli interessi di Illica, si può restringere il campo a pochissime opere, o meglio, forse a una sola: se infatti è vero che Illica ha iniziato a pensare al Budda nel 1890, si è documentato su un testo del 1881 tradotto in francese nel 1894, ma ha poi riutilizzato parte del suo materiale per il libretto di Anton del 1900, la concezione della sua opera risulterebbe in certa misura anteriore a tutte le (poche) altre di soggetto analogo realizzate tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e l’unico testo che si può veramente prendere in considerazione è La luce dell’Asia di Isidore de Lara, che venne rappresentata nel 189219; Der Buddha di Max Wilhelm Karl 18 Ibidem, p. 162 La luce dell’Asia (The Light of Asia), ), A sacred Legend, adapted from sir Edwin Arnold’s poem by W. Beatty Kingston, the music by Isidore de Lara, London, B. Mocatta & Co., s. d. La prima rappresentazione ebbe luogo al Covent Garden l’11 giugno 1892. L’esecuzione vide sulla scena tra gli interpreti principali il baritono Jean Louis Lassalle – subentrato a Maurel che aveva rinunciato alla parte, forse perché impegnato a preparare il Falstaff di Verdi – la soprano Emma Eames e il 19 46 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 Wogritch - che fu eseguito nel 190420 - e La colombe de Bouddha di Reynaldo Hahn - messa in scena nel 192121, quindi due anni dopo la morte di Illica - sono invece troppo tarde rispetto al fiorire degli interessi buddistici del librettista italiano. Se tuttavia si confronta lo scritto di Illica con il libretto della Luce dell’Asia, che per l’appunto è pressoché contemporaneo, prima di indicare le possibili affinità dei due lavori, occorre evidenziarne la diversa impostazione (pur ricordando che Il Budda non è finito): nel 1891 Beatty-Kingston aveva infatti composto una cantata, che era poi stata adattata per la scena, basandosi sul celebre poema di sir Edwin Arnold22, The Light of Asia, al quale si era avvicinato con volontà filologica, tanto che basso Pol [Paul-Henri] Plançon. L’opera fu lodata da G. B. Shaw che ne scrisse la recensione per The World (Cfr. E. W. WHITE, A History of English Opera, London, Faber and Faber, 1983, pp. 342-343). 20 La prima ebbe luogo a Weimar, nel Grossherzogliches Hoftheater, il 6 marzo 1904. 21 La colombe de Bouddha, conte lyrique di Reynaldo Hahn, libretto di A. Alexandre. Prima rappresentazione: Cannes, 21 marzo 1921. 22 E. Arnold (Gravesend 1832 – Londra 1904) laureatosi a Oxford nel 1854, insegnò a Birmingham presso la scuola intitolata a Edoardo VI e divenne poi capo del Sanskrit College a Poona. Dopo il 1861 si dedicò al giornalismo e fu redattore capo del Daily Telegraph. Tradusse in versi la Nītopadeśa e compose una storia dell’Amministrazione dell’India sotto il governo del Marchese Dalhousie (History of the Administration of British India under the late Marquis of Dalhousie, 18621864); la sua opera più celebre fu The Light of Asia: pubblicata nel 1879 fu applaudita come un capolavoro, ristampata innumerevoli volte e imitata anche dagli stessi scrittori indiani. Infatti Dewandas Kishnani Azad si basò su questo poema per il suo Buddha-jīvana (1938), altrettanto fecero Jethmal Parsram (1885-1948) in Pūrav Joti (1923) e Desikavinayayagam (1875-1954) in Āśiyajoti. In Occidente La luce dell’Asia divenne uno dei testi canonici del Buddhismo, alla stessa stregua del Dhammapada o del Mahāvastu, accanto ai quali viene citato in opere suggestive quali l’Imitation du Bouddha. Maximes pour chaque jour de l’année recueillies par Bowden, traduites de l’anglais par L. de Langle et J. Hervez, introduction de René Lorrain, Paris, Chamuel Éditeur, 1895. Può essere interessante ricordare che la traduzione italiana più recente è del 1995 (Vicenza, Edizioni Il punto d’incontro). 47 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 nella presentazione dell’Argomento viene premesso che “i requisiti della musica e del dramma, e soprattutto le esigenze del palcoscenico hanno costretto gli autori a dipartirsi dal sentiero tracciato dal poeta, più sovente di quanto fosse desiderabile; pure essi confidano che tali inevitabili divergenze siano più dalla forma che dallo spirito del lavoro originale”. L’autore infatti era stato persuaso dall’impresario Augustus Harris a trasformare il suo lavoro in una vera e propria opera, affidando la parte del baritono a Victor Maurel. La presenza di questo divo, specialista del repertorio francese e italiano (era stato Jago nell’Otello di Verdi) aveva reso necessaria la traduzione in Italiano del libretto, cosa di cui si era occupato Gianandrea Mazzucato; v enne perciò aggiunto un “Avviso importante”, per avvertire il pubblico che “tutti i versi inglesi virgolati” erano stati introdotti dagli adattatori del dramma per la scena (e quindi non erano stati scritti né da Arnold né da Beatty-Kingston) per “facilitare la comprensione dello sviluppo dell’azione, quale trovasi esposta nel libretto Italiano”23. L’opera inizia con un Prologo in cui Atman proclama la miracolosa nascita di Siddârta, il futuro Budda; nel I atto il principe Siddârta - che dal padre Suddôdana era stato allevato nell’ignoranza dei dolori dell’esistenza - e il cugino Devadâtta, usciti dalla città, assistono alla lite tra un giovane contadino, che ha varcato i confini del campo di un vecchierello per impadronirsi delle terre di questi, e il vecchio medesimo; i due si battono con mazze e il 23 Il libretto della Luce dell’Asia presenta infatti il testo italiano e, a fronte, la versione inglese. Le due citazioni sono tratte da p. 4 (l’argomento) e da p. 6 (l’avviso). 48 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 vecchio, colpito alla testa, cade morto ai piedi di Siddârtha che, profondamente turbato, chiede di restare solo e, sedutosi sotto un albero, inizia a meditare mentre un coro di Devas canta un inno di lode. Nel II atto il re Suddôdana, preoccupato per la tristezza del figlio, dà una festa a palazzo e tutte le fanciulle rendono omaggio al principe che, colpito dalla bellezza di Yasôdara, la chiede in sposa. Il III atto vede Siddârta assorbito dalle gioie della vita nel suo splendido palazzo; la voce invisibile di Atman tuttavia gli ricorda la sua missione. Il principe allora, dopo aver detto addio a tutto ciò che gli è caro, abbandona le insegne regali e parte per “ricercare il ver”. Il IV atto vede la grande scena della lotta contro Mara, che lo tenta opponendo a lui le legioni dei suoi demoni e suscitando il fantasma di Yasôdara; tutto è però inutile poiché Siddârta ha ormai ottenuto la conoscenza ed è libero dalla passione e dal dolore. L’Epilogo infine mostra il Budda che immerso nella luce, insegna quale via conduca al Nirvana. Le divergenze più interessanti tra il libretto e il poema di Arnold riguardano alcuni versi cantati dal coro (nel testo inglese pp. 13, 37, 41) il cui ruolo è quello di spiegare i nessi dell’azione, che viene però potenziato; da Atman (pp. 29, 31); da Siddârtha e Mara (p. 39, 41) che evidentemente dovevano avere un duetto; l’epilogo infine, necessario a concludere il dramma, è completamente nuovo, infatti l’azione si arresta dopo la sconfitta di Mara, e non vede – a differenza di quanto si legge nel poema - né il ritorno di Siddârta nel regno paterno, né l’incontro con il padre e la sua sposa e la loro 49 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 adesione alla nuova dottrina. La novità più significativa è però costituita dall’episodio della rissa tra due contadini e della morte di quello più vecchio: nell’opera di Arnold infatti Devadâtta ferisce un cigno che precipita ai piedi del futuro Buddha: questi raccoglie l’uccello, lo accarezza dolcemente e ne reclama la vita, sottraendo al cugino la sua preda. La vicenda è suggestiva non solo per la toccante descrizione dell’animale palpitante e della tenerezza di Siddârtha, ma anche perché “cigno” (oggi si preferirebbe dire “anatra selvatica”) è la traduzione del sanscrito hasa, termine che designa anche l’anima: il Buddha infatti dovrà salvare e curare le anime degli uomini, aiutandoli a liberarsi dal ciclo delle rinascite. Il motivo per cui questa scena, bella e di grande significato, è stata sostituita, può essere ricercato in considerazioni di ordine teatrale e in primo luogo, probabilmente, nella volontà dell’impresario Harris, che dagli anni Ottanta si era fatto promotore del wagnerismo in Inghilterra24, di evitare che gli spettatori si trovassero di fronte a una specie di doppione dell’analogo episodio del Parsifal25. Nel I atto dell’opera di Wagner infatti Parsifal, l’eroe destinato a salvare l’umanità che però non ha ancora acquistato la conoscenza grazie alla pietà (“Pietà fa sciente / il folle puro”26) appare in scena dopo che ha colpito uno dei 24 E. W. WHITE, A History of English Opera, cit., p. 346; H. ROSENTHAL, Two Centuries of Opera at Covent Garden, London, Putnam, 1957, pp. 249-253. 25 Parsifal, azione scenica sacrale in tre atti; libretto e musica di Richard Wagner. La prima rappresentazione ebbe luogo a Bayreuth il 26 luglio 1882. Il Parsifal godeva di grande notorietà anche se, per volontà dell’autore, non potè essere eseguito in Europa prima del 1914. 26 Così Giovanni Vaccaro rende i versi «Durch Mitleid wissend, / der reine Tor» nella prima traduzione italiana (1914). 50 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 cigni selvatici del sacro lago dei cavalieri del Graal; rimproverato per il suo gesto si commuove e spezza il suo arco. In entrambi i casi gli elementi portanti della scena sono il cigno e il tema della pietà, veicolo di salvezza e di una conoscenza che non è ancora stata conquistata (anche Siddârtha è solo all’inizio del cammino che lo porterà alla verità). Si tratta di una coincidenza suggestiva, soprattutto se si tiene conto del fascino che il Buddhismo esercitò su Wagner e del fatto che il compositore aveva intenzione di scrivere un’opera sul Buddha27. Tornando però a de Lara, può essere interessante indicare come nell’adattare per la scena The Light of Asia di Arnold, il compositore non fosse rimasto insensibile agli spunti che Arrigo Boito28 (cui Mazzucato era legato) aveva offerto scrivendo il 27 I rapporti di Wagner con il Buddhismo sono stati spesso indagati; nella vastissima bibliografia su questo argomento, tra gli altri cfr. E. SANS, Richard Wagner et la pensée schopenhaurienne, Paris, Éditions Klincksiek, 1969; J CHAILLEY, Parsifal de Richard Wagner opéra initiatique, Paris, Éditions Buchet/Chastel, 1979; M. BORTOLOTTO, Wagner l’oscuro, Milano, Adelphi, 2003; D. ROSSELLA, India and western Melodramas, Parma, L’Oca del Cairo, 2004. Nel 1909 Sforza Ruspoli, nella sua prefazione alla traduzione dell’ultimo canto della Luce dell’Asia, scrive: “Tale è la dottrina [scil. Il Buddhismo] i cui effetti par comincino a pesare sulle sorti dell’odierna civiltà: la dottrina i cui seguaci furono sempre i meno accessibili agli sforzi delle missioni cristiane, e che trovò invece – interessante a notarsi – non pochi ammiratori e proseliti nei più alti intelletti occidentali, quali per esempio Schopenhauer e Wagner […] (Cfr. La parola del Buddha dalla “Luce dell’Asia” di sir Edwin Arnold, traduzione di Sforza Ruspoli, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1909, pp. 18-19). 28 Arrigo Boito (Padova, 24 febbraio 1842 – Milano, 10 giugno 1918) fu scrittore attivo nell’ambito della Scapigliatura, compositore e librettista. Studiò al Conservatorio di Milano dove fu allievo di Andrea Mazzuccato, (padre di Gianandrea, traduttore della Luce dell’Asia per de Lara). La sua opera maggiore, il Mefistofele di cui aveva scritto parole e musica, andò in scena a Milano al Teatro alla Scala il 5 marzo 1868 ma cadde; dopo numerosi rimaneggiamenti fu 51 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 Mefistofele che è, e non si tratta di un caso, un’altra opera imperniata sul tema della salvezza di un’anima e del desiderio di conoscenza. Questi elementi di contatto tra i due libretti appaiono evidenti soprattutto nei tre passi dell’opera di de Lara in cui è stato necessario introdurre qualcosa di diverso rispetto al poema inglese. Le somiglianze sono infatti numerose nelle didascalie del Prologo, presenza comune nei due testi; Boito aveva previsto: “Nebulosa. – Lo squillo delle sette trombe. – I sette tuoni. Le falangi celesti dietro la nebulosa invisibili. Chorus mysticus. I Cherubini. Le penitenti. Poi Mefistofele solo nell’ombra.” De Lara a sua volta prescrive: “Lo spazio celeste: raggi e nubi. In piedi sulla Terra, Atman, annuncia al mondo la portentosa nascita di Budda. Uomini, Spiriti e Dei stanno ansiosi ad ascoltarlo. I quattro Reggenti della terra colle trombe d’oro stanno attorno ad Atman.” Anche nel IV atto l’invocazione di Mara e il coro degli uomini demoni nel testo inglese - che è indicata come non dipendente dal poema, paiono fortemente riecheggiare La notte del Sabba dell’atto II di Mefistofele. Quando Mara canta: “Spiriti infernal, / Or qui si mostri la possanza vostra! / Notte quest’è fatal! / Se più del Bene non ha forza il Mal, / Il Budda salverà / Da noi l’umanità! / Tutti accorrete, è Mara, il vostro Re / che qui vi chiama a sè” e il Coro d’Uomini risponde: “Corriam, ci appella Mara. Presto, su! / Uguale a rappresentata con successo al Teatro Comunale di Bologna (4 ottobre 1875) e poi nella versione definitiva alla Scala il 25 maggio 1881. 52 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 questa, notte mai non fu!”29 si ha l’impressione di sentire un’eco della situazione di Mefistofele che, dopo il coro degli stregoni che aveva già insistito sulla “notte tremenda”, prima di cantare con il globo in mano “Ecco il mondo, / vuoto e tondo […]” si fa largo tra la folla e poi, seduto su un sasso a forma di trono, esclama: “Popoli! E scettro e clamide / non date al Re sovrano?” e in seguito aggiunge: “Son del mio regno fiero, / ma voglio il mondo intero / Nel mio pugno serrar.” Tuttavia il punto in cui de Lara e soprattutto Mazzucato scoprono più chiaramente le loro carte è l’Epilogo - che, come già detto, non è legato al poema - dove la scena è uguale a quella del Prologo; la versione italiana della didascalia infatti recita: “Man mano che la luce si fa più viva, la nebulosa ed i raggi si rivedono come nel Prologo”30. La menzione della “nebulosa”, sconosciuta a Beatty-Kingston, non può lasciare dubbi sulla citazione. Il libretto di Illica sembra iniziare là dove De Lara interrompe la sua vicenda, insistendo proprio su quei dati filosofici che, come 29 La luce dell’Asia, cit., pp. 38, 40. In questo passo però la traduzione è abbastanza libera, proprio perché si fa sentire la presenza del modello boitiano. Il testo inglese infatti suona così: Mara “Legions of Hell! The time hath come / For you to show your might! / If you on man, with charm and wile / Ye can’t prevail to-night, / The Buddh shall find and preach the Truth, / And we for ever fall. / Demons! ‘Tis Mara, I, your king / That here summon you all!”. Il “Chorus of Demons” risponde: “Arise, from ev’ry deepest pit, / Ye fiends who war with wisdom and with light, / Arati! Trishna! Raga!” (pp. 39, 41). Mazzucato quindi non solo elimina l’ultima battuta (cioè i tre termini sanscriti) del coro, che tra l’altro nella versione italiana è formato da uomini e non da demoni, ma soprattutto insiste sul dualismo Bene / Male, che è tipico della visione del musicista italiano (cfr. G. GUCCINI, “I due Mefistofele di Boito: drammaturgie e figurazioni”, in W. ASHBROOK e G. GUCCINI, Mefistofele di Arrigo Boito, Milano Ricordi, 1998, p. 168). 30 La luce dell’Asia…, cit., p. 44. 53 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 aveva notato George Bernard Shaw nella sua recensione, mancavano nella Luce dell’Asia31; vi è però almeno un interessante punto di contatto tra i due autori: quando Mazzucato traduce i due versi che concludono il riassunto dell’epilogo “Blessed Nirvana – sinless, stirless rest, / that change which never changes”, così si esprime: “Nirvana, benedetta, eterna calma, / estrema delle forme”32. Gli aggettivi “estrema, benedetta” sono concordati al femminile, di modo che anche “nirvana”, cui andrebbe riferito il termine “blessed”, diventa di genere femminile. Si tratta, evidentemente, di un errore perfettamente giustificabile in chi non sia uno specialista di Buddhismo (e Mazzucato non lo era), che è commesso anche da Illica. Quest’ultimo infatti, nel poemetto che il pittore Segantini volle a commento del Ciclo del Nirvana (1891)33, utilizzò la formula “la Nirvana” che credo non sia documentata in nessuno degli scrittori – profani o cultori del Buddhismo – che abbiano scritto in Francese o in Italiano. De Lara sembra poi aver offerto anche un altro spunto a Luigi Illica, ancora per il libretto di Anton: il trionfo di Budda su Mara infatti è completo nel momento in cui l’asceta vince la più pericolosa delle tentazioni, rappresentato dal fantasma di Yasôdarâ, che egli prende tra le braccia pur restando assolutamente impassibile; 31 Dice il critico: “It must not be supposed that The Light of Asia is a philosophical opera. […] The Light of Asia is a representation of the adventures of the man Buddha and his mistress, with about as much Buddhism in it as an ordinary oratorio contains of Christianity”. (Cfr. B. SHAW, Music in London 1890-94, London, Constable and Company Ltd., 1932, vol. II, p. 118). 32 La luce dell’Asia, cit., pp. 4, 5. 33 M. C. GOZZOLI, L’opera completa di Segantini, Milano, Rizzoli, 1973, p. 114, tavv. XXVIII-XXIX; A. P. QUINSAC, Segantini. Catalogo generale, Milano, Electa, 1982, pp. 476-485, figg. 571-576. 54 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 allo stesso modo Anton è tentato dalla larva di Ellade e anch’egli riesce – sia pure con qualche difficoltà e grazie all’apparizione di Meryem – a respingerne la fascinazione, conquistando l’eternità. In entrambi i casi il protagonista trionfa su quello che è stato il mondo dei suoi affetti più cari, così che la prova sembra molto più dura di quella che consiste nel respingere le fantasmagoriche visioni che turbano la notte del Saint Antoine di Flaubert. Il terzo tipo di fonte con cui il Budda di Illica può essere messo in relazione è rappresentato dai testi letterari: anche in questo caso però occorre cercare fuori d’Italia, visto che poco potevano offrire al librettista Emilio Teza, con il suo inno A Siddarta Suddodanide, il Budda (Pisa 1872) e Angelo De Gubernatis, il cui Canto di Buddha del 1878 si limita a esprimere, con toni leopardiani, le tristi riflessioni del poeta sulla sua misera condizione, comune a tutta l’umanità34. Spunti più interessanti possono venire invece dagli scritti di Édouard Schuré, l’iniziatore del théâtre de l’âme: nella raccolta di poemi intitolata La vie mystique35 questo scrittore aveva infatti pubblicato una légende bouddhiste intitolata La courtisane et 34 Questa lirica doveva fare parte di un dramma che il poeta aveva ideato e in parte steso nel 1877, ma che aveva poi dato alle fiamme. Fu pubblicata nel volumetto Liriche (Gemiti e fremiti di un mezzo secolo), Roma, Loescher, 1906, pp. 93-96. Cfr. A. CERBO, “La poesia di Angelo De Gubernatis”, in Angelo De Gubernatis. Europa e Oriente nell’Italia umbertina, a cura di † M. Taddei e A. Sorrentino, Napoli, Istituto Universitario Orientale (Collana “Matteo Ripa” XVII), 2001, pp. 88-89. 35 É. SCHURÉ, La vie mystique, Paris, Perrin et C.ie, 1894. Quando lo scrittore pubblicò la sua légende, il buddhismo non aveva ancora nel suo pensiero il ruolo centrale che avrebbe ricorperto dopo l’incontro con Rudolf Steiner, nel 1906 (Cfr. H. DE LUBAC, La rencontre du bouddhisme et de l’Occident, Paris, Éditions Montaigne, 1952, pp. 216-217). 55 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 le rischi36. La narrazione della “leggenda” è articolata in tre momenti, che segnano le tappe della vicenda spirituale del giovane protagonista. Nella prima sezione - “la voie suprême” - tra le cime himalayane, dove volano i bianchi cigni (come sempre), il Buddha insegna ai discepoli le verità della dottrina, ma Anannda ancora dice di amare la vita, vorrebbe vivere e morire del bacio di una donna. Il Buddha allora - Parte II, “Tentation” - conduce il suo giovine (e bel) seguace alla città di Hadinour, “d’où sort un vent de volupté”: qui un gruppo di donne chiede il loro aiuto contro Raoula37, sacerdotessa di Kali, la cortigiana che rapisce i loro figli e i loro sposi. Ella abita nella terribile foresta, dove sorge il tempio della dea. Là si recano maestro e discepolo e Raoula, su una lettiga portata da schiavi, appare in tutto lo splendore della sua “chair triomphale”. Colto lo sgomento di Anannda, la donna gli getta – come una Carmen indiana – una rosa che ancora conserva il calore della sua pelle. Buddha mostra allora al giovane i tormenti cui saranno sottoposti, di esistenza in esistenza, le vittime di Raoula; quest’ultima scaglia contro Anannda uno sguardo pieno d’amore e di fascino infernale e lo maledice condannandolo a non poterla mai scordare (“Du loin je 36 É. SCHURÉ, La vie mystique, cit., pp. 147-162. Il racconto di Schuré rivisita la nota vicenda di Vasavadatta e Upagupta, narrata nel Vidyāvadāna e ricordata da Burnouf (Cfr. E. BURNOUF, Introduction, cit., t. I, pp. 146-148). Questo tema ebbe una certa fortuna, tanto che Anatole France, in un articolo in cui parla della sua visita al Musée Guimet nel 1890, la definisce “histoire admirable” e aggiunge: “Elle m’occupe tout entier, et il faut absolument que je vous la dise” (A. FRANCE, Oeuvres complètes illustrées, Paris, Calmann-Lévy Éditeurs, 1926, t. VII, pp. 369-370); anche Angiolo Orvieto ne fu colpito e ne pubblicò una traduzione in versi sul Marzocco del 19 aprile 1905 (p. 2). 37 La bellissima cortigiana ha il nome del figlio del Buddha. 56 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 saurai te lier; / Aux gouffres comme aux altitudes / Dans l’horreur de tes solitudes, / C’est moi, c’est moi que tu verras”). Nella terza parte - “Rédemption de l’amour” - la vicenda si conclude: Anannda ha vinto la tentazione ma nel suo animo continua a bruciare la ferita inflitta dalla donna fatale, “lorsqu’il arrachait ce dard / de la blessure ancore saignante / la flèche y rentrait, lance ardente / de souffrance aiguë et d’amour.” Il seguace del Buddha è dunque visto, wagnerianamente38, come un Amfortas indiano, perché è anche lui piagato da una lancia; tuttavia troverà la sua salvezza, come Parsifal, nella pietà e nel bacio dato a Raoula morente (la donna è stata mutilata e abbandonata nel cimitero dei paria per aver sedotto il figlio del re). La conclusione della leggenda di Schuré merita di essere riferita: quando Anannda muore, la sua anima si avvia, triste e sola, sulla via del Nirvana, in un paesaggio di nevi e ghiacci, finché non giunge a un lago dove ogni fiore di loto nasconde un’anima che non ha perduto le sembianze umane; nel freddo torpore, tutte espiano i loro peccati. Tra di esse una, bellissima, quella di Raoula salvata dal bacio del “rischi”, all’arrivo di Anannda esce dal loto, e questi inneggia finalmente alla gioia suprema. Colpisce di questo finale l’analogia con il poema di Illica in cui la “Mala madre in vallea livida – per ghiacci eterni / dove non rama inverda o fiore sboccia – gira sospinta”; “intorno al suo dolor tutto è silenzio”, finché ella, fatta pietosa, porge il seno all’anima di uno dei bimbi che chiamano 38 Non può stupire la coincidenza data l’ardente fede wagneriana di Schuré, che fin dal 1875 si era fatto paladino del musicista (Cfr. É. SCHURÉ, Histoire du Drame musical, Paris, Librairie Académique Perrin & C.ie Libraires – éditeurs, 1875). 57 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 da ogni ramo degli alberi di una valle. Il gesto salvifico libera il figlio e la madre (“Poi bimbo e madre il grigio albero lascia – cadere avvinti”) che insieme si avviano dove è Nirvana. Le immagini di Segantini (immerse in un paesaggio ghiacciato, con le anime legate agli alberi) cui si accennava in precedenza a proposito del Ciclo del Nirvana, commentano perfettamente la narrazione. Si può ancora osservare che in questo poemetto dove si mescolano citazioni, rivisitazioni buddhiste e riferimenti più o meno precisi, spicca ancora un dato, questa volta esattissimo: Illica pretende di aver tradotto la sua Mala madre da un originale sanscrito sarebbe stato composto “sotto il regno di Prà Krama Bahou”. Le cronache cingalesi annoverano ben nove re che, tra il 1153 e il 1505, portarono questo nome, citato anche nei resoconti dei viaggiatori occidentali; Ceylon è per di più la terra dove il Buddhismo si conservò nella sua forma antica e dove furono preservate le più antiche redazioni dei testi pâli39. Dopo il poema per Segantini e il libretto del Budda però l’interesse di Illica nei confronti del Buddhismo sembra spostarsi verso le regioni dell’estremo oriente, dove saranno ambientate le vicende ben più famose Iris e Madama Butterfly, in cui il peso della dottrina e delle citazioni si avvertirà in modo meno esplicito. Il Budda rimane perciò come testimonianza di un interesse vivo nei confronti di una dottrina che anche in Italia avrebbe 39 H. OLDENBERG, Le Bouddha, cit. p. 75. 58 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 conosciuto una grande fortuna ma che intorno alla metà degli anni Novanta del XIX secolo era ancora mediata dagli studi francesi, inglesi e tedeschi; questo dramma inoltre si colloca nella scia di tutte quelle opere che dovevano non solo soddisfare il desiderio di evasione del lettore/spettatore, solleticandone la fantasia con immagini più o meno esotiche, ma rispondere a precise esigenze culturali. In questo periodo infatti il Buddhismo sembra offrire risposte agli spiriti inquieti e insoddisfatti delle religioni tradizionali, senza privarli, come dice René Lorrain40, della libertà dello spirito e delle conquiste della scienza, perché la dottrina del Risvegliato permette, a chi può affrontare la nuda verità, di trovare il divino senza rinunciare all’umanità. Illica, sensibile come sempre al clima della sua epoca, fa suoi e propone in Italia, con qualche anno di anticipo rispetto agli altri letterati, i temi più interessanti della cultura europea. Gabriella Olivero OliveroG at alma.it 40 R. LORRAIN, Imitation du Bouddha, cit., p. XXXVIII. 59 Studi Linguistici e Filologici Online 5.2 Atti del XII Convegno A.I.S.S. Parma, settembre 2004 BIBLIOGRAFIA: G. ADAMI (a cura di), G PUCCINI, Epistolario, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1928, 1982 (2° ed). W. ASHBROOK e G. GUCCINI, Mefistofele di Arrigo Boito, Milano, Ricordi, 1998. M. BORTOLOTTO, Wagner l’oscuro, Milano, Adelphi, 2003. 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